«Balázs, il teorico del dramma moderno, del teatro operaio, delle lotte di classe, e dell’Agit Prop, ripreso da Dario Fo», di Andrea Bisicchia (Lo Spettacoliere)

Andrea Bisicchia, «Lo Spettacoliere», 3 aprile 2023

Béla Balázs è uno scrittore, saggista, drammaturgo, teorico ungherese, noto, in particolare, per la sua collaborazione con Béla Bartok, per il quale, compose il libretto d’opera Il castello del Principe Barbablu, attingendo al repertorio delle tradizioni popolari, di origine fiabesca, della sua nazione. Ebbe una vita abbastanza complessa, fu combattente dell’Armata Rossa, membro del Direttorio degli scrittori, oltre che dirigente, insieme a Lukàcs, autore di testi come Il dramma moderno, La genesi della tragedia borghese da Lessing a Ibsen, Il dramma moderno dal Naturalismo a Hofmannsthal, tradotti in Italia e sui quali molti di noi hanno studiato, negli anni Settanta.

Certamente Luckàsc e Balázs ebbero modo di influenzarsi a vicenda. Di quest’ultimo, Cue Press ha pubblicato Scritti di teatro, con prefazione di Eugenia Casini Ropa.

Balázs distingue il dramma dalla tragedia sostenendo che l’irrazionale non possa avere più posto nel teatro moderno, avendo rinunziato alla dimensione divina e a qualsiasi forma di assolutezza, perché, ogni conflitto a suo avviso appartiene alla “vita sperimentata”, in particolare, quello che ha afflitto la vita della borghesia che, durante il suo tramonto, a fine Ottocento, aveva smarrito, sia i valori che gli ideali assoluti. Lo stesso discorso vale per il tema della follia, trattato, molto frequentemente, da autori come Ibsen e Strindberg, le cui conseguenze erano frutto delle convenzioni e degli scontri sociali, oltre che di sentimenti ammalati che non avevano nulla a che fare con la tragedia. Insomma, nel dramma moderno, non si trovano più né Aiace, né Eracle, dato che i loro conflitti erano da addebitare all’Intenso rapporto con la dimensione religiosa, quella degli dei, per intenderci.

A dire il vero, a Balázs non interessava soltanto il significato sociale del teatro, bensì anche quello politico che si poteva mettere in evidenza, proprio, attraverso la struttura scenica, tanto che, per avvalorare la sua tesi, egli distinse la scena mistica, che ha una sua particolare visione del mondo, dalla scena sociale, sempre alla ricerca di soluzioni drammatiche, attraverso l’uso della ragione, e la scena politica che eredita da Piscator, altro compagno di strada, che, però, lui arricchisce con la creazione del Teatro Operaio. Siamo negli anni Trenta, durante i quali, Balázs visse, anche, l’esperienza della Repubblica di Weimar, dove agivano 500 gruppi teatrali che portavano, sui palcoscenici di periferia, le loro riflessioni sul mondo del lavoro e delle disuguaglianze, creando nuove forme d’arte, con l’utilizzo di ballate popolari, a scapito di opere come Oplà, noi viviamo di Toller, o Tamburi nella notte di Brecht o, ancora Il professor Bernhardi di Schnitzler, che riteneva drammi di conversazione, a “tendenza” che non avevano “nessun principio”, testo quest’ultimo che, al contrario, abbiamo trovato esemplare nella messinscena di Ronconi, sicuramente una delle più riuscite e applaudite.

La tipologia del Teatro Operaio evidenzia, secondo Balázs, una “evoluzione alla rovescia”, nel senso che, prima di tutto esiste il pubblico, poi viene il teatro e, infine, la letteratura, con i suoi testi scritti, secondo le regole, come dire che la storia del teatro è la storia del suo pubblico, tanto che il Teatro Operaio potrà vantare un pubblico omogeneo, non certo immersivo, come lo si intende oggi. Per questo motivo, Balázs teneva molto a distinguerlo dal dramma borghese che andava in cerca del consenso di un pubblico, non certo, sofferente dal punto di vista economico, nel quale, i protagonisti, entravano in scena come delle vere e proprie vittime, “sull’orlo della rovina e della perdizione”.

Nel Teatro Operaio si portano in scena lotte contro la disoccupazione, per salari decenti, ma soprattutto contro le ingiustizie sociali. È il teatro dell’Agit Prop, quello che verrà ripreso nel ‘68 da Dario Fo e dai collettivi proletari, con tutte le teorizzazioni che ne seguiranno.

Per Balázs, il teatro risulta necessario se riesce a portare in scena la realtà del presente, con le sue contraddizioni, imponendosi come strumento di trasformazione sociale, con l’intento di “cambiare il mondo”, come sostiene la curatrice Eugenia Casini Ropa.