Bentoglio, la rivoluzione teatrale di ‘re’ Giorgio

Pierachille Dolfini, «Avvenire».

Forse se lo sentiva. Forse Giorgio Strehler, il 23 dicembre del 1997, sentiva che quella sarebbe stata la sua ultima prova di sempre, sulle assi di un palcoscenico. Perché, lui che provava i finali dei suoi spettacoli solo all’ultimo momento, quel giorno, prima della pausa per il Natale, aveva voluto imbastire l’ultima scena del suo Così fan tutte, l’opera di Wolfgang Amadeus Mozart scelta per inaugurare, un mese dopo, il Nuovo Piccolo Teatro di Milano. Spazio sognato da sempre, progettato a lungo, un cantiere infinito (durato diciotto anni) che aveva contrapposto il regista a diverse amministrazioni comunali, con tanto di uscite di scena (dal vertice del Piccolo) da vero teatrante, salvo poi ripensarci. Finalmente, in quel dicembre del ’97, era pronto ad alzarsi il sipario del nuovo teatro progettato da Marco Zanuso. Non con un testo di prosa, ma con un’opera lirica. Scelta però coerente con la storia di Giorgio Strehler, nato a Barcola, un paesino vicino a Trieste, il 14 agosto del 1921, giusto cento anni fa.

Una storia che ha inizio in una famiglia dove il nonno Olimpio era cornista e direttore d’orchestra, ma anche impresario teatrale, così come il padre Bruno, di origine austriaca, morto quando il regista non aveva ancora tre anni, mentre la madre Alberta era violinista, che aveva suonato anche con Wilhelm Fürtwangler. Questo lungo spazio tra l’alfa e l’omega del regista triestino, scomparso la notte di Natale del ’97, lo racconta Alberto Bentoglio nel suo Venti lezioni su Giorgio Strehler (collana Saggi sul teatro da Cue Press. Pagine 393. Euro 42.99).

Il volume di Bentoglio, docente di Storia del teatro all’Università Statale di Milano, «nasce come libro di testo per i miei studenti, dato che in questo 2021 ho proposto un corso monografico su Strehler, proprio a cento anni dalla morte. Il regista è scomparso ventiquattro anni fa, quando nessuno dei miei studenti era ancora nato, dunque ho pensato ad un ciclo di lezioni con un percorso biografico e critico per chi di Giorgio Strehler non ha mai visto nulla» spiega il docente milanese che ha dato alle stampe un volume che, proprio per il taglio scelto, va oltre il semplice “libro di testo” e si fa mappa per addentrarsi nel mondo strehleriano. A più livelli.

Il racconto biografico e l’analisi in ordine cronologico degli spettacoli (ricco l’apparato bibliografico, dettagliata e completa la teatrografia) che fanno da ossatura si intrecciano alla voce del regista (interviste, dichiarazioni pubbliche...), a documenti storici rintracciati negli archivi del Piccolo, alle note di regia che Strehler amava scrivere dettagliatamente. Così che chi non sa nulla dell’artista triestino può avvicinarsi «al primo regista critico italiano, colui che ha inventato la regia nel nostro paese sia nel campo della prosa che del teatro musicale». Mentre chi lo ha conosciuto attraverso le sue regie può scoprire come quegli spettacoli nacquero e, magari, vedere come «dietro il carattere forte di un uomo che riusciva ad ottenere tutto ciò che desiderava ci fosse una persona profondamente generosa, capace di dare molto a chi gli stava accanto». E scoprire che a Milano, «prima dell’Albergo dei poveri di Gork’ij che nel maggio 1947 diede inizio all’avventura del Piccolo teatro, Strehler, a marzo, formò una verdiana Traviata per il Teatro alla Scala». Venti lezioni a cui Bentoglio ha dato forma nei mesi del lockdown per raccontare «un artista che è stato fondamentale per la politica culturale italiana, convinto sostenitore della necessità di aprirsi all’Europa», ma anche per chiedersi «quanto il suo modo di fare regia sia ancora percorribile». Due gli spettacoli che Bentoglio sceglie per raccontare la ‘rivoluzione’ di Strehler. «Il Macbeth del 1975 alla Scala diretto da Claudio Abbado perché fu l’inizio della rilettura da parte del teatro di regia delle opere di Verdi. E il Faust di Goethe, spettacolo realizzato tra il 1989 e il 1992, che vede Strehler in scena nei panni di Faust e che racchiude tante delle cose fatte ne- gli anni, in una sorta di rilettura della sua vita umana e artistica». Non uno spettacolo testamento, però. «Lo è, forse, l’ultima edizione di Arlecchino, diventato nel tempo sempre più malinconico» conclude Bentoglio per il quale «l’eredità più bella di Strehler è il Piccolo teatro, che negli anni è stato guidato da Luca Ronconi e ora è affidato a Claudio Longhi, senza mai perdere la funzione di servizio pubblico che nel 1947 gli diedero Strehler e Paolo Grassi».