Il corpo-mente di chi recita

Paola Bigatto, «L’Indice», giugno 2017.

«Il teatro raccontato può essere più appassionante di quello visto? Sì, può esserlo, perché il lavoro dell’attore contiene molte più cose di quelle che si vedono», scrive Laura Mariani nel suo studio sulle interpretazioni di Elio De Capitani in Angels in America, Frost/Nixon, Morte di un commesso viaggiatore (e nel film Il Caimano dove l’attore incarna Berlusconi, personaggio vicino al mito americano del successo e del potere).

Attraverso un interprete esemplare, l’autrice ci propone un racconto a più voci sulla pratica di lavoro di ogni attore: oltre alle parole del protagonista (interviste, scritti, persino un lungo sms) emergono testimonianze, memorie, considerazioni critiche di una miriade di attori, da Sarah Bernhardt a Gino Cervi, da Rina Morelli ad Al Pacino, presenze rese necessarie dall’accurata ricerca storica sui testi e sui loro allestimenti. De Capitani stesso rende conto del movimento caotico, intuitivo, che caratterizza la prassi dell’interpretazione, nelle cui suggestioni e stratificazioni compaiono attori del passato e del presente, del cinema e del teatro, pronti a fornire modelli a cui accostarsi o da cui prendere le distanze.

Intenzione dichiarata dell’autrice, quella di «ritrovare nel presente l’attore italiano, la solidità del suo mestiere, la capacità di raccontare storie», e di analizzare il lavoro dell’interpretazione, «come se entrassimo nel corpo-mente di chi recita». È impresa ardua raccontare il percorso di un interprete, poichè si tratta di «individuare e descrivere gli spazi di creazione autonoma in rapporto al testo e alla regia»; inoltre, De Capitani testimonia una varietà di approccio e una libertà di avvicinamento ai diversi personaggi che va al di là delle metodologie (e quindi delle terminologie) teatrali codificate, dai maestri russi fino allo Lee Strasberg del cinema americano: anche in sede di tecniche attoriche torniamo alla relazione proposta dal titolo del saggio, ossia quella tra un attore italiano e la cultura teatrale americana. E tra gli elementi ‘di tradizione’ dell’attore italiano, ampio spazio è dedicato all’eterno corpo a corpo con la nostra lingua. A tal proposito, De Capitani sottolinea i suoi ‘litigi’ con le traduzioni, in un senso inconsueto rispetto all’approccio letterario al problema: l’attore deve costruire un percorso di biunivoca relazione tra parole e immagine, sempre da verificarsi in scena, in rapporto cioè all’atto fisico del dire e alla organicità con gli altri segni.

Tramite il lavoro di De Capitani, inoltre, siamo condotti all’interno della storia del Teatro dell’Elfo (e di quarant’anni di teatro italiano) da cui emergono sia la magmatica – e non scontata – capacità di integrare forze giovani, sia il gruppo dei fondatori e collaboratori storici (Ferdinando Bruni, Cristina Crippa e Ida Marinelli) nel loro continuo e dialettico scambio di ruoli, attorale e registico. Da qui un’attualissima riflessione su queste due funzioni, la cui ridefinizione è cruciale: De Capitani si presenta infatti come ‘neo-interprete’, un attore cioè che continua a lavorare in termini di personaggio e di situazioni drammatiche, ma essendosi misurato a livello teorico e pratico con le novità della regia novecentesca. E Laura Mariani, in un ritratto riassuntivo, delinea un modello possibile dell’attore del futuro: drammaturgo, regista, organizzatore, vicino per sensibilità al professionista ottocentesco ma capace di rilanciare mestiere e tradizione a partire dalla relazione con il pubblico di oggi.