Jerry Lewis, la voglia matta

Mariuccia Ciotta, «Antinomie», 29 marzo 2022

La «scrittura scenica», secondo Carmelo Bene, non si può insegnare; non ha a che fare con il testo, il plot, i dialoghi, la regia e neppure con la recitazione. È un ritmo che attraversa il corpo, si segmenta in cento scatti, fremiti di mani, mimica facciale, contorcimenti, salti logici espressivi. È la tavolozza di un pittore o una fiaba interpretata con saltelli e mossette inaspettate. Comicità muta, come quando Jerry Lewis in Ragazzo tutto fare (The Bellboy, ’60), sigarone in bocca, seduto alla scrivania del capo, dà ordini con gesti frenetici a una pletora di dipendenti fantasma, o dirige un’orchestra di soli strumenti. Il 'testo' (in bianco e nero) è lui.

Bene si infastidiva quando qualcuno gli faceva notare la somiglianza con il Picchiatello, ma era proprio vero; non tanto per i lineamenti del viso quanto per il bambino epilettico, il burattino, lo shlemiel – il tipo che rovescia la bibita – e lo shlimazel, quello che se la prende addosso. C’entrava l’irripetibile presenza. Nessuna 'interpretazione' del copione, neppure se è di Shakespeare.

Jerry le chiama «gag non verbali». Esempio? «Il Picchiatello sta pulendo e spolverando una teca di vetro che contiene farfalle. Le osserva. Sono belle. Lancia un ultimo sguardo e poi apre la teca. Le cinque stupende farfalle imprigionate volano via, lasciando cinque impronte vuote nella teca. Il Picchiatello le osserva volare via in uno stato completamente attonito. Alla fine fa un fischio e queste ritornano di nuovo al loro posto nella teca. Lui chiude lo sportello e se ne va». L’aneddoto è contenuto nel libro The total film-maker, raccolta di lezioni impartite da Jerry Lewis negli anni Settanta agli studenti dell’Università della California del Sud, e già pubblicato nel 1982 con il titolo Scusi dov’è il set? Confessioni di un filmaker (Arsenale editrice, a cura di Maria Teresa Crisigiovanni).

Ma se è impossibile essere Jerry Lewis, a cosa serve leggere i suoi consigli per diventare un 'total film-maker'? Nicolas Cage nella premessa afferma che «Jerry Lewis è il mio idolo» e anche il suo eroe fin da bambino, prima di diventarne grande amico, e che il libro gli «spalancò le porte al suo sapere e all’eccezionale preparazione presente nel suo lavoro». Mentre Enrico Ghezzi, nella prefazione, dice l’importanza dell’«assenza dal set», il girovagare di Lewis tra i macchinari, i tecnici, l’ufficio del produttore, la moviola… Vuole controllare «tutto il processo produttivo» e in più appropriarsi dei sentimenti della troupe, diventare l’opera stessa, tanto da leccare la pellicola pensando che «un qualcosa di più di me sarebbe passato nel film». La voglia matta di non lasciare a nessuno la libertà di decidere, né al direttore della fotografia né al montatore, lo fa inventore di nuovi marchingegni: «È stato il primo al mondo a utilizzare un sistema di controllo video con telecamera e monitor sul set che gli davano la possibilità di verificare in ogni momento l’immagine…» osserva Ghezzi. La lezione lewisiana si concentra sul 'ritmo'. Appunto. Non solo quello del film, ma il ritmo interno degli organi, fino a frugare dentro ogni cellula, fino ad arrivare al cuore.

«È un buon film? No, ma sarà pronto per venerdì»: il triste detto di Hollywood è il suo principale nemico, insieme ai critici snob, quelli che considerano le sue commedie «prodotti volgari». In realtà, «i film li faccio per i miei pronipoti e non per i miei colleghi della Directors Guild o per i critici». Il ‘collega’ John Frankenheimer «mi saluta con un cenno sperando che nessuno lo veda». La rabbia accumulata sui set delle majors si sprigiona nella satira contro la 'fabbrica dei sogni' dentro molte delle sue regie, Il mattatore di Hollywood (The Errand Boy, ’61) è un esempio di metacinema e anche di critofilm, un testo di analisi del meccanismo produttivo. Così pure il libro, che analizza ogni dettaglio della macchina sognante. Lo stupore pervade il lettore davanti alla scansione meticolosa di ogni fase, dal soggetto agli attori, dalla pre-produzione alla troupe, dal montaggio alla musica, luci, sonoro, doppiaggio, distribuzione…

Il «mattatore» del film punta il dito sui cinici e ciechi dirigenti della Paramutual Pictures che ingaggiano l’attacchino Morty Tashman come utile idiota, spia all’interno degli Studios, e non si accorgono di avere tra le mani Jerry Lewis, nome scritto a caratteri cubitali nel cartellone pubblicitario incollato sghembo sulla parete davanti all’ufficio della major proprio da Jerry Lewis/Morty Tashman. Il percorso del fattorino-spia inconsapevole tra i diversi settori dei teatri di posa assomiglia a una lezione di cinema in forma di improvvisazione creativa, singolare intervento sugli oggetti di scena, scambio di anime tra sé e i dispositivi, prove di animazione di cose inanimate… un passaggio oltre lo specchio di Alice, tanto che finirà per parlare con un pupazzo mosso dalla sua stessa mano. 

Ammiratore e amico di Charlie Chaplin, ne segue l’insegnamento di stile e di indipendenza. «Ritengo che i film che ho diretto e interpretato siano cento volte meglio dei film che ho solo interpretato», Lewis sostiene il «total-filmmaker», denuncia i sindacati di categoria troppo esigenti e la tassa statale della California sul negativo di un film: «Un sacco di produzioni mandano direttamente il negativo a New York e fanno il montaggio lì per non pagare le tasse». Romanzi meravigliosi, poi, sono stati distrutti da Hollywood, trasformati in adattamenti «con scemenze come lavoro interiore oppure subconscio. La maggior parte di queste cose è spazzatura freudiana». Deride perfino la mania dei super schermi, Panavision, Cinemascope, Cinerama: «Pensano solo al Grand Canyon e si limitano a dire: metteteci dentro gli attori». Attori «spersonalizzati» dal Metodo. Già, perché l’Actor’s Studio non gli piace, serve solo a fare da stampella agli incapaci.

Quello che per lui, oltre Chaplin, è un maestro assoluto si chiama Stan Laurel, un genio. Guardare in macchina? Perché no? Ha cominciato Oliver Hardy, che non sapeva mai le battute e si girava verso il suggeritore a fianco della cinepresa. I registi più amati? Hitchcock (ma non Psycho che «andava oltre i limiti della decenza»), Taurog, Norman Jewison, Kubrick, Mankiewicz, Wilder… film-maker totali anche loro. Immagina inoltre che un certo John Cassavetes si farà strada e un certo Steven Spielberg pure, dopo aver visto il suo cortometraggio d’esordio, Amblin. E avanti così, puntiglioso e crudele quanto la comicità; anche se nessuno si accorge, dice, della sua violenza. Certo, se un poveraccio scivola su una buccia di banana nessuno ride, ma se al suo posto c’è un tipo in pelliccia e bombetta…

Altro bersaglio del Picchiatello è il cinema d’avanguardia alla Andy Warhol: «Se volete fare il regista d’avanguardia basta fare degli zoom molto rapidi con una macchina a mano e usare un fish-eye su un’attrice per distorcerla fino a farla sembrare il culo di Lon Chaney…». Sensi di inferiorità che i Cahiers du cinéma gli faranno passare, ma nel mirino c’è sempre la Hollywood superba e chi disprezza i cartoon e le torte in faccia. A fuoco la cultura alta, e anche quella di mezzo; a lui piacciono gli estremi, i capitomboli, il gesto spastico, la distorsione della realtà, tempo e spazio alterati dall’azione contro-natura, senza gravità, inverosimile. Rivoluzionaria. E se non si può essere Jerry Lewis imparate almeno a imitarlo: come ha fatto Adriano Celentano, che di stupende contorsioni non-sense e rock se ne intende.

Per finire, una previsione dagli anni Settanta: «Rimarranno poche sale cinematografiche e il mercato principale sarà costituito dallo schermo televisivo». E poi una ricetta in risposta agli attacchi su melensaggine e sdolcinature che intercalano i suoi sketch comico-rocamboleschi: «Un giovane regista, desideroso di acquistare la giusta professionalità ed essere amato dalla sua troupe, dovrebbe anche ricordarsi dei primi amori, delle stelle cadenti, dei sogni a occhi aperti e di storie con un buon finale».