La diva che lasciò cinque chilometri di disperati

Emiliano Morreale, «Il Venerdì di Repubblica».

Un tempo cinema voleva dire, per noi, Europa e Stati Uniti. La globalizzazione ci ha insegnato da qualche tempo a modificare le nostre prospettive: il mercato indiano o quello cinese sono ormai importanti quanto quello americano, da cui però ancora dipendiamo, e anche nel mondo dei divi le cose stanno così. Se alcune star cinesi o indiane sbarcano di tanto in tanto sugli schermi hollywoodiani, la maggior parte di loro ci rimangono ignote.
In realtà un “altro divismo” c’è sempre stato, e ricorda fra l’altro un libro di Cristina Colet dedicato a Ruan Lingyu. La diva di Shanghai anni Trenta (Cue Press).
Alla fine della stagione del cinema muto, che in Cina durò fino alla metà degli anni Trenta, Lingyu incarnò un modello femminile in bilico tra vecchio e nuovo, tradizione e modernità. I suoi personaggi di donna sofferente, prostituta o ragazza di campagna traviata dalla città, furono il mezzo che permise a una generazione di registi di sinistra di fare un cinema impegnato utilizzando lo schermo del melodramma: dall’esordio nel 1927 con A Couple in Name fino ai trionfi di titoli come Tre donne moderne, Goodbye Shanghai! e soprattutto The Goddess, titolo più noto.
Stretta in un momento di passaggio e di rivolgimenti politici e ideologici (sono gli anni dell’occupazione giapponese di Shanghai), la fine di Ruan Lingyu fu tragica. Forse per ripicca verso lo spietato ritratto della stampa offerto nel film National Custom, l’attrice subì una violenta campagna scandalistica sulla sua vita privata. Si uccise l’8 marzo del 1935 con un’overdose di barbiturici, come un personaggio dei suoi film. Il suo corteo funebre, raccontano, era lungo cinque chilometri di uomini e donne disperati.

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