«Io, che ormai sono un miliardo di miliardi di particelle che vagano, vedo tutto e di tutto posso dar conto»: in memoria di Antonio Tarantino

Alessando Carli, «Panagea».

Non poteva che uscirsene così: con un colpo di teatro. Lui, non i suoi scritti: quelli rimarranno e continueranno a vivere nella voce e nei movimenti e nelle regie di chi si abbevera alla fonte della parola, atto liturgico, nemesi lisergica che solo dopo la morte trova chi la pota e se ne prende cura.

Il drammaturgo Antonio Tarantino se ne è andato. Arresto cardiaco, più o meno l’effetto che ha il lampadario che alla fine del primo atto manda gli spettatori de The phantom of the Opera in pausa: improvviso, devastante, a modo suo teatrale.

Che poi Antonio Tarantino, al teatro, non ci è arrivato in età precoce: enfant prodige, alla maniera di Fausto Paradivino – e tra un po’ il perché dell’avvicinamento tra i due – non lo è stato: nato nel 1938 a Bolzano, ha dedicato buona parte della sua vita alla pittura figurativa. Poi la scintilla, l’incendio che avvampa: la scrittura per la scena. Un incontro intimo e sconvolgente, ruvido e movimentato come gli amplessi sotto le lenzuola clandestine di un cielo stellato, o sotto il tettuccio di una cabina del mare.

Nel 1994 Tarantino si aggiudica il Premio Riccione con il monologo Stabat Mater, una sorta di preghiera del XIII Secolo che diventa una freccia: Tarantino incocca il tempo e la lancia dritta dritta nel presente: la sua Maria è una ragazza-madre prostituta che si strugge nell’attesa di ricevere notizie del figlio arrestato e della figura dissoluta di suo padre. Anche questa Maria, come le tante cui tocca lo stesso sventurato destino, incrocia nella sua esistenza un Giovanni, un Ponzio Pilato, una Maddalena… La forza dell’assolo ricorda a tratti la scrittura di Dario Fo: il gramelot di Tarantino è un italiano con vibranti sporcature dialettali e gergali. Come la lingua di chi non ha studiato. Come il parlato dei diseredati, dei reietti, di chi vive nell’ombra. Che non parla: si esprime.

Fausto Paravidino nel 1998 scrive Due fratelli – tragedia da camera in 53 giorni. Con questo testo, portato in scena anche al Festival di Santarcangelo dai Motus, vince il Premio Riccione intitolato a Vittorio Tondelli nel 1999 e il premio Ubu come migliore novità italiana.

Anche su incitamento di Franco Quadri (che ha pubblicato per la sua casa editrice Ubulibri quasi tutta l’opera di Tarantino e che ha legato il suo nome al Premio Riccione), molti attori si sono cimentati con i suoi testi: nella Romagna Felix il Teatro delle Albe di Marco Martinelli ed Ermanna Montanari ha portato in scena Stranieri, in giro per l’Italia invece Piera Degli Esposti si è confrontata con lo Stabat Mater, Giorgio Albertazzi invece con La casa di Ramallah, passato sulle assi del Teatro Novelli di Rimini nel 2010 e dà vita e voce all’atroce dramma di Myriam, una kamikaze che si farà esplodere in un locale pubblico di Ramallah con la benedizione dei genitori che hanno già dato alla causa quattro figli maschi e ora aiutano lei a sistemarsi l’esplosivo intorno al corpo.

Nel 2000 il robustissimo Materiali per una tragedia tedesca, vincitore del Premio Riccione nel 1997 e Premio Ubu nel 1999-2000 come Migliore novità italiana (due riconoscimenti abbastanza ‘fratelli’¸ se non consanguinei), diventa spettacolo teatrale: il regista Cherif ne firma l’allestimento in un’ambiziosa produzione del Piccolo di Milano.

In questo menhir Antonio Tarantino ripercorre, in un kolossal da ottantacinque personaggi, uno dei periodi più complessi degli anni Settanta: lo scandalo della Germania d’autunno, le imprese della banda Baader-Meinhof, il rapimento e l’uccisione del grande industriale Schleyer, il dirottamento di un aereo della Lufthansa a Mogadiscio da parte dei fedayn di aerei, le strategie politiche violentemente del governo Schmidt e il suicidio di stato dei terroristi tedeschi nella prigione di Stammheim. Un momento buio di grave crisi politica, vissuto da un paese ricco di allarmanti ambiguità, viene ricreato con il taglio dei grandi classici in un linguaggio basso che gioca comicamente sulle tecniche del varietà, mobilitando la gente comune in un viaggio tra i continenti che si prolunga al di là della vita.

«Io, che ormai sono un miliardo di miliardi di particelle che vagano, vedo tutto e di tutto posso dar conto: e cioè che dio non esiste, che pace e guerra sono destinate a inseguirsi nel cerchio rovente del tempo, come s’inseguono amore e odio, salute e malattia, giorno e notte, sole e pioggia, padri e figli, noi e loro, la loro storia e la nostra: e nessuno ha ragione, completamente ragione, né completamente torto» dice la kamizake Myriam di Tarantino prima di andarsene.

Sipario.