Tanti narratori, tanti neorealisti. Forse solo per il cinema – da De Sica a Blasetti, a Rossellini – il neorealismo fu univoco

Andrea Bisicchia, «Lo Spettacoliere». 

Il volume che Claudio Milanini ha dedicato al Neorealismo, edito da Cue Press, ha un doppio valore, quello di una ricognizione storica e quello di una serie di interventi, in forma di articoli, di conferenze, di saggi che sono la testimonianza delle poetiche e delle polemiche che esplosero durante il periodo che dagli anni Quaranta arriva agli anni Sessanta, durante il quale, si cercò di indagare una nuova realtà sociale attraverso il cinema, la pittura, la narrativa, utilizzando la formula del Neorealismo, la cui ambiguità fu foriera di un ampio dibattito su quotidiani come L’Unità o settimanali come Rinascita, La Fiera letteraria, oppure su riviste come Paragone, Prospettive, Società, Realismo, Filmcritica.

Si trattò di una ennesima etichetta che assemblava esperienze diverse? O di un diverso modo critico di accostarsi alla situazione drammatica conseguente alla dittatura fascista?

Per Milanini, il termine si adattava meglio al cinema, mentre, per quanto riguarda la narrativa, a suo avviso, si affermarono tanti neorealismi quanti furono i principali narratori che scelsero la realtà nella misura in cui fossero stati capaci di parteciparvi, impegnandosi, nel frattempo, a evitare la trappola del cronachismo, paventata da Salinari. Gli interventi raccolti spaziano tra cinema, pittura, narrativa, e sono etichettati con una serie di titoli: La stagione dell’impegno, Primi bilanci interni, Sviluppi e crisi, Autocritiche e polemiche postume.

I nomi degli autori sono notevoli, si va da Visconti a Rossellini, a Zavattini, Lizzani, De Sica, per il cinema, da Vittorini a Calvino, Pavese, Gadda, Iovine, Brancati, Cassola, Pratolini, Pasolini, per quanto riguarda la narrativa.

Uno dei temi più argomentati fu quello della responsabilità dell’Arte nei confronti dei problemi del proprio tempo e di come interpretare i nuovi ambiti della realtà nei confronti dei quali era necessario un approfondimento che evitasse il documentarismo per dare spazio ai valori poetici. Si discuteva di impegno, di engagement, che non doveva essere di tipo politico, bensì ‘naturale’, come sosteneva Vittorini, difensore accanito della narrativa che, a suo avviso, non era un’arte minore rispetto alla filosofia o alla religione, essendo stata capace di denunciare i delitti del fascismo ed essendosi liberata da ogni forma di asservimento, evitando di proporsi come una forza consolatoria, per essere un mezzo di protezione dalle sofferenze, perché compito dell’arte, diceva, non è quello di occuparsi platonicamente dell’anima né, cristianamente, d’amore, bensì di lavoro, di eguaglianza, di emancipazione.

La nuova figura di intellettuale non può commettere gli stessi errori di quello fascista, sempre asservito al potere, era necessario liberarlo anche dalle pretese del partito Comunista di legarlo alla sua ideologia per non far dire ad Andreotti che fosse a caccia di posti e di stipendi.

C’è da dire, a proposito degli scrittori di matrice cattolica, che essi avevano scelto un altro tipo di militanza, non solo democristiana, perché più attenta ai valori universali dello spirito, magari dettati dalla fede in Dio, tanto da essere accusati di eccessivo pudore, di timidezza e di mancanza di rischio.
Carlo Bo si sforzò di tenere una porta aperta nei confronti di chi la pensava diversamente, sostenendo, però, il primato dello spirito in letteratura. Insomma, cercare il consenso da una parte o dall’altra non giovava, certo, alla narrativa che doveva reinventare artisticamente la realtà, dominandola, per non lasciarsi dominare, magari favorendo quella ‘confusione di stili’ denunziata da Pasolini.

Calvino invitava a distinguere le Opere poetiche da quelle cronachistiche o saggistiche che rendevano il panorama letterario sempre più eterogeneo. Una sistemazione critica cercò di darla Niccolò Gallo, allora curatore editoriale della Mondadori, nel saggio più lungo, contenuto nel volume, nel quale osserva come, in fondo, sia rimasta, nella narrativa del Dopoguerra, una ‘tentazione decadentista’, quella della narrazione poetica, alla quale andrebbe aggiunto un impegno morale capace di aprirsi alla nuova fase storica che l’Italia stava vivendo, per abbattere il fenomeno dell’incultura del dopoguerra. Gallo passa in rassegna quasi tutti gli autori del tempo, oltre che i ‘generi’ da loro adoperati, auspicando una narrativa che si liberasse dalle forme chiuse per imporre una propria originalità.
Dobbiamo essere grati a Milanini, non solo per la lucida introduzione di carattere storico, ma anche per aver raccolto interventi d’autore, difficilmente reperibili.

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