«Orsini regala un finale a Ivan Karamazov», di Fausto Malcovati e Umberto Orsini (La Lettura – Il Corriere della Sera)

Fausto Malcovati, «La Lettura» (Il Corriere della Sera), 2 ottobre 2022

È il capolavoro di Dostoevskij, pubblicato nel 1879. L'attore, 88 splendidi anni, lo interpreta per la terza volta, ora immaginando una via d'uscita per uno degli eroi più tormentati della letteratura, in un monologo ideato col regista Luca Micheletti. In scena al Piccolo Teatro Grassi di Milano. Qui ne parla con uno tra i massimi esperti di cultura russa.

Un finale. Sì, un finale per Ivan Karamazov. Dostoevskij non lo ha scritto. Nel romanzo tutti i personaggi ne hanno uno: Mitja parte per i lavori forzati con Grušenka, Alëša progetta un futuro con i ragazzi che ha riuniti per i funerali di Iljuša. Tutti tranne lui. L’ultima sua apparizione è nell'aula del tribunale dove si svolge il processo per il parricidio. Ormai in preda alla febbre cerebrale in cui lentamente sprofonda, vuole scagionare il fratello. «Non è lui che ha ucciso nostro padre, è Smerdjakov. Ha confessato, ma non può testimoniare, poche ore fa si è impiccato». Nessuno gli crede: farnetica, dicono, è malato. E scompare. Di lui non si sa più nulla.

Sì, ci vuole un finale per Ivan Karamazov. Ci ha pensato Umberto Orsini, mitico Ivan dello sceneggiato di Sandro Bolchi, anno 1969. Chi non lo ricorda, biondissimo, quasi albino, gli occhiali rotondi, l’aria concentrata? «Me lo sono inventato io quel trucco. Cercavo la fisionomia di un intellettuale perplesso, di un figlio inquieto di quegli anni tragici (nello stesso anno della pubblicazione del romanzo lo zar Alessandro II viene ucciso dalla bomba di un terrorista). Da allora non ho mai abbandonato quel personaggio. Ce l’ho dentro, è diventato il mio doppio, il mio sosia. Ci sono tornato una decina d’anni fa, portando in teatro il lungo monologo del Grande Inquisitore. Attualissimo. Sconvolgente nella sua lucidità».


Sì, è lui che ha inventato il finale, insieme al regista Luca Micheletti. Le memorie di Ivan Karamazov (Cue Press), sarà in scena dal 4 al 16 ottobre al Piccolo Teatro Grassi di Milano in prima nazionale. Un lavoro lungo, complesso, sorprendente, un montaggio in cui si intrecciano discorsi di Ivan, battute inventate, frammenti di altre opere di Dostoevskij (per esempio il celebre attacco di Memorie dal sottosuolo, «Sono un uomo cattivo...»), voci di altri personaggi che irrompono, si accavallano, si innestano nell'aggrovigliato flusso di coscienza del protagonista.

Ivan vuole concludere la sua vicenda di allora, vuole giustizia, quella giustizia che ha fallito per causa sua. È solo con la sua coscienza, con la sua storia, con i suoi fantasmi, con le sue ossessioni.

È passato un secolo, forse di più, due, tre. Ivan è vecchio, «mi hanno dato per disperso ma sono ancora qui, sono ancora vivo». Ricompare nell'aula di quel tribunale dove per l'ultima volta si era presentato. Tutto intorno è distruzione, rovina, caos, disfacimento, degrado, documenti stracciati, carte sparpagliate ovunque, registri sfasciati. Come se fosse passata una bufera, come se i secoli avessero rimescolato, ingarbugliato, sconquassato tutto. In questo paesaggio corroso, sgretolato dal tempo, lui, Ivan, si aggira, vuole ricostruire la sua storia, vuole dire la sua verità, esige la sua sentenza, chiede ascolto, attenzione, giustizia, come se la sua vita cominciasse dopo la sua scomparsa. Si racconta, e nel discorso si affollano i suoi incubi.


Primo fra tutti il diavolo, quel diavolo meschino, banale, petulante, presuntuoso che gli è apparso nell'ultima notte prima della sua devastante deposizione in tribunale: è il suo doppio malvagio, e qui torna a provocarlo, a intralciare i suoi discorsi, a ricordargli i suoi errori, eterno principio del male, alleato e nemico. «Nello sceneggiato di Bolchi avevamo inventato una soluzione che sottolineava il suo essere la mia coscienza sporca: io dicevo le battute di Ivan e la mia voce registrata diceva le battute del diavolo. Come in fondo vuole Dostoevskij, il diavolo non è altro che il me stesso volgare, il mio sottosuolo turbolento, provocatore, categorico. Anche qui lo aggredisco, lo scaccio, cerco di annullarlo, vorrei strangolarlo ma lui rispunta continuamente a ricordarmi la mia ambiguità, la mia colpa, la mia mancanza di fede. Sì, perché uno dei grandi temi del romanzo è proprio lo scontro tra chi accetta Dio e chi lo rifiuta. C'è un breve scambio di battute tra il beffardo Fëdor Karamazov, padre lascivo, perverso, il cerebrale Ivan e il mite Alëša, proprio sull'esistenza di Dio: un dialogo che abbiamo voluto inserire perché ci sembrava importante per definire lo scetticismo di Ivan. 'Dio esiste?', mi chiede mio padre. 'No, Dio non esiste', rispondo. 'Dio esiste, Alëša?'. 'Sì, padre, esiste'. 'Ivan, l'immortalità esiste? Un'immortalità qualunque, anche se piccolissima, minuscola?'. 'No, neppure l'immortalità esiste'. 'Di nessun tipo?'. 'Di nessun tipo'. 'Cioè lo zero assoluto, il nulla? Ma ci sarà almeno qualcosa, sarebbe meglio del nulla!'. 'Zero assoluto'. Ecco, in questo zero assoluto c'è tutto Ivan, l'ateo, il negatore. È una componente fondamentale del mio personaggio che riappare secoli dopo. Ancora il nulla, ancora il vuoto. Ed è per questo che lo ripropongo oggi nello spettacolo la Leggenda del Grande Inquisitore. Anche qui abbiamo trovato un espediente per renderla attualissima e insieme lontanissima: un vecchio fonografo, uno strumento antidiluviano che trasmette la mia interpretazione del '69. Non tutto il testo, ovviamente, che è lunghissimo, solo i frammenti più forti, più aggressivi, più categorici. A questo proposito voglio raccontare un episodio che mi riguarda, sempre dello sceneggiato del '69. Diego Fabbri, autore della riduzione, aveva previsto per quella scena uno sdoppiamento, una sorta di dissolvenza in cui scompare la stanza dove sono io e, con un cambio di costume, divento il Grande Inquisitore, con parrucca e tonaca. Mi rifiutai. È Ivan che inventa questo personaggio tremendo, algido, glaciale, perché togliergli la responsabilità di raccontare quella leggenda? È lui che ci guida nell'implacabile requisitoria del vecchio Inquisitore contro Cristo, interlocutore muto, imputato impassibile, presenza-assenza, capace solo di un bacio finale 'sulle vecchie labbra esangui dell’Inquisitore'. E l'ho spuntata. Mi sono assunto la responsabilità dell'intero monologo, nessun taglio, nessun arrangiamento, le sessanta pagine del copione tutte d'un fiato. Si è deciso di dedicare un'intera puntata, un'ora e passa di trasmissione: sembrava interminabile e invece ha appassionato gli spettatori di allora».


Certo il tema del Grande Inquisitore appassiona Orsini. «L'ho voluto perché è un momento fondamentale nell'ideologia di Ivan, il contestatore, il cattivo maestro che rifiuta ogni fede ma insieme rifiuta ogni azione». Un tema che non ha tempo, che pone interrogativi all’uomo di allora come all’uomo di oggi.

Ecco dunque il senso dello spettacolo: spingere gli spettatori a ragionare su questioni troppo in fretta accantonate o troppo semplicisticamente risolte. Questioni che invece premono ancora, disturbano ancora.

Che cos'è la religione oggi?

Qual è il vero insegnamento di Cristo?

Quanto c'è di formale, abitudinario, esteriore nei nostri atti di fede?

Ci domandiamo mai se la nostra non sia una devozione svuotata del senso profondo di quello che diciamo, ripetiamo, ascoltiamo?

Obbediamo forse solo a comodi precetti stabiliti dalla chiesa, da tutte le chiese, che poco hanno a che fare con l'autentico insegnamento evangelico?

Il Grande Inquisitore, quando ha di fronte il misterioso predicatore che ha fatto arrestare perché troppo popolare, lo riconosce, non ha dubbi, è il Cristo reincarnato nella Spagna dei processi, dei roghi, degli autodafé e gli dice: vattene, hai detto secoli fa quello che dovevi, non abbiamo più bisogno di te, disturbi il nostro sistema solido, concreto.

Ecco la modernità, la lucidità delle pagine dostoevskiane: che cosa hanno fatto le chiese, l'ortodossa come la cattolica, se non rendere meccanico, asfittico l'insegnamento del Cristo? Norme, dogmi, precetti, regole, costrizioni, imposizioni. Il contrario di quello che ci dicono i Vangeli: Cristo ha dato all'uomo la libertà, la possibilità di scegliere, di autodeterminarsi. Ma l'uomo non vuole la libertà, troppo impegnativa, troppo scomoda. Un tema che a Orsini sta molto a cuore. Vuole, con il suo spettacolo, ricordare agli uomini: abbiate il coraggio di essere liberi, non cercate sottomissione, obbedienza, consenso, rifiutate il conformismo, siate autonomi da leggi che riducono il vostro libero arbitrio. E invece il Grande Inquisitore lo sa: l'uomo ha paura della libertà, troppo complicato valutare ogni gesto, cercarne la giustificazione, meglio che qualcuno decida per lui.

Ecco il grande dilemma dell'uomo da secoli: più facile delegare che assumersi responsabilità, più facile seguire il gregge che difendere le proprie scelte, accettarne le conseguenze, positive o negative, felici o dolorose che siano, più facile l'acquiescenza che la rivolta. «Lo spettacolo — dice Orsini — si apre con una citazione evangelica, che è anche l'epigrafe del romanzo: 'In verità, in verità vi dico: se il chicco di frumento caduto nella terra non muore, resterà solo, ma se muore, allora produrrà gran frutto'. Credo che queste parole siano importanti, perché ci aiutano a capire il percorso di Ivan, la sua solitudine, la sua inquietudine, la sua rivolta. Sì, Ivan è un chicco che non muore, che non dà frutto, che resiste, che rifiuta, è un ribelle, un contestatore, un sovversivo. Rifiuta il mondo così com'è, divorato da ingiustizie, discriminazioni, violenze. Si sofferma soprattutto sulla sofferenza dei bambini. Perché un innocente deve soffrire, se non ha commesso alcun peccato? Perché esistono uomini che violentano, stuprano, torturano piccole creature inermi, pure, candide? No, dice Ivan, questo mondo io non lo capisco, non lo voglio, lo rifiuto, mi ribello, protesto, prendo le distanze e restituisco il biglietto d'ingresso. Ma se rifiuta la creazione, allora rifiuta anche il suo Creatore. E senza un principio superiore che guidi le azioni degli uomini, allora 'tutto è permesso'. Frase famosissima che è la vera molla del personaggio Ivan. Tutto è permesso, dunque non ci sono limiti, non ci sono freni, non ci sono ostacoli ai comportamenti umani. È una frase che risuona più volte nello spettacolo: è un monito ai ribelli, ai chicchi che non muoiono, perché tra la libertà del tutto è permesso e la depravazione non c’è più linea di demarcazione. Dunque anche il delitto è permesso. Una teoria che Smerdjakov afferra, fa sua, e uccide. Ma c'è un confine al 'tutto è permesso', un confine che Ivan non esplicita, tralascia, ma matura nel tempo: di ogni atto, anche il più perverso, bisogna avere il coraggio di assumersi la responsabilità. Cosa che non fa Smerdjakov: pur di non confessare si suicida. Ivan non lo farà mai: nonostante il suo rifiuto del mondo, ama la vita a dispetto della logica, ama 'le foglioline vischiose, che spuntano a primavera, il cielo azzurro, certe persone, senza sapere il perché', ha sete di vita, di passioni, nonostante tutto, di condivisione. E nella conclusione dello spettacolo c'è proprio la confessione di Ivan: Smerdjakov ha ucciso, ma il vero assassino sono io. Io che ho istigato, ho autorizzato, ho acconsentito, dunque condannatemi. Chiede, ormai vecchio, quella giustizia che gli è stata negata da giovane, perché nessuno gli ha creduto. Una giustizia che lo metta di fronte alle sue responsabilità, che condanni le parole oltre che i gesti. 'Solo allora ci sarà la pace, solo allora il chicco morirà e darà gran frutto, un giorno o l'altro, con il tempo...'. Chiudo con questa battuta sul tempo, il grande nemico... Eccolo il finale che manca, che l’autore non ha scritto: la vecchiaia di Ivan, che capisce di avere parlato troppo e male, e che tuttavia ama la vita e attende la morte».


Le parole... le parole possono anche uccidere. In questi tempi di infiniti sproloqui, di incessanti chiacchiericci, di assordanti dichiarazioni, Orsini con il suo spettacolo ci mette in guardia. Le parole hanno un peso, una forza, una penetrazione nelle coscienze che troppo spesso sottovalutiamo. Stiamo attenti. L'attrazione per gli slogan sensazionali, per le teorie a effetto, può avere conseguenze incalcolabili. Lo spettatore si porti a casa le crisi, le inquietudini, i tormenti, la protervia di Ivan, ma anche la sua ansia di pace, di serenità. E non dimentichi che siamo tutti un po' Ivan, che lo ammettiamo oppure no.