«Quaderni scritti a penna di un futuro premio Nobel: Samuel Beckett», di Andrea Porcheddu (Gli Stati Generali)

Andrea Porcheddu, «Gli Stati Generali», 1 marzo 2023

Ma insomma Samuel Beckett si può toccare o no? Si sa: il burbero premio Nobel scriveva testi teatrali che erano delle partiture, misurate al secondo: tra didascalie, parole e pause vi è una tensione continua e il dettato beckettiano è stato a lungo ritenuto – e ancora lo è – per l’appunto intoccabile. Complice anche la ferrea tutela dei doverosi diritti d’autore: Beckett o lo si fa à-la-Beckett, senza toccare una virgola, o non si fa.

A parte il fatto che qui da noi lo recitiamo in italiano, ossia in una lingua altra (e già questo è un poderoso modificar l’originale, per quanto filologica sia la traduzione), è chiaro che, tanto per far un paragone, se affrontiamo Verdi o Puccini, non ci viene in testa di prendersi licenze, ossia modificare, tagliare, riscrivere, sfumare. Per quel che mi riguarda appartengo a questa scuola: con il repertorio classico bisogna fare i conti, per quel che è, senza stare tanto a riscrivere. Ma il teatro, nato nel politeismo greco, suggerisce sempre la molteplicità, lo sguardo aperto, l’alternarsi e il convivere di possibili: e, come nella vita, è meglio il pluralismo, accogliere possibilità diverse, mettersi in discussione, ascoltare, essere smentiti nelle proprie certezze (non è poi che i monoteismi abbiano fatto bene alla salute o allo spirito…).

Di fatto, la ricerca, in teatro come in musica, è cresciuta anche violentando i cosiddetti classici, che proprio in quanto tali si prestano ad ogni misfatto – uscendone peraltro spesso vincitori loro, i classici, ché ne hanno da dire rispetto alle visioni e alle letture e ai riadattamenti magari in salsa “contemporanea” di tanti volenterosi registi-autori o registe-autrici.

La questione beckettiana, però, è tornata fuori in occasione dell’allestimento di Aspettando Godot, ovvero la summa dell’Irlandese, ad opera del maestro greco Theodoros Terzopolous che, con i suoi straordinari interpreti, ha giocato assai liberamente con l’originale. Intanto perché ha attinto alla traduzione greca, ben diversa da quella canonica italiana (dunque traduzione della traduzione), e come nel suo stile, ha dato di forbici di gran lena. Cosa che ha comportato una levata di scudi di parte della critica e del pubblico, indignati, entrambi, di tale e tanto ardire, sorta di lesa maestà beckettiana intenzionale e dolosa.

Altri, più comprensivi, hanno apprezzato l’esito scenico, magari cogliendo anche lo slancio di Terzopoulos di fare dell’Aspettando Godot una tragedia classica, invocando una interpretazione attorale conseguente: non solo e non più un dramma dell’incomunicabilità degli anni Cinquanta, ma una vera tragedia eterna sul destino dell’umanità. E l’esito, almeno a mio parere, è quanto di più beckettiano abbia visto in molti anni, per tensione, suggestione e poeticità (qui la recensione di Walter Porcedda).

Dunque ha fatto bene o ha fatto male il regista ha affrontar così di petto Samuel Beckett?

Per far chiarezza, è bene tornare a consultare le fonti. E qui arriva in prezioso aiuto l’instancabile lavoro di Mattia Visani e della sua Cue Press, casa editrice emiliano-romagnola specializzata in teatro, cinema e arti (ho il piacere di aver pubblicato qualche cosa con questa giovane e gagliarda casa editrice).

Insomma, nel giro di pochissimo tempo, Cue ha mandato in libreria tre volumoni che raccolgono, in versione italiana, i diari di lavoro del genio dublinese. Non solo Aspettando Godot, ma anche Finale di Partita e L’ultimo nastro di Krapp (ed è in arrivo un altro libro dedicato ai Drammi brevi). Edizioni critiche dei quaderni di regia, opere di grande bellezza e nitore che svelano proprio il processo creativo beckettiano. Sono libri esaltanti, minuziosi nel ricostruire, battuta dopo battuta, il farsi vita del teatro, testimoniato dalla copia riprodotta dei quaderni originali, prontamente tradotti. C’è la grafia minimale di Beckett, i suoi schizzi, il piano luci, gli appunti, i cambiamenti.

Ecco il fatto: Beckett ovviamente non si considerava un “classico” e bellamente procedeva, stesura dopo stesura, a migliorare e adattare il proprio lavoro, lasciando poi alla regia una certa libertà. Ad aprire il volume dedicato a Godot arriva subito un chiarimento, grazie al curatore dell’edizione originale inglese, James Knowlson: «Nel teatro niente si può etichettare come definitivo. Un’opera o un ruolo sono costantemente aperti alla reinterpretazione (…) Le produzioni di Beckett delle proprie opere illustrano questo chiaramente, allo stesso modo delle produzioni dirette da qualsiasi altro regista. Pensare che Beckett credesse che lui, o chiunque altro, potesse “rendere fisse” le sue opere è un luogo comune sbagliato: del resto, più volte chiarì che altre produzioni avrebbero avuto una “musica” differente dalla sua, e così accettò differenti sistemazioni del palco. Nelle poche occasioni in cui mosse obiezioni a certe proposte registiche era perché pensava che fossero stati fatti cambiamenti a elementi base che avrebbero alterato radicalmente le opere» (pag 7). E aggiunge Luca Scarlini, ottimo curatore della versione italiana, presentando l’opera: «Samuel Beckett in tutta la sua esistenza torna continuamente ai suoi testi, li rivisita, aggiunge, toglie. (…) è possibile entrare nel laboratorio di azioni verbali e gestuali di un autore capitale del secolo scorso, la cui influenza rimane capillare nelle forme più diverse del presente (…) Le produzioni di Berlino allo Schiller Theater, quelle con il San Quintino Theatre Workshop, sono altrettante tappe di una conoscenza della forma-scena, che egli mette assai fortemente in discussione». (pag 9).

A sfogliare i libri si è quasi colti da una vertigine. Quanto è bello vedere quelle pagine vergate a mano, quegli schemi, quegli improvvisi guizzi di genio che scaturiscono da un metodico e certosino lavorio di limatura. Aspetti che emergono chiari anche in Finale di partita, con l’edizione critica a cura di Stanley E. Gontarski; e in L’ultimo nastro di Krapp, con l’edizione critica ancora di Knowlson (anche questi volumi vantano l’edizione italiana a cura di Scarlini).

Libri, dunque, ma con la peculiarità straordinaria di trascinare il lettore nella fucina, nella fabbrica di un artigiano a lavoro: non genio e sregolatezza, ma metodo e rigore cui si assiste, pagina dopo pagina, con commossa partecipazione. Nel ’52 Beckett scriveva quei suoi appunti su Aspettando Godot: meno di venti anni dopo sarà premio Nobel.