Quegli indimenticabili anni ‘70. Tra tensioni e utopie. E il teatro avrebbe dovuto rigenerare il mondo. L’Odin di Barba

Andrea Bisicchia, «Lo Spettacoliere», 11 aprile 2022

Parecchi di noi hanno conosciuto Barba al tempo dei suoi spettacoli al CRT di Via Dini o al Teatro Quartiere, in occasione di ‘Milano Aperta’, parecchi di noi posseggono i ‘Manifesti’ di quel periodo, dove veniva teorizzato, dallo stesso Barba, come il ‘Terzo Teatro’, e, da Sisto Dalla Palma, come il ‘Teatro dei mutamenti’.

Erano gli anni Settanta, ricchi di fermenti e di idee rivoluzionarie, durante i quali, il concetto di scena, andò moltiplicandosi perché si coniugava con interessi sociologici o politici, con tensioni ideali e utopiche, fino a concepire un teatro da intendere, non più come rappresentazione del mondo, ma come rigeneratore del mondo, col ricorso a una serie di avventure iniziatiche, parola, questa, che faceva pensare al rito delle origini, accompagnato dalla musica e dalle danze.

Parecchi di noi hanno visto: Ferai, Talabot, Judith, Il Vangelo di Oxyrhinco e hanno vissuto le contaminazioni tra scena occidentale e scena orientale che stavano a base degli spettacoli dell’Odin e di Barba, dopo i suoi viaggi in Cina, in Giappone, in Perù, nelle Americhe del Sud e del Nord, in Venezuela, sempre in cerca di comunità diverse e di forme, altrettanto diverse, di teatralizzazione.

Momenti indimenticabili che hanno lasciato tracce, per le nuove generazioni, in volumi come: Il libro dell’Odin di Ferdinando Taviani, Feltrinelli 1975, e dello stesso Barba con La canoa di carta, Il Mulino 1993, Le terre di cenere e diamanti, Il Mulino 1998, Teatro, solitudine, mestiere, rivolta, Ubu Libri 1996, solo per citare i più noti.

L’Editore Cue Press ha appena pubblicato, con la traduzione di Leonardo Mancini, Eugenio Barba. L’albero della conoscenza dello spettacolo di due docenti di nazionalità diverse, Annelis Kuhlmann, dell’Università della Norvegia, e Adam J. Ledger, dell’Università di Birmingham, entrambi con esperienze nel campo performativo.

Punto di partenza del loro studio è L’Albero, ultimo spettacolo che Barba realizzò in occasione del suo ottantesimo compleanno. L’Albero diventa, per i due studiosi, metafora della conoscenza che, proprio per fortificarsi, ha bisogno delle radici e delle sue estensioni. Le radici rimangono quelle dell’Odin, le estensioni sono quelle della multiculturalità, molto simili a quelle della vita di una pianta.

Il volume è diviso in dieci brevi capitoli nei quali vengono esaminati il concetto di regia da intendere, non in maniera tradizionale, ma come il risultato di studi, di laboratori, di seminari, di azioni fisiche, di energia, di vita comunitaria, il cui esito dovrebbe essere di tipo sensoriale e non intellettuale. Un altro momento della loro analisi riguarda la drammaturgia d’attore, ben diversa da quella testuale, e il concetto di riscrittura, col suo debito a Grotowski, improntata al simbolismo e all’uso delle metafore, a dire il vero, non sempre comprensibili, tanto che si può dire che, se Carmelo Bene teorizzò il teatro senza spettacolo, Barba teorizzò il ‘teatro incomprensibile’, essendo frutto di riflessioni teoriche, di mappe concettuali non sempre decifrabili, di lingue diverse. Lo stesso Barba ha affermato di aver passato metà della vita sforzandosi di apprendere e l’altra metà lottando per andare oltre ciò che ha imparato, ammettendo di essere andato alla ricerca di forme sempre nuove e di aver cambiato, più volte, idee, motivo per cui si sente di appartenere alla famiglia degli alberi che cambiano le foglie, conservandone le radici.

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