Dire Luce, Sinestesieonline

Annamaria Sapienza, Sinestesieonline

Il testo offre una doppia visuale sulla tematica specifica della luce in scena, ovvero, un’osservazione bilaterale proveniente da una studiosa e da un professionista dello spettacolo. Cristina Grazioli, sia nell’attività didattica presso l’Università di Padova che nella copiosa produzione scientifica, ha indagato con particolare attenzione i rapporti tra scena e arti visive con approfondimenti specifici alle questioni riguardanti la luce. Pasquale Mari è light designer e direttore della fotografia, impegnato da molti anni in campo teatrale e cinematografico (e nelle arti visive in generale) in ambito internazionale, svolgendo anche attività di docente di progettazione luci (all’accademia d’Arte Drammatica Silvio D’Amico così come in corsi e master specializzati). E dunque il punto di vista si compone dell’analisi specifica di un aspetto poco presente negli insegnamenti di Discipline dello Spettacolo nelle università italiane e dell’esperienza di un artista che ama definirsi ‘operario della luce’, rivendicando un primario valore artigianale al suo lavoro.

Il titolo, che deliberatamente cita la traduzione italiana di una raccolta di Maria Zambrano (Dire Luce. Scritti sulla pittura, a cura di Carmen del Valle, Bur-Rizzoli, Milano 2013), annuncia la complessità che risiede nel tentativo di definire l’elemento luce, qui declinato per le esigenze della scena (con particolare riferimento a quella teatrale, nonostante la presenza di esempi riferiti al set cinematografico), attraverso parole e definizioni possibili. «Dire luce» non indica solo la volontà di definire al meglio l’oggetto della riflessione, ma traduce la necessità di conferire alla luce la stessa centralità di significato solitamente attribuita alla parola. Allo stesso tempo, il dialettico scambio tra le differenti prospettive degli autori sottolinea che la limitazione di senso manifestata dall’elemento verbale rispetto al suono che la definisce (soglia puramente acustica che schiude una infinita ricchezza di significati possibili), corrisponde alla medesima difficoltà di esprimere il dato luminoso in relazione alla sua impalpabile ma pervasiva presenza. Emerge quindi la centralità di una sostanza immateriale ma concreta, invisibile eppur presente che, mentre riguarda e definisce la vita reale, diventa segno linguistico dominante sulla scena.

L’introduzione di Cristina Grazioli, guida necessaria alla lettura, informa che il testo prende forza da progetti pregressi realizzati con l’università di Padova: Teatro botanico. Incontri alla luce dell’Orto botanico (2014), Dire luce. Le parole e le cose che illuminano la scena (progetto dipartimentale 2018-2020), Lumière de spectacle (in collaborazione con Université de Lille e Centre d’Étude des Arts Contemporains). Le suggestioni scaturite dalle tappe segnalate (che hanno coinvolto istituzioni, studiosi e artisti di varia provenienza), si essenzializzano nel volume nella necessità di un discorso tra due voci che appaiono subito in sintonia. Un’intesa che, esito fortunato di rinnovate collaborazioni, testimonia soprattutto la complementarità tra un creatore di luce da sempre impegnato ad ampliare gli orizzonti stessi del mezzo utilizzato e una studiosa la cui formazione conduce naturalmente all’organizzazione dei fenomeni in un ambito storico-artistico. Le rispettive competenze, nutrite da un elevato numero di situazioni artistiche e occasioni didattiche vissute insieme o singolarmente, mettono in rete una fitta serie di riferimenti ad altri ambiti disciplinari che hanno il pregio di rimandare il lettore a continui approfondimenti sollecitati anche da un solido e raffinato apparato iconografico.

La struttura prescelta nell’articolazione del testo si compone di dodici voci sulle quali gli autori si confrontano con puntuale successione. Ma i rispettivi punti di vista sono alimentati da conoscenze tecnico-scientifiche, letterarie, poetiche, pittoriche, teatrali, cinematografiche e musicali che derivano da prassi operative che hanno fortemente caratterizzato i profili professionali degli autori che qui emergono mediante un differente atteggiamento analitico. Frequenti sono, ad esempio, i rimandi a spettacoli e film realizzati da Mari con numerosi registi internazionali (Mario Martone, Andrea De Rosa, Kriszta Szekeli, Marco Bellocchio, Ferzan Ozpetek), così come ricorrono opportune citazioni a mostre e installazioni oggetto di reiterati studi condotti in Europa da Cristina Grazioli.

Le dodici parole individuate corrispondono a caratteristiche, comportamenti, contesti applicativi o semplicemente orizzonti simbolico-concettuali che riguardano la luce. Non obbedendo ad alcuna logica consequenziale, l’alternanza costruita per ogni punto consente un’arbitraria scelta nella selezione delle letture nella costruzione di un personale percorso di indagine. Le voci trattate sono: Invisibilità, Materia, Scrittura, Polvere, Buio, Colore, Movimento, Voce, Trasparenza, Atmosfera, Botanica, Aria. A dispetto di un’apparente frammentazione, i termini rivelano subito una relazione reciproca, ovvero, una coralità complessiva che delinea la luce come pratica inclusiva nella quale ognuna delle dodici riflessioni comprende inevitabilmente le altre.

Assunto di base, che affiora in filigrana in ogni sezione, è la considerazione della luce quale dispositivo capace di attivare, in maniera spesso inconsapevole, lo sguardo di un osservatore. Quando sulla scena la vista si trasforma in attenzione e colui che guarda diventa uno spettatore, l’occhio è orientato da una serie di elementi che solitamente si individuano per lo più in macro-elementi quali il testo, la scenografia, l’attore con il carico del suo dominio espressivo. In questo processo la luce, come realtà fisica trasversale, è investita di una responsabilità pari a tutte le componenti presenti nello spazio, fissata e veicolata in una immagine viva capace di imporsi come stupore. Si sottolinea così da un lato l’importanza del ruolo del progetto luci per la scena, luogo dove si incontrano il mondo della tecnica e quello dell’arte, in grado di agire sulle facoltà percettive dello spettatore; dall’altro la necessità di alimentare l’attenzione sull’argomento specifico sul versante degli studi teatrali.

Occorre però segnalare che la ricchezza degli esempi che gli autori riportano nelle pagine, sia sottoforma di citazioni di eventi artistici che nella veste di indicazioni bibliografiche contenute nelle note, testimonia un incremento dell’attenzione delle ricerche sulla luce condotte negli ultimi decenni. L’ampiezza dei riferimenti rende pertanto il volume particolarmente prezioso per il lettore interessato che, mentre entra nel vivo delle questioni volta per volta suggerite, entra in possesso di una mappa aggiornata dei contributi critici su scala internazionale. È però significativo che a tale aggiornamento facciano da sfondo testi e pratiche fondative, più volte evocate, dei padri del Novecento teatrale (quali George Fuchs ed Adolphe Appia, per citarne qualcuno), o di autori drammatici per i quali la luce è portatrice di senso nel suo essere anche buio e non il suo opposto (come il pluri-evocato Beckett). Esperienze, queste, che hanno fortemente direzionato un atteggiamento esplorativo, sperimentale, aperto ai linguaggi che, come un fiume carsico, giunge fino ad oggi.

L’immagine che complessivamente si staglia dal dialogo è quella di ‘paesaggio artistico’: si tratta di un’esperienza culturale e conoscitiva che include in termini di risorsa le alterità, le espressioni divergenti, le opposizioni, le anomalie. In questa estensione del concetto la luce attraversa e sostanzia il paesaggio, tessuto connettivo di un’esperienza comunitaria che accoglie la dialettica degli elementi nella dimensione del chiarore naturale, ‘luce condivisa’ alla quale si fa riferimento soprattutto in relazione ad originali esperienze nelle quali il percorso artistico guarda all’aperto, intessendo rapporti virtuosi tra teatro e natura, teatro e giardini (si veda a proposito la parte dedicata al Teatro Botanico pp. 168-183).

La voce finale, ARIA, chiude in maniera ideale il percorso con la consegna di una visione in divenire, lungimirante, di necessaria disponibilità. Gli autori producono infatti un’immagine bifronte nella quale la luce si impone come forza che sostanzia l’aria e questa, a sua volta, diventa energia propulsiva che direziona la luce.

Entrambe le dimensioni si distinguono, ancora una volta, per essere immateriali nella loro presenza totalizzante, confermando la scena come luogo attivo e, al contempo, spazio di libertà dove la luce è aria vitale. Alla densità delle riflessioni presenti nelle dodici sezioni, e alla suggestiva scelta della voce finale, si aggiunge il valore contingente del tempo di realizzazione del prodotto editoriale. Com’è chiarito nell’Introduzione, il volume prende forma definitiva durante i mesi asfittici del lock down, quando la possibilità di vivere a contatto della luce naturale e fare esperienza dell’aria hanno assunto la statura di un desiderio primario, quasi irraggiungibile.

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