L’irrefrenabile Savinio. Non solo musica e pittura. Visionario di una scena mitico-surrealista, scardinò il teatro borghese

Andrea Bisicchia, «Lo Spettacoliere».

Ad Alessandro Tinterri, che insegna Storia del teatro all’Università di Perugia, dobbiamo un libro fondamentale su Piandello capocomico, edito da Sellerio nel 1987, dove sono elencati, con relative distribuzioni, i cinquanta spettacoli realizzati al Teatro D’Arte, nelle Stagioni 1925-28, dove figurano autori come Massimo Bontempelli con Nostra Dea (22 aprile 1925), Alberto Savinio con La morte di Niobe (14 maggio 1925), Rosso di San Secondo con Marionette, che passione (29 giugno 1926).

Dei tre, Tinterri ha scelto di dedicare gran parte dei suoi studi a Savinio, curando, per Adelphi, i testi teatrali, i romanzi, le critiche raccolte in Palchetti romani, mentre con le edizioni del Mulino pubblicò una monografia (1993) che, in edizione riveduta e corretta, viene riproposta da Mattia Visani per Cue Press.
Anche questo fu, allora, un libro fondamentale, proprio perché c’era bisogno che qualcuno desse ordine a un autore un po’ disordinato come Savinio, la cui irrefrenabile fantasia spaziava tra generi diversi, ovvero tra musica, pittura, teatro, con incursioni nella scenografia e nella regia.

Per Tinterri, Savinio doveva ritenersi uomo di spettacolo, essendo, il palcoscenico, il luogo ideale dove potesse trovare approdo il suo multilinguismo. Tinterri si chiede, e me lo chiedo anch’io, perché la scena italiana, che pullula di autori improvvisati, non smetta di essere in ritardo su autori come Savinio, Rosso, Bontempelli, che costituiscono il meglio di quel periodo rivoluzionario che li vide muoversi con e attorno a Pirandello, con lo scopo di inserire il teatro italiano in una dimensione europea, contribuendo, non solo all’innovazione linguistica, ma anche scenica.

Per questi autori contava la parola, alla quale, specie per Savinio, spettava il compito di creare delle ‘visioni’ che l’attore doveva rivestire con voce e corpo. All’inizio del Novecento, si affermarono i movimenti avanguardistici, ai quali dette un contributo determinante il futurismo, un po’ meno D’Annunzio con i due Sogni, che tendevano, involontariamente, al simbolismo. Savinio, Rosso e Bontempelli, sotto la guida di Pirandello, cercarono di scardinare il teatro borghese, ma fu Savinio l’autore più avanguardista, avendo inserito la sua scrittura scenica in una dimensione mitico surrealista, tanto da mettere in crisi i suoi esecutori, come accadde a Strehler quando curò la regia di Alcesti di Samuele con attori non adatti a quel tipo di teatro, come Pilotto e la Brignone.

Tinterri ci racconta come e quando Savinio si era convertito al teatro, ma anche le vicissitudini di Capitano Ulisse, pronto per andare in scena al Teatro D’Arte, ma che dovette accontentarsi di una messinscena raffazzonata al Teatro degli Indipendenti di Bragaglia (1938) con la regia improvvisata di Nando Tamberlani. Bisognerà attendere il 1990, quando Pietro Carriglio, allora direttore del Biondo di Palermo, commissionò a Mario Missiroli la regia di Capitano Ulisse, che fu presentato come un vero e proprio classico, benché Missiroli si fosse lasciato prendere la mano, ricorrendo a generi diversi che, sul palcoscenico, fecero stridere alquanto.

Ne fummo testimoni io e lo stesso Tinterri. Sono, però, convinto che autori come Rosso, Bontempelli e Savinio, abbiano bisogno di grandi istituzioni teatrali o grandi compagnie per essere rappresentati. Lo capì Egisto Marcucci che con Emma B vedova Giocasta realizzò uno spettacolo esemplare, con Valeria Moriconi protagonista, con la quale realizzerà un altro testo, tratto da un racconto La nostra anima, che debuttò al Festival di Spoleto. Ma è giusto anche ricordare La partenza degli Argonauti, con la regia di Perlini e Il coturno e la ciabatta di Ida Omboni e Paolo Poli.

Poi, il silenzio.
Il volume di Tinterri potrebbe essere d’auspicio a nuove messinscene.