Una vita per il teatro del critico De Monticelli. Testimoniò l’evolversi dell’attore: dall’istrionismo all’avvento del regista

Andrea Bisicchia, «Lo Spettacoliere».

La ristampa di un libro come L’Attore, di Roberto De Monticelli (1919-1987), da parte di Cue Press, è uno stimolo, molto allettante, per ritornare a parlare di una figura controversa, ma necessaria, per fare teatro. Il libro uscì nel 1988, con prefazione di Odoardo Bertani, presso Garzanti. O oggi esce, aggiornato, con l’introduzione del figlio Guido, attore e regista, che ripercorre le tappe di chi concepì la critica, non solo come una professione, ma come una missione, iniziata negli anni Trenta, quando, ragazzino, si aggirava tra i camerini che sapevano di cipria e di muffa, seguendo il lavoro dei propri genitori attori, ultimata verso la fine degli anni Ottanta, quando, critico affermato, ritorna più volte sul luogo del delitto, ovvero sulla figura dell’attore, del suo percorso lungo e faticoso e delle sue trasformazioni tra il primo e il secondo dopoguerra.
De Monticelli era un critico sempre insoddisfatto, anche quando il teatro viveva un suo momento di splendore, dopo l’avvento degli Stabili. Se gli andava bene il teatro di regia, non gli andava bene il pubblico, quello degli anni Sessanta, del miracolo economico, un pubblico da parata, poco aggiornato, di tradizione borghese, indifferente a quel che di nuovo accadeva sulla scena, un pubblico che arrivava con macchinoni da dove uscivano donne impellicciate e ingioiellate che andavano a vedere le ‘prime’ della Morelli-Stoppa, della Proclemer-Albertazzi, della Falk-Valli-De Lullo o del mattatore Gassman, per fare sfoggio di sé, un pubblico industrial-mercantile, oltre che di professionisti che giocavano in Borsa. Eppure qualcosa si muoveva dato che, al Piccolo Teatro, era possibile ravvisarne un altro più impegnato, più intelligente, più aggiornato, capace di seguire i dettami di una critica che voleva essere una ‘guida’ diversa da quella che spesso si mostrava assurdamente encomiastica.
Questo pubblico è stato testimone dell’evolversi della figura dell’attore e dei suoi stili, da quelli naturalistici e mimetici, di una volta, a quelli che si adeguavano alle esigenze della regia critica, magari rinunziando alla propria creatività istrionesca, consapevoli di far parte di un progetto interpretativo comune, adattandosi, pertanto, alla forza maieutica di registi come Visconti, Costa, Strehler, De Lullo, Enriquez, Castri, Missiroli, fino a perdere una parte della propria identità, con il bisogno, successivamente, di recuperarla, quando, dopo il 1968, con l’avvento della seconda avanguardia, l’attore scopre il potere del corpo e del gesto, tipico della generazione degli anni Settanta, oltre che la necessità di ridurre al minimo il valore della parola, affidandosi alla espressività proveniente da discipline diverse, preferendo il significante al significato.
Il nuovo attore non è più quello del palcoscenico, bensì quello delle cooperative che preferisce portare il suo lavoro nei quartieri, nelle fabbriche, nelle strade, negli spazi anonimi di vecchi cinema abbandonati, o quello delle cantine che, proprio fuori dagli spazi organici, ritrova una nuova dimensione di sé. Direi che, in tutte le epoche di crisi e di trasformazioni sociali, si assiste all’alternanza tra attore di tradizione e attore di innovazione, tra attore che recita e attore che diventa animatore sociale, se non politico, generando quella confusione che si è estesa fino ai giorni nostri.
In questi momenti di trapasso, l’attore prende consapevolezza del mutamento della propria professionalità, meno propensa a rincorrere l’artisticità, più attenta a teatralizzare la vita, piuttosto che recitarla, il cui vero significato occorre ricercarlo altrove. Anche l’attore di oggi sta vivendo questo travaglio, che sa di filo spezzato, di crisi d’identità, dovuta, in particolare, al modificarsi degli arnesi del mestiere.
De Monticelli l’aveva individuato negli anni Settanta, anche se, un decennio dopo, nel 1982, sulle pagine del «Corriere della sera», pur con il suo solito scetticismo, riporta al centro della scena la figura dell’attore ‘guida’, non più ‘santo’, non più di strada, bensì l’attore reclamato a forza dal pubblico, stanco della non professionalità, della frammentazione, che vuole essere catturato dal suo istrionismo, che chiede garanzie e sicurezze.
De Monticelli avverte dei rischi, in questa volontà di recupero, dovuti all’attenuarsi del magistero registico e alla necessità di un giusto equilibrio tra teatro d’attore e teatro di regia.
Questo libro va consigliato alla nuova generazione, quella del terzo millennio, che ha scelto di fare teatro, quella che ha smarrito la potenza della professionalità, con un enorme costo da pagare, soprattutto, quando volere essere ‘diverso’ è conseguenza di limitazioni e di inconvenienze. Ma ancora più necessario per chi, in questo momento, vivendo, orfano del teatro, si trova in scena alquanto solo e smarrito.
Ho sintetizzato lo spirito del libro, dove, però, è possibile trovare una galleria di ritratti dedicati agli attori di ieri e di oggi, quelli della generazione di De Monticelli che ha seguito, con spirito missionario, fino al giorno della sua morte.

vedi anche: