Da Vienna a Hollywood: la lanterna di von Sternberg
Gianni Santamaria, «Avvenire»
Avventure in una lavanderia cinese è l’autobiografia del regista che lanciò la Dietrich
Dal cinema muto al gangster movie, fino al declino dopo il 1945
Una riflessione dall’interno sull’arte e l’industria del film
Quello tra il regista Josef von Sternberg e il cinema è stato un vero e proprio colpo di fulmine. Mentre a 17 anni girava per New York in cerca di lavoretti per sbarcare il lunario, infatti, fu colto da un improvviso acquazzone. Rifugiatosi sotto un ponte, dovette aiutare una ragazza, svenuta quando una saetta si era abbattuta su un albero vicino. La accompagnò, poi, a casa di un amico di lei, che ci tenne a mostrare al soccorritore il suo lavoro: il seminterrato era occupato da un marchingegno che serviva a ripulire e a rivestire con una sostanza protettiva delle pellicole cinematografiche usurate. Iniziò così a collaborare a quest’opera e venne in contatto con l’industria cinematografica, dove fece tutti i mestieri fino a esordire una decina di anni dopo con un film auto prodotto, The Salvation Hunters, stroncato da alcuni critici, ma da altri considerato il primo film simbolista della storia.
Si apriva così una carriera che avrebbe visto il cineasta austro-americano diventare invece un maestro del realismo, attraversare il passaggio dal muto al sonoro, ricevere l’aiuto di Charlie Chaplin, dirigere grandi attori dell’epoca come Emil Jannings e contemporaneamente lanciare nello star system nuovi volti, uno su tutti quello di Marlene Dietrich, che diresse nel celebre L’angelo azzurro (1930) girato in Germania e tratto dal romanzo Professor Unrat di Heinrich Mann. Tutto questo – e molto altro – si ritrova nelle memorie di von Sternberg, ora disponibili in italiano con il titolo Avventure in un lavanderia cinese (Cue Press, pagine 236, euro 29,99) con una prefazione di Goffredo Fofi, recentemente scomparso, che definisce il regista, tra quelli della prima metà del Novecento, «uno dei piò originali e con più radici nella cultura dell’ultimo Ottocento».
Già il titolo rimanda a Fun in a chinese laundry, protofilm realizzato nel 1894 dallo scienziato Thomas Alva Edison, che Sternberg rievoca come inconsapevole stella polare che lo ha guidato dalle ristrettezze della sua infanzia asburgica al successo americano nell’arte della Decima musa. In queste memorie, che sempre Fofi definisce «spavaldamente ‘decadenti’ e sincere», c’è infatti anche il racconto vivo delle esperienze di un bambino vissuto in ristrettezze, ma non senza gioie nei grandi spazi aperti del Prater e dei viali viennesi. Emigrato negli Usa a sette anni, per ricongiungersi con il padre, un nobile decaduto che aveva inseguito il sogno americano, lo ritroviamo vagabondo alla Charlotte nella megalopoli di sette milioni di abitanti in cerca di lavori manuali. Avrebbe potuto dormire nei cinema, ma allora – lamenta – non erano aperti tutta la notte. Come poi accadde, ironia della sorte, dal 1927 grazie al successo del suo Le notti di Chicago (film muto che è considerato l’antesignano del genere gangsteristico), che costrinse i gestori di un cinema all’apertura 24 ore su 24 per la prima volta nella storia.
C’è, infine, il regista affermato – la cui parabole, però nel secondo Dopoguerra era in declino – che riflette sulla magia del cinema, sui suoi strumenti come la macchina da presa, la penna del regista, su cui von Sternberg scrive un vero elogio, andando fino alle sue radici nella «lanterna magica» del gesuita seicentesco Athanasius Kircher. Molto accentuati i riferimenti alla materialità del cinematografo, prima ancora che al «contenuto» del film, atteggiamento comprensibile in chi per anni ha maneggiato pellicole e poi ha deciso di «guardarci dentro». Senza nostalgie del passato il regista passa in rassegna il mito del cinema che era muto, ma non silenzioso, vista la presenza di musiche che spesso non c’entravano niente con il film ed erano suonate da un pianista «esperto di jujitsu».
Tantissimi i ritratti che von Sternberg offre. Innanzitutto di persone e luoghi incrociati e poi immortalati nelle sue pellicole: dal severo maestro della scuola ebraica viennese finito ne L’angelo azzurro, alla bettola del Bowery che appare in Venere bionda (1932), al signor Kamenetzky che nella vita reale gli dava da vendere porta a porta articoli di bigiotteria e che in Misteri di Shanghai (1941) diventa cassiere di un casinò. Non mancano «camei» sui colleghi: su tutti Chaplin, poi quelli venuti – come lui – dal mondo germanofono.
Da von Stroheim, costretto a fuggire da Hollywood in Francia, inseguito dalla fama di essere incline ai budget faraonici e dittatoriale sul set: licenziò un attore perché si era rifiutato di essere ‘sfiorato’ da un lanciatore di coltelli. O Murnau, che riparò a Tahiti. E poi francesi e russi passati per gli studios, come Maurice Torneur o Sergej Eisenstein, al quale era stata affidata la riduzione per lo schermo di Una tragedia americana di Theodor Dreiser, poi realizzata da von Sternberg. Episodi da cui emergono le difficoltà e gli inevitabili compromessi degli artisti con il sistema industriale. Della Dietrich viene ricordato, tra l’altro, il provino per il film che la lanciò, al quale si presentò impreparata (ma lui aveva già deciso di prenderla).
«L’ho inserita poi nel crogiolo della mia idea, fuso la sua immagine perché corrispondesse alla mia e, regolando le luci finché non c’è stata alchimia totale, sono andato avanti».
L’attrice fu contenta e non chiese di rivedere la prova.
«Era stata incanalata una sorprendente vitalità».
Come in un colpo di fulmine.

