Dal Teatro Documento al Teatro Documentario: la scena come costruzione del reale
Andrea Bisicchia, «Libertà Sicilia»
Nel volume Teatro documentario, uno sguardo sociologico di Paulina Sabugal (Cue Press), un viaggio tra memoria, sociologia e nuove forme di rappresentazione
Il volume Teatro documentario, uno sguardo sociologico, di Paulina Sabugal, ricercatrice presso il DAMS di Bologna, edito da Cue Press, ci induce ad alcune riflessioni, in particolare, a quella sulla differenza tra «Teatro Documento» e «Teatro Documentario», oltre che sulle nuove modalità di rappresentazione che riguardano questi due ‘generi’.
Allora, cerchiamo di capire perché il «Teatro Documento» visse un periodo di splendore negli anni Sessanta, mentre il «Teatro Documentario» sta vivendo un suo particolare momento solo nel terzo millennio, grazie soprattutto al lavoro di Milo Rau e ad alcune Compagnie internazionali, come quella del gruppo messicano Lagartijas Tiradas al Sol, guidato da Lazaro Gabino Rodriguez, presente al Festival Life, organizzato a Milano da Zona K, che l’autrice ha lungamente intervistato, intervista integrata nel volume di cui ci stiamo occupando.
Al «Teatro Documento» appartiene un numero elevato di spettacoli, allestiti tra il 1960 e il 1980, non può dirsi altrettanto per il «Teatro Documentario», che vanta alcuni titoli importanti di cui riferiremo. Il loro fine è quello di portare in scena testi costruiti su materiali originali di documentazione, ovvero: epistolari, notizie di cronaca, servizi giornalistici, fotografie, video, ai quali vanno aggiunti testimonianze dirette di partecipanti agli eventi che, a loro volta, diventano essi stessi interpreti nel «Teatro Documentario».
Per quanto riguarda il «Teatro Documento», alcuni allestimenti del Piccolo Teatro e del Teatro Stabile di Genova, sono impressi nella nostra memoria, mi riferisco a L’Istruttoria di Peter Weiss che, proprio in quella occasione, scrisse:
Teatro Documento si astiene da qualunque invenzione, si appropria di materiale autentico e lo ripropone attraverso il palcoscenico, immutato contenutisticamente, ma elaborato nella forma.
Ricordo un Palazzetto dello Sport strapieno, un allestimento, con la regia di Virginio Puecher, di cui rimanemmo colpiti, non solo per la novità della messinscena che utilizzava uno schermo gigante, immagini e video originali riguardanti la tragedia dell’Olocausto, che, per noi giovani spettatori, si trasformò in un vero e proprio processo alla Storia.
Altri spettacoli, come Il caso J. R. Oppenheimer, sulla bomba atomica, o Il fattaccio di giugno, sull’assassinio Matteotti, fecero parte del «Teatro Documento».
Non fu da meno lo Stabile di Genova al quale dobbiamo alcuni capolavori da ascrivere al «Teatro Documento», come Cinque giorni al porto, sul primo sciopero generale che coinvolse i portuali di Genova, un grande allestimento, con la regia di Squarzina, che fece onore a questo genere di teatro.
C’è da dire che i testi, pur costruiti su documenti veri, avevano la struttura del dramma, trattandosi di testi che venivano subito pubblicati da case editrici come Einaudi o direttamente dal teatro produttore.
Mi limito a questi esempi per dimostrare come «Il Teatro Documento» avesse degli innesti diversi che provenivano dal «Teatro Politico», dall’«Agit Prop», innesti che ritroveremo nel «Teatro di Narrazione» quando utilizza materiale cronachistico, immagini reali, come quelli che certificarono la catastrofe del Vajont, diventati materiale princeps nel famoso spettacolo di Paolini.
Allora, l’interesse sociologico non fu determinante, mentre per «Il Teatro Documentario» lo è, tanto che la ricerca di Paulina Sabugal insegue dei modelli di studio che fanno capo a due grandi sociologi: Erving Goffman, autore di La vita quotidiana come rappresentazione, e a Richard Sennett, autore di La società del palcoscenico, performance e rappresentazione in politica, nell’arte, nella vita.
Entrambi fanno da guida alla ricerca sul «Teatro Documentario» di Pauline Sabugal che utilizza gli strumenti della sociologia per meglio capire le dinamiche che stanno dietro le performance che appartengono a questo genere, il quale si differenzia dal precedente, perché i testi nascono dal contatto diretto con i luoghi e i protagonisti degli eventi raccontati e che, a loro volta, diventano testimoni, oltre che attori involontari della piece.
I modelli sono alcuni testi di Milo Rau come Oreste a Mosul e Antigone in Amazzonia, visti anche in Italia, dove sul «Teatro Documentario» opera la Compagnia Kepler 452, il cui spettacolo A place of safety può essere iscritto a questo genere.
Altro elemento importante, riscontrato dall’autrice, è il modo con cui il «Teatro Documentario» ha decostruito la narrazione, da intendere non più come riproduzione di un evento, ma come costruzione dell’evento stesso, attraverso la teatralizzazione di una esperienza personale, che diventa essa stessa documento.
Il volume contiene una Prefazione di Roberta Paltrinieri e una attenta iconografia.
