Logbook
Approfondimenti, interviste, recensioni e cultura: il meglio dell’editoria e delle arti da leggere, guardare e ascoltare.


Dai grandi ai piccoli Festival. Qual è la loro vera funzione?
Siamo reduci dal Festival di Santarcangelo, quest’anno sotto la direzione del polacco Tomasz Kirenczuk, che, tra rito e documento, ha cercato di dare una svolta a un Festival che, per anni, era stato punto di riferimento anche per i critici dei grandi quotidiani che ormai da tempo lo disertano, come disertano altri Festival un tempo importanti.
Ci sarà un motivo? Si fa presto a dire che i Festival risentano la stessa crisi dei teatri istituzionalizzati, ai quali, spesso, si affidano, per non scomparire del tutto. In verità, si tratta di una crisi di identità e, di conseguenza, di progettazione; ma si tratta, anche, di una crisi di creatività, la stessa che, da sempre, ha caratterizzato l’avventura di un Festival. L’argomento fu trattato in un Seminario svoltosi, nel 2018, al Teatro Metastasio di Prato, del quale, con molto ritardo, sono stati ora pubblicati da Cue Press gli Atti, col titolo La funzione culturale del Festival, a cura di Edoardo Donatini e Gerardo Guccini. Moltissimi erano stati gli ospiti, da Andrea Nanni a Velia Papi, da Luca Ricci a Maddalena Giovannelli, Graziano Graziani, Roberta Ferraresi, da Fabio Masi a Fabio Acca, da Massimo Marino a Barbara Regondi, tutti disposti, come si vede anche dall’iconografia presente nel volume in senso circolare, come se partecipassero a un’Agorà, tutti attenti a raccontare le proprie esperienze, le proprie visioni, impegnandosi a dare una diversa lettura di cosa debba intendersi, oggi, per Festival, senza limitarsi a semplici definizioni lessicali.
Le domande, a cui hanno cercato di dare delle risposte vertevano sul senso di un Festival nel terzo millennio inoltrato, sul rapporto col pubblico, sia delle comunità locali sia di quello che viene da lontano, sui concetti di multidisciplinareità, di transdisciplinarietà, di trasversalità, ormai alquanto logori, sulla loro utilità per una nuova generazione di artisti, sulla crisi attuale, dovuta a fattori diversi: assenza di provocatorietà e di controcultura, dato che tutto si limita, ormai, a una programmazione raccogliticcia, con i soliti amici; sull’assenza di quella volontà di ricerca che, nel passato, li aveva caratterizzati, tanto che la domanda spontanea che ne consegue è: che ruolo culturale possono avere ancora i Festival e in che modo possa essere giustificata la loro presenza. Se la ricerca, si fa per dire, tende a una particolare forma di istituzionalizzazione, questa finirà per rinunziare alla sua carica eversiva e a quel senso di rivolta che dovrebbe caratterizzare i piccoli Festival per distinguerli dai grandi, come quello del Teatro Greco di Siracusa, di Spoleto, di Roma Europa Festival, di Napoli, che possono usufruire di ingenti sovvenzioni intorno ai venti milioni di euro, messi a disposizione dallo Stato e dalle Regioni. Insomma, i piccoli non dovrebbero guardare i grandi e scimmiottarli; debbono rimanere degli avamposti, con una ferrea vocazione alternativa, debbono diversificarsi ed esprimere una loro eccezionalità e necessità, debbono liberarsi dagli ostacoli prodotti da interessi politici, dagli assessori o sindaci che ritengano anche un piccolo Festival un’occasione turistica. Quella, per esempio, richiesta a Scena Verticale, unica realtà calabra, che ha sempre costruito un Festival dove era possibile incontrare ancora critici dei grandi quotidiani. I piccoli non hanno i numeri dei grandi Festival, non hanno margini economici per incrementare il turismo. Allora, come fare per evitare la trasformazione di un luogo adibito a Festival dal diventare un ghetto?
Dal momento in cui non hanno mercato, non hanno consumi, non percepiscono profitti, in che modo possono sottoporsi al concetto di mercificazione indicato dagli assessori di turno? Eppure una volta i Festival erano degli osservatori importanti, si caratterizzavano per una loro sostenibilità culturale e sociale, persino per aver dato un senso al concetto di festa, laico o religioso che sia — vedi la parabola discendente del Festival di San Miniato — anche perché, nello svilimento nazionale, persino il concetto di festa si è immiserito.
Bernard-Marie Koltès, Lettere
«Ho scoperto il dramma della mia vita: sono scisso tra il sogno di una vita comoda – con una biblioteca, una trapunta, un quartetto d’archi, la vista sul paesaggio – e violente visioni metaforiche, come una scala maya che sale vertiginosamente, sotto una luna piena».
Questo estratto epistolare di Bernard-Marie Koltès, datato 1878 e scritto da Città di Guatemala, è ora pubblicato nel prezioso e importante volume Lettere, a cura di Stefano Casi, che ne contiene cinquecentotrenta, spedite a genitori (soprattutto alla cara madre), parenti, amici e (poche) alle istituzioni, in un arco temporale compreso tra il 1955 e il 1989.
In una lettera del 1970 a Maria Casarès, prestigiosa attrice francese, scriveva: «alla vigilia di una vita che voglio consacrare al teatro, è necessario commettere un atto ambizioso, spontaneo, anarchico forse, libero dagli imperativi esterni della vita professionale, poetico insomma». È l’inizio della luminosa carriera del giovane drammaturgo che, esaurita l’esperienza con la compagnia Théâtre du Quai da lui stesso fondata, compone una serie di commedie destinate a dargli respiro internazionale, tra le quali La notte poco prima della foresta, interpretata da Yves Ferry al Festival Off di Avignone nel 1977 e poi proposta al Festival di Edimburgo (1981), Sallinger, tratto dai racconti di J. D. Salinger (1977), Lotta di negro contro cani (1978), Nella solitudine dei campi di cotone, (1985) che sarà diretto da Patrice Chéreau, fino all’ultimo Roberto Zucco, pièce liberamente ispirata al serial killer italiano Roberto Succo.
Di queste commedie antinaturalistiche e antipsicologiche, caratterizzate da dialoghi animati da personaggi antieroici, nelle lettere, tradotte con maestria da Giorgia Cerruti, si parla poco. Dominano invece i tanti viaggi di Koltès, bohémien maledetto, frenetico e smanioso, omosessuale, colpito dall’AIDS a soli 41 anni, soprattutto sostenitore di una vita «violenta» di pasoliniana memoria («non desidero che una cosa: di correre dei rischi»). Le lettere, di carattere informativo e narrativo, colpiscono per la delicatezza, l’umorismo, la sincerità, l’autoironia e il pudore.
Come nella scrittura drammaturgica, nelle missive abbondano luoghi e ambienti, a partire da Metz, dove Koltès nacque nel 1948, e da Strasburgo, frequentata da giovane, per continuare con la controversa Parigi, vissuta con amore e diffidenza, fino al paesello di Pralognan, in Savoia, dove i Koltès possedevano uno chalet. E poi ci sono i viaggi oltre confine – con lo zaino in spalla, pochi soldi e sistemazioni precarie – che portano, nel 1968, Bernard-Marie in Canada, a Washington e a New York («è davvero come nessun’altra città al mondo») e a Mosca, dove vive «un connubio di silenzio terribilmente pesante, rumori, agitazione, voci agli autoparlanti, che danno una sensazione continua di allerta e di guerra».
Nel 1978 compie un viaggio in Nigeria ed entra in contato con i cantieri di una multinazionale. L’esperienza è destinata a lasciare un segno indelebile: matura una sorta di razzismo «alla rovescia», che diventa avversione dichiarata al «bianco» in quanto reo di cieco sfruttamento del «negro», avvalorando, in questo modo, anche l’ideologia anticapitalistica sviluppata come militante del Partito Comunista. Splendide risultano anche le lettere inviate dall’America Latina, visitata sempre nel 1978, con soste nella solare Città del Messico e a Nicaragua, «una città in stato di guerra un po’ terrificante, molto cara e devastata».
Il penultimo viaggio è datato 1985, in Brasile: dalla spiaggia di San Paolo, «dove stanno tutti i miliardari del continente», annota «l’impossibilità di mettermi in costume dea bagno, di nuotare e di sdraiarmi sulla sabbia, e con piuttosto la voglia di rinchiudermi in una sala d’albergo e non vedere più niente». L’ultima trasferta è a Barcellona, nel marzo 1989. Scrive ai fratelli: «In God we trust. Do we?».
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Bob Wilson in Italia, Giacobbe e la costruzione di una memoria che manca
Quale funzione può avere il ritratto di un regista teatrale texano ottantantunenne che ha lavorato per molti anni in Italia? È questa la domanda che ha posto il giornalista Franco Cicero nell’introdurre il critico teatrale Gigi Giacobbe alla presentazione della sua ultima fatica, Bob Wilson in Italia, edito dalla Cue Press, sabato scorso nello spazio della strada S. Giacomo, ospiti nel dehor della Cucchiara. La risposta è meno ovvia di quanto si possa pensare, se, come ricordava lo stesso Cicero, ci si scandalizza per un rapper milanese, Fedez, che ignora Strehler. Semmai la domanda dovrebbe essere, più semplicemente, cosa si è fatto perché Fedez conoscesse Strehler? Ecco allora che il lavoro di Gigi Giacobbe, un excursus trentennale attraverso le produzioni di Bob Wilson in Italia, seguite pedissequamente e coronate da riflessioni, articoli e interviste, trova una sua collocazione importantissima nella costruzione di una memoria che ai nostri giovani manca. Perché Wilson, come Strehler, non si studia a scuola.
Il ruolo, dunque, di Bob Wilson in Italia è quello di riempire un vacuum nella storia teatrale e culturale, perché finora in Italia ci si era occupati poco del grande regista, o perlomeno c’è stato un interesse di nicchia. Ma l’intento assume anche una forte connotazione comunicativa grazie a Gigi Giacobbe, che non si è mai risparmiato nella divulgazione culturale a tutto tondo, e in particolare in quella teatrale, nel corso della sua esperienza di critico teatrale. Il dialogo con Wilson, sempre mediato dagli interpreti occasionali, dando luogo a una serie di aneddoti gustosamente raccontati da Giacobbe, sembra quasi intimo e soprattutto si allarga sempre su un orizzonte che da intimista diventa universale, toccando la sfera privata (le preferenze e i gusti del regista, le sue esperienze, i suoi pensieri) per arrivare alla sua idea di teatro, alla sua visone dell’arte, alle commistioni fra i generi teatrali.
Tutto quel che Giacobbe racconta, vive attraverso le righe scritte, forte di immagini, suoni e colori raccontati da Wilson, vissuti da Giacobbe critico ma, soprattutto, spettatore. E, d’altra parte, dell’importanza di vivere il palcoscenico, sopra, dietro e non solo davanti per poter capire appieno il teatro, è convinto anche il prof. Dario Tomasello, intervenuto alla presentazione e promotore della pubblicazione proprio perché consapevole della peculiarità dello scritto e della rilevanza del contenuto. Per Tomasello il teatro è presenza, molto più di quanto possano prevedere altre forme d’arte come il cinema, la letteratura, la musica; e da docente ai suoi universitari consiglia sempre di partecipare attivamente (e quindi non solo da spettatori passivi) alla messa in scena di uno spettacolo. Il teatro, per dirla con Wilson, è il compendio di tutte le arti. A teatro coesistono arte, architettura, musica, letteratura e nell’ultimo secolo anche fotografia e cinema. Non stupisce dunque che il militante Giacobbe riesca a catturare preziose informazioni dal regista non prima o dopo, ma durante la messa in scena, spesso nell’intervallo. Quasi ad avvalorare la necessità di un discorso in itinere che è dentro la messa in scena. Anche la presentazione del libro, affatto noiosa, è stata intervallata dalla lettura di alcune pagine da parte dell’attore Gianfranco Quero, perché la discussione – come in una mise-en-scène – s’intrecciasse ancor di più col teatro.
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È nei Quaderni di regia l’origine del suo stile unico
C’erano, una volta, le «Note di regia», che generalmente accompagnavano i «Quaderni di Sala» di uno spettacolo e che cercavano di spiegare quanto accadesse sul palcoscenico, ben diversi dai «Quaderni di regia» che riguardano il lavoro sul testo, con tutti i possibili ripensamenti, riscritture, cancellazioni e revisioni da parte degli autori. In questi casi, per dare ordine a quella che dovrebbe essere l’edizione princeps, occorre un lavoro specifico che appartiene solo al filologo, il cui compito consiste nel restituire il modello originario.
L’editore Cue Press ha appena pubblicato, in due volumi separati, curati di Luca Scarlini, i Quaderni di regia di Aspettando Godot e Finale di partita, con tutte le correzioni fatte da Samuel Beckett, in gran parte autografe, a dimostrazione di come la storia di un testo teatrale non sia altro che la storia delle sue interpretazioni, non solo critiche, ma anche testuali. Tanto che quella che potrebbe sembrare l’ultima stesura è, in fondo, una versione diversa dalla precedente. Grazie a queste pubblicazioni, i giovani registi che intendano portare in scena i due capolavori, potranno usufruire di un vero e proprio laboratorio, fatto di molteplici varianti, di approfondimenti, di nuove versioni delle battute, di tagli, di piccole modifiche e persino di annotazioni sui movimenti, sulle luci, sulle didascalie, per pervenire a quella che dovrebbe essere la fase finale del processo creativo.
Beckett aveva capito – come a suo tempo aveva capito Luigi Pirandello – che allestire un testo è diverso che scriverlo, perché, oltre che alla parola, bisogna stare attenti ai movimenti, al passaggio da una scena all’altra, a evidenziare il contrasto tra parole e gesti, a creare simmetrie e opposizioni, tutti elementi che appartengono al linguaggio della scena.
A guardare i testi, così come ci vengono proposti, con le edizioni critiche di James Knowlson e Dougald McMillan, per quanto riguarda Aspettando Godot, e di Stanley E. Gontarski per quanto riguarda Finale di partita, appaiono evidenti le scelte registiche di Beckett, che alternano l’elemento clownesco con quello filosofico, la comicità umoristica con la tragicità che sta dietro di essa. Attraverso il filtro della regia, Beckett era riuscito a dare nuova vita ai suoi testi, tanto che il pubblico di Berlino, dove erano andati in scena nel 1975, allo Schiller Theater, rimase impressionato dalla profondità della messinscena, avendo assistito a una regia intesa non certo in senso tradizionale. Negli anni Ottanta, su richiesta del San Quentin Drama Workshop, Beckett curò una nuova regia, con altre annotazioni, presenti nei due volumi: i milanesi poterono vedere lo spettacolo, nel 1984, al Teatro Pier Lombardo, oggi Franco Parenti, e partecipare, numerosissimi, a un rito insolito, perché si respirava una grande emozione.
Finale di Partita, il testo più filosofico, fu maggiormente suscettibile di cambiamenti, di ripensamenti, data l’universalità dei temi trattati, come il dolore, la solitudine, l’emarginazione, la cecità come metafora, il rapporto tra finito e infinito, tra vita e morte, a dimostrazione di come ogni messinscena risenta delle tante circostanze variabili che rendono sempre differente l’interpretazione di un testo.
Wipes dream away with hand
In our many conversations over the years, Samuel Beckett was always reluctant to discuss the meaning and philosophy behind his work, preferring to stand on the principle of no exegesis where none intended. When pressed, he would talk about the genesis of individual plays and about production and performance. As it turns out, production and performance were central to his concept of his art. Years after he began writing plays, he became an active participant in the theatrical process and a consummate director of his own work. What began as an act of utmost privacy reached into the rehearsal room, where the author, watching actors play his roles, would distill and clarify his plays.
While directing his plays in Germany and England, Beckett kept production notebooks, which are being published in facsimile form together with his final revised texts of the plays. The first volumes of The Theatrical Notebooks of Samuel Beckett deal with Endgame and Krapp’s Last Tape. The notebook on Waiting for Godot, though labeled Volume One, is scheduled to be published in England this spring, and a book on the shorter plays will follow. Beckett himself was actively involved in the project, in the case of Endgame and Krapp’s Last Tape going over the text line by line with the editors. With the publication of the notebooks, we now have a more authoritative view of both the art and the artist.
S. E. Gontarski, the editor of the Endgame notebook, says, «Beckett discovered that theater allowed him to paint (or sculpt), that is, to work directly with form». As is abundantly clear from these volumes, Beckett’s art underwent a continuing evolutionary process. Just as museum conservators use infrared instruments to study paintings and to reveal underlying aspects of an artist’s creative process, James Knowlson — who is the general editor of the series as well as the editor of the Krapp’s Last Tape volume — and Mr. Gontarski use their infrared scholarship to uncover the pentimento behind the plays.
The editors, both of whom are Beckett scholars, decipher Beckett’s handwriting (in English, French and German) and even read beneath his erasures. The texts are densely documented and footnoted, an approach that could have led to a dissection of minutiae. Instead, it leads to illumination.
Although directors have published production logbooks, it is rare that a playwright provides such material. Beckett’s notebooks bring us closer to the author’s mind and, tangentially, to his life. We can see his careful, deliberative method and his serious concern for structure. Those who think of him solely as an intuitive artist will be surprised at the meticulous quality of his writing, self-editing and rewriting. At the same time, it is evident that he was neither dogmatic nor didactic. As Mr. Knowlson says in a prefatory note, «The material reveals a flexibility and an openness of approach that is often considered alien to Beckett’s ways of working in the theater.» Appropriately, the editor views the plays as a «living organism», not as works cast in stone.
Although Beckett wanted to protect his work from deconstructionists, he allowed for a certain amount of directorial (and actorial) interpretation, his own as well as that of others. The journals offer Beckett in purest form, with an added aspect of mystery, of literary sleuthing, as the editors lead us into the intricacies of the author’s choices. We might be sitting next to Beckett as he explores and learns about his work.
Some of the material in these volumes has been previously available in books like Beckett in the Theater, by Dougald McMillan and Martha Fehsenfeld, and Mr. Knowlson’s Theater Workbook on Krapp’s Last Tape. The current publication brings together a wealth of information in a finely detailed and highly readable format. These notebooks add to the expanding Beckett library, which now also includes the early, previously unpublished novel Dream of Fair to Middling Women. That book, published late last year in Dublin, is scheduled to be brought out here by Arcade Publishing in the spring.
So many of the alterations in the plays derive from Beckett’s impatience, his apparent urge to make the performance flow more swiftly and precisely. Dialogue is cut and actions are added. In the revised Endgame, Clov the servant is more physically active; Hamm the master yawns less. In his stage directions, Beckett specifies more clearly the moods and reactions of his characters while also stressing the significance of aural and visual imagery as well as of motifs. Both plays seem funnier, though less clownish. Hamm is no longer described as having a very red face, and Krapp does not have a purple nose or trousers that are too short. There is more attention to Krapp’s attachment to his tape recorder and less stage business with bananas. The title character does not sing Now the Day Is Over, because Beckett felt the singing was self-conscious. These changes are part of a larger scheme in which Beckett analyzes the intimations he has aroused and communicates them more evocatively to the audience. In all respects, he expands the dimensions of his theater.
Beckett said that the line «Nothing is funnier than unhappiness» was the most important sentence in Endgame. Reading the author’s notebook, one can see an increasing emphasis on the play as a comedy of pessimism, with the comedy contradicting the dourness of some productions by other directors. Similarly, in Krapp he pointed to the line «The earth might be uninhabited» as pivotal. That line denotes Krapp’s abject isolation, his «incarceration in self», as a man unable to escape his past and equally unable to comfort himself in the present. Krapp is, in Beckett’s words, a «dream-consumed man». Although most of Beckett’s changes were made for clarity, in at least one instance he was moved by discretion. In Endgame, Hamm originally said, «I feel a little queer». At the request of the actor Patrick Magee, Beckett changed «queer» to «strange».
The book on Krapp is particularly instructive, because the play is so brief, self-contained and autobiographical. It is also the play with which Beckett was most involved in production. A scant eight pages in the present edition, Krapp is parsed in the editor’s notes for every undercurrent. It is one of the few Beckett pieces inspired by an actor, in this case Magee. Drawn by his mellifluous voice, the author initially referred to the play as «Magee Monologue». Beckett was also drawn by his own curiosity about the tape recorder, realizing that he could use it as a mechanical equivalent of a photographic album, as a way to transport the character back to his past. That tape recorder could have proved to be a problem in performance; the actor playing the title role has to turn it on and off, forward and backward, exactly on cue. The machine, we are told, is generally operated by an offstage assistant and not by the actor onstage.
There is a triple-edged quality to the reflections as Krapp at the age of 69 listens to himself at 39 commenting on his even more youthful self. Two scenes are crucial to an understanding of Krapp. An epiphany is experienced by the character (as it was in life by Beckett) standing at night on the jetty at Dun Laoghaire and witnessing a life-transforming «memorable equinox». Listening to the tape conjuring that event, Krapp now has a «violent reaction». Equally important is the boating scene, in which the speaker recalls a single romantic interlude and bids «farewell to love». In the revised version, Krapp «wipes dream away with hand, broods, shudders». Throughout the revisions, made over a period of years, Beckett underlined the play’s three primary themes, «solitude, light-darkness and woman» – and in Endgame, depletion and deterioration. And in a curious personal note, for one production of Krapp Beckett brought in his own bedroom slippers for the actor to wear. He wanted him to have the proper shuffle.
In his notebooks, Beckett assiduously warns against stylization and sentimentality. As he said during a production of Endgame: «I would like as much laughter as possible in this play. It is a playful piece». An observer interpreted this as meaning «laughter of his characters, not the audience’s amusement», though, of course, one would lead to the other. Directors of Endgame and Krapp’s Last Tape would certainly benefit from using The Theatrical Notebooks as production guides. They are invaluable maps of Beckett country.
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Revisioni, pentimenti e correzioni. I Quaderni di Beckett. E le esperienze di Pirandello, Eduardo, Fo
Sulle pagine di questo giornale, ci siamo occupati dei Quaderni di regia di Beckett, a proposito di Aspettando Godot, un lavoro certosino, di profondo impegno filologico, il medesimo che contraddistingue la pubblicazione dei Quaderni di regia di Finale di partita, a cura di Luca Scarlini, edito da Cue Press. Si tratta del testo più filosofico di Beckett e, in quanto tale, del più suscettibile di cambiamenti, aggiunte, revisioni, cancellazioni, data anche l’universalità degli argomenti trattati, come il dolore, la solitudine, l’esclusione, la cecità metafisica, il rapporto con l’infinito e quello tra vita e morte.
Un fatto è certo, per chi volesse mettere in scena, in futuro, i due capolavori di Beckett, non potrebbe fare a meno di confrontarsi con questi Quaderni di regia, benché esistano delle versioni originali alle quali in parecchi hanno attinto precedentemente. Spetterà, pertanto, ai nuovi registi poter scegliere, consapevoli del fatto che ogni messinscena risenta delle circostanze variabili che rendono l’interpretazione di un testo sempre differente. Beckett ne divenne consapevole nel momento in cui decise di diventare regista di se stesso, quando, cioè, si accorse della assoluta autonomia dello spazio scenico rispetto a quello della scrittura.
Il volume è preceduto da una Nota al progetto editoriale di James Knowlson, da una prefazione di Stanley E. Gontarski che è anche autore dell’edizione critica, ottimamente curata da Luca Scarlini.
Cosa ci insegnano le edizioni critiche? Che il lavoro creativo non ha mai una sua stabilità, in particolare quello del teatro, sempre soggetto al parere del pubblico, ed è quindi in continua evoluzione. Se ne accorse Pirandello dopo i fischi alla Prima dei Sei personaggi (1921), su cui intervenne nell’edizione del 1925, se ne accorse Eduardo che, quando non sentiva ridere il pubblico, metteva subito mano al testo, per non parlare di Dario Fo che riscriveva le battute in perfetta sintonia con le reazioni del pubblico. Forse i suoi testi sono quelli che contengono più varianti, in questo è molto simile a Beckett, benché, in una lettera scrivesse: «Il teatro è più rilassante per me che vengo dalla narrativa», sembrano le stesse parole che Pirandello scrisse al figlio Stefano, dopo il debutto complicato del Berretto a sonagli, interpretato da Angelo Musco: «Finalmente posso ritornare alla narrativa», aveva, infatti, momentaneamente messo da parte: Uno, nessuno e centomila.
L’invito a Beckett di dirigere Finale di partita arrivò nel 1967, dallo Schiller Theater di Berlino, dieci anni dopo il debutto al Royal Court di Londra, con la regia di Roger Blin, con cui Beckett si era congratulato.
Gontarski, nella prefazione, riporta qualche lettera e ricostruisce lo stato d’animo dell’autore e del regista che ammette: «Quando l’ho scritta non sapevo nulla di teatro». Sembra che, nel momento in cui iniziò le prove di Finale di partita, Beckett avesse memorizzato tutto, comprese le didascalie e la punteggiatura, proprio per evitare qualsiasi interruzione durante le prove, diceva agli attori «Dobbiamo ridurre tutto ancora di più, deve diventare semplice, appena pochi piccoli movimenti, precisi», insomma, il parto risultava alquanto difficile.
C’è da dire che, al contrario di Aspettando Godot, Finale di partita non ebbe subito successo nelle edizioni precedenti, soltanto nel 1964 si registrano gli esauriti, in occasione della interpretazione di Patrick Magee (Hamm) e Jack MacGowran (Clov).
Nel 1980, su richiesta di Rick Cluchey, Beckett ne diresse un’altra versione, con delle revisioni abbastanza consistenti che i milanesi poterono vedere nella Stagione 1984-85 al Pier Lombardo, oggi Franco Parenti dove, col San Quentin Drama Workshop, debuttarono sia Aspettando Godot che Finale di partita, con la regia di Beckett, in serate memorabili, dove si poté capire ciò che l’autore irlandese andava sempre ripetendo: «Il medium del dramma non è nelle parole, ma nelle persone che si muovono sul palcoscenico, usando le parole».
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Laura Wade, Teatro
Laura Wade, commediografa sconosciuta in Italia, riproduce fedelmente il modello del new writer: svolti gli studi universitari a Bristol, matura importanti esperienze formative nella cerchia dei giovani drammaturghi nella fucina del londinese Royal Court Theatre, debuttando quasi ventenne con Limbo nel 1996. Alla proficua collaborazione con la BBC Radio, segue al Royal Court Upstairs la trionfale messinscena di Posh, sua quattordicesima commedia dalla quale Lone Scherfig ha tratto nel 2014 il film The Riot Club.
Un prelibato assaggio della scrittura della pluripremiata Wade è offerto dagli inediti Più freddo che qui e Cadaveri che respirano, due piccoli gioielli del teatro anglosassone allestiti nel 2005 e ora raccolti nel Teatro pubblicato da Cue Press per la traduzione e la cura di Valentina Vetri. I due testi, dotati di scrittura asciutta ma stilisticamente assai diversi tra loro, condividono il tema della morte declinato da prospettive narrative opposte, tantoché i corrispettivi personaggi vivono situazioni antitetiche.
Nel sorprendente Più freddo che qui è centrale la figura di Myra, da tempo malata di cancro e consapevole di avere i giorni contati. Perciò si impegna a coinvolgere le due figlie e il marito a deviare dalla prassi canonica – il funerale, il rito e il cimitero classico – a favore di un funerale green: la sua ultima volontà è, infatti, una sepoltura in un prato tra gli alberi e i fiori, con il suo corpo adagiato in una bara assemblata artigianalmente, decorata da disegni e sistemata nel salotto di casa.
Lungo le nove scene del dramma si sviluppa con ironia e tenerezza un processo di ricomposizione di questa famiglia della media borghesia britannica composta da anime solitarie, che progressivamente imparano ad ascoltarsi e a guardarsi negli occhi. Si considerano e si riconoscono. I dialoghi sono allusivi, costruiti su frasi non dette e sospese che prima manifestano timore e formalità poi, per effetto delle profonde trasformazioni interiori dei personaggi, diventano espliciti in materia di morte e di dolore, in quanto padroneggiati con consapevole serenità.
L’assunto narrativo di Cadaveri che respirano è completamente diverso. Si tratta di una sorta di thriller animato da tre personaggi uniti dal comune ritrovamento, del tutto occasionale, di un cadavere: Amy, cameriera di albergo, rinviene un morto suicida in una stanza che si appresta a pulire; Jim, proprietario di un magazzino, scopre il cadavere in una cella affittata ai clienti; all’imprenditrice Kate succede, invece, portando a spasso il cane.
Memore della lezione di Sarah Kane e Mark Ravenhill, il linguaggio della commedia esprime violenza trasferita in un sistema di battute aspre e asciutte, taglienti come lame. I dialoghi risultano segnati da continue interruzioni, gli interlocutori non si ascoltano, sembrano parlare a se stessi. Anche se nei tre personaggi la scoperta dei cadaveri avrà ripercussioni significative sulle loro vite, rimane in loro radicata e inalterata la condizione di solitudine e di infelicità. «I cadaveri – spiega Vetri nell’Introduzione – non sono altro che le immagini riflesse dei personaggi vivi, uno specchio terribile di che cosa è l’uomo davanti alla disperazione».
Così Più freddo di qui e Cadaveri che respirano possono essere letti come il rovescio della medaglia dello stesso oggetto-morte che diventa, nel primo testo, tramite per riscoprire e rigenerare una dimensione umana di sana e poetica leggerezza di fronte all’evento funebre il quale, nella seconda commedia, determina invece la cementificazione di una condizione di autoreferenzialità connessa ai personaggi, soprattutto priva di via d’uscita.
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Sergio Blanco, Teatro II
Anche la scena italiana, a piccoli passi, sta considerando il repertorio di Sergio Blanco, drammaturgo e regista teatrale franco-uruguaiano pluripremiato e da anni presente in pianta stabile nei quartieri alti del panorama internazionale. Altri segnali di marcato interesse provengono soprattutto dal mondo dell’editoria, segnatamente dall’intraprendente Cue Press di Imola che ha recentemente pubblicato Teatro II con luminosa introduzione di Renato Palazzi, preceduto dall’antologia Teatro del 2019.
Quello che colpisce della scrittura di Blanco è la sua limpida e originale adesione agli orientamenti drammaturgici contemporanei, riconoscibili nella mancanza di un intreccio canonico e di personaggi autentici che, di contro, sembrano dissolversi e ritrovarsi nelle parole autobiografiche dello stesso autore. Si crea, in questo modo, un sottile e bizzarro gioco di entrata e di uscita dal testo, attraverso frequenti dichiarazioni metateatrali e spiegazioni relative alla genesi dell’opera e alle difficoltà incontrate e ai procedimenti di scrittura.
Si tratta di commedie dall’andamento narrativo imprevedibile e a tratti paradossale, mosse dall’assunto definito dallo stesso Blanco: «Il mio lavoro è mentire la verità». In Kassandra (2008) e in Traffico (2020), monologhi posti in apertura e in chiusura di Teatro II, i due protagonisti si prostituiscono. Sono rispettivamente una migrante che parla di intolleranza e di cultura del diverso rivivendo le stesse sorti della profetessa Cassandra in fuga dalla guerra di Troia; il giovane di Traffico si trasforma in un killer della mafia in un crescendo esplosivo di azioni atroci e ripugnanti.
Ostia (2013) è un dialogo tra sorella e fratello il quale afferma: «la scrittura trasforma tutto in finzione». Così rimane, per esempio, irrisolto il loro presunto rapporto incestuoso; come è avvolto nel mistero il ritrovamento di un cadavere nella spiaggia, forse il corpo di un desaparecido gettato nel lontano Rio de la Plata, oppure identificato in quello di Pier Paolo Pasolini. Sono situazioni mentali e paesaggistiche assai ambigue alle quali Blanco non dà alcuna spiegazione perché «la verità è che le domande e le risposte sono dentro di noi».
In Cartografia di una sparizione è centrale il tema dell’autofinzione evidente nel personaggio dello Spettro di Alfonso-Blanco. Invitato a Barcellona a tenere una commemorazione dedicata a Joan Brossa, grande esponente delle arti visive, diventa esso stesso il personaggio in oggetto: esplora e rivive il suo pensiero e immaginario artistico in un’ottica strettamente personale. Il testo emblematico di questa preziosa antologia di Cue Press è sicuramente Quando passerai sulla mia tomba, vero manifesto di perversione. Il protagonista sta organizzando la propria morte per eutanasia in una lussuosa struttura ospedaliera svizzera; sua volontà è lasciare il proprio colpo insepolto e al servizio di un giovane necrofilo in modo che costui lo possa possedere ogni notte. Il dialogo, sciolto e ordinario, crea situazioni di comicità surreale cui non mancano elementi grotteschi. E l’amplesso postumo diventa un modo per capire se «alla fine, dopo la morte, può esserci ancora qualcosa». Subentra, infine, una coincidenza del tutto emblematica: la camera 228, dove avviene la morte solitaria del paziente, è molto vicina alla villa dove Mary Shelley aveva scritto Frankenstein.
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Quaderni di regia e testi riveduti. Aspettando Godot
Samuel Beckett ha fatto quel che ha voluto del suo Aspettando Godot dopo essere andato in scena la prima volta nel gennaio del 1953 al Théâtre de Babylone di Parigi con la regia di Roger Blin, anche quello di dirigerlo personalmente in tedesco (col titolo Warten auf Godot) il 7 marzo 1975 allo Schiller Theater di Berlino e dopo quasi dieci anni (nel 1984), quando sulla soglia dei settantotto anni di età, su invito dell’amico Rick Cluckey, accetta di fare la regia nel carcere di San Quintino, dirigendo gli attori del San Quentin Drama Workshop.
Il prezioso volume rivolto non soltanto agli addetti ai lavori, pubblicato dalla Cue Press e curato da Luca Scarlini con gli interventi critici di James Knowlson e Douglas McMillan, riproduce non solo il testo riveduto di Aspettando Godot corredato di duemilaseicentodue note, ma anche la copia anastatica dell’originale documento, detto il «quaderno rosso» per via della copertina d’identico colore, su cui sta scritto a mano di Beckett «Godot Berlin 75 II». Le note sono scritte con inchiostro nero su paginette a quadretti con molte aggiunte e modifiche apportate in penna rossa durante le prove e qui riprodotte in grassetto. Spiccano parole cancellate, ugualmente leggibili, disegnini dello spazio scenico indicando con le sole iniziali dei personaggi i loro nuovi spostamenti, mentre un numerino in alto rimanda alle note di regia inserite nell’ultima parte del rocambolesco volume che sarebbe molto piaciuto a Jorge Luis Borges.
Pare che Beckett ogni volta che metteva mano al suo testo operasse cambianti significativi, aggiungeva levava modificava interi brani, comprese le didascalie, movimenti e gesti degli attori in scena. Come esempio vale l’incipit della pièce in cui Estragon da solo sul palcoscenico, seduto su una pietra sta cercando di togliersi uno stivale, dicendo: «Niente da fare», mentre Vladimir si trova fuori scena in penombra accanto all’albero. Beckett cambiò radicalmente questo inizio sia a Berlino che al San Quintino, tenendo i due vagabondi in scena, inseparabili sin dal primo momento.
Il secondo cambiamento è stato quello di creare momenti d’attesa, durante i quali i personaggi restano immobili e silenziosi. Momenti chiamati da Beckett tableau statici, ripetuti strategicamente dodici volte nel corso dello spettacolo giusto per fornire allo spettatore la pressante realtà del silenzio e dell’attesa. Le note che accompagnano Aspettando Godot, in un continuo passaggio da una lingua all’altra (francese, inglese e tedesco), si caricano «di segreti leitmotiven come voleva la lezione di James Joyce», argomenta Scarlini, con Beckett che diventa anche regista della sua opera, «affrontando con piglio assai personale lo specifico della radio e della televisione». Si individuano nel testo riveduto dei cambiamenti che danno maggiore vitalità e umorismo ai dialoghi con netti rimandi al varietà o al circo, resi evidenti, ad esempio, allorquando arrivano in scena Pozzo e Lucky e sia Estragon che Vladimir confondono il nome di Pozzo con Bozzo, tagliando l’uno le battute dell’altro mentre si tolgono il cappello come facevano Stan Laurel e Oliver Hardy nelle loro comiche.
Insomma questi Quaderni di regia di Beckett, chiarisce James Knowlson, possono illuminarci su alcuni temi dell’opera in cui la parola chiave è «forse»: come quando Estragon e Vlamidir dicono d’impiccarsi ma non lo fanno o quando bofonchiano di lasciare quel luogo ma non ci riescono, speranzosi sempre che possa giungere Godot. Anche alla fine non si muovono, stanno fermi sul palco, sebbene il Ragazzo abbia detto loro che quella sera Godot non sarebbe arrivato. Tutto è incerto, come la vita, come quando i due beniamini non riconoscono, nel secondo atto, Pozzo e Lucky e lo stesso Ragazzo non li riconosce in nessuna delle sue due visite.
Vi sono altri due esempi cruciali, aggiunge ancora Knowlson, che ci rimandano alle immagini della crocifissione, non si sa se intenzionale da parte di Beckett, lì dove i corpi di Pozzo e Lucky cadendo a terra formano una croce e Vladimir e Estragon si ritrovano spesso ai lati dell’albero con netti richiami alla croce. «Quello che posso dire», dice in conclusione Scarlini, «è che le due produzioni di Beckett allo Schiller Theater e al San Quentin, furono due delle più belle produzioni di quell’opera che abbia mai visto».