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Approfondimenti, interviste, recensioni e cultura: il meglio dell’editoria e delle arti da leggere, guardare e ascoltare.


Strehler, inno alla luce artigianale. Svoboda, gloria alla tecnologia. Solo Wilson trattò la luce come una protagonista
Negli anni Settanta, mentre Strehler rivendicava la potenza della luce, grazie alla professionalità dell’elettricista, perché odiava quella computerizzata, mentre Svoboda creava le sue scenografie con l’uso della luce e dei mezzi informatici, lasciando, entrambi, lo spazio alla parola dello scrittore, Robert Wilson fece in modo che la luce assumesse un linguaggio assolutamente autonomo, fino a diventare protagonista dello spettacolo, trasformando, così, l’illuminotecnica in una vera e propria drammaturgia, costruita su effetti visivi, il cui fine era quello di andare contro la scena statica, di estrazione pittorica, per costruire una nuova realtà spaziale, vivificata da giochi cromatici e dalle infinite possibilità offerte dal mezzo luminoso. Cristina Grazioli e Pasquale Mari hanno dato vita a un libro, edito da Cue Press, Dire luce. Una riflessione a due voci sulla luce in scena, nel quale affrontano l’argomento sia in modo teorico, essendo la Grazioli docente di Storia ed Estetica della luce, che in modo pratico, essendo Mari un Disegnatore luce e Direttore della fotografia.
Entrambi hanno affrontato un argomento alquanto tecnico che sfugge allo spettatore, ma, nello stesso tempo, lo hanno analizzato dal punto di vista estetico, capace di rendere più complice lo spettatore. In fondo, hanno cercato di spiegare in che modo l’universo della tecnica possa corrispondere all’universo della creazione artistica, e in che modo la «grammatica del vedere» possa essere conseguenza della «grammatica della rappresentazione» e, ancora, in che modo luce e colore possano essere interdipendenti.
Entrambi parlano di «partitura luminosa», in rapporto alla «partitura», e di spettacolo visivo autonomo, rispetto a quello rappresentativo. Il confronto tra i due tende a coinvolgere sia il versante storico-critico che quello della pratica scenica, con sconfinamenti che vanno dal territorio teatrale a quello pittorico coloristico, tanto che il colore, come accade in Wilson, viene percepito come un valore, non soltanto simbolico, ma anche psicologico.
L’approccio dei due autori avviene attraverso un dialogo di tipo platonico, con pagine puramente teoriche che si alternano con altre puramente pratiche nelle quali il visibile è messo in contrapposizione all’invisibile, dato che, spesso, la luce acquista un valore metafisico, grazie al suo potere di trasformare la «fabbrica scenica» in una scrittura visiva, tanto che il visibile e l’invisibile diventano il mostrato e il nascosto. Insomma, la luce serve per esprimere l’inesprimibile.
Il volume è diviso in brevi capitoli, dai titoli alquanto emblematici: Invisibilità, Materia, Scrittura, Polvere, Buio, Colore, Movimento, Voci, Trasparenza, Atmosfera, Botanica, Aria. L’utilizzo di questa nomenclatura ha a che fare con l’utilizzo della luce in scena, attraverso la diversità della sua declinazione , della sua variabilità e materialità, tanto da essere trasformata in una vera e propria «scrittura», dato che, sul palcoscenico, non si muovono soltanto gli attori, ma anche le forme, gli spazi, i silenzi, le parole non dette che la luce contribuisce a fondere. Ogni capitolo ha delle referenze fotografiche, con le quali, i due autori cercano di spiegare i loro concetti. Interessante la bibliografia che spazia dalla storiografia teatrale a quella pittorica e fotografica.
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Mentre c’è chi afferma che l’Università italiana mortifica il merito, il Dipartimento di Discipline Umanistiche dell’Università di Catania, visto il successo di due ricercatrici, dimostra il contrario
Il Dipartimento di Discipline umanistiche dell’Università di Catania è diventato una fucina di giovani ricercatori nell’ambito dell’Art Visual , della Performing Art e della drammaturgia, in genere, tutti lavorano attorno alla rivista «Arabeschi». Sulle pagine di questo giornale ci siamo occupati della ricercatrice: Laura Pernice, autrice di Giovanni Testori sulla scena contemporanea, uno studio accurato sull’autore di Novate dal 1993 al 2020, guidato da una metodologia di ricerca che attinge, non soltanto, a una completa bibliografia, ma anche a un rapporto diretto con gli attori e i registi. Il volume della ricercatrice Simona Scattina: Titina De Filippo. L’artefice magica, edito da Cue Press, è un’ulteriore conferma di un modo di lavorare tipico del Dipartimento a cui abbiamo fatto riferimento. L’autrice ha scelto, per la sua ricerca, Titina De Filippo, utilizzando tutta la bibliografia esistente, ma confrontandosi anche con il molteplice materiale del Fondo Carloni, che fu, per la prima volta, catalogato dalla Cattedra di Storia del Teatro dell’Università Federico II di Napoli, in occasione di una mostra, al Teatro San Carlo, che ebbi modo di visitare nell’Ottobre 1996, dove si poteva ammirare tanto materiale messo a disposizione proprio dal Fondo Carloni, il titolo della mostra era: Filumena in arte Titina, vi erano esposti lettere dei familiari, in particolare, del padre Scarpetta e dei fratelli Eduardo e Peppino, tantissimi copioni, molto materiale fotografico e una gran quantità di olii, mosaici, collage, che testimoniavano l’ultima attività, quella di Titina pittrice, a cui la Scattina ha dedicato un capitolo del suo libro, con testimonianze di De Chirico, Savinio, Carlo Carrà, Gino Severini, Ludovico Ragghianti.
Negli anni Cinquanta Titina, stimolata da Renato Simoni, che la presentò nel catalogo della mostra, fece notare la sua presenza di pittrice, a Milano, presso la Galleria di Vittorio Barbaroux; «La Domenica del Corriere» le dedicò un’ampia pagina (3 Dicembre 1950). Simona Scattina ha diviso il suo lavoro in sei capitoli, utilizzando, come materiale, gli elogi della critica, le memorie, gli epistolari, i testi teatrali e il materiale fotografico, presente in minima parte, nel capitolo dedicato alla iconografia. Seguendo le indicazioni di Meldolesi e di Taviani, Simona ha cercato, a suo modo, di entrare nel «corpo» dell’attrice, recuperandone, non solo la forza interpretativa, ma anche la fisicità, ovvero la sua maniera di stare in scena, anche prima di recitare insieme a Eduardo e a Peppino. Sono in molti a identificare Titina con i fratelli, in verità, fino alla nascita della Compagnia del Teatro Umoristico, 1931-1944, lei vantava già una storia personale come prima attrice e come vedette nel teatro di Rivista, tanto da poter vantare uno stile personale, il cui elemento principale era da ricercare nell’uso sapiente dell’ironia che mantenne anche quando visse a contatto con l’umorismo eduardiano e quello farsesco di Peppino.
La Scattina ci tiene a precisare che il suo ruolo, accanto ai fratelli, non fu affatto «marginale», essendo sempre al centro del trio che lei stessa aveva voluto, quando ne propose la nascita all’impresario Aulicino, per poi diventare una Compagnia autonoma, visti i trionfali successi, ma fu ancora lei a troncarne la continuità, dovuta alla forte personalità di ciascuno. L’autrice del libro segue tutta la storia di Titina, quella delle sue creature femminili, dalle sciantose a donna Amalia, a Filumena, a quelle interpretate nei vari film, dando, successivamente, voce ai testi scritti, ben diciannove, di cui analizza tre capolavori: Una creatura senza difesa, Quaranta, ma non li dimostra scritta insieme a Peppino e Virata di bordo, messa in scena da Nino Taranto con cui Titina lavorò per qualche stagione. (Nel 1993, Tato Russo, nella Collana Teatro, edita da Bellini, pubblicò sette testi).
All’analisi approfondita delle tre commedie, la Scattini fa seguire le Trame d’autrice, ovvero le schede degli altri testi. Titina era molto abile nell’inventare i ruoli, specie quelli femminili, man mano che li costruiva, lei li recitava nella sua mente, tanto da appartenere alla categoria delle attrici-scrittrici e viceversa, a quella che Michele Cometa definisce: «Il doppio ruolo». Ogni capitolo è arricchito da un’ampia bibliografia, con cui la Scattina intreccia un vero e proprio dialogo erudito, costruendo un ritratto completo della grande attrice che ebbe modo di trovare un suo spazio all’interno della Famiglia difficile, titolo della ben nota biografia di Peppino. La verità è che, a Titina, sia mancato un grande editore che si fosse occupato della sua drammaturgia, come, del resto, è accaduto per Peppino, il volume pubblicato da Cue Press le restituisce quanto dovuto.
Bentoglio, la rivoluzione teatrale di ‘re’ Giorgio
Forse se lo sentiva. Forse Giorgio Strehler, il 23 dicembre del 1997, sentiva che quella sarebbe stata la sua ultima prova di sempre, sulle assi di un palcoscenico. Perché, lui che provava i finali dei suoi spettacoli solo all’ultimo momento, quel giorno, prima della pausa per il Natale, aveva voluto imbastire l’ultima scena del suo Così fan tutte, l’opera di Wolfgang Amadeus Mozart scelta per inaugurare, un mese dopo, il Nuovo Piccolo Teatro di Milano. Spazio sognato da sempre, progettato a lungo, un cantiere infinito (durato diciotto anni) che aveva contrapposto il regista a diverse amministrazioni comunali, con tanto di uscite di scena (dal vertice del Piccolo) da vero teatrante, salvo poi ripensarci. Finalmente, in quel dicembre del 1997, era pronto ad alzarsi il sipario del nuovo teatro progettato da Marco Zanuso. Non con un testo di prosa, ma con un’opera lirica. Scelta però coerente con la storia di Giorgio Strehler, nato a Barcola, un paesino vicino a Trieste, il 14 agosto del 1921, giusto cento anni fa.
Una storia che ha inizio in una famiglia dove il nonno Olimpio era cornista e direttore d’orchestra, ma anche impresario teatrale, così come il padre Bruno, di origine austriaca, morto quando il regista non aveva ancora tre anni, mentre la madre Alberta era violinista, che aveva suonato anche con Wilhelm Fürtwangler. Questo lungo spazio tra l’alfa e l’omega del regista triestino, scomparso la notte di Natale del 1997, lo racconta Alberto Bentoglio nel suo Venti lezioni su Giorgio Strehler (collana Saggi sul teatro da Cue Press. Pagine 393. € 42.99).
Il volume di Bentoglio, docente di Storia del teatro all’Università Statale di Milano, «nasce come libro di testo per i miei studenti, dato che in questo 2021 ho proposto un corso monografico su Strehler, proprio a cento anni dalla morte. Il regista è scomparso ventiquattro anni fa, quando nessuno dei miei studenti era ancora nato, dunque ho pensato ad un ciclo di lezioni con un percorso biografico e critico per chi di Giorgio Strehler non ha mai visto nulla» spiega il docente milanese che ha dato alle stampe un volume che, proprio per il taglio scelto, va oltre il semplice «libro di testo» e si fa mappa per addentrarsi nel mondo strehleriano. A più livelli.
Il racconto biografico e l’analisi in ordine cronologico degli spettacoli (ricco l’apparato bibliografico, dettagliata e completa la teatrografia) che fanno da ossatura si intrecciano alla voce del regista (interviste, dichiarazioni pubbliche…), a documenti storici rintracciati negli archivi del Piccolo, alle note di regia che Strehler amava scrivere dettagliatamente. Così che chi non sa nulla dell’artista triestino può avvicinarsi «al primo regista critico italiano, colui che ha inventato la regia nel nostro paese sia nel campo della prosa che del teatro musicale». Mentre chi lo ha conosciuto attraverso le sue regie può scoprire come quegli spettacoli nacquero e, magari, vedere come «dietro il carattere forte di un uomo che riusciva ad ottenere tutto ciò che desiderava ci fosse una persona profondamente generosa, capace di dare molto a chi gli stava accanto». E scoprire che a Milano, «prima dell’Albergo dei poveri di Gork’ij che nel maggio 1947 diede inizio all’avventura del Piccolo teatro, Strehler, a marzo, formò una verdiana Traviata per il Teatro alla Scala». Venti lezioni a cui Bentoglio ha dato forma nei mesi del lockdown per raccontare «un artista che è stato fondamentale per la politica culturale italiana, convinto sostenitore della necessità di aprirsi all’Europa», ma anche per chiedersi «quanto il suo modo di fare regia sia ancora percorribile». Due gli spettacoli che Bentoglio sceglie per raccontare la «rivoluzione» di Strehler.
«Il Macbeth del 1975 alla Scala diretto da Claudio Abbado perché fu l’inizio della rilettura da parte del teatro di regia delle opere di Verdi. E il Faust di Goethe, spettacolo realizzato tra il 1989 e il 1992, che vede Strehler in scena nei panni di Faust e che racchiude tante delle cose fatte negli anni, in una sorta di rilettura della sua vita umana e artistica».
Non uno spettacolo testamento, però. «Lo è, forse, l’ultima edizione di Arlecchino, diventato nel tempo sempre più malinconico» conclude Bentoglio, per il quale «l’eredità più bella di Strehler è il Piccolo teatro, che negli anni è stato guidato da Luca Ronconi e ora è affidato a Claudio Longhi, senza mai perdere la funzione di servizio pubblico che nel 1947 gli diedero Strehler e Paolo Grassi».
Titina, macché ruolo marginale. La sua ironia? Uno stile personale tra un Eduardo umoristico e un Peppino farsesco
Il Dipartimento di Discipline umanistiche dell’Università di Catania è diventato una fucina di giovani ricercatori nell’ambito dell’Art-Visual, della Performing-Art e della drammaturgia, in genere, tutti lavorano attorno alla rivista Arabeschi.
Sulle pagine di questo giornale ci siamo occupati della ricercatrice Laura Pernice, autrice di Giovanni Testori sulla scena contemporanea, uno studio accurato sull’autore di Novate dal 1993 al 2020, guidato da una metodologia di ricerca che attinge non soltanto a una completa bibliografia, ma anche a un rapporto diretto con gli attori e i registi.
Il volume della ricercatrice Simona Scattina: Titina De Filippo. L’artefice magica, edito da Cue Press, è una ulteriore conferma di un modo di lavorare tipico del Dipartimento a cui abbiamo fatto riferimento. L’autrice ha scelto, per la sua ricerca, Titina De Filippo, utilizzando tutta la bibliografia esistente, ma confrontandosi anche con il molteplice materiale del Fondo Carloni, che fu, per la prima volta, catalogato dalla Cattedra di Storia del Teatro dell’Università Federico II di Napoli, in occasione di una mostra, al Teatro San Carlo, che ebbi modo di visitare nell’Ottobre 1996, dove si poteva ammirare tanto materiale messo a disposizione proprio dal Fondo Carloni. Il titolo della mostra era Filumena in arte Titina. Ed erano esposte lettere dei familiari, in particolare del padre Scarpetta e dei fratelli Eduardo e Peppino, tantissimi copioni, molto materiale fotografico e una gran quantità di olii, mosaici, collage, che testimoniavano l’ultima attività, quella di Titina pittrice, a cui la Scattina ha dedicato un capitolo del suo libro, con testimonianze di De Chirico, Savinio, Carlo Carrà, Gino Severini, Ludovico Ragghianti.
Negli anni Cinquanta, Titina, stimolata da Renato Simoni, che la presentò nel catalogo della mostra, fece notare la sua presenza di pittrice, a Milano, presso la Galleria di Vittorio Barbaroux; «La Domenica del Corriere» le dedicò un’ampia pagina (3 dicembre 1950).
Simona Scattina ha diviso il suo lavoro in sei capitoli, utilizzando, come materiale, gli elogi della critica, le memorie, gli epistolari, i testi teatrali e il materiale fotografico, presente in minima parte, nel capitolo dedicato alla iconografia. Seguendo le indicazioni di Meldolesi e di Taviani, Simona ha cercato, a suo modo, di entrare nel «corpo» dell’attrice, recuperandone non solo la forza interpretativa, ma anche la fisicità, ovvero la sua maniera di stare in scena, anche prima di recitare insieme a Eduardo e a Peppino.
Sono in molti a identificare Titina con i fratelli, in verità, fino alla nascita della Compagnia del Teatro Umoristico, 1931-1944, lei vantava già una storia personale come prima attrice e come vedette nel teatro di Rivista, tanto da poter vantare uno stile personale, il cui elemento principale era da ricercare nell’uso sapiente dell’ironia che mantenne anche quando visse a contatto con l’umorismo eduardiano e quello farsesco di Peppino.
Scattina ci tiene a precisare che il suo ruolo, accanto ai fratelli, non fu affatto «marginale», essendo sempre al centro del trio che lei stessa aveva voluto, quando ne propose la nascita all’impresario Aulicino, per poi diventare una Compagnia autonoma, visti i trionfali successi, ma fu ancora lei a troncarne la continuità, dovuta alla forte personalità di ciascuno. L’autrice del libro segue tutta la storia di Titina, quella delle sue creature femminili, dalle sciantose a donna Amalia, a Filumena, a quelle interpretate nei vari film, dando, successivamente, voce ai testi scritti, ben diciannove, di cui analizza tre capolavori: Una creatura senza difesa, Quaranta, ma non li dimostra scritta insieme a Peppino e Virata di bordo, messa in scena da Nino Taranto con cui Titina lavorò per qualche stagione. (Nel 1993, Tato Russo, nella Collana Teatro, edita da Bellini, pubblicò sette testi). All’analisi approfondita delle tre commedie la Scattini fa seguire le Trame d’autrice, ovvero le schede degli altri testi.
Titina era molto abile nell’inventare i ruoli, specie quelli femminili, man mano che li costruiva, lei li recitava nella sua mente, tanto da appartenere alla categoria delle attrici-scrittrici e viceversa, a quella che Michele Cometa definisce «Il doppio ruolo». Ogni capitolo è arricchito da un’ampia bibliografia, con cui la Scattina intreccia un vero e proprio dialogo erudito, costruendo un ritratto completo della grande attrice che ebbe modo di trovare un suo spazio all’interno della Famiglia difficile, titolo della ben nota biografia di Peppino. La verità è che, a Titina, sia mancato un grande editore che si fosse occupato della sua drammaturgia, come, del resto, è accaduto per Peppino. Il volume pubblicato da Cue Press le restituisce quanto dovuto.
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Magia della luce che tutto crea e tutto distrugge
Renzo Guardenti, In forma di quadro. Note di iconografia teatrale
In forma di quadro. Note di iconografia teatrale
La confezione editoriale del volume In forma di quadro. Note di iconografia teatrale di Renzo Guardenti presenta 148 pagine che raccolgono saggi compilati dallo studioso fiorentino lungo vent’anni di ricerca e poi un corpo di 167 figure di supporto non decorativo, ma funzionale in quanto strumento necessario per lo studio dei rapporti intercorrenti tra teatro e arti figurative. Si tratta, in primo luogo, di capire il valore testimoniale delle fonti iconografiche, pur considerando la loro autonomia creativa in fase di rielaborazione figurativa dell’oggetto teatrale che si sostanzia – con il supporto di variegate tecniche artistiche – nella carta, nella tela, nella lastra dell’incisore, fino ai manufatti delle arti plastiche, nelle fotografie e nelle moderne riproduzioni visive.
L’indagine di Guardenti si articola lungo un percorso storico che procede dal Seicento al Novecento. La ricognizione inizia con le attrici della Commedia dell’Arte: fino all’ultimo ventennio del XVII secolo godono di modesta ma non insignificante presenza iconografica; successivamente si diffondono copiosi i loro ritratti singoli, dai quali è possibile congetturare il richiamo ad una certa e possibile dimensione scenica.
L’intreccio tra drammaturgia del testo, esercizio dell’attore e sedimentazione figurativa orienta l’osservatorio analitico di Guardenti sul versante francese, segnatamente nel perimetro culturale della prima Comédie Italienne e nei contributi pittorici di Claude Gillot e di Jean-Antoine Watteau, cui segue una puntigliosa analisi delle raffigurazioni della Commedia dell’Arte diffuse nel Settecento.
Il discorso cambia quando l’attore, a cavallo tra XVIII e XIX secolo, inizia ad affermarsi come entità sociale e culturale. L’attore si mette in posa, statuaria e teatrale, come dimostra François-Joseph Talma, immortalato, con limpidi riferimenti al suo linguaggio performativo, nei panni di Nerone da Eugène Delacroix nel 1853.
Luminose sono le pagine che Guardenti dedica a Sarah Bernhardt, la «prima vera diva della storia dello spettacolo in grado di fare tendenza non solo nel teatro ma anche in termini di costume e stile di vita» (p. 122). Immortalata da diverse centinaia di fotografie, diventa presto modello figurativo per la coeva generazione di attrici che ne assumono pose, gesti e abbigliamenti, come l’austriaca Adele Sandrock.
In forma di quadro si conclude con una minuziosa e intrigante analisi delle prime regie di Luchino Visconti, dall’opera lirica La Vestale di Gaspare Spontoni, allestita nel 1954, a Parenti terribili di Jean Cocteau (1945) e La vita del tabacco di Erskine Caldwell (1945). Il realismo del regista attraversa sia la connotazione dei personaggi, tanto melodrammatici quanto teatrali, che il linguaggio figurativo dell’impianto scenografico, come emerge con chiarezza dalle foto di scena.
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The Global City: presentazione del libro e intervista a Simona Frigerio
Raccontare il lavoro della Compagnia Instabili Vaganti significa addentrarsi nel loro mondo, cosparso della polvere del palcoscenico ma costruito su quattro continenti. Un viaggio che da Genova si sposta, nel tempo e nello spazio, rievocando sprazzi di storia – come il ’68 a Città del Messico – ma sollecitando, nel contempo, un confronto continuo con la realtà. In delicato equilibrio tra le città letterarie di Calvino e le metropoli urticanti di Ballard. Un viaggio affascinato e affascinante per scoprire come si costruisce quel perfetto meccanismo teatrale che è lo spettacolo, ma anche i pensieri e gli ideali di una coppia di artisti che ha posto al centro del proprio mestiere, altamente artigianale, la consapevolezza di esserci nel mondo.
Intervista all’autore
Come è nata l’idea di questo libro?
Dalla comune passione per il viaggio. Non la vacanza all-inclusive, bensì quell’andare in cerca di sé vagando per il mondo.
Quanto è stato difficile portarlo a termine?
La difficoltà, quando si inizia un libro, sta nell’inquadrare lo specifico dello stesso. Faccio un esempio per chiarire. Se dovessi scrivere il libro su una compagnia che si confronta, attraverso uno spettacolo, con un preciso fatto storico – passato o presente – il libro si muoverebbe su binari documentali, interviste, e avrebbe il sapore del reportage o del libro di storia. In questo caso, mi sono ispirata alla letteratura di viaggio.
Quali sono i tuoi autori di riferimento?
Sono una lettrice vorace. Direi che amo la letteratura dell’Ottocento, Proust e Dostoevskij su tutti. Ma adoro anche i modernisti inglesi e, quindi, Virginia Woolf. Una mia passione è il giallo, forse in quanto mi interesso di enigmi, e anche per questo leggo assiduamente Dürrenmatt.
Dove vivi e dove hai vissuto in passato?
Da quasi dieci anni sono diventata cittadina Toscana (anche se i toscani doc non si definirebbero mai tali dato che si identificano ognuno con la propria città). Per anni ho vissuto a Milano, metropoli che non sopportavo più e dalla quale sono letteralmente scappata: io sono figlia della Milano dei Centri sociali, dell’impegno civile e politico; la Milano della moda e della ‘movida’ mi rispecchia poco. Però Milano mi ha insegnato l’etica del lavoro. E poi ho vissuto a lungo in Gran Bretagna e da vent’anni giro il mondo in lungo e in largo, tanto che considero ormai l’Oriente la mia patria d’adozione, anche se Cuba mi ha rubato il cuore.
Dal punto di vista letterario, quali sono i tuoi progetti per il futuro?
In primis terminare il mio secondo romanzo. Ho già pubblicato due raccolte di racconti e ho scritto un romanzo giovanile che è rimasto, e rimarrà, nel cassetto. Per me scrivere è come respirare: impossibile non farlo.
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Il teatro di Totò dal 1932 al 1946 in un prezioso libro a cura di Goffredo Fofi
In questo prezioso libro a cura di Goffredo Fofi viene raccolto Il teatro di Totò (Cue Press, 269 pagine, 34,99 Euro) del periodo 1932-1946. Prima di divenire nel cinema un impareggiabile attore comico, Totò fu – negli Anni Trenta – uno dei massimi interpreti del teatro della tradizione popolare napoletana. Nel volume i lettori troveranno esilaranti sketch e scene che attingono direttamente alla «farsa urbana e sottoproletaria di Pulcinella», al genere del varietà innovato dal café-chantant, fino alla «rappresentazione comica di un certo piccolo borghese italiano, timido, aggressivo, pauroso e alla fine ridicolo», viene restituito lo spirito più genuino della comicità di Totò: irriverente nella satira politica (e, per questo, vittima della censura fascista), irresistibile quando ridisegna i luoghi comuni sulla napoletanità. Questi testi svelano la completezza artistica di Totò, qui in veste di assoluto mattatore della scena, lungo una variegata galleria di personaggi in cui spiccano le sue inconfondibili doti di ironica maschera.
Il curatore Goffredo Fofi, nato a Gubbio nel 1937, si è occupato, tra Sud e Nord del Paese, di questioni pedagogiche e sociali. Ha inoltre collaborato con molte riviste («Quaderni piacentini», «Ombre rosse», «Linea d’ombra», «Lo straniero», «Gli asini») animando la vita culturale italiana. Malgrado la vastità delle sue pubblicazioni, la sua opera più apprezzata resta l’inchiesta su L’immigrazione meridionale a Torino (1963). Tra i suoi libri di cinema, ricordiamo le monografie dedicate a Totò (in collaborazione con Franca Faldini, con la quale ha anche realizzato i tre grandi volumi di interviste su L’avventurosa storia del cinema italiano), a Marlon Brando e ad Alberto Sordi.
Scrive tra l’altro Goffredo Fofi: «Nato nel 1898, Antonio De Curtis, in arte Totò, ha fatto le sue università recitando a Napoli nelle farse a soggetto, d’origine ottocentesca e pulcinellesca. Canovacci tramandati su copie manoscritte, più raramente stampate, e arricchiti dai ricordi dei figli d’arte: il tale a questo punto faceva questa mossa, introduceva questa battuta, si rivolgeva al pubblico in questo modo, divagava provocando la spalla su questo equivoco… Come in ogni tradizione di teatro popolare autentico, si arricchiva e trasformava di continuo una materia consolidata, regole codificate. Niente nasceva dal niente; ma le suggestioni del momento, della platea, dell’incontro tra temperamenti diversi, provocavano (e provocano tuttora, nella sceneggiata) una possibilità di variazioni assai grande, in una continua e produttiva dialettica tra vecchio e nuovo, tra fisso e mobile, tra rigido e aperto».
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