Logbook

Approfondimenti, interviste, recensioni e cultura: il meglio dell’editoria e delle arti da leggere, guardare e ascoltare.

Titina de filippo 4
23 Dicembre 2020

Simona Scattina, Titina De Filippo. L’artefice magica

Antonia Liberto, «Drammaturgia»

Figlia d’arte e sorella maggiore di Eduardo e Peppino, Titina De Filippo (1898-1963) è stata una delle grandi protagoniste del Novecento teatrale italiano e, in particolare, della fase iniziale del secolo, cruciale per la definizione di una nuova figura attoriale in bilico tra il perdurare della tradizione ottocentesca e il lento affermarsi della novità registica. Il volume che Simona Scattina le dedica, recentemente edito da Cue Press, ne delinea un vivido ritratto, strutturato per nuclei tematici. Grazie all’accurato scavo nel Fondo Carloni, Titina acquisisce finalmente uno spessore autonomo rispetto ai fratelli: ne viene fuori un’artista a tutto tondo, instancabilmente dedita a teatro, varietà, cinema e televisione, alla ricerca di una propria indipendenza espressiva, tanto da essere anche pittrice e autrice di collage. Se ne indaga il vasto repertorio ben oltre i noti personaggi eduardiani e la carriera puramente teatrale: «Titina è anello di quella catena di attrici del Novecento che non rinunciano ai loro bisogni d’arte e d’indipendenza pur accettando la direzione di un regista e che, votate alle metamorfosi, vivono esperienze teatrali e cinematografiche. Attrici consapevoli del ruolo difficile assunto nel momento in cui hanno deciso di tradurre scenicamente il presente preoccupandosi di rendere le loro ‘personagge’ creature di vita» (p. 13).

Il volume si apre con una ricostruzione del contesto culturale entro il quale si collocano gli esordi dell’attrice, che per la prima volta calca le tavole del palcoscenico all’età di sette anni, interpretando en travesti la parte di Peppeniello nella commedia Miseria e nobiltà di Scarpetta (personaggio che costituì, negli anni successivi, un banco di prova anche per i due fratelli). Successivamente la troviamo nel ruolo di prima attrice nella Compagnia d’arte napoletana, poi Città di Napoli, diretta da Francesco Corbinci finché il legame con i fratelli Eduardo e Peppino sfocia nella formazione del Teatro Umoristico. Scattina intreccia sapientemente il racconto della carriera di Titina con quello dei disagi della vita di attrice e le note difficoltà nel rapporto con i fratelli, che portarono a ripetute separazioni.

Una sezione del volume (Le donne di Titina) è poi dedicata ai principali ruoli femminili: gli inizi come sciantosa, il complesso personaggio di Donna Amalia di Napoli Milionaria e, ormai al culmine del successo, l’interpretazione di Filumena Marturano. La varietà dei registri attorici, drammatici e leggeri, denota la versatilità di una donna che è riuscita a incarnare, a prescindere dall’età anagrafica, il ruolo di figlia, moglie e madre, raccogliendo sempre ampi consensi di pubblico e critica. È poi affrontato il rapporto di Titina con il cinema («Lo schermo mi ha presentato Titina De Filippo»). Il legame con la settima arte, che qui trova – forse per la prima volta – una sistemazione critica, non è certo esperienza marginale per l’attrice: dal 1937 fino al 1959 appare in molti film e scrive tre sceneggiature. Immancabile la riflessione su Titina autrice (La ‘voce’ dei testi): a sua firma si registrano diciannove commedie, tre soggetti cinematografici e, inoltre, discorsi politici, poesie, lettere. Scrisse anche un’autobiografia, mai pubblicata per suo volere, che avrebbe dovuto intitolarsi Io, una dei tre. Nella successiva sezione (Trame d’autrice) si raccolgono delle brevi schede descrittive dei copioni scritti da Titina, nonché si fa il punto sui testi andati perduti. Infine, il ricco apparato di immagini e appunti autobiografici seleziona materiali relativi all’intero arco della carriera della De Filippo, facendo luce sui periodi meno noti del suo percorso artistico.

Attraverso l’esperienza di vita e di scena di Titina il saggio propone una riflessione più ampia sull’importante ruolo delle attrici nei meccanismi teatrali novecenteschi, sulla necessità espressiva dell’auto-narrazione e sulla complessità dell’essere una donna di spettacolo, riuscendo nell’intento di «coniugare il teatro con lo sguardo femminile che troppo spesso è stato tenuto ai margini negli studi di settore e nella memoria teatrale» (p. 8).

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Wfg 2 pp 01
20 Dicembre 2020

Aspettare Godot come vuole Beckett: i suoi Quaderni rivivono a Imola

Brunella Torresin, «la Repubblica»

Nata alla fine del 2012 per iniziativa di Mattia Visani, attore, critico e ultimo autore della Ubulibri di Franco Quadri, la Cue Press è una casa editrice digital first, che ha fatto cioè dell’innovazione digitale il suo punto di forza, interamente dedicata alle arti dello spettacolo: cinema, teatro, danza, performance. Ha sede a Imola, è stata ricoperta di premi, pubblica libri digitali e libri in forma cartacea on demand. Il catalogo è ormai molto ampio, quasi duecento titoli – molti memorabili – fra testi, saggi, classici, guide. Ma l’annuncio di oggi è che Cue Press pubblicherà per prima in Italia, tradotti in lingua italiana, i Notebooks di Samuel Beckett (1906-1989), i Quaderni di regia che testimoniano il lavoro dell’autore irlandese sui testi di Aspettando Godot, Finale di partita, L’ultimo nastro di Krapp e i Drammi brevi e la meticolosa precisione con la quale affrontava la loro messa in scena. On-line sono riprodotti due fogli a quadretti di piccolo formato, riempiti con una calligrafia ordinatissima che riporta battute e varianti di Finale di partita. Ma soprattutto indicazioni di regia, schemi che concatenano tra loro il suono delle battute, il movimento, i gesti e lo spazio. Beckett lo diresse nel 1967 allo Schiller Theater di Berlino Ovest e nel 1980 con il San Quentin Drama Workshop, nato all’interno delle mura del carcere californiano. Aspettare Samuel Beckett è un buon modo per lasciare il 2020. Primo perché Aspettando Godot è ormai un’espressione idiomatica in cui tutti, prima o poi, ci siamo immedesimati. Secondo, perché nei mesi scorsi più di talvolta ci si è sentiti insensati, sofferenti, scarnificati, incompresi e incomprensibili come certe figure beckettiane. Terzo perché i Quaderni di regia ci ricordano che il teatro è esperienza materiale, arte incarnata, lavoro collettivo. E non vediamo l’ora di tornare a vederlo: teatro a teatro, attore a spettatore.

Toto
20 Dicembre 2020

Il teatro di carta: da Totò a Ronconi a Peter Brook, i libri che raccontano i grandi del palcoscenico

Rodolfo di Giammarco, «la Repubblica»

C’è un teatro che si rappresenta a qualunque ora, che acquista la parola tra le mura di casa, che dà libero ingresso ai suoi testi nelle librerie, e che permette di regalare cultura in questi giorni di festa. E’ il teatro di carta, fatto di volumi da sfogliare, e di voci da immaginare leggendo una trama di battute con storie, retroscena e lezioni umane e artistiche che le case editrici hanno convertito in spettacoli scritti o in spettacolari biografie. Per il libero accesso a un intreccio, a un modo di inscenare la vita, o per saperne di più di autori e attori, va solo assecondato il nostro fiuto per un tipo di teatro o di teatrante, e scelta l’opera pubblicata che ne è (adesso, ancora) lo specchio più fedele.

Ai cultori di Totò va segnalata senza esitazione l’uscita de Il teatro di Totò – 1932-46 di Goffredo Fofi, edito da Cue Press, un compendio del varietà, della farsa urbana e sottoproletaria, della satira (anche politica), delle radicali maschere, degli esilaranti sketch e della tradizione popolare napoletana cui il Principe De Curtis ricorse prima di diventare quello straordinario attore comico che il cinema ha tanto valorizzato e tramandato. Fu prima di tutto un grande mattatore della ribalta, questo campione della messa in burla di un ceto piccolo borghese italiano timido, aggressivo, pauroso e alla fine massimo interprete del ridicolo.

A un’altra fuoriclasse partenopea d’un genere che, nel suo caso, da umoristico si fece drammatico, la Cue Press riserva un dovuto omaggio con Titina De Filippo. L’artefice magica, autrice Simona Scattina: prima all’ombra di Scarpetta (il padre), poi in società coi fratelli più piccoli Eduardo e Peppino, la dimensione umana di Titina fu al servizio inizialmente di una scena caricaturale che poi tese alla complessità.

L’intero repertorio della violenta e poetica scrittura teatrale di Bernard-Marie Koltès, visionario di contenuti e rivoluzionario del linguaggio morto nel 1989 a soli 41 anni, autore che ha accostato Rimbaud a Marx, la filosofia alla politica, il Sud al Nord del mondo, l’uomo all’uomo, la disperazione al desiderio, e la vita al fine vita, è oggetto di una grande iniziativa editoriale di Arcadiateatro Libri che ha in cantiere una trilogia con tutto il Teatro di Koltès, di cui sono usciti i due primi volumi, contenenti ognuno cinque testi, tra cui l’inedito Storie morte del 1973.

Di un maestro vivente, di Peter Brook, Dino Audino Editore sta pubblicando titoli contenenti saggi, precetti, esperienze: il più recente è Il dettaglio è il segreto, con due scritti sull’artigianato teatrale, Sulla punta della lingua (2017) e Suonando a orecchio(2019), e in catalogo ci sono già altri tre libri, Tra due silenzi, Il punto in movimento e La qualità del perdono.

Per i tipi di Audino è da poco in libreria anche una raccolta di preziosi appunti di un docente illustre, Il quaderno delle lezioni di Luca Ronconi, a cura di Antonella Astolfi, collezione di materiali accumulati in una dozzina di anni da allievi della Scuola del Piccolo Teatro di Milano. E Audino propone anche il primo volume di Giochi per attori e non attori, una testimonianza teorico-metodologica di 50 anni di Teatro dell’Oppresso del brasiliano Augusto Boal.

Due compendi di testi pubblicati da Editoria&Spettacolo documentano tragedie simboliche dei nostri giorni: Drammi al presente di Marco Martinelli dove si recuperano Salmagundi e Rumore di acque, e Pagina zero di Lina Prosa, suddiviso in Ritratto di naufrago numero zero, Formula 1, Il buio sulle radici, Gorki del Friuli e Ulisse Artico.

E salutiamo con radicale rispetto l’uscita della prima parte d’un lavoro autobiografico d’un capofila della drammaturgia napoletana, Enzo Moscato, che dà alle stampe di Cronopio la prima sezione del piano della sua opera, Archeologia del sangue (1948-1961), dotandola di vicoli, plebee divinazioni e spigoloso argomentare.

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Milo rau 2
17 Dicembre 2020

In tournée tra gli scaffali

Sara Chiappori, «Tutto Milano»

Certo, a teatro bisognerebbe prima di tutto andarci. Non si può, lo sappiamo, ma prima di morire di streaming potremmo per esempio tornare a leggerlo. E magari regalarlo a Natale in forma di libro. Fin troppo facile pensare a Shakespeare, che andrebbe compulsato dalla prima tragedia all’ultima commedia. Bisognerebbe finire ogni sera e aprire ogni mattina in sua compagnia, come suggerisce Nadia Fusini in Di vita si muore. Lo spettacolo delle passioni in Shakespeare (Mondadori). Saggio coltissimo e stregante, diletto garantito. Restando sulle spalle dei giganti, con Čechov si va sul sicuro. Sembra che non accada nulla e invece, tra una tazza di te e una vodka, finisce un mondo. La storia avanza e si porta via lo svolazzare dei vestiti bianchi nelle brevi estati russe, i giardini dei ciliegi, i pomeriggi oziosi e gli amori (quasi sempre sbagliati). Dice Trina, una delle Tre sorelle: «Verrà un giorno in cui sapremo il perché di tutto questo, di tante sofferenze. Allora non ci saranno più misteri, ma nel frattempo dobbiamo vivere!» Scritto più di cent’anni fa, perfetto per come ci sentiamo oggi.

Tutti i suoi capolavori, Il gabbiano, Tre sorelle, Zio Vanja, Il giardino dei ciliegi in unico volume, Teatro, con introduzione di Angelo Maria Ripellino e traduzioni di Gerardo Guerrieri, probabilmente le migliori (prestigiosissima collana I millenni Einaudi). E sempre dalle parti di Čechov, ecco Il medico, la moglie, l’amante. Come Čechov cornificava la moglie medicina con l’amante letteratura, delizioso divertissment d’autore a firma di Fausto Malcovati (Marcos y Marcos). Dalla Russia agli Stati Uniti, si finisce dritti tra le braccia di Tennessee Williams. Per Einaudi è da poco uscita una nuova traduzione integrale di Un tram che si chiama desiderio a cura di Paolo Bertinetti. In copertina c’è un Marlon Brando da urlo, con Elia Kazan fu interprete sia del debutto teatrale nel 1947 sia del film quattro anni dopo. Da regalarsi o da regalare, va bene comunque. Woody Allen, nella sua autobiografia, dichiara di avere un solo rimpianto: non aver scritto A Streetcar named Desire, fate voi. Tornando in Italia, non bisognerebbe lasciarsi sfuggire Tutte le commedie di Franca Valeri raccolte da La Tartaruga in un volume con prefazione di Lella Costa. Non le piaceva essere definita femminista, ma la sua verve e la sua intelligenza sono una lezione sublime. Soprattutto per gli uomini. Non per niente Alberto Arbasino la definiva «venerata maestra». A proposito di maestri, ma cambiando genere, c’è un’autobiografia che si fa leggere tutta d’un fiato, quella di Umberto Orsini. Si intitola Sold Out (Laterza): ha la stessa grazia, la stessa sapienza e lo stesso irresistibile fascino di chi l’ha scritta. Una vita avvincente come un romanzo, tra set e jet set, Luchino Visconti e le gemelle Kessler, grandi amori tempestosi (uno su tutti, Rossella Falk) e tanto, tantissimo teatro. Doppio salto mortale e dai fasti novecenteschi si entra di slancio nel contemporaneo con Realismo globale, una raccolta di testi di Milo Rau appena pubblicata da Cue Press. Genio controverso, pensiero radicale, militanza etica e politica, non se ne può prescindere. E per chi volesse fare un regalo prezioso, In Kantor, magnifico volume fotografico di Maurizio Buscarino sul teatro di Tadeusz Kantor (La Casa Usher).

Globalcity 2
14 Dicembre 2020

Moderne estetiche neobarocche. E la scena, un non luogo senza tempo e senza testo, diventa un laboratorio digitale

Andrea Bisicchia, «lo Spettacoliere»

Esiste ormai un canone, per il nuovo teatro, che non appartiene soltanto al teatro performativo, ma anche al teatro di tradizione, ed è basato sul diverso rapporto che si è venuto a instaurare con lo spazio scenico, con gli strumenti tecnologici, impensabili fino a un ventennio fa, con gli stimoli sensoriali che ne sono succeduti, con l’invenzione di scenografie che non si limitano a descrivere, ma ad esprimere, con le video proiezioni e con gli apparati sonori.

Questo canone ha trasformato la forma dello spettacolo, tanto da costruire dei palinsesti all’interno del palcoscenico, dove viene rappresentato un testo che non appartiene alla scrittura, ma alla memoria che viene utilizzata per drammatizzare un processo che è avvenuto dentro di noi e che, in alcuni casi, appartiene all’autobiografia artistica. È come se la multimedialità avesse preso il sopravvento su una idea di spettacolarità che sembra appartenere a un lontano passato.

Si nota una moderna estetica neobarocca dietro questa trasformazione, basata sulla ricerca dello stupore e della meraviglia, conseguenza di una teatralità che ha abbandonato i testi scritti, sostituiti da video-mapping, da interaction design e persino dall’intelligenza artificiale. Si è andato oltre i teorici antesignani, come Shechner o Lehman, per accedere alle ‘meraviglie’ di Lepage, alle contaminazioni di Anagoor, di Studio Azzurro, di Instabili Vaganti. Il critico, pertanto, non è più chiamato a interpretare il pensiero, la filosofia di un testo, quanto quello di una drammaturgia digitale.

Ho ritenuto necessario questo preambolo per poter parlare dell’esperienza condotta da Instabili Vaganti che è anche frutto della loro maniera di intendere la scrittura scenica, ben presente nel volume The Global City, pubblicato da Cue Press, contenente il testo e la drammaturgia di Nicola Pianzola, le note di regia di Anna Dora Dorno, oltre agli scritti di Simona Maria Frigerio ed Enrico Piergiacomi.

The Global City che, nella forma dello spettacolo, aveva debuttato nell’ottobre del 2019 presso la Sala Mercato del Teatro Nazionale di Genova, voluto dall’allora direttore Angelo Pastore, oggi è diventato un libro, il cui testo è stato il pretesto per la creazione di una messinscena, rispetto al quale, grazie alla regia della Dorno, è apparsa del tutto autonoma.

L’argomento, molto sintetico, ha per protagonista un emarginato che cerca di sopravvivere facendo mestieri diversi, tra i quali quello di un venditore ambulante di ricordi.

La struttura è costituita da un prologo, da dieci trasfigurazioni e da un epilogo. Pianzola e Dorno hanno sostituito la parola ‘scena’ con ‘trasfigurazione’, proprio per evidenziare subito la loro scelta: pur partendo da una realtà sociale, quella delle grandi metropoli, questa realtà viene semplicemente trasfigurata. Le megalopoli sono quelle di alcune città messicane, coreane, indiane, dove i due artisti hanno trovato lunghe ‘residenze’, i cui luoghi emergono grazie a un abile uso delle immagini e delle video proiezioni, ma, soprattutto, al modo particolare con il quale vengono miscelati i vari linguaggi, sia visivi che sonori, mentre il lavoro della regia si concentra sul corpo dell’attore-performer che occupa il palcoscenico interagendo con le immagini proiettate, con gli oggetti e con i costumi coloratissimi, dove non manca l’uso del microfono.

La struttura drammaturgica ha una sua complessità dal punto di vista scenico, essendo immersa in un ‘non luogo’, ma anche in un ‘non tempo’, trattandosi di un tempo infinito, senza lancette, durante il quale, prendono vita i frammenti della memoria e della narrazione.

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7 Dicembre 2020

Da Socrate a Freud per scoprire il rapporto tra finzione e verità. E pensare che in due parole già disse tutto Eduardo

Andrea Bisicchia, «lo Spettacoliere»

Abbiamo conosciuto, recentemente, lo scrittore franco-uruguaiano Sergio Blanco grazie al Festival Vie, organizzato a Modena da ERT (Emilia Romagna Teatro), dove è stato rappresentato Il bramino di Dusseldorf, e al Festival LAC, diretto da Carmelo Rifici, dove è andato in scena Memento mori.

L’editore Cue Press ha pubblicato non solo tre testi del suo Teatro: Tebas Land, L’ira di Narciso, Il bramino di Dusseldorf, ma anche un testo teorico, Autofinzione, in cui l’autore cerca di spiegare la sua poetica, ovvero il suo modo di intendere il lavoro di scrittura, attento a rappresentare la realtà in forma di finzione.

Blanco dichiara subito che il termine lo ha preso in prestito dallo scrittore francese Serge Doubrovsky (1928- 2017) che nel suo romanzo più noto, Fils (1977), scritto in forma autobiografica, racconta la sua vita, a suo giudizio «impossibile a conservare, ma possibile a inventare», come dire che l’autobiografia sia incompatibile con la verità, essendo in balia della finzione immaginativa, tanto da non assicurare un racconto autentico. Blanco, prima di esporre il proprio Decalogo, per giustificare la sua idea di Autofinzione, ne ripercorre le origini, partendo dal «conosci te stesso» di Socrate, per attraversare, successivamente, autori come San Paolo (Lettera ai Galati), Sant’Agostino (Le Confessioni), Santa Teresa (Emanazioni dell’anima), Montaigne (Saggi), Rousseau (Le Confessioni), Stendhal (Vita di Henry Brulard) e, ancora, Rimbaud, Nietzsche, Freud e le successive scoperte psicoanalitiche sulla conoscenza profonda del proprio Io. Non cita Pirandello, forse non lo ha mai letto o visto, perché si sarebbe accorto che, gran parte del suo teatro, è costruita sul rapporto verità-finzione.

A mio avviso, Blanco non inventa nulla riguardo il problema dell’identità, anche perché gran parte della narrativa e del teatro ha avuto come oggetto l’arte di narrare o rappresentare se stessi. Inoltre, c’è da ricordare che, sulla scia dell’Autofinzione, si è imposta l’Autofiction che ha grande fortuna, soprattutto, nelle produzioni televisive. Spesso, ci si chiede quanto possa essere etico svelare i dettagli privati della propria vita, soprattutto se su di essi si costruiscono trasmissioni televisive che sembrano uscite da un letamaio, dato che il vero e il falso fanno spettacolo, anche se di pessimo gusto. C’è da dire che ciò non si verifica nelle opere d’arte, dove, spesso, verità e finzione sono inestricabili e dove la realtà può essere trasfigurata in una dimensione drammatica, ma anche favolistica, onirica, metafisica, pur mostrandosi fintamente reale.

Blanco sostiene che le sue Autofinzioni non intendono autocelebrarsi, considerandole un tentativo di capire se stessi per arrivare agli altri. Per un simile motivo, ha creato il Decalogo nel tentativo di definire l’Autofinzione, a cui si arriva, a suo avviso, attraverso un processo che può fondarsi su: la conversione, il tradimento, l’evocazione, la confessione, la moltiplicazione, la sospensione, l’elevazione, la degradazione, l’espiazione e la guarigione. Si tratta della parte più originale del breve trattato, in cui si cerca di spiegare come raccontare se stessi e, nello stesso tempo, come ‘farsi finzione’. Blanco, per dimostrare la sua teoria, porta esempi tratti dai suoi testi, da quelli citati a Kassandra, Ostia, Cartografia di una sparizione, nei quali il proprio vissuto si trasforma in materia grezza, spetterà all’Autofinzione la maniera di reinventarla, perché la tecnica della reinvenzione, tra esagerazione e degradazione, permette di tracciare un percorso che è anche di ‘guarigione’. Nell’Arte delle commedia, Eduardo sosteneva: «In teatro la suprema verità è sempre la suprema menzogna». Ma Blanco non conosce neppure il grande autore napoletano, dato che non lo ha mai citato.

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Garolla francesca foto autore 2
30 Novembre 2020

Tu es libre di Francesca Garolla

Maria Dolores Pesce, «Dramma»

Leggere un testo e vedere uno spettacolo sono modi diversi, talora molto diversi, di rendersi conto intimamente della realtà che ci circonda, ci penetra e spesso si nasconde nella nostra memoria trasformandosi a volte anche in falsa conoscienza, di rendercene conto dunque per poterlo smascherare questo esserci che siamo, consapevolmente e inconsapevolmente.

Qualche volta però, raramente, sono modi diversi ma sovrapposti e quasi combaciano, come in questo caso ove il testo sembra portare con sé, quasi incorporandolo, lo spettacolo stesso, evocandolo fin quasi a suggerirlo.

È un bel testo infatti, potente ed evocativo, che si muove con sapienza sul filo del nostro rifiuto, il rifiuto di un mondo in guerra che crediamo non ci appartenga, forzandolo, questo rifiuto, fino a farci diventare una parte di quel mondo, un protagonista comunque, volente o nolente, complice oscuro o evidente strenuo avversario. Un testo che è un interrogativo dunque, un interrogativo che lo titola e lo percorre, riguardandoci.

Perchè Haner è partita per la Siria offrendo la sua vita? Fino a che punto la libertà, o se così vogliamo chiamarla, il libero arbitrio consente la scelta di rinunciare alla libertà stessa e alla vita nostra e degli altri? Queste le domande, le risposte riguardandando la scena e gli spettatori, ovvero qui i lettori.

Esce per I testi di Cue Press questa scrittura di Francesca Garolla, drammaturga di Teatro i di Milano, segnale di una maturazione in corso e frutto di un percorso e di un contesto europeo coordinato nell’iniziativa di Fabulamundi, accompagnato dagli interventi di Attilio Scarpellini e di Christian Raimo e dalle note di Renzo Martinelli, regista dello spettacolo ora in tournée.

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Robert musil 1
25 Novembre 2020

Teatro

Massimo Bertoldi, «Il Cristallo»

Riflettendo sulla composizione delle novelle e del dramma I fanatici, Robert Musil ne rivelò il principio narrativo: «L’ho chiamato quello dei ‘passi motivati’. Non far accadere nulla (oppure: Non far nulla) che sia interiormente di valore. Ciò significa anche: Non far niente di casuale, niente di meccanico».

Questo assunto, che mette i discussione il dominio della casualità, fondando una visione antimetafisica del mondo, attraversa i tre testi pubblicati in questo prezioso volume tradotto e curato da Massimo Salgaro, che nell’introduzione affronta tematiche cruciali per capire la drammaturgia musiliana solitamente interpretata come «unspielbar», ossia inadatta alla scena tanto da conoscere all’epoca fallimentari allestimenti di contro alla felice rivalutazione odierna. Calato nel suo contesto storico-culturale, l’autore de L’uomo senza qualità prende le distanze dalla protesta giovanile del coevo espressionismo che, a suo dire, avrebbe prodotto arte del tutto priva di idee incisive, vuote e banalmente urlate.

Eppure questo confronto, polemico e di distacco, con l’avanguardia attraversa i tre testi raccolti in volume, a partire dall’inedito per il lettore italiano Preludio al mélodrame Lo zodiaco scritto nel 1920, «una specie di requiem, al teatro espressionista», sostiene Salgaro, dal quale assume, per esempio, il tema del viaggio, in questo caso di Uomo durante l’inverno. Incontra, nel corso di una violenta bufera di neve, figure allegoriche – la Morte, il Freddo, la Miseria, la Tempesta –, soggetti antagonisti tipici dell’epoca guglielmina – il Politico, il Giudice, il Professore –, e figure femminili quali la Celeste, una Donna, la Madre. Alla fine Uomo sarà condannato a morte per il suo torbido passato e giacerà ricoperto da un manto nevoso.

Protagonista de I fanatici, l’opera più importante di Musil scritta tra il 1908 e il 1920, è la forza della menzogna intorno alla quale si sviluppa una trama scarna, puntellata da torbide relazioni vissute da sognatori coinvolti in un gioco ambiguo di sopraffazioni e di annientamenti. Il dramma si ambienta in una lussuosa casa di campagna abitata da Thomas, affermato scienziato, e dalla bella moglie Maria. Ospitano Regine, sorella di Maria sposata con Josef e vedova tormentata di Johannes, il ricercatore di dubbio valore Anselm e la signorina Mertens, ai quali si unisce il detective Stader che, ingaggiato da Josef, smaschera Anselm, dimostrando il suo essere seduttore e impostore che non gli impedisce di convincere la stessa Maria a fuggire con lui. Nel testo dominano dialoghi intensi e profondi, capaci di scavare nelle viscere psicologiche e esistenziali dei vari personaggi.

Completa il volume Vinzenz e l’amica degli uomini importanti. Scritta nel 1922 e presentata in prima assoluta nel 1923 al Lustspielhaus di Berlino, la farsa presenta uno spaccato della società borghese simile a una fiera di vanità animata da bizzarri soggetti imbevuti di narcisismo e superbia. Intorno ad Alfa, moglie del dottor Apulejus-Halm, si agitano una schiera di ammiratori-corteggiatori e l’ex fidanzato e amico d’infanzia Vinzenz, ingaggiato dal marito per rivelare i tanti tradimenti della donna. Anche lui si rivela un mentitore, anche se le sue fantasie corrispondono alla realtà e proietta le vicende in una visione che lambisce il teatro dell’assurdo, perché in sé «i fatti sono fantastici».

Così diversi e così simili i personaggi di queste tre commedie condividono il loro essere pallide nudità decorosamente vestite da pensieri finemente profondi e destinati al nulla; quel nulla che parafrasa la fine del mito dell’Austria felix che il dotto e geniale scrittore di Klagenfurt racconta all’interno della sua opera.

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Fosse portrait
23 Novembre 2020

Alla ricerca d’un Dio perduto. Ma nell’arte (e nel teatro, nelle forme invisibili del misticismo) Egli potrà ancora rivelarsi

Andrea Bisicchia, «lo Spettacoliere»

In Italia, per molto tempo, la letteratura nordica ha avuto, come punti di riferimento, Ibsen e Strindberg. Soltanto verso la fine del 1900 ha scoperto autori come Lars Noren, svedese, classe 1944,  o come Jon Fosse, norvegese, classe 1959, un po’ snobbati, a dire il vero, dalle grandi case editrici e dai Teatri Stabili, anche se, abbastanza recentemente, lo Stabile di Torino ha prodotto Sogno d’autunno, visto anche a Milano, al Franco Parenti, con la regia di Valerio Binasco, protagonisti Giovanna Mezzogiorno, Michele Di Mauro.

Altri drammi come Caldo, Insonnia, Io sono il vento hanno suscitato l’interesse di giovani attori e giovani registi. A proposito di Fosse, molte sono state le definizioni sulla sua poetica e sul suo linguaggio: cantore dell’infelicità quotidiana, dell’incomunicabilità, autore di un linguaggio asciutto, ripetitivo, asettico, analitico, capace di sezionare la frase per trarne significati diversi. Dei suoi testi si sono interessati registi come Patrice Chéreau e Thomas Ostermeier.

L’editore Cue Press ha pubblicato, a cura di Franco Perrelli, noto conoscitore della drammaturgia nordica, il volume Saggi gnostici, dove sono raccolti molti interventi sulla letteratura e sul teatro, a cui Fosse si è avvicinato dopo anni di narrativa, con la consapevolezza che il linguaggio letterario sia ben diverso da quello saggistico o drammaturgico, e che la teoria ha poco a che fare con la creazione artistica.

Chiediamoci subito perché saggi gnostici? Per Fosse, la risposta è alquanto chiara: perché la conoscenza sta a base di tutto e perché da essa, al di là della fede, dipende la salvezza spirituale. A tale proposito, Fosse è andato alla ricerca di un Dio perduto, scoprendo che Egli si rivela attraverso l’arte e la gnosi, le sole che permettano di conoscerlo in profondità. Il vero teatro è quello che sulla scena è «attraversato dall’angelo», grazie al quale, la scena stessa diventa ‘mistica’. Compito della scrittura, pertanto, è far conoscere ciò che risulta sconosciuto o che viene ad esistere per la prima volta, essa può essere espansiva, come quella di Ibsen e Joyce, o riduttiva come quella di Beckett e Bernhardt, autori ai quali si sente più vicino.

Per Fosse, buon conoscitore del pensiero di Wittgenstein, l’arte drammatica ha la capacità di realizzare il vero, facendolo accadere, parafrasando, in tal modo, l’inizio del Tractatus, dove si legge: «Il mondo è tutto ciò che accade», come a significare che siamo tutti uomini d’azione. A tale proposito, Fosse scrive: «In ogni caso c’è una conoscenza su come noi, spesso, attraverso dichiarazioni emotive e silenzi, per così dire, ci creiamo l’un l’altro anche come significativi e impegnati uomini d’azione». In un suo dramma, La notte canta i suoi canti, la protagonista si chiede: «Cosa fa accadere ciò che accade?

La buona drammaturgia, non solo deve chiedersi ciò che accade, ma come accade, in questa ricerca, sostiene Fosse, la si sente più vicina all’uomo per poterne scrutare i segreti e i misteri. Forse per questo, Fosse ricorre allo gnosticismo, perché, nei segreti del genere umano, si trovano forme dell’invisibile e il teatro dà il meglio di se quando è capace di rappresentarlo, quando porta in scena l’inspiegabile, da cui dovrebbe scaturire l’azione, non quella convenzionale, ma quella fondata sulla tensione, sulla intensità, perché il dramma non va costruito sulla discussione, bensì sul pensiero, per la cui esecuzione ha bisogno di un attore che sappia elevarsi, rispetto al personaggio, e che sappia distanziarsene, dovendo essere contemporaneamente ‘parte e totalità’. Al suo lavoro, però, deve corrispondere quello dello spettatore che dovrà essere capace di ‘connettersi’ con quelli che Fosse chiama «momenti magici» o «istanti privilegiati». Il volume è preceduto da una sapiente introduzione di Franco Perrelli, che ne è anche il traduttore.

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