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Approfondimenti, interviste, recensioni e cultura: il meglio dell’editoria e delle arti da leggere, guardare e ascoltare.

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20 Maggio 2020

Impulsiva nevrotica mutevole. La sfuggente Hedda Gabler di Ibsen. Metafora d’un mondo di vite sciupate, senza amore

Andrea Bisicchia, «lo Spettacoliere»

Sono tante ‘le figlie’ di Ibsen, ciascuna con un proprio carattere ben definito, conseguenza di storie passate e presenti. Non credo, però, che egli abbia espresso delle preferenze, benché le abbia dimostrate per Hedda, forse perché la più sfuggente e con caratteristiche più indeterminate rispetto alle altre. Anzi, è proprio l’indeterminatezza a farne un personaggio complesso.

Paolo Puppa, autore del saggio La figlia di Ibsen – Lettura di Hedda Gabler, edito da Cue Press, cita addirittura il Principio di indeterminazione di Heisenberg, come dire che non è possibile misurare le proprietà psicologiche di Hedda, poiché si abbandona ai suoi impulsi, alle sue nevrosi, sempre mutevoli.

Mi sono occupato, sulle pagine di questo giornale, di un altro testo di Puppa: Giganti senza fantasmi, definendo ‘circolare’ la sua metodologia esegetica, nel senso che lo studioso sceglie un testo attorno al quale fa girare tutta l’opera di un autore. Lo stesso accade per La figlia di Ibsen, che Puppa pubblicò due anni dopo aver visto la messinscena di Massimo Castri (1980), con Valeria Moriconi protagonista, con in scena un grandissimo ritratto di Ibsen che sostituiva quello del padre, il generale Gabler che, forse, gli ispirò il titolo del libro. In quella occasione, il regista scrisse un saggio sulla crisi del dramma borghese e la nascita del dramma moderno, di cui Ibsen sarebbe l’anticipatore, avendo distrutto l’idea di ottimismo, tipica della borghesia del tempo, quasi anticipando quella dialettica del negativo, che sarà oggetto di analisi in un noto saggio di Adorno. Questa negatività è presente nel personaggio di Hedda a cui si attribuiscono una serie di attributi sfavorevoli, fra i quali spiccano: antipatica, viziata, nervosa, eccentrica, isterica, frigida, benché susciti eros negli uomini che l’avvicinano.

Puppa ne aggiunge di suoi, ritenendola Amazzone, col complesso di Pentesilea e, contemporaneamente, ninfa Egeria, aggiungendo che è una donna sempre annoiata, vivendo con un marito mediocre che disprezza e col quale non ama discutere. A queste anticipazioni, Puppa fa seguire le variazioni, partendo dalle teorie di Mauron, secondo il quale ogni personaggio di qualche importanza «rappresenta una variazione di una figura mitica e profonda».

Hedda diventa il fulcro da cui partire per fare un inventario delle altre donne di Ibsen, presenti sia nelle opere giovanili che in quelle della maturità. Così, per dimostrare che esistano degli antecedenti caratteriali rispetto a Hedda, Puppa risale a drammi come Cesare e Catilina o Guerrieri a Helgeland, per scoprire donne vendicative, nemiche o lottatrici come Furia o come Hjordis, donne insomma che sanno solo odiare come Hedda. Solo che esistono, rispetto a lei, anche dei contrappesi, quelli di donne sottomesse, di anime subalterne, di donne agapiche, come Agnes in Brand, Aurelia, moglie di Catilina, Solveing in Peer Gynt, donne che si sacrificano come zia Julle o come Thea in Hedda Gabler, che pensano alla felicità altrui, donne che sanno ribellarsi, come Nora.

Puppa fa ruotare, attorno a Hedda, un universo di ‘caratteri’ femminili e maschili, mostrando una conoscenza approfondita di tutto il corpus drammaturgico di Ibsen, evidenziandone i pregi (pochi) e i difetti (molti), anche perché sono in tanti a vivere di ricatti, di simulazioni, di conflitti; sono personaggi che salgono e scendono nella scala sociale, che non si fanno scrupoli nel corrompere, come il console Bernick, protagonista di I pilastri della società, non molto dissimile da Peter Stokmann in Il nemico del popolo. Non mancano le figure degli artisti sconfitti, degli artisti mediocri, inquieti, frustrati che offrono a Puppa nuovi modelli di indagine, che gli permettono di inoltrarsi anche in storie di personaggi non protagonisti come, per esempio, Foldal, tragediografo mancato in John Gabriel Borkman, o John Paulsen, critico letterario con poco avvenire in Notte di San Giovanni. E che dire di Hjalmar, il fotografo artista di L’anitra selvaggia o dello stesso Tesman, filologo medievale di poco conto, marito di Hedda? E ancora come dimenticare l’ebbrezza distruttiva di Brand, Solness, Lovborg, Rubek, di chi sale e di chi scende?

Puppa si muove con leggerezza lungo le tre fasi del teatro di Ibsen, quella storico-epica, quella naturalista e quella simbolista, tre aree culturali in cui lo spazio interno, quello del salotto borghese, si confronta con lo spazio esterno di La donna del mare o di Peer Gynt, uno spazio che deve confrontarsi col tempo sempre diverso, sempre in conflitto tra passato e presente, tra rimozione e regressione, tra sensi di colpa e tormenti quotidiani, dove si intrecciano storie di vite sciupate, di vite senza amore, tra moglie frigide come Hedda o infoiate come Rita in Il piccolo Eyolf.

Puppa non tralascia nulla di questo mondo dai destini opachi, dagli sporchi segreti, lo smonta e lo rimonta come un perfetto orologiaio.

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La funzione culturale dei festival ph ilaria costanzo 8466
18 Maggio 2020

Tempo di festival istruzioni per l’uso (e una evoluzione)

Rodolfo di Giammarco, «la Repubblica»

Ora che la scena italiana dello spettacolo dal vivo si rimette in moto dal 15 giugno, ci sarà una veloce rimodulazione degli appuntamenti estivi, delle manifestazioni legate spesso più al territorio che alle strutture canoniche del teatro, e allora c’è un volume sulla rimeditata identità degli eventi culturali performativi, uno strumento di consultazione, di riflessione, di confronto in materia di dinamiche organizzative e creative. Questo manuale s’intitola La funzione culturale del festival, ne sono curatori Edoardo Donatini e Gerardo Guccini, e la materia prima, risalente a un seminario tenutosi al Teatro Metastasio di Prato, è alimentata da studiosi, critici e operatori che hanno radiografato le dinamiche delle progettazioni, le storie intellettuali e attitudinali dei festival, le interlocutorietà fra il sistema paese e le narrazioni che lo riflettono o lo criticano. Sergio Ariotti, che dirige il Festival delle Colline Torinesi, raccomanda di riconoscere le distinzioni che ci sono tra le politiche istituzionali e le matrici più concentrate su una netta geografia di radici, su una fascia generazionale giovane, su un’intesa con una contemporaneità internazionale fuori dai linguaggi globali. Come compendia Edoardo Donatini, questa ricerca di una definizione di concetto di festival non porta a un mosaico di realtà ma a una nuova lettura del presente ad opera di una comunità. Importanti sono il cenno di Gerardo Guccini sull’apparizione nel 1997 del Festival della Letteratura di Mantova, il dato controculturale richiamato da Roberta Ferraresi e Graziano Graziani, l’esame degli ‘obblighi’ avanzato da Luca Ricci e Rodolfo Sacchettini, il potere dei festival secondo Roberto Canziani, la trasversalità toccata da Fabio Masi e Fabio Acca, il focus di Massimo Marino e Barbara Regondi su Vie, l’interazione per voce di Andrea Nanni e Velia Papa. Una prima tac dei festival.

Teatro romano
16 Maggio 2020

Vincenzo Blasi, Teatri greco-romani in Italia

Francesco Puccio, «ClassicoContemporaneo.eu»

Colpisce subito, di questo poderoso, dettagliato e accurato volume sui teatri antichi greco-romani in Italia, la dedica che l’autore rivolge all’archeologo siriano Khaled al-Asaad, ucciso dai miliziani jihadisti nel 2015, in quanto si era rifiutato di rivelare dove fossero nascosti i tesori di Palmira. Uno studioso coraggioso e consapevole del patrimonio di cui simbolicamente si era posto a presidio, la cui decapitazione ha segnato uno dei momenti più bui della violenza terroristica che ha insanguinato il nostro mondo; ma anche un uomo che, con questa forma di resistenza, ha fatto della conservazione e della valorizzazione dei beni archeologici, intesi come il modello di una cultura che fosse un valore irrinunciabile da ereditare e da trasmettere costantemente agli altri, la ragione stessa della propria esistenza.

Come opportunamente ricorda Nicola Savarese nella prefazione al testo, il numero elevatissimo, nei paesi dell’area del Mediterraneo, di edifici teatrali – intesi tanto come teatri veri e propri quanto come anfiteatri e circhi – ancora oggi presenti e visibili, o ricostruiti grazie alle attività di scavo, alle esplorazioni topografiche, alle testimonianze dei testi e delle iscrizioni, è il segno tangibile dell’importanza architettonica e culturale che tali strutture possedevano nel mondo antico.

L’importanza dello spazio teatrale antico, aperto, dinamico e fortemente connesso con il tessuto sociale della comunità, come occasione di partecipazione collettiva o come momento di svago e di divertimento, è dunque testimoniata dalla presenza capillare di tale edificio nelle sue più varie forme e caratteristiche. Occorre ricordare, infatti, che accanto ad un dramma costituito dalle parole, ereditato grazie alla trasmissione dei testi tragici e comici, vero e proprio patrimonio della cultura occidentale, ne esiste un altro, ugualmente necessario, fatto di tutte quelle azioni che hanno vita all’interno dello spazio di rappresentazione. E l’uno non può immaginarsi senza l’altro. Di qui, la considerazione dell’edificio teatrale antico inteso non solo come un contenitore – secondo una visione che meglio si adatta alla nostra idea di teatro moderno – ma anche come un contenuto, ossia come un elemento di dialettica costante con gli altri aspetti della messa in scena, dagli attori al testo, dalle scene alla musica, dagli oggetti alle danze. Del resto, i drammaturghi antichi sono stati essi stessi uomini di teatro, hanno diretto il movimento del coro, supervisionato le prove e progettato la scenografia dei loro lavori, in alcuni casi recitato in prima persona, e comunque, per loro, uno spettacolo poteva dirsi concluso solo nel momento in cui andava in scena e non quando ne veniva completata la scrittura.

Il teatro, dunque, al di là del fenomeno culturale più antico e più longevo della storia dell’umanità di cui è espressione, resiste ancora come manifestazione di una permanenza architettonica forte nel tessuto urbanistico delle città, al punto da diventare spesso occasione di riuso e di riproposizione nel mondo contemporaneo, come dimostrano i tanti festival, le numerose manifestazioni e le svariate rassegne di spettacoli classici che trovano, oggi, una loro suggestiva collocazione negli luoghi antichi.

Di qui, l’opportunità e l’utilità dell’operazione compiuta da Vincenzo Blasi, il quale ci propone un dizionario, presentato in circa duecentocinquanta voci suddivise in ordine alfabetico, destinato allo studio e all’approfondimento, ma anche alla semplice consultazione e all’aggiornamento per quanti, al di là della specificità degli studi o degli interessi di ricerca, abbiano voglia di mettersi in viaggio, attratti dalle peculiarità di tutti quei monumenti greco-romani destinati agli spettacoli e disseminati ovunque sul nostro territorio, dai teatri agli anfiteatri, dai circhi agli stadi.

Un percorso che segue il filo dell’evidenza archeologica e topografica, dando conto degli studi condotti sulle varie aree geografiche da università e gruppi di ricerca, ma che non trascura di riportare gli elementi desumibili dalle testimonianze epigrafiche, documentarie e, naturalmente, letterarie, grazie anche all’ampio apparato di fonti riportate.

Un’utile guida iniziale alla lettura permette, inoltre, di orientarsi nella struttura dell’opera, nella terminologia adoperata e nella suddivisione dei lemmi, con un riepilogo dei principali termini tecnici che offrono le coordinate storico-archeologiche degli edifici e che costituiscono un riferimento imprescindibile per addentrarsi nella complessa nomenclatura che caratterizza i teatri greci e quelli romani e le loro singole strutture architettoniche.

Ciascuna voce è organizzata seguendo il medesimo schema. A titolo di esemplificazione e per dare conto della disposizione generale, scegliamo la località di Elea-Velia, in provincia di Salerno (pp. 143-144). Dapprima vengono indicati dall’autore il riferimento geografico del sito e la collocazione attuale: «Località della Campania nel comune di Ascea (prov. di Salerno), sulla costa del Cilento».

Si passa, poi, alle informazioni di carattere storico-archeologico, esposte in maniera dettagliata e ampia, così da dare conto non solo della fondazione della città, ma anche delle successive stratificazioni ed evoluzioni: «L’area archeologica (accesso da via di Porta Rosa) corrisponde al sito dell’antica città di Velia, colonia greca fondata nel VI sec. a.C. dai Focesi e municipio romano nel I sec. a.C. La città, su un promontorio che si protendeva sul mare, si componeva di tre nuclei: l’acropoli, con il tempio (V sec. a.C.) forse dedicato ad Atena Polias, il quartiere nordoccidentale e il quartiere sudorientale, vero centro politico e amministrativo, dove sono stati individuate l’agorà, l’area portuale e diverse abitazioni. Sull’acropoli, tra il tempio e una strada del IV sec. a.C., è situato il teatro greco, di età ellenistica, con funzione anche di bouleuterion».

Di qui, si arriva all’indicazione dell’edificio teatrale con una puntuale indicazione delle strutture interne e della relativa nomenclatura, con accenni al periodo di edificazione o di ricostruzione, agli elementi compositivi, ai materiali edili impiegati, all’ubicazione all’interno dell’area archeologica di riferimento, alla funzione svolta e allo stato di conservazione: «Rifatto in epoca romana (II sec. d.C.), conserva connotazioni greche. La cavea (diam. m 47,50), addossata al pendio naturale nel settore ovest e su un terrapieno nella parte nord, presentava ventuno file di gradini divisi in sei cunei. All’orchestra (diam. m 14,50), a ferro di cavallo e separata dalla cavea per mezzo di un parapetto, si accedeva dalle parodoi rettilinee; il rivestimento in cocciopesto del piano ha fatto anche pensare a un utilizzo per giochi gladiatorii o per spettacoli in acqua. L’edificio scenico era probabilmente a parasceni. Del monumento si conservano due cunei delle gradinate e le fondazioni della scena».

Completa il lemma un’interessante apertura sul riutilizzo dello spazio in età contemporanea, un dettaglio non trascurabile che dà conto della funzione che l’area, nella sua interezza, o l’edificio, nella sua specificità, svolgono, così da offrire, non solo agli studiosi del mondo antico ma anche ai fruitori moderni del bene archeologico e museale, una curiosità e un prezioso spunto di conoscenza: «Dal 1998 ospita il festival Velia Teatro, rassegna dedicata all’espressione tragica e comica nel teatro antico, e dal 2010 l’evento Elea-Veli-Archeo-Film».

Un altro elemento interessante, e particolarmente utile alla consultazione del volume, è il corredo di immagini e di ricostruzioni fotografiche che si trovano alla fine di ciascun gruppo di lemmi e relative ai luoghi citati e ai corrispondenti edifici. Conclude il volume, infine, un’ampia e molto ben documentata bibliografia, anch’essa suddivisa sulla base delle singole voci, che fornisce al lettore un ulteriore agio nell’orientamento e nella consultazione complessiva.

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August strindberg
15 Maggio 2020

Lettere di August Strindberg

Massimo Bertoldi, «Il Cristallo»

Ha il ritmo narrativo di uno splendido romanzo epistolare questo volume curato da Franco Perrelli, illustre studioso di teatro scandinavo, che impagina le Lettere di August Strindberg seguendo un assemblaggio finalizzato a intrecciare la corrispondenza epistolare con la vita e il percorso creativo dello scrittore. È lo stesso drammaturgo e romanziere svedese a suggerire questo procedimento: il suo contatto con la letteratura avviene infatti attraverso la stesura di lettere che lo accompagnano per tutta la vita. In esse si riconosce lo stile martellante e sperimentale da lui stesso definito ‘telegrafico’. Perrelli sceglie con cura e maestria i documenti tra i tanti raccolti nell’edizione svedese dell’epistolario contenuto in venti volumi e non ancora completata.

Simili a un monologo interiore desideroso di una platea di lettori, queste lettere sono indirizzate a colleghi e editori, famigliari e anche a molti compagni di scuola e di gioventù. Raccontano, vicino a qualche momento luminoso, soprattutto travagli esistenziali, aspre polemiche, tensioni intellettuali e visioni che poi emigrano nella sostanza psicologica e morali di molti personaggi teatrali e romanzati.

Con rigore scientifico e abilità letteraria, Perrelli divide il libro in cicli storici, a partire dal periodo 1849-1874 coincidente con l’attività di Strindberg in qualità di amanuense malpagato (il denaro sarà un altro capitolo doloroso) presso la Biblioteca Reale di Stoccolma, con gli esordi come scrittore e drammaturgo alle perse con la promozione di Mastro Olof nei circuiti teatrali e letterari.

La crisi psichica provocata dall’amore per l’attrice Siri von Essen, sua futura prima moglie; l’amicizia con l’influente critico Georg Brandes e la stesura de La sala rossa costituiscono le tematiche portanti dal 1875 al 1883.

Il biennio successivo, 1884-1886, si presenta dominato dal rapporto difficile e controverso con lo scrittore Bjorson e dall’accusa di blasfemia e misoginia presenti nei racconti contenuti in Sposarsi. Il processo provoca ulteriore destabilizzazione e rabbia sociale in Strindberg. Le stesure e le rappresentazioni teatrali de Il padre e de La signorina Giulia, unitamente al romanzo Autodifesa di un folle, sono gli argomenti ricorrenti nelle corrispondenze del 1887-1891.

Stati di angoscia e di pessimismo quasi apocalittico abbondano nelle lettere scritte nel 1892-1894, quando l’autore di Danza di morte divorzia con Siri per legarsi alla giovane Frida Uhl, mentre Lugné Poe firma un trionfale allestimento parigino de Il padre.

Nel titolo del celebre romanzo autobiografico Inferno si sintetizza la sostanza di un’esistenza che non muta rotta nel triennio successivo, durante il quale viene alla luce la trilogia di Verso Damasco, la sua opera teatrale dalla concezione indubbiamente più spudorata.

Completano questo articolato percorso gli anni 1899-1906. Le lettere rivelano un intellettuale attento alla famiglia – scrive molto alle figlie e alla terza moglie, Harriet Bosse, dalle quali traspare l’avvicinamento della morte; emerge inoltre l’immersione nello studio della filosofia e delle religioni in parallelo all’attività al Teatro Intimo per il quale scrive e rappresenta i suoi atti unici.

Queste lettere, accompagnate dal limpido e esaustivo testo di Perrelli e da adeguato apparato iconografico, diventano prezioso strumento di approfondimento per la conoscenza di una delle figure più inquietanti e geniali della cultura europea.

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Tarantino antonio foto autore
13 Maggio 2020

Giuseppe Verdi a Napoli

Francesco Bracci, «Verdiperspektiven»

La figura di Giuseppe Verdi è stata in diverse occasioni oggetto di lavori teatrali. Un certo successo lo ottenne negli anni Ottanta After Aida di Julian Mitchell, che metteva in scena la tortuosa genesi di Otello e i rapporti fra Verdi e Boito. In tempi più vicini e venendo all’Italia, nel 2013 è andato in scena alla Terme di Caracalla a Roma Un bacio sul cuore, le donne nella vita e nella musica di Verdi, con Michele Placido e Isabella Ferrari. Lo spettacolo seguiva abbastanza da vicino The man Verdi di Frank Walker e Placido-Verdi recitava lettere realmente scritte dal compositore. Questi esempi, insieme a molti altri provenienti dalla televisione, mostrano il fascino che il più celebre operista italiano continua a esercitare sull’immaginario del pubblico, e dal punto di vista del musicologo permettono di osservare la permanenza e l’evoluzione di luoghi comuni che sono parte integrante della storia della ricezione verdiana.

Su questo sfondo ci si può avvicinare a Giuseppe Verdi a Napoli di Antonio Tarantino, andato in scena a Roma (Teatro Vascello) nel 2017 e a Milano (teatro I) nel 2018, con regia di Sandra De Falco e musiche di Azio Corghi, poi pubblicato dalla casa editrice Cue Press, con introduzione di Renzo Francabandera. Questa recensione si occupa del testo pubblicato e non dello spettacolo. Coerentemente con questa limitazione, non verrà tentata una valutazione dei meriti letterari del lavoro di Tarantino o della sua riuscita in teatro.

La pièce racconta una visita immaginaria di Verdi a Salvadore Cammarano nel 1848, durante la composizione della Battaglia di Legnano, e soprattutto durante la fase iniziale del biennio rivoluzionario. A disagio in presenza del musicista ricco e famoso, Cammarano non ha il coraggio di reclamare il denaro che Verdi non gli avrebbe versato per le loro precedenti collaborazioni. È la domestica Caterina, schietta popolana napoletana, a fronteggiare il musicista. Dopo momenti di tensione in cui il rapporto tra musicista e librettista e quello tra poeta e cameriera sembrano sul punto di rompersi, la vicenda ha esito positivo con l’entrata in scena dell’impresario Flauto, che porta una borsa piena di denaro come ricompensa per l’opera che deve ancora essere scritta. Verdi, placato, lascia il denaro interamente a Cammarano, rinunciando anche alle correzioni del libretto che aveva richiesto in maniera pignola nella prima parte.

In maniera evidentemente programmatica, Tarantino non punta a una ricostruzione storica accurata. In alcuni casi gli anacronismi sono esibiti, come quando Verdi parla di «contratti a termine» (28), gettando un ponte tra la precarietà del poeta ottocentesco e quella odierna. In altri casi si è in dubbio se l’anacronismo sia voluto o no: si parla ad esempio «Austroungarici» (27; designazione valida solo a partire dal 1867: nel 1848 l’Ungheria non era ancora una nazionalità dominante dell’impero e si stava anzi ribellando contro il dominio austriaco). Le principali licenze poetiche di Tarantino riguardano non sorprendentemente l’opera: La battaglia di Legnano fu scritta per la Roma in quel momento repubblicana e non per Napoli, dove il soggetto non avrebbe mai superato la censura. Anche il rapporto tra musicista e librettista è rappresentato in maniera quantomeno singolare, in quanto il Verdi storico esercitava un controllo molto più stretto sull’intero processo di composizione e non avrebbe rinunciato alle sue idee come fa nello spettacolo.

Volute o no, queste imprecisioni contribuiscono a delineare un Ottocento immaginario, fuori dal tempo. I suoi caratteri principali sono la natura retorica dell’espressione poetica e letteraria, l’idea onnipresente (e molesta) della patria, l’idealismo limitato e in prospettiva storica fallimentare, l’inconciliabilità fra un nord prepotente e un sud arcaico, il ritardo storico rispetto ai paesi più avanzati d’Europa. Si tratta di una vulgata e di una visione politica ormai piuttosto stabile.

L’analisi del linguaggio di Giuseppe Verdi a Napoli conferma in maniera interessante questa tendenza. Nella parte iniziale, in cui i convenevoli nascondono a stento l’incomunicabilità tra i due personaggi, sia Verdi sia Cammarano parlano una lingua ironicamente vicina a quella dell’oratoria politica di età risorgimentale: «Cosa mi venite a toglier dal suo ricovero lo spinoso e oramai quasi politico argomento del censo, con tutta l’Europa in subbuglio e che dimanda a gran voce: suffragio universale!» (14; Verdi).

O: «Altrimenti quanto di pregiato in esso risiede vien via via avvilito da dimenticanze noncuranze trascuranze, sì che ove prima eravi – per universale riconoscimento – un talento, ecco che poi quella somma di virtù vien dimezzata e poi decimata e infine nullificata» (15; Cammarano).

Questo linguaggio di cartapesta si rompe quando la tensione sale, e a quel punto emerge un fondo dialettale napoletano che, con effetto comico, contagia anche Verdi.

In quanto protagonista di un’epoca contrassegnata, nella visione dell’autore, dal fallimento di un idealismo politico incapace di comprendere la realtà sociale, è inevitabile che il Verdi di Tarantino sia un personaggio piuttosto sgradevole, come il Verdi storico probabilmente non era. Il grande musicista appare come un uomo incapace di vedere i problemi della vita quotidiana di chi gli sta intorno, compreso un collaboratore come Cammarano. Questa valutazione negativa di Verdi si oppone a quella agiografica di un’abbondante letteratura, ma non è di per sé una novità, come non è una novità che il rapporto con il denaro sia un suo tema centrale.

C’è però un notevole cambiamento di prospettiva. Per i detrattori del passato, il musicista italiano rappresentava un affarista che metteva il successo economico sopra l’arte. Alfredo Casella, ad esempio, bollava nel 1913 Donizetti e Verdi come des hommes d’affaires. Nel testo di Tarantino invece Verdi diventa un (finto) ingenuo che dall’alto della sua posizione di successo non si interessa ai problemi materiali ed economici, affrontando l’impresario del San Carlo con una dichiarazione di principio che il lettore degli epistolari verdiani difficilmente riuscirebbe a immaginare in bocca a Verdi, anche al di là del linguaggio: «E a me che me ne fotte dei grani, dei tarì, delle lire, dei talleri e degli scellini! Commendator Flaùto: l’arte è libera dalle catene del denaro!» (30).

Questo ribaltamento di prospettiva è coerente con il sostanziale disinteresse per la figura storica di Verdi. Nel confronto con Cammarano, Verdi deve rappresentare le limitazioni di un artista benestante e superficialmente idealista: il ritratto viene di conseguenza. Al di là delle inesattezze storiche, giustificabili in un testo letterario, allo spettatore/lettore per cui Verdi è qualcosa in più dell’incarnazione di un’epoca e di un idealtipo questo ritratto sembrerà probabilmente ingeneroso.

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10 Maggio 2020

Riflessioni sull’essere attore. Un atto d’amore per il teatro

Diego Vincenti, «Il Giorno»

«Dopo trent’anni di pratica, il teatro mi appare ancora come un mistero. So soltanto che ci sono due modi per fare o considerare il teatro: alla superficie o il profondità, o meglio in altezza, voglio dire proiettato nella verticale dell’infinito».

Scriveva così Louis Jouvet nel 1943 da Medellín. Ennesima tappa di un giro sudamericano, intrapreso per sfuggire all’occupazione nazista. E proprio il concetto di mistero affiancato alla grammatica teatrale, è uno dei temi che torna con maggiore frequenza in Elogio del disordine, da poco pubblicato dalla Cue Press. Ormai prezioso il catalogo di questa piccola ma vivacissima casa editrice romagnola, diretta da Mattia Visani. Basti pensare alla recente pubblicazione del cult Il teatro postdrammatico di Lehmann o a Realismo globale di Milo Rau. Ma incuriosisce particolarmente questo volume antologico curato da Stefano De Matteis, dove vengono per la prima volta tradotti in italiano una lunga serie di annotazioni, pagine di diario, lettere di una delle più grandi figure del teatro d’inizio Novecento. Per altro molto caro qui a Milano dopo il fortunato Elvira di Toni Servillo al Piccolo (testo già in passato affrontato da Strehler). Riflessioni sul comportamento dell’attore recita il sottotitolo. E infatti Jouvet studia con sguardo inquieto la propria professione, mettendo al centro dell’indagine se stesso, in un processo ossessivo di quotidiana analisi del lavoro. Un atto d’amore per il teatro. Ma per chi legge anche la possibilità di riappacificarsi con un pensiero critico e teorico messo a dura prova dal periodo. La riflessione sulla pratica artistica si presta così ad essere una più vasta visione sull’uomo e il nostro essere animali sociali. Con quel viscerale bisogno di tornare presto a «riunirsi insieme in nome del sogno».

Aldo moro
9 Maggio 2020

Moro a teatro

Ludovico Cantisani, «minima&moralia»

Martire. Eroe. Vittima. Devoto. Corpo. Cadavere. Voce. Servo dello Stato. Statista. A partire dal momento della sua violenta morte – se non da prima – la figura di Aldo Moro è stata scomposta e reinterpretata in molte e diverse declinazioni; la maggior parte di esse rispettava quel carico di compassione e indulgenza che, per tacito accordo, si deve a un morto, fino a sfociare, in molti casi, a una certa idealizzazione. Moro a teatro, Moro al cinema, Moro in TV, Moro nei reportage, Moro nella storia: Moro ovunque insomma, in breve tempo anche nei supermercati. E se solo in tempi recenti si è iniziato a fare chiarezza sul famigerato Lodo Moro, se le dinamiche dell’attentato, della prigionia e dell’esecuzione dello statista sono agli occhi dell’opinione pubblica ancora oscure e agli occhi di alcuni storici fin troppo chiare, sono innumerevoli gli spettacoli teatrali che hanno esplorato da diverse prospettive la figura di Moro e, soprattutto, la sua morte – destino ineluttabile per le figure pubbliche zittite in circostanze violente. Il cinema aveva iniziato appropriarsi della sua morte già alla fine degli anni ottanta, con Il caso Moro di Giuliano Ferrara; Dario Fo già nel 1979 aveva pensato di mettere in scena il sequestro e la morte dello statista come «la solita fottuta tragedia classica antica», ma alla fine non se ne fece nulla; è solo sul finire degli anni novanta, in occasione del ventesimo anniversario del delitto, che due spettacoli molto diversi fra loro aprono la strada alla teatralizzazione del delitto Moro: L’ira del sole del Teatro Biondo di Palermo, in cui era coinvolta anche Maria Fida Moro, la primogenita dello statista, e Corpo di Stato di Marco Baliani, realizzato prima in una versione televisiva trasmessa dal Foro Romano e poi in una versione teatrale. Molto apprezzato dai vertici della DC di allora fra cui lo stesso Andreotti, L’ira del sole era un atto unico che si soffermava essenzialmente sul vissuto famigliare, mostrando in scena Maria Fida e Luca Moro, nipote dello statista che aveva appena due anni al momento del delitto, condurre un dialogo ideale con Aldo, rievocato in scena attraverso voice over. Corpo di Stato invece assumeva una prospettiva ben diversa, quella di un ventenne che, militante di estrema sinistra, aveva addirittura brindato assieme ai compagni alla notizia del rapimento, credendo imminente un ribaltamento dello Stato borghese; ma il rapimento si prolunga e si fa sempre più concreta la possibilità che si conclude con la morte dell’uomo, e dentro la sua coscienza e quella dei suoi compagni di lotta l’ideale della violenza rivoluzionaria deve fare i conti con un corpo prigioniero, «spartiacque per scelte fino ad allora rimandate… non più risolvibili con slogan o con pratiche ideologiche».

È però solo con il nuovo millennio che la figura di Moro diventa stabilmente protagonista di un numero considerevole di film e fiction TV, fino ad arrivare, nel 2011 e nel 2016, alla messa in scena di due opere liriche incentrate sui suoi ultimi giorni; sul versante teatrale, iniziano a prendere la parola attori e drammaturghi che al momento dei fatti erano ragazzi o a malapena bambini e, più che parlare del delitto Moro in sé, si interrogavano sui suoi effetti, sulla sua ricezione e sulla sua eredità. L’ultimo, in termini cronologici, è Con il vostro irridente silenzio, spettacolo di e con Fabrizio Gifuni che dopo una prima presentazione al Salone del Libro di Torino nel 2018 ha debuttato lo scorso anno a Pordenone ed è passato di recente sul palcoscenico del Teatro Vascello di Roma. Quello di Gifuni è senza dubbio uno dei lavori più interessanti ed originali, nella sua aderenza al testo del Memoriale; ma può essere fecondo confrontare Con il vostro irridente silenzio con altri spettacoli teatrali del nuovo millennio che siano ‘esemplari’ di un diverso modo di relazionarsi con la morte dello statista; fra di essi vanno sicuramente annoverati moro – i 55 giorni che cambiarono l’Italia di Ulderico Pesce, attore e drammaturgo lucano fra i principali esponenti del teatro civile contemporaneo, e Aldo Morto, tragedia satirica di Daniele Timpano, entrambi presentati nel 2012-2013 in occasione del trentacinquesimo anniversario della morte e tuttora rappresentati in giro per l’Italia.

moro – i 55 giorni che cambiarono l’Italia – con la “m” minuscola per evidenziare l’analogia lessicale fra Moro e morire – al pari di buona parte degli altri spettacoli di Ulderico Pesce ha la forma di un semplice monologo, rappresentabile in un teatro quanto in una piazza, in un parco quanto in un centro sociale. Se anche Timpano e Gifuni si sono avvalsi di consulenti scelti fra i principali studiosi del caso Moro – Francesco Biscione il primo, Biscione, Miguel Gotor e Christian Raimo il secondo – qui Ulderico Pesce ha scritto a quattro mani il testo del suo monologo assieme al giudice Ferdinando Imposimato, titolare dei primi processi sul caso Moro. Una frase sintetizza l’intero spettacolo: «Non l’hanno ucciso solo le Brigate Rosse, Moro e i ragazzi della scorta furono uccisi anche dallo Stato».

Nel corso del suo accalorato monologo, Pesce dà voce all’instancabile ricerca della verità condotta – nella finzione scenica – da Ciro Iozzino, fratello di uno dei membri della scorta di Moro morti nell’agguato a via Fani; insospettito dalla versione ufficiale dei fatti e supportato anche da Arianna, sorella di un’altra delle guardie del corpo di Moro, Ciro arriva a parlare con lo stesso Giudice Imposimato, ma i nodi non vengono al pettine, sì moltiplicano: perché pochi mesi prima di via Fani nasce l’UCIGOS, organismo di polizia speciale alle dirette dipendenze di Cossiga? E perché quasi contemporaneamente viene smantellata la squadra antiterrorismo di Santillo? Perché Imposimato non riceve l’incarico di condurre le indagini sul sequestro immediatamente dopo l’attentato a via Fani, come prescriverebbe il Codice penale, ma addirittura nove giorni dopo la morte di Moro? La risposta finale che il lungo e sentito monologo di Pesce dà si rifà alle rivelazioni di Steve Pieczenik, psichiatra americano mandato dal governo USA in Italia a gestire il caso Moro che quasi trent’anni dopo i fatti avrebbe rivelato che furono essenzialmente Cossiga, e probabilmente anche Andreotti, a decidere – d’accordo con lui, con lo Stato italiano e con lo Stato americano – che Moro doveva morire prima che rivelasse nelle sue lettere dalla prigionia gravi segreti di Stato. Lo spettacolo di Ulderico Pesce e Ferdinando Imposimato programmaticamente non tratta della figura di Moro statista se non in termini marginali, per quanto è necessario sapere sul compromesso storico per poter seguire adeguatamente il discorso messo in bocca a Ciro Iozzino; questa decisione da un lato rende moro – i 55 giorni che cambiarono l’Italia un buon sunto di tutte le teorie e le supposte cospirazioni che hanno fatto da sfondo al caso Moro, dall’altro lato rischia – consapevolmente – di ridurre Aldo Moro a un semplice ‘morto’, un omicidio di Stato su cui è dovere civile fare luce e chiarezza senza che ciò comporti anche un recupero autentico e a trecentosessanta gradi della figura dello statista, il cui pensiero e la cui prassi politica sono stati inevitabilmente messi in ombra dall’omicidio. E la verità finale, forse ovvia, di certo urlata, risuona, nel bene o nel male, come il compianto – che al pari di ogni canto funebre non può non idealizzare il caro estinto – su un uomo di Stato ucciso dal suo stesso Stato.

«Desolato, io non c’ero quando è morto Moro. Aldo è morto senza il mio conforto. Era il 9 maggio 1978. Non avevo ancora quattro anni. Quando Moro è morto, non me ne sono accorto… Che un certo Moro fosse morto l’ho scoperto alla televisione una decina di anni dopo, grazie a un film con Volontè. Un film con Aldo morto. Ci ho messo un po’ a capire fosse tratto da una storia vera. Oh, mio Dio! Hanno ammazzato Moro? E quando? Perché? E come?»

Con questo affastellarsi di interrogativi inizia Aldo morto, spettacolo del drammaturgo e attore romano Daniele Timpano, classe 1974; lo spettacolo è stato presentato nel 2012 per poi ricomparire in una particolare versione nel 2013, in occasione del trentacinquesimo anniversario della morte di Moro, quando il performer trascorse cinquantaquattro giorni rinchiuso in una stanzetta sul palco del Teatro dell’Orologio grande quanto la cella di Moro, in costante diretta streaming col Web. Se lo spettacolo di Pesce assumeva la prospettiva di un personaggio indirettamente coinvolto nel caso Moro per ragioni famigliari, nel corso del suo one-man-show Daniele Timpano muta camaleonticamente voce, movenze e punto di vista, come tipico anche degli spettacoli realizzati in coppia con la compagna Elvira Frosini, per portare sul palco le più disparate opinioni su Aldo morto: ora è un fittizio figlio di Moro, ora è un brigatista non pentito, ora è un integrato del sistema, ora è Renato Curcio che indossa la maschera di Mazinga. Aldo Morto, terzo e ultimo episodio della Storia cadaverica di Italia iniziata con il resoconto delle vicende del cadavere di Mussolini (Dux in scatola) e proseguita con un excursus risorgimentale su Mazzini (Risorgimento pop), è una feroce critica – a volte travestita da inno – al feticismo post-mortem o post-Mor(t)uus, con un’automobile rossa onnipresente sul palco con la quale il cangiante protagonista tradisce un rapporto morboso, quasi infantilistico. Non sorprende allora la sfilza di ‘vaffanculo’ indirizzata ad una lunga serie di altri autoproclamati esegeti – fra cui Marco Bellocchio e lo stesso Ulderico Pesce – che, al teatro o al cinema, hanno trattato la figura di Moro in termini agiografici, come se fosse – è questa la parola chiave del lavoro di Timpano – un santino. Con la sua satira analitica, con il suo dirompente sguardo simil-sociologico, Aldo Morto – al pari del successivo Acqua di Colonia del 2016, forse il capolavoro dei Frosini-Timpano – riesce pienamente a inquadrare un problema, la sostanziale rimozione di una riflessione seria e ponderata su Moro come figura a favore di uno sciacallaggio a tratti morboso e a tratti opportunista su Moro come corpo morto e sanguinante; di certo si esce di sala con l’interesse a conoscere lo statista, la sua vita e la sua morte in una maniera meno agiografica, meno banalizzante – ma laddove Pesce straripava di informazioni, con la sua prospettiva multiforme e quasi modernista Daniele Timpano sembra puntare a far emergere nello spettatore un’inquietudine, un bisogno di sapere di più – quasi un sospetto alla Ricoeur – secondo una modalità di narrazione apparentemente più confusa, forse più fine.

Lo spettacolo di Gifuni sembra localizzare, e risolvere in partenza, alcune delle tensioni che avevano animato i due precedenti spettacoli. Onde evitare ogni agiografia, ogni vittimismo, ogni re- e sovra-interpretazione, Gifuni si attiene strettamente al testo del Memoriale e delle Lettere dalla prigionia, effettuando giusto i tagli e gli spostamenti necessari per condensare gli scritti di Moro in un monologo di un’ora e mezza. Forte della sua cultura umanistica, con echi espliciti dal Cicerone delle Epistulæ e ancor di più delle Catilinarie, nei due mesi scarsi della sua prigionia Moro era andato componendo un corpus di testi di grande pregio stilistico oltre che di elevatissima levatura politica ed etica, ‘inspiegabilmente’ rimasto ignoto ai più anche dopo il suo avventuroso ritrovamento e la sua pubblicazione nel 1990. Non più santino, Con il vostro irridente silenzio mette in scena Moro come voce di nuovo viva, e corpo che ritorna a vivere fintantoché le luci del palco restano accese. Ascoltiamo così i suoi appelli, le sue richieste, le sue invettive, le sue preghiere, i saluti accalorati ai famigliari, incluso il sofferto ma inevitabile abbandono della Democrazia Cristiana e la dura quanto sintetica descrizione di Andreotti. Laddove Daniele Timpano scomponeva la voce narrante in un’infinità di personaggi, storici e immaginari, Gifuni dando voce al solo Moro si rivolge a un gran numero di interlocutori diversi, i vari destinatari delle lettere mandate dallo statista prima dell’esecuzione. La prospettiva dello spettacolo resta dunque ‘limitata’ a Moro, a Moro che nello spazio angusto della sua celletta riflette sull’Italia dei suoi giorni, sui rapporti di potere all’interno della NATO, sulla sua stessa esperienza umana e politica – una prospettiva parziale, ma onesta e lucida come il periodare delle lettere. La dialettica che si consuma sulla scena fra Moro e i suoi interlocutori è chiaramente sbilanciata a favore di Moro; le (spesso laconiche) risposte dei destinatari degli appelli di Moro non sono riportate, tutt’al più sono inferibili dalle parole dello statista, come nel punto in cui amaramente fa cenno a quanti ritenevano le sue lettere manipolate solo in virtù della sua grafia un po’ incerta. La vera dialettica che si consuma nello spettacolo di Gifuni è fra Moro e il mondo di oggi, di cui lo statista aveva anticipato diversi elementi – anche i più impensabili, come lo strapotere dei gruppi editoriali; Con il vostro irridente silenzio di Gifuni si staglia allora chiaramente ad indicare che più che continuare sulla scena la retorica ricerca di una verità ormai relativamente chiara nei suoi punti essenziali, si deve discutere sull’eredità di Aldo Moro e sulle ragioni che hanno portato a un suo parziale nascondimento. Forse, più che individuare una contrapposizione di vedute, può essere proficuo collocare questi tre spettacoli, variamente rimaneggiati negli anni dai loro stessi autori, nell’ambito di un’ideale e progressiva ricerca comune. E se Ulderico Pesce si era approcciato alla morte di Moro quasi seguendo la scia di sangue che continua tuttora a scorrere dal suo cadavere, se Daniele Timpano aveva invece denunciato questa attenzione verso Aldo morto a scapito di un sincero interrogarsi sul senso della sua vita e della sua morte, se Fabrizio Gifuni infine ha riportato in vita Moro per ridargli voce e corpo, un organico proseguimento di questa ricerca a più voci dovrebbe contemplare l’idea di una drammaturgia sul Moro vivente.

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3 Maggio 2020

Indagine sul Verga ‘fiorentino’ quando Verga sceglie la solitudine

Andrea Bisicchia, «Libertà Sicilia»

Quando, nel 1972, uscì il saggio di Siro Ferrone Il teatro di Verga, oggi riproposto dalle Edizioni Cue Press, la bilbiografia verghiana vantava i nomi di Sapegno, Momigliano, Flora, Russo, tutti attenti a esplorare le Opere narrative.

L’operazione di Ferrone si rivelò innovativa, non solo perché Il teatro di Verga divenne oggetto di una monografia, ma perché esso fu indagato alla luce di quanto accadeva sulla scena italiana dopo l’unità d’Italia precisamente dopo il trasferimento della capitale da Torino a Firenze, che vantava già una cattedra di Letteratura drammatica (1859), affidata a Francesco Dall’Ongaro, e una Scuola di Declamazione, diretta da Filippo Berti, alla quale seguirà quella di Luigi Rasi nel 1882.

Ferrone non ha dubbi nel dichiarare Firenze ‘Capitale del teatro borghese’, non perché si oppone al provincialismo di coloro che accettavano, passivamente, l’imitazione del dramma romantico di Dumas, Scribe, Sardou, ma perché si sforzò di promuovere una drammaturgia capace di educare il gusto del pubblico della nuova Italia, promuovendo concorsi, dibattiti teorici che vedevano impegnati, oltre che il Dall’Ongaro, Lorenzo Trevisani e Luigi Capuana, diventato critico drammatico della Nazione.

Ferrone inizia la sua indagine sul Verga ‘fiorentino’, quando questi partecipa a un concorso, nella neocapitale, con un testo, I nuovi tartufi (1865) che però non ebbe successo, anzi fu bocciato; lo si può leggere nella versione curata da Carmelo Musumarra per la Nuova Antologia, con prefazione di Giovanni Spadolini.

Si può dire che, proprio in quell’anno, nacque in Verga l’amore per il teatro, che diventerà oggetto del romanzo Una peccatrice, dove il protagonista è un drammaturgo appassionato che sedurrà la contessa Narcisa Valeri, grazie alla notorietà dovuta al suo dramma Gilberto che aveva ottenuto un grande successo.

Firenze era diventata non soltanto il centro della vita politica ma anche di quella culturale e teatrale grazie alle sue undici sale, alle Accademie, agli impresari e agli intellettuali che volevano riformare tutto.

Nel 1869, durante il secondo periodo fiorentino, Verga proverà ‘un’attrazione fatale’ per quell’ambiente, pertecipando a tutti i dibattiti, durante i quali i critici si interrogavano sulle nuove soluzioni estetiche, più attente alla ricerca del vero o di quel ‘genere rusticale’ tanto caro al Dall’Ongaro.

La spinta verso la realtà comportava una diversa articolazione dei Caratteri, sia a livello narrativo che teatrale; Capuana distingueva i caratteri ‘permanenti’ da quelli ‘transitori’ , se non addirittura di ‘carne viva’. L’obiettivo era quello di estinguere il realismo sentimentale per sostituirlo con la ricerca del vero, oltre che di un nuovo sistema di valori che prediligesse l’oggettivazione della realtà, affinché l’arte si rivolgesse non al cuore ma ai sensi. Occorreva, pertanto, una nuova Riforma che andasse oltre la materia romantica e intimista, per sperimentare forme e linguaggi diversi, magari pesando all’uso del dialetto, anche se Capuana si oppose perché lo considerava inferiore sia per i mezzi che usa sia per le stesse intenzioni artistiche, benché esprimesse parole di lode per Monsu travet di Berserzio (1863) e benché altri testi dialettali si rivelassero, successivamente, dei capolavori come Cavalleria rusticana (1884), Miseria e nobiltà (1888), El nost Milan (1893).

Simili considerazioni diventeranno, per Ferrone, materia dei suoi tre volumi sul Teatro borghese dell’Ottocento, editi da Einaudi nel 1979.

Partendo da queste premesse lo studioso ci introduce alla ‘lettura’ dei testi teatrali, da Rose caduche a Cavalleria rusticana, da In portineria alla dissoluzione del verismo con La lupa, fino alla incompiuta Duchessa di Leyra che rappresenta il fallimento del disegno ciclico, dopo I Malavoglia e Mastro don Gesualdo.

Nel secolo che stava per finire, Verga sceglie la solitudine, benché continuasse a ricercare, nel teatro, alcuni punti di fuga, un teatro meno corale, come in Caccia al lupo e Caccia alla volpe, due bozzetti andati in scena nel 1901, o più attento ai problemi sociali, come Dal tuo al mio.

Per Siro Ferrone si tratta di ‘passi indietro’, di ‘rinunzia alla diretta immolazione di sè’ che gli aveva dato più soddisfazioni in sede narrativa che teatrale. Il volume è corredato da una ricchissima bibliografia.

Morganti claudio
1 Maggio 2020

Il teatro di Claudio Morganti

«Persone — Radio India»

Nella rubrica curata da Daria De Florian, l’ospite è Claudio Morganti, attore e regista di lunga esperienza nel panorama teatrale italiano.

Insieme alla conduttrice, Morganti dialoga sui temi affrontati nei suoi due volumi: La grazia non pensa (Cue Press, 2018) e Il serissimo metodo Morg’Hantieff (Edizioni dell’Asino, 2011).

Durante la conversazione, l’autore ripercorre la genesi di questi testi e ne approfondisce i contenuti, offrendo una panoramica sul suo approccio alla creazione scenica, sul senso della grazia nell’arte performativa e sul metodo di recitazione che ha sviluppato nel corso della sua carriera.

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