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Approfondimenti, interviste, recensioni e cultura: il meglio dell’editoria e delle arti da leggere, guardare e ascoltare.

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22 Giugno 2020

Schegge di poesia di un Albertazzi autobiografico

Rodolfo di Giammarco, «la Repubblica»

L’ultimo, inatteso, appassionato, insospettabilmente delicato, e pentito, e struggente spettacolo di Giorgio Albertazzi è in un libro, Poesie e pensieri, pubblicato da Cue Press, co-curato con impagabile sentimento alla moglie Pia Tolomei di Lippa, da Mariangela D’Abbraccio, già partner e compagna, e da Eugenio Murrali. Ha senso di memoria storica e discreta, la prefazione di Walter Veltroni, dove si dà anche lustro ai versi umani dedicati all’attore Antonio Crast. Ma a sollecitarvi, a spiazzarvi direttamente saranno i bagliori di Mia vita e morte, l’ubriacatura di Muoiono i nonni, gli occhi pieni d’Arno de Il mio fiume, o l’arrivare impreparati di Filastrocca per un compleanno dell’ottuagenario Giorgio che nel 2003 butta giù parole in libertà perentoria al Teatro Argentina. «Ai miei amici qui/ dedico la matassa/ intricata e anarcoide/ della mia vita».

Anche se poi le pietre miliari incastonate qua e là — bello il montaggio diacronico dei pezzi — ha a che fare col diario serio o fibrillante degli affetti, a cominciare dall’indimenticato testimoniare della dedizione di teatro-vita per Bianca Toccafondi, sostando sulla ditta d’arte e di scena condivisa con Anna Proclemer, rivedendo in moviola Mariangela D’Abbraccio, evocando Elisabetta Pozzi da giovane, di fatto soffermandosi con una vera letteratura di meditazioni, poemi, appunti ed emozioni mature per Pia Tolomei di Lippa. Qua e là cita Gassman, e scatta qualche inimmaginabile affinità tra le poesie per Pia e il «Donna mia, moglie mia…» che Vittorio riservò a Diletta nei suoi Vocalizzi. Bravo, Albertazzi, quando a posteriori mette in guardia tutti contro di lui: «Attenti, quando recito, ai vuoti, ai contrattempi/ ai controtempi, all’assenza e al delirio».

Poi, certo, è dispersivo, fanatico e agé, con l’eterno femminino, ma sincero con Adriano. Questa è l’ultima sua scheggia autobiografica autorizzata.

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10 Giugno 2020

Vedere o non vedere

Massimo Bertoldi, «Il Cristallo»

Per capire a fondo la forza creativa dei tre testi antologizzati in Vedere o non vedere è consigliabile leggere attentamente quanto gli autori, Gianfranco Berardi e Gabriella Casolari, dichiarano a Gerardo Guccini in apertura di volume. Spiega l’attore e performer: «I tre lavori mostrano un filo rosso, un percorso che porta allo smascheramento, allo svelamento, a parlare sempre di più in prima persona. […] Gli episodi si possono leggere separatamente, ma anche seguire come segni del nostro percorso artistico e umano. Noi partiamo dalla nostra realtà, ma poi tentiamo di rendere universale il personale».

Come succede in un fiume carsico, dalle tre commedie emergono e poi scompaiono le onde della nostra esistenza fatte di dubbi e crisi, insicurezze e contraddizioni, smarrimenti e consapevolezze, nel contesto di una società ottusamente consumista cui la Compagnia Berardi-Casolari, attiva dal 2008, si contrappone con un linguaggio teatrale provocatorio e ricco di schegge di realismo che aprono inquietanti sguardi sul mondo.

Io provo a volare, omaggio a Domenico Modugno, racconta in modo tragicomico illusioni e delusioni di uno dei tanti ragazzi del Sud che sogna di diventare attore, compiendo una sorta di viaggio errante alla ricerca di riscatto sociale. L’escamotage narrativo è dato dallo spirito di un custode di un teatrino di provincia, il Fantasma, che ogni notte appare in scena con i musicisti con i quali aveva iniziato il mestiere. Si susseguono i sogni, gli incontri, la fuga romantica dal paesello fino all’amaro ritorno. Nel quadro conclusivo si legge il passaggio chiave: «Vedere o non vedere, questo è il problema. Guardare dritto in faccia la realtà che mi circonda e mi spaventa e affrontarla con coraggio per cercare di cambiare qualcosa, o tenere tutto quanto ben nascosto dietro un velo che mi copre gli occhi e mi impedisce di morire?»

Il richiamo ai personaggi di Amleto e di Tiresia, il mitico indovino dell’Edipo Re, oltre a declinare la poetica di Berardi-Casolari, prelude al secondo testo in oggetto, In fondo agli occhi. Ricco di riferimenti biografici (Berardi è cieco dall’età di 19 anni), il dialogo tra la barista Italia e il giovane non vedente Tiresia anima storie di personaggi sintomatici, protagonisti di episodi balordi e simbolici, propri di una condizione umana che alimenta l’immagine da baraccone di una nazione povera di democrazia, ipocrita, avvolta nel buio.

«Soffro ma sogno. / Per questo vivo. / Sognando». Così si apre il conclusivo Amleto take away, esplicito richiamo al malinconico e pensieroso personaggio shakespeariano ora assunto quale segno di un atteggiamento verso il mondo d’oggi, che sprigiona lucidità, follia, nichilismo nella denuncia di una dimensione esistenziale connotativa: l’incontro-scontro tra finzione e realtà, ossia il perno del mestiere dell’attore, tanto che il testo dall’impianto drammaturgico metateatrale beffeggia i maestri di Casolari (Manfredini, Brie, Delbono). La rivisitazione del capolavoro del Bardo non tralascia la figura/fantasma del padre, trasformato in un operaio dell’Ilva di Taranto che, mentre pranza con il figlio leggendo il fumetto di Tex Willer, dubita fortemente sul suo desiderio di voler fare l’attore. E ancora più significativa è la trasformazione del fatidico monologo «essere o non essere» in «esserci o noi esserci» sui social network, vale a dire nel regno per antonomasia della menzogna dove le parole muoiono nel nulla. Inoltre Amleto non declama con il teschio del buffone in mano ma davanti alla tastiera dello smartphone connesso a Facebook e indeciso se «taggare o non taggare».

Il volume Vedere o non vedere offre al lettore un ricco apparato fotografico, strumento fondamentale per inquadrare i testi in funzione della scena. Impreziosisce, inoltre, una pubblicazione importante in quanto dà visibilità cartacea ad una coppia di attori originali che ancora mancano di riconoscimento pari alle loro pregevoli abilità performative. L’operazione editoriale è in linea con il progetto culturale di Cue Press, finalizzato alla scoperta e divulgazione di autori italiani e stranieri basilari per conoscere gli orientamenti della scena contemporanea.

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Alberto sordi amori film vita
1 Giugno 2020

Alberto Sordi

Stefano Rizzo, «Nocturno»

Cue Press, diretta da Mattia Visani, è la prima casa editrice digitale (ma anche con edizioni cartacee) dedicata allo spettacolo e dal 2012 è votata al teatro con numerose ed interessanti pubblicazioni che coprono molte delle lacune della nostra editoria. Si può dire che la Cue Press abbia preso sulle sue spalle l’eredità di Ubulibri, indimenticata casa editrice diretta da Franco Quadri. Nel suo catalogo però è molto presente anche il cinema con alcune pubblicazioni inedite e riproposte. Tra i recuperi più importanti vorrei ricordare un grande libro, Neorealismo. Cinema italiano 1945-1949 a cura del compianto Alberto Farassino, giustamente ripubblicato dopo trent’anni. Anche il libro qui recensito è un recupero dal passato, in questo caso ci separano ben quarant’anni dalla prima edizione del 1979 per i tipi de Il Formichiere. Sto parlando di Alberto Sordi di Maurizio Porro, critico de «Il Giorno» e del «Corriere della Sera» e autore di libri gustosi come Il cinema vuol dire e La cineteca di Babele.

Questo volume, ripubblicato per il centenario della nascita del grande attore, è un classico della saggistica cinematografica italiana e fu una delle prime monografie dedicate ad Alberto Sordi e questo sottolinea il ritardo della critica nel comprendere il valore non solo commerciale del suo cinema. Il libro è ancora oggi tra i più validi testi su un attore italiano ed è ricco di riflessioni e considerazioni preziose. Leggerlo dà la sensazione di dare per la prima volta uno sguardo approfondito sul percorso di attore di Alberto Sordi. Oggi la grandezza e la densità della sua attività cinematografica è strabiliante e condivisa da qualunque storico o critico. Nel 1979, invece, nonostante Sordi avesse già girato in sostanza tutti i suoi più grandi film e si avviasse ai decenni più deboli della sua filmografia, gli ’80 e ’90, non erano ancora molti gli studiosi che lo ritenevano degno di un approfondimento (si può ricordare il rifiuto di Fofi di scrivere un libro insieme all’attore prima del pentimento che lo portò a pubblicarlo nel 2003 dopo la morte di Sordi). Porro era invece tra i critici illuminati e questo libro lo dimostra.

Attraverso le sue pagine possiamo entrare nel ‘cervello’ di Sordi attraverso una lunga conversazione con l’attore, tra le più belle interviste da lui rilasciate. Inoltre troviamo un’introduzione biografico-critica di Porro e alcune significative testimonianze di Luigi Comencini, Enrico Montesano, Nanni Loy, Morando Morandini e Dino Risi. La seconda parte del libro è una sorta di enciclopedia per immagini della recitazione dell’attore. Attraverso molti fotogrammi e foto di scena dei suoi film, Porro, con la sua consueta vocazione al ‘dizionario’, riesce a darci, con brevi testi, un panorama completo dell’ampia gamma gestuale del lavoro di Alberto Sordi alle prese con una possibile e molteplice definizione del carattere dell’italiano. In coda la filmografia completa, aggiornata all’ultimo film girato dall’attore, come del resto è riveduto ed ampliato tutto il volume. Da notare l’ottima veste grafica dei libri Cue Press a cura di Chia Lab.

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31 Maggio 2020

La verità, vi prego, su Mejerchol’d

Andrea Porcheddu, «L’Espresso»

Il 25 ottobre 1917 la corazzata Aurora entra nella Neva e si ancora a fianco della cattedrale di Pietro e Paolo. Alle 21:45, un colpo di cannone dà il segnale della rivoluzione. In quel clima, tra i primi provvedimenti di Lenin, arriva la nomina a commissario per l’istruzione di Anatolij Lunacarskij che convoca subito nella sede del governo rivoluzionario «tutti i rappresentanti delle varie arti disposti a collaborare» con i bolscevichi. Si presentano in cinque: i poeti Alexander Blok e Vladimir Majakovskij, i pittori Natan Altman e Kuzma Petrov-Vodkin e un regista, Vsevolod Mejerchol’d.

C’è una descrizione, che fece lo slavista e critico Angelo Maria Ripellino, di Mejerchol’d, e che dice più o meno: «Mejerchold piombò su Mosca come un demonio riottoso. Le labbra strette, lo sguardo accigliato, portava un logoro cappotto soldatesco con la rivoltella alla cintola, una sciarpa di lana, le fasce, un berretto con la stella rossa».

È lui, il ‘Dottor Dappertutto’, il protagonista di un libro bello, potente, spiazzante che torna in libreria grazie a Cue Press: L’ottobre teatrale, curato con amorevole e ultradecennale passione da Fausto Malcovati. Nella prefazione, Malcovati ricorda quando, nel ’71, nella Mosca ancora duramente sovietica, assieme a Silvana De Vidovich, incontrò il maggior studioso di Mejerchol’d, Alexander Fevral’skij. Da quel confronto nacque una raccolta di scritti mejercholdiani, edita da Feltrinelli nel ’76. Il libro, che si concentra sugli scritti dal 1918 fino al 1939, ha aperto la strada alla necessaria riscoperta del rispettoso e rivoltoso allievo di Stanislavskij. Ritrovare L’ottobre teatrale, in edizione riveduta e ampliata, significa allora fare i conti, con maggior consapevolezza, con una storia creativa e umana straordinaria, avvincente anche per chi non si occupa di teatro. Pagine fantastiche, impegnate, dettagliate, illuse e disilluse, fatte di discorsi, bozzetti, commenti, osservazioni: scritte fino a quando lo stalinismo metterà violentemente fine all’avventura teatrale e alla vita di Mejerchol’d.

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20 Maggio 2020

Impulsiva nevrotica mutevole. La sfuggente Hedda Gabler di Ibsen. Metafora d’un mondo di vite sciupate, senza amore

Andrea Bisicchia, «lo Spettacoliere»

Sono tante ‘le figlie’ di Ibsen, ciascuna con un proprio carattere ben definito, conseguenza di storie passate e presenti. Non credo, però, che egli abbia espresso delle preferenze, benché le abbia dimostrate per Hedda, forse perché la più sfuggente e con caratteristiche più indeterminate rispetto alle altre. Anzi, è proprio l’indeterminatezza a farne un personaggio complesso.

Paolo Puppa, autore del saggio La figlia di Ibsen – Lettura di Hedda Gabler, edito da Cue Press, cita addirittura il Principio di indeterminazione di Heisenberg, come dire che non è possibile misurare le proprietà psicologiche di Hedda, poiché si abbandona ai suoi impulsi, alle sue nevrosi, sempre mutevoli.

Mi sono occupato, sulle pagine di questo giornale, di un altro testo di Puppa: Giganti senza fantasmi, definendo ‘circolare’ la sua metodologia esegetica, nel senso che lo studioso sceglie un testo attorno al quale fa girare tutta l’opera di un autore. Lo stesso accade per La figlia di Ibsen, che Puppa pubblicò due anni dopo aver visto la messinscena di Massimo Castri (1980), con Valeria Moriconi protagonista, con in scena un grandissimo ritratto di Ibsen che sostituiva quello del padre, il generale Gabler che, forse, gli ispirò il titolo del libro. In quella occasione, il regista scrisse un saggio sulla crisi del dramma borghese e la nascita del dramma moderno, di cui Ibsen sarebbe l’anticipatore, avendo distrutto l’idea di ottimismo, tipica della borghesia del tempo, quasi anticipando quella dialettica del negativo, che sarà oggetto di analisi in un noto saggio di Adorno. Questa negatività è presente nel personaggio di Hedda a cui si attribuiscono una serie di attributi sfavorevoli, fra i quali spiccano: antipatica, viziata, nervosa, eccentrica, isterica, frigida, benché susciti eros negli uomini che l’avvicinano.

Puppa ne aggiunge di suoi, ritenendola Amazzone, col complesso di Pentesilea e, contemporaneamente, ninfa Egeria, aggiungendo che è una donna sempre annoiata, vivendo con un marito mediocre che disprezza e col quale non ama discutere. A queste anticipazioni, Puppa fa seguire le variazioni, partendo dalle teorie di Mauron, secondo il quale ogni personaggio di qualche importanza «rappresenta una variazione di una figura mitica e profonda».

Hedda diventa il fulcro da cui partire per fare un inventario delle altre donne di Ibsen, presenti sia nelle opere giovanili che in quelle della maturità. Così, per dimostrare che esistano degli antecedenti caratteriali rispetto a Hedda, Puppa risale a drammi come Cesare e Catilina o Guerrieri a Helgeland, per scoprire donne vendicative, nemiche o lottatrici come Furia o come Hjordis, donne insomma che sanno solo odiare come Hedda. Solo che esistono, rispetto a lei, anche dei contrappesi, quelli di donne sottomesse, di anime subalterne, di donne agapiche, come Agnes in Brand, Aurelia, moglie di Catilina, Solveing in Peer Gynt, donne che si sacrificano come zia Julle o come Thea in Hedda Gabler, che pensano alla felicità altrui, donne che sanno ribellarsi, come Nora.

Puppa fa ruotare, attorno a Hedda, un universo di ‘caratteri’ femminili e maschili, mostrando una conoscenza approfondita di tutto il corpus drammaturgico di Ibsen, evidenziandone i pregi (pochi) e i difetti (molti), anche perché sono in tanti a vivere di ricatti, di simulazioni, di conflitti; sono personaggi che salgono e scendono nella scala sociale, che non si fanno scrupoli nel corrompere, come il console Bernick, protagonista di I pilastri della società, non molto dissimile da Peter Stokmann in Il nemico del popolo. Non mancano le figure degli artisti sconfitti, degli artisti mediocri, inquieti, frustrati che offrono a Puppa nuovi modelli di indagine, che gli permettono di inoltrarsi anche in storie di personaggi non protagonisti come, per esempio, Foldal, tragediografo mancato in John Gabriel Borkman, o John Paulsen, critico letterario con poco avvenire in Notte di San Giovanni. E che dire di Hjalmar, il fotografo artista di L’anitra selvaggia o dello stesso Tesman, filologo medievale di poco conto, marito di Hedda? E ancora come dimenticare l’ebbrezza distruttiva di Brand, Solness, Lovborg, Rubek, di chi sale e di chi scende?

Puppa si muove con leggerezza lungo le tre fasi del teatro di Ibsen, quella storico-epica, quella naturalista e quella simbolista, tre aree culturali in cui lo spazio interno, quello del salotto borghese, si confronta con lo spazio esterno di La donna del mare o di Peer Gynt, uno spazio che deve confrontarsi col tempo sempre diverso, sempre in conflitto tra passato e presente, tra rimozione e regressione, tra sensi di colpa e tormenti quotidiani, dove si intrecciano storie di vite sciupate, di vite senza amore, tra moglie frigide come Hedda o infoiate come Rita in Il piccolo Eyolf.

Puppa non tralascia nulla di questo mondo dai destini opachi, dagli sporchi segreti, lo smonta e lo rimonta come un perfetto orologiaio.

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La funzione culturale dei festival ph ilaria costanzo 8466
18 Maggio 2020

Tempo di festival istruzioni per l’uso (e una evoluzione)

Rodolfo di Giammarco, «la Repubblica»

Ora che la scena italiana dello spettacolo dal vivo si rimette in moto dal 15 giugno, ci sarà una veloce rimodulazione degli appuntamenti estivi, delle manifestazioni legate spesso più al territorio che alle strutture canoniche del teatro, e allora c’è un volume sulla rimeditata identità degli eventi culturali performativi, uno strumento di consultazione, di riflessione, di confronto in materia di dinamiche organizzative e creative. Questo manuale s’intitola La funzione culturale del festival, ne sono curatori Edoardo Donatini e Gerardo Guccini, e la materia prima, risalente a un seminario tenutosi al Teatro Metastasio di Prato, è alimentata da studiosi, critici e operatori che hanno radiografato le dinamiche delle progettazioni, le storie intellettuali e attitudinali dei festival, le interlocutorietà fra il sistema paese e le narrazioni che lo riflettono o lo criticano. Sergio Ariotti, che dirige il Festival delle Colline Torinesi, raccomanda di riconoscere le distinzioni che ci sono tra le politiche istituzionali e le matrici più concentrate su una netta geografia di radici, su una fascia generazionale giovane, su un’intesa con una contemporaneità internazionale fuori dai linguaggi globali. Come compendia Edoardo Donatini, questa ricerca di una definizione di concetto di festival non porta a un mosaico di realtà ma a una nuova lettura del presente ad opera di una comunità. Importanti sono il cenno di Gerardo Guccini sull’apparizione nel 1997 del Festival della Letteratura di Mantova, il dato controculturale richiamato da Roberta Ferraresi e Graziano Graziani, l’esame degli ‘obblighi’ avanzato da Luca Ricci e Rodolfo Sacchettini, il potere dei festival secondo Roberto Canziani, la trasversalità toccata da Fabio Masi e Fabio Acca, il focus di Massimo Marino e Barbara Regondi su Vie, l’interazione per voce di Andrea Nanni e Velia Papa. Una prima tac dei festival.

Teatro romano
16 Maggio 2020

Vincenzo Blasi, Teatri greco-romani in Italia

Francesco Puccio, «ClassicoContemporaneo.eu»

Colpisce subito, di questo poderoso, dettagliato e accurato volume sui teatri antichi greco-romani in Italia, la dedica che l’autore rivolge all’archeologo siriano Khaled al-Asaad, ucciso dai miliziani jihadisti nel 2015, in quanto si era rifiutato di rivelare dove fossero nascosti i tesori di Palmira. Uno studioso coraggioso e consapevole del patrimonio di cui simbolicamente si era posto a presidio, la cui decapitazione ha segnato uno dei momenti più bui della violenza terroristica che ha insanguinato il nostro mondo; ma anche un uomo che, con questa forma di resistenza, ha fatto della conservazione e della valorizzazione dei beni archeologici, intesi come il modello di una cultura che fosse un valore irrinunciabile da ereditare e da trasmettere costantemente agli altri, la ragione stessa della propria esistenza.

Come opportunamente ricorda Nicola Savarese nella prefazione al testo, il numero elevatissimo, nei paesi dell’area del Mediterraneo, di edifici teatrali – intesi tanto come teatri veri e propri quanto come anfiteatri e circhi – ancora oggi presenti e visibili, o ricostruiti grazie alle attività di scavo, alle esplorazioni topografiche, alle testimonianze dei testi e delle iscrizioni, è il segno tangibile dell’importanza architettonica e culturale che tali strutture possedevano nel mondo antico.

L’importanza dello spazio teatrale antico, aperto, dinamico e fortemente connesso con il tessuto sociale della comunità, come occasione di partecipazione collettiva o come momento di svago e di divertimento, è dunque testimoniata dalla presenza capillare di tale edificio nelle sue più varie forme e caratteristiche. Occorre ricordare, infatti, che accanto ad un dramma costituito dalle parole, ereditato grazie alla trasmissione dei testi tragici e comici, vero e proprio patrimonio della cultura occidentale, ne esiste un altro, ugualmente necessario, fatto di tutte quelle azioni che hanno vita all’interno dello spazio di rappresentazione. E l’uno non può immaginarsi senza l’altro. Di qui, la considerazione dell’edificio teatrale antico inteso non solo come un contenitore – secondo una visione che meglio si adatta alla nostra idea di teatro moderno – ma anche come un contenuto, ossia come un elemento di dialettica costante con gli altri aspetti della messa in scena, dagli attori al testo, dalle scene alla musica, dagli oggetti alle danze. Del resto, i drammaturghi antichi sono stati essi stessi uomini di teatro, hanno diretto il movimento del coro, supervisionato le prove e progettato la scenografia dei loro lavori, in alcuni casi recitato in prima persona, e comunque, per loro, uno spettacolo poteva dirsi concluso solo nel momento in cui andava in scena e non quando ne veniva completata la scrittura.

Il teatro, dunque, al di là del fenomeno culturale più antico e più longevo della storia dell’umanità di cui è espressione, resiste ancora come manifestazione di una permanenza architettonica forte nel tessuto urbanistico delle città, al punto da diventare spesso occasione di riuso e di riproposizione nel mondo contemporaneo, come dimostrano i tanti festival, le numerose manifestazioni e le svariate rassegne di spettacoli classici che trovano, oggi, una loro suggestiva collocazione negli luoghi antichi.

Di qui, l’opportunità e l’utilità dell’operazione compiuta da Vincenzo Blasi, il quale ci propone un dizionario, presentato in circa duecentocinquanta voci suddivise in ordine alfabetico, destinato allo studio e all’approfondimento, ma anche alla semplice consultazione e all’aggiornamento per quanti, al di là della specificità degli studi o degli interessi di ricerca, abbiano voglia di mettersi in viaggio, attratti dalle peculiarità di tutti quei monumenti greco-romani destinati agli spettacoli e disseminati ovunque sul nostro territorio, dai teatri agli anfiteatri, dai circhi agli stadi.

Un percorso che segue il filo dell’evidenza archeologica e topografica, dando conto degli studi condotti sulle varie aree geografiche da università e gruppi di ricerca, ma che non trascura di riportare gli elementi desumibili dalle testimonianze epigrafiche, documentarie e, naturalmente, letterarie, grazie anche all’ampio apparato di fonti riportate.

Un’utile guida iniziale alla lettura permette, inoltre, di orientarsi nella struttura dell’opera, nella terminologia adoperata e nella suddivisione dei lemmi, con un riepilogo dei principali termini tecnici che offrono le coordinate storico-archeologiche degli edifici e che costituiscono un riferimento imprescindibile per addentrarsi nella complessa nomenclatura che caratterizza i teatri greci e quelli romani e le loro singole strutture architettoniche.

Ciascuna voce è organizzata seguendo il medesimo schema. A titolo di esemplificazione e per dare conto della disposizione generale, scegliamo la località di Elea-Velia, in provincia di Salerno (pp. 143-144). Dapprima vengono indicati dall’autore il riferimento geografico del sito e la collocazione attuale: «Località della Campania nel comune di Ascea (prov. di Salerno), sulla costa del Cilento».

Si passa, poi, alle informazioni di carattere storico-archeologico, esposte in maniera dettagliata e ampia, così da dare conto non solo della fondazione della città, ma anche delle successive stratificazioni ed evoluzioni: «L’area archeologica (accesso da via di Porta Rosa) corrisponde al sito dell’antica città di Velia, colonia greca fondata nel VI sec. a.C. dai Focesi e municipio romano nel I sec. a.C. La città, su un promontorio che si protendeva sul mare, si componeva di tre nuclei: l’acropoli, con il tempio (V sec. a.C.) forse dedicato ad Atena Polias, il quartiere nordoccidentale e il quartiere sudorientale, vero centro politico e amministrativo, dove sono stati individuate l’agorà, l’area portuale e diverse abitazioni. Sull’acropoli, tra il tempio e una strada del IV sec. a.C., è situato il teatro greco, di età ellenistica, con funzione anche di bouleuterion».

Di qui, si arriva all’indicazione dell’edificio teatrale con una puntuale indicazione delle strutture interne e della relativa nomenclatura, con accenni al periodo di edificazione o di ricostruzione, agli elementi compositivi, ai materiali edili impiegati, all’ubicazione all’interno dell’area archeologica di riferimento, alla funzione svolta e allo stato di conservazione: «Rifatto in epoca romana (II sec. d.C.), conserva connotazioni greche. La cavea (diam. m 47,50), addossata al pendio naturale nel settore ovest e su un terrapieno nella parte nord, presentava ventuno file di gradini divisi in sei cunei. All’orchestra (diam. m 14,50), a ferro di cavallo e separata dalla cavea per mezzo di un parapetto, si accedeva dalle parodoi rettilinee; il rivestimento in cocciopesto del piano ha fatto anche pensare a un utilizzo per giochi gladiatorii o per spettacoli in acqua. L’edificio scenico era probabilmente a parasceni. Del monumento si conservano due cunei delle gradinate e le fondazioni della scena».

Completa il lemma un’interessante apertura sul riutilizzo dello spazio in età contemporanea, un dettaglio non trascurabile che dà conto della funzione che l’area, nella sua interezza, o l’edificio, nella sua specificità, svolgono, così da offrire, non solo agli studiosi del mondo antico ma anche ai fruitori moderni del bene archeologico e museale, una curiosità e un prezioso spunto di conoscenza: «Dal 1998 ospita il festival Velia Teatro, rassegna dedicata all’espressione tragica e comica nel teatro antico, e dal 2010 l’evento Elea-Veli-Archeo-Film».

Un altro elemento interessante, e particolarmente utile alla consultazione del volume, è il corredo di immagini e di ricostruzioni fotografiche che si trovano alla fine di ciascun gruppo di lemmi e relative ai luoghi citati e ai corrispondenti edifici. Conclude il volume, infine, un’ampia e molto ben documentata bibliografia, anch’essa suddivisa sulla base delle singole voci, che fornisce al lettore un ulteriore agio nell’orientamento e nella consultazione complessiva.

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August strindberg
15 Maggio 2020

Lettere di August Strindberg

Massimo Bertoldi, «Il Cristallo»

Ha il ritmo narrativo di uno splendido romanzo epistolare questo volume curato da Franco Perrelli, illustre studioso di teatro scandinavo, che impagina le Lettere di August Strindberg seguendo un assemblaggio finalizzato a intrecciare la corrispondenza epistolare con la vita e il percorso creativo dello scrittore. È lo stesso drammaturgo e romanziere svedese a suggerire questo procedimento: il suo contatto con la letteratura avviene infatti attraverso la stesura di lettere che lo accompagnano per tutta la vita. In esse si riconosce lo stile martellante e sperimentale da lui stesso definito ‘telegrafico’. Perrelli sceglie con cura e maestria i documenti tra i tanti raccolti nell’edizione svedese dell’epistolario contenuto in venti volumi e non ancora completata.

Simili a un monologo interiore desideroso di una platea di lettori, queste lettere sono indirizzate a colleghi e editori, famigliari e anche a molti compagni di scuola e di gioventù. Raccontano, vicino a qualche momento luminoso, soprattutto travagli esistenziali, aspre polemiche, tensioni intellettuali e visioni che poi emigrano nella sostanza psicologica e morali di molti personaggi teatrali e romanzati.

Con rigore scientifico e abilità letteraria, Perrelli divide il libro in cicli storici, a partire dal periodo 1849-1874 coincidente con l’attività di Strindberg in qualità di amanuense malpagato (il denaro sarà un altro capitolo doloroso) presso la Biblioteca Reale di Stoccolma, con gli esordi come scrittore e drammaturgo alle perse con la promozione di Mastro Olof nei circuiti teatrali e letterari.

La crisi psichica provocata dall’amore per l’attrice Siri von Essen, sua futura prima moglie; l’amicizia con l’influente critico Georg Brandes e la stesura de La sala rossa costituiscono le tematiche portanti dal 1875 al 1883.

Il biennio successivo, 1884-1886, si presenta dominato dal rapporto difficile e controverso con lo scrittore Bjorson e dall’accusa di blasfemia e misoginia presenti nei racconti contenuti in Sposarsi. Il processo provoca ulteriore destabilizzazione e rabbia sociale in Strindberg. Le stesure e le rappresentazioni teatrali de Il padre e de La signorina Giulia, unitamente al romanzo Autodifesa di un folle, sono gli argomenti ricorrenti nelle corrispondenze del 1887-1891.

Stati di angoscia e di pessimismo quasi apocalittico abbondano nelle lettere scritte nel 1892-1894, quando l’autore di Danza di morte divorzia con Siri per legarsi alla giovane Frida Uhl, mentre Lugné Poe firma un trionfale allestimento parigino de Il padre.

Nel titolo del celebre romanzo autobiografico Inferno si sintetizza la sostanza di un’esistenza che non muta rotta nel triennio successivo, durante il quale viene alla luce la trilogia di Verso Damasco, la sua opera teatrale dalla concezione indubbiamente più spudorata.

Completano questo articolato percorso gli anni 1899-1906. Le lettere rivelano un intellettuale attento alla famiglia – scrive molto alle figlie e alla terza moglie, Harriet Bosse, dalle quali traspare l’avvicinamento della morte; emerge inoltre l’immersione nello studio della filosofia e delle religioni in parallelo all’attività al Teatro Intimo per il quale scrive e rappresenta i suoi atti unici.

Queste lettere, accompagnate dal limpido e esaustivo testo di Perrelli e da adeguato apparato iconografico, diventano prezioso strumento di approfondimento per la conoscenza di una delle figure più inquietanti e geniali della cultura europea.

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Tarantino antonio foto autore
13 Maggio 2020

Giuseppe Verdi a Napoli

Francesco Bracci, «Verdiperspektiven»

La figura di Giuseppe Verdi è stata in diverse occasioni oggetto di lavori teatrali. Un certo successo lo ottenne negli anni Ottanta After Aida di Julian Mitchell, che metteva in scena la tortuosa genesi di Otello e i rapporti fra Verdi e Boito. In tempi più vicini e venendo all’Italia, nel 2013 è andato in scena alla Terme di Caracalla a Roma Un bacio sul cuore, le donne nella vita e nella musica di Verdi, con Michele Placido e Isabella Ferrari. Lo spettacolo seguiva abbastanza da vicino The man Verdi di Frank Walker e Placido-Verdi recitava lettere realmente scritte dal compositore. Questi esempi, insieme a molti altri provenienti dalla televisione, mostrano il fascino che il più celebre operista italiano continua a esercitare sull’immaginario del pubblico, e dal punto di vista del musicologo permettono di osservare la permanenza e l’evoluzione di luoghi comuni che sono parte integrante della storia della ricezione verdiana.

Su questo sfondo ci si può avvicinare a Giuseppe Verdi a Napoli di Antonio Tarantino, andato in scena a Roma (Teatro Vascello) nel 2017 e a Milano (teatro I) nel 2018, con regia di Sandra De Falco e musiche di Azio Corghi, poi pubblicato dalla casa editrice Cue Press, con introduzione di Renzo Francabandera. Questa recensione si occupa del testo pubblicato e non dello spettacolo. Coerentemente con questa limitazione, non verrà tentata una valutazione dei meriti letterari del lavoro di Tarantino o della sua riuscita in teatro.

La pièce racconta una visita immaginaria di Verdi a Salvadore Cammarano nel 1848, durante la composizione della Battaglia di Legnano, e soprattutto durante la fase iniziale del biennio rivoluzionario. A disagio in presenza del musicista ricco e famoso, Cammarano non ha il coraggio di reclamare il denaro che Verdi non gli avrebbe versato per le loro precedenti collaborazioni. È la domestica Caterina, schietta popolana napoletana, a fronteggiare il musicista. Dopo momenti di tensione in cui il rapporto tra musicista e librettista e quello tra poeta e cameriera sembrano sul punto di rompersi, la vicenda ha esito positivo con l’entrata in scena dell’impresario Flauto, che porta una borsa piena di denaro come ricompensa per l’opera che deve ancora essere scritta. Verdi, placato, lascia il denaro interamente a Cammarano, rinunciando anche alle correzioni del libretto che aveva richiesto in maniera pignola nella prima parte.

In maniera evidentemente programmatica, Tarantino non punta a una ricostruzione storica accurata. In alcuni casi gli anacronismi sono esibiti, come quando Verdi parla di «contratti a termine» (28), gettando un ponte tra la precarietà del poeta ottocentesco e quella odierna. In altri casi si è in dubbio se l’anacronismo sia voluto o no: si parla ad esempio «Austroungarici» (27; designazione valida solo a partire dal 1867: nel 1848 l’Ungheria non era ancora una nazionalità dominante dell’impero e si stava anzi ribellando contro il dominio austriaco). Le principali licenze poetiche di Tarantino riguardano non sorprendentemente l’opera: La battaglia di Legnano fu scritta per la Roma in quel momento repubblicana e non per Napoli, dove il soggetto non avrebbe mai superato la censura. Anche il rapporto tra musicista e librettista è rappresentato in maniera quantomeno singolare, in quanto il Verdi storico esercitava un controllo molto più stretto sull’intero processo di composizione e non avrebbe rinunciato alle sue idee come fa nello spettacolo.

Volute o no, queste imprecisioni contribuiscono a delineare un Ottocento immaginario, fuori dal tempo. I suoi caratteri principali sono la natura retorica dell’espressione poetica e letteraria, l’idea onnipresente (e molesta) della patria, l’idealismo limitato e in prospettiva storica fallimentare, l’inconciliabilità fra un nord prepotente e un sud arcaico, il ritardo storico rispetto ai paesi più avanzati d’Europa. Si tratta di una vulgata e di una visione politica ormai piuttosto stabile.

L’analisi del linguaggio di Giuseppe Verdi a Napoli conferma in maniera interessante questa tendenza. Nella parte iniziale, in cui i convenevoli nascondono a stento l’incomunicabilità tra i due personaggi, sia Verdi sia Cammarano parlano una lingua ironicamente vicina a quella dell’oratoria politica di età risorgimentale: «Cosa mi venite a toglier dal suo ricovero lo spinoso e oramai quasi politico argomento del censo, con tutta l’Europa in subbuglio e che dimanda a gran voce: suffragio universale!» (14; Verdi).

O: «Altrimenti quanto di pregiato in esso risiede vien via via avvilito da dimenticanze noncuranze trascuranze, sì che ove prima eravi – per universale riconoscimento – un talento, ecco che poi quella somma di virtù vien dimezzata e poi decimata e infine nullificata» (15; Cammarano).

Questo linguaggio di cartapesta si rompe quando la tensione sale, e a quel punto emerge un fondo dialettale napoletano che, con effetto comico, contagia anche Verdi.

In quanto protagonista di un’epoca contrassegnata, nella visione dell’autore, dal fallimento di un idealismo politico incapace di comprendere la realtà sociale, è inevitabile che il Verdi di Tarantino sia un personaggio piuttosto sgradevole, come il Verdi storico probabilmente non era. Il grande musicista appare come un uomo incapace di vedere i problemi della vita quotidiana di chi gli sta intorno, compreso un collaboratore come Cammarano. Questa valutazione negativa di Verdi si oppone a quella agiografica di un’abbondante letteratura, ma non è di per sé una novità, come non è una novità che il rapporto con il denaro sia un suo tema centrale.

C’è però un notevole cambiamento di prospettiva. Per i detrattori del passato, il musicista italiano rappresentava un affarista che metteva il successo economico sopra l’arte. Alfredo Casella, ad esempio, bollava nel 1913 Donizetti e Verdi come des hommes d’affaires. Nel testo di Tarantino invece Verdi diventa un (finto) ingenuo che dall’alto della sua posizione di successo non si interessa ai problemi materiali ed economici, affrontando l’impresario del San Carlo con una dichiarazione di principio che il lettore degli epistolari verdiani difficilmente riuscirebbe a immaginare in bocca a Verdi, anche al di là del linguaggio: «E a me che me ne fotte dei grani, dei tarì, delle lire, dei talleri e degli scellini! Commendator Flaùto: l’arte è libera dalle catene del denaro!» (30).

Questo ribaltamento di prospettiva è coerente con il sostanziale disinteresse per la figura storica di Verdi. Nel confronto con Cammarano, Verdi deve rappresentare le limitazioni di un artista benestante e superficialmente idealista: il ritratto viene di conseguenza. Al di là delle inesattezze storiche, giustificabili in un testo letterario, allo spettatore/lettore per cui Verdi è qualcosa in più dell’incarnazione di un’epoca e di un idealtipo questo ritratto sembrerà probabilmente ingeneroso.

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