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Approfondimenti, interviste, recensioni e cultura: il meglio dell’editoria e delle arti da leggere, guardare e ascoltare.


La grande avventura d’un teatro minore. Amato dai Futuristi. Tra acrobati, giocolieri e chanteuses. Ecco il Café Chantant
A chi voglia conoscere la storia del Café Chantant in Italia, dalla sua nascita agli ultimi strascichi del secondo Novecento, consiglio di leggere il libro di Rodolfo De Angelis: Café-chantant, pubblicato da Cue Press, nella Collana «I saggi del teatro», a cura di Stefano De Matteis, a cui dobbiamo anche la pubblicazione nel 1980 di Follie del Varietà, 1890-1970 (Feltrinelli), coadiuvato nella curatela da Martina Lombardi e Marilea Somaré. Follie del Varietà, 1890-1970 costituisce una specie di arricchimento al libro di De Angelis, coinvolgendo, con brevi scritti di ricordi personali, impresari, comici, soubrettes, critici, tutti attenti a raccontare la grande avventura di ‘un teatro minore’ che ha poco da invidiare al teatro borghese del tempo.
Nella seconda metà dell’Ottocento, grazie a una nuova legge di liberalizzazione in materia teatrale, si affermarono nuovi generi che favorirono l’estensione dello spazio teatrale dal palcoscenico al Caffè, segnando il passaggio da un luogo di dibattito e di riflessione a un luogo di divertimento.
È chiaro che, ogniqualvolta nasce un genere nuovo, non basta indagarlo esteticamente, anzi diventa necessaria una indagine di tipo sociologico proprio perché, la diversità dei generi, presuppone pubblici diversi, con differenziazioni di classe sociale, alle quali corrispondono modalità fruitive a loro volta differenti dovute a forme di adesione al genere scelto che rispecchiano la formazione culturale dello spettatore. Basterebbe elencare i generi che si affermarono nel periodo indicato: dal Melò al Melodramma, dal Café Chantant al Varietà, dall’Avanpettacolo al Music Hall, per capire le preferenze di un pubblico che offrono uno spaccato dell’Italia liberale e, successivamente, di quella Umbertina e Giolittiana, con i primi successi dei socialisti. Il pubblico che frequenta il Café Chantant è quello di strada che non va in cerca della legittimazione sociale come quello dei teatri borghesi.
Al Café Chantant bastava una pedana, un pianoforte, una cantante e un’attrazione per far diventare complice lo spettatore, libero di intervenire, durante lo spettacolo, con approvazioni e disapprovazioni, col consenso e il dissenso. Il momento d’oro del Café Chantant coincide col primo decennio del Novecento, proprio quando inizia l’attività Rodolfo De Angelis che, da apprendista ragioniere, si vede catapultato sulle tavole di palcoscenici improvvisati.
Secondo De Matteis, De Angelis non fu né un grande comico, né un grande artista, bensì un buon cantante e, successivamente, un ottimo organizzatore, oltre che un testimone. Dobbiamo a lui il lungo racconto di questo genere, in particolare, di quanto avveniva nei locali di Napoli e Milano, con la capacità di farci rivivere le programmazioni dei Café Chantant, raccontandoci non solo degli artisti, ma anche dei tirasipario e dei portacesti, ai quali si doveva il successo o l’insuccesso dello spettacolo. Si sofferma, inoltre, sugli ‘ordini del giorno’, dove si leggeva: «Ogni minuto di ritardo sarà multato», sui vari ‘numeri’ che venivano eseguiti, sulla spartizione del repertorio. Indugia anche sul malcostume degli spettatori, spesso chiassosi e irriverenti, pronti a evidenziare i loro gusti sessuali, invocando l’artista tettona e ‘cicciuta’, con le divette che si dividevano gli spettatori, che, per loro, si trasformavano in un vero e proprio incubo.
Fondamentale il capitolo che De Angelis dedica alle attrazioni, elencandole quasi tutte: si va dagli acrobati, ai danzatori sul filo, al giocoliere, all’uomo serpente, al ventriloquo, al fachiro, al lanciatore di coltelli, al trio ciclistico, fino ai Quadri plastici che tanto piacevano ai Futuristi, con i quali De Angelis iniziò una collaborazione, non solo come autore insieme con Marinetti e Cangiullo del Teatro della sorpresa, di cui si possono leggere, nel libro, i Manifesti, ma anche come organizzatore della Compagnia del Teatro Futurista che, a dire il vero, non ebbe lunga vita.
Negli anni Trenta, De Angelis registrò un successo travolgente con la canzone: Ma cos’è questa crisi, che lo fece vivere un po’ di rendita, dato che il Café Chantant mostrava già il suo declino.
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Teatro
Dice Jordi: «…ho paura».
Risponde Anna: «…siamo tutti spaventati».
Queste battute poste a chiusura de Il principio di Archimede (2012) costituiscono il sottile filo conduttore che attraversa il Teatro del catalano Josep Maria Mirò raccolto in questo prezioso e importante volume di Cue Press.
I due personaggi, rispettivamente un giovane estroverso istruttore di nuoto e la severa direttrice, affiancati dal riservato e composto Hector, agiscono nello spogliatoio degli istruttori di nuoto di una piscina che all’improvviso si trova al centro di uno scandalo per colpa di un innocente bacio dato da Jordi a un bambino spaventato dall’acqua. La diffusione della notizia attraverso i social network si trasforma in accusa di pedofilia da parte dei genitori degli allievi, di cui è portavoce David, fino a diventare psicosi collettiva. Il testo de Il principio di Archimede assorbe l’elemento tragico e lo diluisce in una griglia di dialoghi di natura psicologica che bene disegnano la precarietà delle dinamiche interpersonali e sociali quando chiamate a confrontarsi con un fatto destabilizzante. Realtà e falsità si confondono e liberano la paura dell’irrazionale. È questo il male oscuro, secondo Mirò, dell’uomo moderno.
Il gioco capriccioso e inquietante dei timori mina il perbenismo e il conformismo della giovane coppia protagonista di Nerium Park: il loro lussuoso appartamento appena acquistato in un quartiere residenziale di nuova costruzione si trasforma in una cella delle torture fino al tragico epilogo. Mirò costruisce un testo oscillante tra commedia familiare e thriller contaminata da elementi vagamente kafkiani per radiografare gli effetti della crisi economica che mette in difficoltà i progetti di Bruno e Anna sempre più tormentata dal sentirsi spiati dai vicini, minacciata dalla presenza di uno strano individuo accampato abusivamente nel caseggiato che incuriosisce l’uomo al punto da diventarne amico mentre ciò aumenta il panico nella donna. Il fattore ansiogeno destabilizza le labili certezze dell’inconscio.
Il principio di Archimede e Nerium Park sono stati tradotti da Angelo Savelli e presentati con successo in prima nazionale al Teatro Rifredi di Firenze. Rimangono invece inediti per le platee italiane Dimentichiamo di essere turisti e Tempi selvaggi, commedie composte da Mirò nel 2017. Sono, questi, testi molto interessati e di pregevole spessore letterario perché articolano l’analisi del disagio/turbamento come vissuto dai personaggi in un certo ambiente. Può essere familiare come la zona residenziale composta da quattro appartamenti con prato e piscina in cui abitano le quattro coppie di Tempi selvaggi; oppure diventano i luoghi argentini incontrati dagli spagnoli Carme e Martì durante un loro viaggio che da evasivo si trasforma in ricerca di identità e di memoria come raccontato nel sorprendente Dimentichiamo di essere turisti.
In merito ai contenuti affrontati dal drammaturgo, il direttore artistico del Teatre Nacional de Catalunya Xavier Alberti sottolinea l’efficacia con cui trasferisce nel linguaggio teatrale «il malessere di persone, di personaggi, di verità da rappresentare, di emozioni che cercano un nuovo contesto ideologico, dei sopravvissuti che forse saremo, per tornare a convocare la tribù in assemblea e stipulare nuovi patti di convivenza, in cui il malessere occupi il posto che gli spetta in questa società instabile, in movimento, e che ogni tanto espelle quello che non è più capace di digerire» (p. 7).
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Io, l’altro. Il teatro di Sergio Blanco
Io. Soltanto la prima persona singolare, il soggetto che agisce o subisce, il cartesiano ego cogitante: solo l’io, nient’altro. Un territorio che trova il proprio confine – concreto, e ciò nonostante apparente – nel corpo, e che tuttavia sembra in costante e altalenante metamorfosi tettonica: ora in grado di accogliere e conquistare sconfinate porzioni di mondo, ora di restringersi e contrarsi in recessi di ombra. È tutto qui – ed è così immenso – lo spazio nel quale Sergio Blanco si muove e muove con sé una piccola folla di anime: un paesaggio che lo scrittore franco-uruguaiano, più che cartografare, di volta in volta inventa, edifica in atti e battute, in scene e prologhi che meticciano l’autobiografia con l’invenzione. Lungi dal costituire una declinazione inedita di un genere canonico, l’autofinzione – termine coniato da Serge Doubrovsky già nel 1977 per descrivere il proprio romanzo Fils – sembra però aver trovato, grazie a Blanco e alle sue tante creazioni, una peculiare legittimazione etico-politica, grazie alla quale tentare di schivare qualsiasi facile accusa di attitudine ‘ombelicale’ – invero più diffusa in ambito letterario che teatrale – e tradurre in «espressione del bisogno di sentirsi amati», in «urgenza dell’incontro con l’altro» l’ormai nota trasposizione sul palco di brandelli di vita vissuta: e sognata.
Pubblicato da Cue Press nella collana Gli artisti e tradotto da Anabella Caneddu, Autofinzione. L’ingegneria dell’io è il breve saggio – inteso dall’autore nel suo senso di «prova, luogo di dubbi, di quesiti e interrogativi» – con il quale Blanco offre ai lettori la propria interpretazione di tale dispositivo narrativo, individuando – forse con un approccio eccessivamente antologico e sommario – una serie di ‘scritture sull’io’ nelle quali riscontrarne le forme prodromiche e i primi tentativi di sistematizzazione: dalla Lettera ai Galati di San Paolo al Libro della Vita di Santa Teresa, dall’Ermeneutica del soggetto di Michel Foucault alle riflessioni di Virginie Despentes e Paul Ricoeur. È tuttavia nella sezione conclusiva del volume, intitolata Domande a me stesso: perché l’autofinzione?, che Blanco affonda lo sguardo nel processo creativo, giustapponendo a un ‘decalogo di un tentativo di autofinzione’ sezioni tratte dalle sue opere, in un inesausto scambio tra teorizzazione e risvolto scenico, tra idea e parola, tra scrittura e teatro. Se la narrazione dell’Io è «un semplice tentativo di capire me stesso per arrivare a capire gli altri», i drammi di Blanco – già insigniti di alcuni tra i più prestigiosi premi del settore – mettono al centro le infinite possibilità di un’esistenza quotidiana e riconoscibile: quella di uno scrittore di successo, dal doppio passaporto e dalla sessualità fluida, in un travaso che tuttavia confonde gli snodi reali e le vicende accadute con la loro affabulazione più fantasiosa. Al lettore e allo spettatore è impedito sapientemente di distinguere fra verità e finzione, tra romanzo e documento, in un rifiuto netto di qualsiasi dogmatismo dello sguardo, e in una nuova versione della verosimiglianza manzoniana che racconta l’oggi attraverso lo sguardo di un unico individuo, sia esso rivolto alla realtà o proiettato verso l’immaginazione.
Chissà se S, drammaturgo trentanovenne, ha realmente proposto al Teatro San Martín di Buenos Aires un progetto che avrebbe coinvolto Martín, un giovanissimo parricida. Chissà se è stato proprio di giovedì che Federico ha partecipato al provino per interpretare l’assassino a teatro. Chissà se il corpo del padre di Martín è stato realmente appoggiato al frigorifero dell’abitazione per un tempo così lungo, e se questa idea abbia davvero impressionato S. con tale forza. Tebas Land, candidato al premio UBU 2019 come miglior testo straniero messo in scena da compagnie o artisti italiani (nello specifico Pupi e Fresedde – Teatro di Rifredi, per la versione diretta da Angelo Savelli e portata in scena da Ciro Masella e Samuele Picchi), costituisce l’exemplum di una scrittura che gioca scopertamente con i piani temporali, accostando il racconto del passato con la sua immediata resa scenica, e che nella mistificazione di una vicenda di colpa e possibile redenzione trova l’occasione per un’indagine sul mito di Edipo e sul senso stesso del fare teatro. Proprio in occasione del debutto nazionale dello spettacolo, Cue Press ha raccolto in volume tre testi di Blanco nella traduzione firmata da Savelli: oltre a Tebas Land, L’ira di Narciso e quel Bramido de Düsseldorf candidato al premio UBU 2019 come miglior spettacolo straniero, presentato in Italia nella versione diretta da Blanco stesso. A Savelli dobbiamo una resa piana e accurata del dettato, esito collaterale di un pluriennale progetto di ricerca e scouting focalizzato sulla nuova drammaturgia contemporanea, in grado di trasformare progressivamente il palcoscenico di Rifredi nella casa, tra gli altri, di Eric-Emmanuel Schmitt, di Rémi De Vos, di Josep Maria Mirò: un luogo dove, direbbe Blanco, intraprendere una volta ancora quel «percorso che si snoda al di là di sé stessi per dirigersi verso un Altro».
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Premio Fiesole
Cue Press ha ricevuto il Premio Speciale Fiesole 2019, un riconoscimento che celebra eccellenze e innovazioni nel panorama culturale.
Il Premio Fiesole è un prestigioso riconoscimento assegnato annualmente a personalità, istituzioni o realtà che si distinguono per il loro contributo innovativo e significativo alla cultura, all’arte e alla società.
Ideato per celebrare l’eccellenza in diversi ambiti, il premio evidenzia l’importanza di iniziative che arricchiscono il panorama culturale, promuovendo valori di creatività, tradizione e sperimentazione.
La giuria ha premiato la casa editrice per il suo straordinario contributo al rilancio dell’editoria teatrale, un settore spesso trascurato, con un approccio innovativo che coniuga tradizione e contemporaneità. L’uso di tecnologie editoriali avanzate ha permesso di unire agilità digitale e qualità del cartaceo, rendendo accessibili opere altrimenti dimenticate:
«Una casa editrice che ha solo sette anni di vita ma che sta riuscendo in un compito che sembrava impossibile: rilanciare l’editoria teatrale (Mattia Visani, anima e fondatore, proviene dall’esperienza di Ubulibri), non senza significative incursioni in campo cinematografico, con la pubblicazione a ritmo serrato di un ampio ventaglio di titoli. Guardando contemporaneamente – per quanto riguarda il teatro – ai testi classici dei grandi maestri e teorici del passato (Mejerchold, Stanislavskij, Appia, Vachtangov, Craig) e agli studi e saggi di studiosi che hanno lasciato il segno nell’indagine sulla storia e i linguaggi della scena, ma anche, con un occhio attento e vivace, agli autori, ai testi, ai teatranti di questi ultimissimi anni, entrando anche nel vivo nel dibattito teatrale di inizio millennio. E il campo di interesse sono al tempo stesso l’Italia e il resto d’Europa e del mondo. Il punto di partenza dell’attività di Cue Press è quello dell’editoria digitale: l’utilizzo di tecniche di produzione editoriale avanzate e a basso costo la cui agilità permette di raggiungere risultati pratici altrimenti impensabili ha consentito però anche il rapido ‘sbarco’ sul cartaceo, con libri tradizionali che affiancano le versioni eBook e digitale interattiva dei diversi titoli. Libri che apparentemente sembrano non concedere nulla alla ‘bellezza’ esteriore del prodotto ma che invece hanno un loro stile, lineare e rigoroso, in sintonia con quella che è la logica operativa di Cue Press. «Superare gli steccati che separano la produzione settoriale dalle logiche del mercato e dell’imprenditoria. Restituire valore commerciale ad opere che i consueti standard di produzione hanno condannato alla scomparsa»: questi gli obiettivi dichiarati della casa editrice Cue Press. Obiettivi anmbiziosi che Mattia Visani e il suo gruppo stanno rendendo raggiungibili e non più utopici come potrebbero sembrare».
Con il Premio Fiesole, Cue Press vede riconosciuto il proprio impegno nel dare nuova vita all’editoria teatrale, trasformando utopie in realtà.
La cultura è impresa
Una volta, parlando con un’agente di teatro italiana, ho sentito da lei che non ha mai rimesso soldi sulle pubblicazioni di libri di teatro, ovvero che ci ha sempre guadagnato, cosa impossibile in Polonia. Si vendono o non si vendono i libri di teatro?
Perdere dei soldi in una attività culturale è più facile che guadagnarne. Almeno in Italia. Per quel che riguarda i libri di teatro. Cue ha un bilancio in equilibrio e una attività in netta crescita. Cerchiamo di essere realisti, in un paese molto fantasioso.
Cosa significa costruire un progetto in questo caso?
Significa avere consapevolezza del contesto attenzione ai dettagli, agire un passo alla volta. Aumentando le vendite, cresce proporzionalmente la possibilità di reinvestire in nuovi progetti. È una banalità a dirsi, ma non è un così scontato in un settore, quello della produzione culturale, dove non si fa altro che invocare l’intervento dello Stato. Lo stato dovrebbe semplicemente preparare il contesto, rendere il terreno fertile e produttivo, non finanziare azioni sconnesse che rispondono a logiche personali e, molto spesso, di basso profilo.
Sono debitore naturalmente a Franco Quadri: la Ubu è invecchiata e poi è scomparsa insieme a lui, ma storicamente è stata un vero punto di riferimento culturale, di rinnovamento culturale, non solo per il teatro ma anche per l’editoria. Bisogna conservarne la lezione e, con essa, considerarne i limiti. I libri non vengono promossi, distribuiti e venduti per una loro virtù immanente. Per creare un’impresa culturale, bisogna che ci siano una serie di cosa che stiano a loro posto.
Per prima cosa, una struttura aziendale credibile e che ti permetta di agire: l’editoria è impresa, la cultura è impresa. Una Associazione Cultuale, per statuto, non è uno strumento adatto a questo scopo. Un contesto poco chiaro non fa bene a nessuno.
Secondo un progetto di sviluppo credibile: non è credibile che una casa editrice pubblichi quattro libri all’anno, fossero pure i quattro libri dei grandi Grotowski e Kantor. Questi editori sono morti che camminano. Così muoiono anche i libri, la cultura. E il terreno diventa sterile per ogni attività d’impresa, di pro-mozione, di pro-gettualità. Ma questo aprirebbe il tema del rapporto tra pubblico e privato. Ed è un tasto è troppo dolente. Mi trovo anche nella circostanza di fare concorrenza a me stesso: con i soldi dei miei stessi contributi… Questo non significa che i grandi classici non abbiano un valore, Cue Press ne è la prova.
Terzo l’identità. Ovvero, la capacità di distinguere nei contenuti e nella forma la propria attività tra molte dello stesso genere. Per questo è necessario avere le giuste competenze: un ottimo progetto grafico, saper scegliere i materiali culturali, contestualizzarli in maniera adeguata, una buona dose di umiltà. Poi si comincia a lavorare…
Dei casi clamorosi delle catastrofi di editoria teatrale negli ultimi anni ti vengono in mente?
È un terreno di macerie. Non posso produrmi in una analisi dettagliata. Te lo dico quando stacchi il microfono.
Quindi, tu ti riferisci al fatto che ci vuole una cultura imprenditoriale, ed è un po’ l’argomento di cui abbiamo parlato in un’altra occasione, non soltanto di pubblicare libri perché hanno un valore intrinseco.
Sì e no. Certamente hanno un valore intrinseco ma bisogna saperli inserire in un contesto adeguato. Cosa succederebbe se pubblicassero Ken Follett in una collana di caccia e pesca? Aumenteresti il prestigio della collana o uccideresti Ken Follett o, peggio, l’una e l’altro? Il concetto di collana editoriale, oggi, è debole, una volta oltrepassata la frontiera del web. È inadatto ad affrontare la molteplicità e ‘il caos’ della rete. Sono necessari grandi contenuti e forte identità, che è un principio di relazione non di unicità. Altrimenti non esisti. Questo significa anche organizzare adeguatamente i contenuti. Il valore intrinseco esiste, però bisogna anche sapere che un libro che ha un grandissimo valore culturale potrebbe avere anche unico lettore. Possiamo dire grotowskianamente, che basta un libro e un lettore. Però è importante ci si sappia rivolgere precisamente e consapevolmente a quell’unico a quell’unico lettore (spettatore) che il libro (spettacolo) potrà intercettare. Allora opera continuerà ad avere valore e vita. Se tu inserisci un’opera, in un contesto che produce un progetto all’anno, allora, anche l’opera più grande, non avrà nessun valore in termini di relazione, visibilità, non aiuterà altre opere ad emergere. Sarà soltanto un libro buttato su un scafale di una biblioteca o in fondo di un magazzino o senza nessun criterio e consapevolezza nel magma del web dove resta alcuna traccia. Un click all’anno sarà il suo destino. È questo che penso quando dico che i libri, ormai, nel mondo del digitale, non sono oggetti, sono progetti. Il digitale non può miracolosamente resuscitare un libro. Può offrire un campo dove creare nuove relazioni. Al centro ci sono sempre i contenuti e la loro organizzazione. Mi dispiace, questo potrà fare male a qualcuno, ma non è vero che i libri di teatro non si vendono. Non lo posso dire. Non posso dire che se ne vendano tanti. Ma se Cue Press continuerà a crescere al ritmo attuale, tra poco raggiungemmo i numeri considerevoli.
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Turbare l’anima dello spettatore davanti alla violenza, per renderlo complice e aiutarlo così a smascherare la realtà
Realismo globale di Milo Rau, Editore Cue Press, è un libro necessario per meglio conoscere il regista, che, in questo ultimo decennio, ha fatto parlare di sé e del suo teatro d’impegno sociale, politico, anche se non proprio ideologico. Sfruttando certi eventi drammatici, diventati iconici, ha potuto portare in scena il mondo globalizzato, in particolare quello dei vinti, ricorrendo a un realismo che non ha nulla a che fare con quello di matrice naturalista, perché la realtà che a lui interessa è quella dell’accadere, matrice del ‘realismo globale’, ovvero di quello che si trova nello spazio interno al capitalismo mondiale, con i suoi effetti deleteri, ma è anche la realtà degli invisibili, degli oppressi, delle dignità calpestate.
Milo Rau ha fatto studi di sociologia, suoi maestri sono stati Derrida e Ziegler, è infarcito di nozioni che riguardano il postmoderno e il decostruzionismo. Egli pone, dinnanzi a sé, il mondo globalizzato, consapevole che i metodi estetici di prima siano stati superati da eventi che riguardano, non le realtà di una nazione, ma quelle del globo, mettendone in luce tutte le contraddizioni. Negli anni Settanta, i teorici sostenevano che il teatro andava rietralizzato.
Oggi compito del teatro è quello di vigilare, di rappresentare le violenze, le conflittualità che avvengono in molte parti del mondo, che producono emozioni estreme, proprio quelle che Milo Rau porta in scena attraverso la dialettica tra il reale e l’immaginario, a vantaggio, però, di una riflessione sociale. Per questo motivo, egli cerca di rappresentare la realtà utilizzandone tutte le implicazioni, mostrandola direttamente in azione, che non vuol dire riproporre la formula del Teatro documento, quello, per intenderci, di Il caso Oppenheimer (1964), Il processo di Savona (1965), L’istruttoria (1965), Il caso Matteotti (1968), Il fattaccio di giugno (1968), Cinque giorni al porto (1969), Otto Settembre (1971), W Bresci (1971), Duecentomila e uno ( 1973), solo per citare alcuni esempi di una Stagione irripetibile.
A Rau interessa recuperare la memoria del presente, per poter riflettere sugli eventi estremi che produce, quella che lui chiama re-enactment, che vuol dire rievocazione, ricostruzione. Non è il contesto che gli interessa, bensì la riproduzione delle sensazioni di sconvolgimento che proviamo dinanzi a quegli eventi, in modo da creare uno spettatore complice, oltre che partecipe di questi sconvolgimenti, senza la conoscenza dei quali, non può esserci smascheramento.
Il volume raccoglie una serie di interviste, di discorsi, di manifesti, dove teorizzazioni, anche politiche, si alternano con le note di regia degli spettacoli messi in scena dal 2009 al 2019, da The last days of Ceausescus a City of Change, da Hate Radio a Breivik’s Statement. Gli argomenti trattati riguardano il «realismo globale», «L’Umanesimo cinico», «Il teatro mondiale», «L’attore nel XXI secolo». Vi troviamo anche Il manifesto di Gent, dove Milo Rau si sofferma sulle ‘Regole’ che le Istituzioni dovrebbero rendere pubbliche, sul ‘teatro di città del futuro’, sui contenuti, sui programmi, sulle tournée, sull’ensemble multilingue.
Rau vorrebbe cambiare il mondo attraverso il teatro. In questo non è certamente il solo. Ci hanno provato i Maestri del passato, consapevoli del fatto che il teatro sia la fonte primaria dell’utopia. Si spera, che in un prossimo libro, possano essere raccolti i suoi copioni per poter fare un confronto tra quanto è stato teorizzato e quanto appartiene al testo scritto.
Il volume è preceduto da un intervento di Marco Martinelli ed Ermanna Montanari, dalla premessa di Rolf Bossart, autore anche delle interviste a Rau, e da una nota al testo di Silvia Gussoni, che ha curato anche la traduzione con Francesco Alberici.
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Premio speciale alla Casa Editrice Cue Press
È Giulia Caminito la vincitrice del XXVIII Premio Fiesole Narrativa Under 40. Il suo romanzo Un giorno verrà edito da Bompiani, ha conquistato la giuria presieduta da Franco Cesati e composta da Caterina Briganti, Francesco Tei, Silvia Gigli, Marcello Mancini, Gloria Manghetti, Fulvio Paloscia e Lorella Romagnoli. Gli altri finalisti erano Serena Patrignanelli con La fine dell’estate, edito da NN Editore e Davide Coltri con Dov’è casa mia, edito da Minimum Fax. La cerimonia è prevista sabato 23 novembre alle 17 a Fiesole nella Sala del Basolato in piazza Mino.
Una storia di fede, amore e anarchia
Nata a Roma nel 1988, laureata in filosofia politica, Giulia Caminito ha esordito con il romanzo La Grande A (Giunti) che ha vinto il premio Bagutta Opera prima, il Premio Giuseppe Berto e il Premio Brancati giovani. Un giorno verrà è ambientato a Serra de’ Conti, il borgo marchigiano della famiglia materna e del bisnonno anarchico Nicola Ugolini, ed è una bellissima storia di fede, speranza e anarchia lungo il primo Novecento attraverso le voci di personaggi indimenticabili, dai fratelli Lupo e Nicola Ceresa a Zeinab Alif, Suor Maria Giuseppina Benvenuti, detta la Moretta, la religiosa sudanese ancora oggi oggetto di culto.
Libri e rock
Come da tradizione durante la cerimonia verranno consegnati anche i Premi speciali alla Casa Editrice Cue Press, per la sua vivace attività di promozione e diffusione della cultura dello spettacolo dal vivo, a Federico Bondi, per il film Dafne, agli Zen Circus per il loro importante ruolo nell’ambito della diffusione della cultura rock e a Bobo Rondelli per il suo ultimo libro, Cos’hai da guardare, edito da Mondadori.
Una lunga storia
Giunto alla sua ventottesima edizione, il Premio Fiesole Narrativa Under 40, nato su iniziativa di un gruppo di intellettuali fiesolani e organizzato dal Comune di Fiesole, è diventato negli anni uno dei più importanti premi di letteratura in Italia. Promuove, sin dalle sue origini, giovani scrittori; spesso scoprendoli per ritrovarli, in seguito, consacrati nel mondo della letteratura. Tra i vincitori delle edizioni passate: Sandro Veronesi, Roberto Cotroneo, Silvia Ballestra, Diego De Silva, Pietro Grossi, Paolo Sorrentino, Paolo Giordano, Mario Calabresi, Ascanio Celestini, Chiara Valerio e Nadia Terranova.
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Viaggio nel corpo. La commedia erotica nel cinema italiano
Questo libro ha l’indubbio merito di riportare all’attenzione del lettore un testo sepolto, indisponibile anche per un ostinato bibliofilo. Però sarebbe meglio leggerlo cominciando dalla fine. Vediamo di spiegare perché. Che mondo è quello della commedia erotica italiana?
È un mondo che, visto con gli occhi di chi lo descrive alla fine degli anni settanta, ha già il sapore della nostalgia. È una bestia strana la nostalgia, e a giocare al si stava meglio quando si stava peggio alla fine ci si può anche scottare: è come un vecchio cane pulcioso e incimurrito che una volta si è cacciato in malo modo e poi ci se ne pente, la nostalgia, perché quelli animaletti moderni col pelo lisciato e il pedigree da passaporto sono a volte piuttosto noiosi nella loro perfezione e pulizia.
Agli occhi del lettore sfogliando il volume si apre una lezione di archeologia erotica. Sì perché onestamente i nostri tempi han ben poco di erotico: sono, come si dice, sessualmente espliciti (e già lì c’è il baco perché il sesso è o dovrebbe essere gioco, mistero e intimità tutta implicita), ma scarsamente sexy. E infatti sublimiamo, altroché se sublimiamo: sbaviamo per un paio di scarpe, fischiamo come Mastroianni per una confezione sgargiante o un manicaretto vegano, deliriamo per una sequenza innovativa di bit.
E Turroni ci fa eco dagli anni settanta: «Si dice da più parti… che non è mai esistita epoca -sotto qualsiasi cielo politico- più repressa sessualmente della nostra. La quantità enorme di materiali erotici e pornografici, di immagini fotografiche e filmiche, starebbe a testimoniare questa mancanza di verità, questo eluso, e oramai compromesso e alienato, rapporto di identità dell’uomo moderno con la natura del sesso…»
E dovevano ancora venire guerre, crisi globali, pandemie, crisi economiche, pornografia in rete (dove il sesso fa sempre più rima con sterilità rituale, violenza e ginnastica invece che con piacere e bellezza) ed ecodisastri a turbare i nostri sonni.
E quindi ecco squadernarsi un mondo di giovannone cosce lunghe, che anche Veltroni sdoganò forse un po’ sommariamente negli anni novanta per aver «aiutato a sconfiggere risorgenti integralismi bacchettoni e a dislocare verso equilibri più avanzati il comune senso del pudore», e che oggi programmi seguitissimi narrano con toni epici ed inutilmente celebrativi quasi che ormai glutei e mammelle raffigurati in tutte le pose brillassero più dello scudo di Achille nell’Iliade. Il tutto viene qui descritto più realisticamente per quello che probabilmente in realtà è, ma con molta rispettosa e interessante profondità di analisi.
Ricapitolando, non si tratta di arte e retroterra letterario perché «tornando alla nostra commedia erotica, c’è da dire che nessun brivido intellettuale l’ha mai toccata». O se è successo, ce ne si pente ancora, basta pensare al delirio decamerotico che seguì Il Decameron di Pier Paolo Pasolini del 1971, tra cui non si può non citare per la manifesta creatività del titolo il Decameron proibitissimo, meglio noto come Boccaccio mio statte zitto.
Insomma dietro queste fatone cremose che non ci fanno neanche più tanto effetto e ci sembrano ormai innocue e bonarie ‘Susanna tutta panna’, non si nasconde nessun intento artistico e nessuna sperimentazione, anche perché al tempo tra gli addetti ai lavori vi era scarsa preparazione culturale e anche «scarsa preparazione per quanto concerne le materie visive e figurative», ma tanta voglia di ridere e tanta genuinità, figlie di un retroterra culturale ancora da costruire ma anche di una società molto, di gran lunga, più ottimista della nostra e dotata anche di grande intuito cinematografico.
In termini industriali paragonare l’erotismo di allora con quello (se c’è) di oggi sarebbe come confrontare il correre impetuoso di un industriale positivista come Edison con l’ansimare di un depresso e scoraggiato startupper dei nostri giorni.
Se ne conclude che negli anni settanta non tutto era ancora virtuale e almeno la commedia erotica garantiva il contatto «con il corpo vivo della pagina e del film». Quindi niente Pasolini, niente Fellini e Giulietta degli Spiriti, niente sperimentalismi anglosassoni, ma un sano fatto di costume e storico, questa è la tesi di fondo del libro: se nelle commedie rosa, nelle commedie dei telefoni bianchi del nostro cinema anni Trenta e Quaranta ci si fermava alle porte della camera da letto, negli anni settanta ci si entrava a passo di carica. Ma non per consumare in fondo, perché a ben vedere questo non accadeva mai, ma piuttosto per farsi una risata a spese di tanti deficienti e macchiette, e forse anche per conquistarsi un po’ di poesia, se uscendo dalle sale si pensava al corpo lunare e candido della Fenech che «campeggia su quelli grigi, bruni, foschi e storti della truppa».
Ma alla fine a ben vedere nei secoli passati non è stato sempre così? La vera letteratura erotica fa da prodromo a quella commedia e si spoglia da orpelli letterari perché doveva essere immediata, ma anche moderatamente macchiettistica e anche un po’ rivoluzionaria, doveva assecondare la rapidità del piacere proibito che il lettore si voleva attraverso essa garantire. Doveva in altre parole tener d’occhio il piacere del lettore e la credibilità del racconto ma anche la cornice sociale «la geografia politica della cornice entro la quale il quadro si muove, si svolge, prolifera e, eroticamente, si verifica». Ed è così nel diciassettesimo, diciottesimo e diciannovesimo secolo, da Prevost e Casanova, da de Sade a Voltaire.
E infatti i registi e gli interpreti nostrani erano ottimi osservatori, spesso dotati di geniali intuizioni, capaci di pierinate grossolane ma anche di battute passate nel linguaggio popolare e di interpretazioni che contagiarono anche i registi stranieri (Pippo Franco ad esempio non è solo quello dell’Ubalda o della Giovannona nostrane, ma anche l’eccellente Matarazzo di Avanti!, commedia di Billy Wilder).
E questo il cinema «detto pornografico non ce lo darà mai, perché è materia grezza, vuoto, arida, senza fantasia e senza amore».
Perché iniziare il libro dal fondo, come si diceva all’inizio? Perchè tutte queste interessanti ma dotte considerazioni potrebbero indurci a trascurare per stanchezza il bel repertorio iconografico che, come un viaggio nella nostalgia dedicato a chi vuol scoprire cosa unisce Proietti, la Fenech, Massimo Ranieri e Jodie Foster, anima la parte finale del volume, da Il sole negli occhi del ’53 al Candido Erotico del 1978. E la nostra libido, crediamo, ne risentirebbe ulteriormente.
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Milo Rau, l’artista che vuole cambiare il mondo
Alla fine di settembre il regista svizzero Milo Rau ha portato al RomaEuropa festival Orestes in Mosul, il suo ultimo lavoro, parzialmente ambientato in Iraq. Il 1 ottobre al Fit, il Festival internazionale di teatro al Lac di Lugano, ha presentato il suo film del 2017 The Congo tribunal, già proiettato al RomaEuropa festival nel 2018; l’opera mette in scena un immaginario tribunale internazionale per i crimini di guerra per il conflitto civile che attraversa la Repubblica Democratica del Congo (Rdc) dalla fine degli anni novanta. Il 10 ottobre, sempre a Roma al teatro Argentina, ci sarà la prima presentazione pubblica del suo prossimo progetto La rivolta della dignità – Resurrezione, una sorta di reenactement del Vangelo con il sindacalista dei braccianti Yvan Sagnet al posto di Gesù.
È difficile stare dietro alla capacità produttiva di questo regista, la cui mappa dell’intelligenza creativa corrisponde al territorio infinito delle possibilità perfino geografiche; ma dall’altra è necessario farlo perché Rau è oggi uno degli artisti non solo teatrali più importanti al mondo, e anche i suoi lavori di passaggio lasciano negli spettatori una tale molteplicità di spunti di riflessione sul senso del teatro oggi che vanno presi come riferimenti per censire lo stato dell’arte.
Partiamo da Orestes in Mosul. Ci sono attori straordinari che interpretano Agamennone, Clitennestra, Oreste, Pilade e al tempo stesso s’interrogano sul perché e il come rappresentare l’Orestea oggi: lo fanno in due spazi, sul palco e in uno scenario post bellico a Mosul, in Iraq. Rau ha portato la sua compagnia e altri attori, professionisti e non, nel piazzale dove il gruppo Stato islamico (Is) metteva in scena le sue esecuzioni. Noi spettatori vediamo le immagini registrate su un grande schermo sopra il palco.
La vicenda degli Atridi – l’Orestea è l’unica trilogia del teatro classico che ci è arrivata intatta – è la storia di come dalla successione di fatti di sangue si passi alla giustizia: Agamennone uccide la figlia Ifigenia per avere il sostegno degli dèi nella guerra contro Troia; la moglie Clitennestra lo tradisce e complotta insieme al cugino Egisto mentre Agamennone è al fronte e lo uccide al suo ritorno insieme alla sua schiava concubina troiana Cassandra; il loro figlio Oreste vendicherà il padre uccidendo la madre e il suo amante e verrà perseguitato dalla furia delle Erinni, ma poi ci sarà un processo con il tribunale che scagionerà Oreste, con Atena a dargli l’assoluzione finale e a trasformare le Erinni in Eumenidi: il senso di vendetta tramutato in senso di giustizia. Il campo di riflessione più forte che Rau scuote è quello della fruizione, quella società che spesso identifichiamo con l’audience.
L’ambizione di inscenare questa tragedia a Mosul, teatro di conquista dell’Is prima e di una vendetta sanguinaria poi, nella liberazione della città, è talmente potente che ogni minuto del lavoro di Rau lascia un senso di vertigine, moltiplicando le allusioni – le parole dell’Orestea diventano di volta in volta inquietantemente letterali (le esecuzioni violente), utopiche (il processo che dovrebbe dare il via alla civilizzazione), o anche comiche: nella parte più straordinaria dello spettacolo il ritorno di Agamennone viene trasformato in una cena da commedia borghese a quattro – Agamennone, Cassandra, Clitennestra, Egisto – con frecciatine e veleni.
La generosità, l’apertura totale, la curiosità sono gli elementi qualificanti di questo genere di spettacoli. Milo Rau ha una funzione essenziale nel dibattito sull’arte contemporanea: non solo perché, come si dice ormai di qualunque performance multimediale, cancella i confini tra le discipline, ma soprattutto perché manda in cortocircuito un’altra serie di aspetti che riguardano lo statuto dello spettacolo stesso – il processo produttivo, il rapporto con il dibattito politico contemporaneo, il ruolo dell’attore. E c’è di più: il campo di riflessione più forte che Rau scuote è quello della fruizione, quella società che oggi spesso noi identifichiamo semplicemente con l’audience.
L’opera di Rau va vista allora più come un modo di eliminare le distinzioni tra teatro e agorà. Quasi sempre i suoi lavori ritrasformano le scene (di guerra, televisive, politiche) in scene sul palco. E quasi sempre sul palco ci sono altre forme di rito che si fondono con quello teatrale. Il caso di Congo tribunal è paradigmatico: il film somiglia a un mockumentary su un tribunale internazionale sui crimini di guerra che sono avvenuti in Congo negli ultimi vent’anni; in realtà per lo spettatore è da subito chiaro che il tribunale è una messa in scena. Questo non rende meno potente il rito della messa in scena, ma anzi la avvalora, perché anche noi nello schermo facciamo parte del rito.
L’ambizione di Rau è quella di sfondare la divisione tra due comunità, quella degli artisti e quella degli attivisti. «Io sono un attivista e un artista», scrive nel libro Realismo globale, per poi analizzare qual è il contesto in cui oggi teatro e politica si confrontano, con un grado di disinteresse reciproco: «Le opere di nuova concezione o quelle non europee, così come gli attori non professionisti o quelli di lingua straniera, gli attivisti o i gruppi indipendenti, compaiono solo nei programmi collaterali e sulle scene ‘off’. Si è costretti a fare una scelta: scena indipendente o teatro di città, produzione o distribuzione, adattamenti classici per un pubblico di ceto medio o carambola di tour internazionali per le élite globali. Tutti i tentativi di ‘aprire’ il modello del teatro di città, di combinare i modi di produzione urbani, nazionali e internazionali, e di creare un ensemble aperto alla collaborazione continua con le compagnie ospiti, sono falliti a causa dei limiti impliciti nel sistema del teatro di città. Il primo passo verso il ‘teatro di città del futuro’ è quindi trasformare le regole implicite in regole esplicite – e i dibattiti ideologici in decisioni concrete. Che aspetto dovrà avere veramente il teatro di città del futuro?»
L’esito di questa impasse è stata per Rau la scrittura del manifesto di Gent (la città belga dove dirige un teatro dal 2018), un decalogo che vale la pena riportare per intero.
- Non si tratta più soltanto di rappresentare il mondo. Si tratta di cambiarlo. L’obiettivo non è quello di rappresentare il reale, ma di rendere reale la rappresentazione stessa. Il teatro non è un prodotto, è un processo di produzione. La ricerca, i casting, le prove e le relative discussioni devono essere resi accessibili al pubblico.
- Il teatro non è un prodotto, è un processo di produzione. La ricerca, i casting, le prove e le relative discussioni devono essere resi accessibili al pubblico.
- L’autorialità spetta esclusivamente a coloro che sono coinvolti nelle prove e nelle repliche, qualunque sia la loro funzione – e a nessun altro.
- L’adattamento letterale dei classici sul palco è proibito. Se un testo – sia esso tratto da un libro, da un film o da un’opera teatrale – è disponibile all’inizio del progetto, non può costituire più del 20 per cento della durata finale della pièce.
- Almeno un quarto del tempo di prova deve svolgersi al di fuori di uno spazio teatrale. ‘Teatrale’ è qualsiasi spazio all’interno del quale sia già stata provata o messa in scena una pièce.
- Almeno due lingue diverse devono essere parlate sul palco in ogni produzione.
- Almeno due degli attori in scena non devono essere dei professionisti. Gli animali non contano, ma sono i benvenuti.
- Il volume totale del materiale di scena non deve superare i 20 metri cubi, cioè deve poter essere contenuto in un furgone che può essere guidato con una normale patente di guida.
- Almeno una produzione per stagione deve essere provata o replicata in una zona di crisi o di guerra, senza infrastrutture culturali.
- Ogni produzione dev’essere messa in scena almeno in dieci località, in almeno tre paesi. Nessuna produzione può essere rimossa dal repertorio di NTGent prima che questo numero sia stato raggiunto.
Un manifesto è un atto performativo e politico insieme, e in questo caso è un proclama coraggioso, che ricorda un po’ le undici tesi su Feuerbach di Karl Marx e un po’ il manifesto Dogma 95 dei registi danesi (Lars von Trier, Thomas Vinterberg… ). Queste regole servono per Rau a far somigliare un po’ di più il teatro a una società non solo contemporanea ma possibile, mentre sappiamo bene come il rischio evidente per chiunque vada a teatro oggi è quello di ritrovarsi rassicurato in qualche tradizione culturale, in una piccola comunità borghese, colta, laica, aperta.
Non sempre i suoi spettacoli sono del tutto riusciti (cosa poi vuol dire riuscito?), ma i difetti o i fallimenti sono interessanti quanto i momenti felici. Il meccanismo del reenactement in The repetition – visto l’anno scorso al Teatro Vascello sempre per Romaeuropa – era mostruoso per la capacità di portare la macchina teatrale a mangiarsi gli altri mezzi di comunicazione in una sorta di teatro aumentato.
Gli attori prima raccontavano, poi discutevano su come rappresentare un omicidio omofobo feroce avvenuto a Liegi nel 2012, e infine lo mettevano in scena, contemporaneamente sul palco e sullo schermo, attraverso un cameraman che a mano filmava il tutto in tempo reale. Questa modalità – che Rau usa spesso, anche in Orestes – è perturbante, perché liquida qualunque discussione contemporanea sulla rappresentazione: non viviamo in un’era in cui siamo sempre allo stesso tempo dal vivo e sullo schermo?
Come dice direttamente Rau: «Come artista, sono prima di tutto e perlopiù interessato a un coinvolgimento totalmente pratico e reale. La sola cosa che mi è stata insegnata senza sosta negli anni dei miei studi liceali è stata la necessità di essere critici. Essere intelligenti significava essere capaci di analizzare e decostruire le narrazioni e le letture della realtà e, se poi si diventava artisti, soffrirne un po’ o, a seconda dell’approccio estetico, affrontarle direttamente o indirettamente. La fantasia sociale è esattamente l’opposto: è attiva, ha l’urgenza di essere realizzata, vuole abbracciare in un colpo solo il mondo intero e soprattutto lo vuole cambiare».
Ed è questo l’esito più profondo, da un punto di vista politico, dell’opera di Rau. Al tempo dei social network, dei populismi, della crisi della democrazia rappresentativa, non siamo soltanto tutti performer, ma abbiamo tutti in quanto performer una responsabilità politica.
In questo senso va il nuovo film sul Vangelo, che presenterà il 10 ottobre a Roma. In questo vanno tutte le interviste del suo libro, che sono una chiamata generale alla militanza per una generazione globale che ha imparato a interpretare il mondo, ma non si è messa alla prova nel trasformarlo.
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