Logbook
Approfondimenti, interviste, recensioni e cultura: il meglio dell’editoria e delle arti da leggere, guardare e ascoltare.


Famiglie arcobaleno prendono la scena
Giugno 2016. Era da poco stato approvato il decreto Cirinnà quando, nel teatro di Castrovillari, al festival Primavera dei Teatri, debuttò o, per meglio dire, deflagrò l’anteprima nazionale di Geppetto e Geppetto, lavoro prezioso e delicatissimo di e con Tindaro Granata, Angelo Di Genio e un gruppo di attori affiatati, che racconta in maniera estremamente semplice e reale la situazione delle famiglie omogenitoriali e le loro vicissitudini. Lo spettacolo in questi anni ha riscosso grande successo di pubblico in tutt’Italia, spesso accompagnato da dibattiti pubblici con autore e compagnia. Mentre Familiae, raccolta inedita dei testi Antropolaroid e Invidiatemi come io ho invidiato voi e la prima edizione di Geppetto e Geppetto di Tindaro Granata, è uno dei libri teatrali più richiesti nelle grandi librerie. Da qui la decisione da parte della Cue Press di rieditare la raccolta con l’aggiunta della versione definitiva della fortunata drammaturgia Geppetto e Geppetto. I tre testi, accompagnati dall’introduzione di Damiano Pignedoli e la postfazione di Carmelo Rifici, sono un tuffo nell’universo drammaturgico del talentuosissimo auto-attore siciliano: dal monologo in dialetto stretto, ritmico e cantilenante di Antropolaroid, al parlato scomposto di una lingua naufragata in Invidiatemi come io ho invidiato voi, fino al linguaggio quotidiano, emotivo e reale del nucleo familiare di Luca e Tony, i due padri di Geppetto e Geppetto. Al centro delle diverse scritture che presentano stili e dispositivi drammaturgici diversi, il perenne incontro/scontro tra identità, famiglia, società e il dispiegarsi lieve e lirico di esistenze in bilico e al limite, tra libertà e necessità, spinta vitale e dogmi, che sono alla base di quello che chiamiamo Teatro.
Anni incauti: l’invenzione di Dom
Antologia della rivista Ampio Raggio. Esperienze d’arte e di politica: Rivista semestrale diretta da Bruna Gambarelli per la Compagnia Laminarie, la rivista del quartiere Pilastro di Bologna pubblicata per festeggiare i dieci anni di insediamento dell’iniziativa.Ampio Raggio accompagna le attività del teatro Dom la Cupola del Pilastro, gestito a Bologna dalla compagnia Laminarie (Premio Ubu 2012), con l’intenzione di contribuire alla sua storia e alla sua attività, focalizzata su una pratica di teatro in dialogo con la necessità.
Gli interventi che compongono questo libro sono di artisti studiosi cittadini che hanno attraversato le pratiche teatrali della compagnia Laminarie da quando, dieci anni fa, si è insediata al Pilastro per fondare lo spazio Dom. Gli autori dei testi sono stati invitati a rileggere gli articoli pubblicati nella rivista Ampio raggio. Esperienze d’arte e di politica che hanno accompagnato la costruzione di un luogo di pratiche e riflessioni in una terra di confine. E a riprendere il filo di alcuni tra quei contributi, quasi come spartiti da variare e arricchire di temi e motivi ulteriori, tanto il materiale di partenza è ricco di possibilità espressive. Ne è venuta una concertazione di singolare ampiezza e ricchezza che riceviamo come un dono.
La rivista, già a partire dal titolo, vuole riflettere ad ampio raggio sull’arte e inseguire una luce viva e sottile, diretta a illuminare di volta in volta un sito e i suoi paraggi. Una rivista piccola da portare in tasca, che inviti alla collaborazione, alla ricerca, allo scambio, a stretto contatto con i movimenti, le associazioni, gli abitanti del quartiere e della città di Bologna, nonché con persone affini e diverse di altri luoghi e città.
«È una rivista di piccolo formato, composta da contributi brevi, puntuali e antidemagogici, seguiti da un sunto in inglese, impaginati dalla grafica mossa di Alex Weste, e intervallati da foto che sembrano frammenti d’uno specchio da ricomporre a fine lettura.
Si chiama Ampio Raggio, e la produce il gruppo teatrale delle Laminarie, diretto da Bruna Gambarelli e insediatosi al Pilastro sotto la cupola del Dom. La sede, adiacente alle scuole, è diventata presto un punto di riferimento sia per questa periferia sia per movimenti culturali di portata internazionale. […] I temi sono tanti, ma il filo che li tiene insieme è chiaro. Radicandosi nel quartiere più ‘difficile’ di Bologna, le Laminarie si chiedono come organizzare una cultura che sia aperta ma non pubblicitaria, rigorosa ma non di casta: e Ampio Raggio è già una nutriente».
Vizi e difetti dell’italica mediocrità. Servilismo vigliaccheria corruzione. Cinecampionario di tipologie. Cioè Alberto Sordi
Mentre per il centenario della morte (15 giugno 1920) è annunciata una grande mostra a Roma, a cura di Vincenzo Mollica, Alessandro Nicosia, Gloria Satta (7 marzo – 29 giugno), l’Editore Cue Press pubblica un volume di Maurizio Porro, Alberto Sordi, in edizione riveduta e ampliata: un’occasione per riflettere su come gli storici del cinema e del teatro debbano accostarsi a un ‘fenomeno’ che ha caratterizzato persino la vita sociale di un popolo.
Compito degli studiosi, infatti, è quello di sezionare, separare, distinguere, individuare le fonti, chiarire le loro funzioni in rapporto agli eventi storici in cui ‘il fenomeno’ ha iniziato a farsi conoscere.
Maurizio Porro, oltre che cronista, è anche uno storico. Non per nulla, Alberto Bentoglio, Direttore del Dipartimento di Beni Culturali e Ambientali dell’Università degli Studi in Milano, lo ha voluto come docente di Storia della Critica dello Spettacolo alla Statale. Uno storico che dispone di innumerevoli documenti nella sua ricca biblioteca, ma è stato ed è anche un testimone di quello che scrive.
Nel suo Alberto Sordi, prima di approfondire il grande attore cinematografico, Porro ha voluto ricercarne le ‘fonti’ teatrali, individuando in esse le invenzioni di quei ‘caratteri’, di quell’arte di arrangiarsi, tipici dei cittadini italiani. Sordi, come attore, nasce e Milano, iscrivendosi alla scuola dei Filodrammatici, frequentata da Giorgio Strehler e Franco Parenti, dalla quale non viene accettato per il suo accento troppo romanesco. A Milano era andato per lavorare come assicuratore (stipulava polizze per la vita). Egli, però, voleva fare ben altro, magari lavorare nella Rivista.
Porro ci racconta il primo incontro importante della sua vita professionale con l’impresario Angelo Muzio che gli propose di realizzare uno sketch comico in uno spettacolo di balletti, grazie al quale debuttò al Teatro Dal Verme. Fece presto a farsi notare, tanto da essere scritturato (1938-1939) dalla Compagnia Riccioli-Primavera, con cui cominciò a imparare il mestiere, iniziando a conoscere i meccanismi di ricezione del pubblico, quel pubblico a cui dedicherà tutta la sua vita d’attore e che sempre ringrazierà perché diceva di dovergli tutto.
Seguiranno gli anni dell’avanspettacolo, recitando nella nuova edizione di Za-Bum nel 1943, con uno sketch in cui dimostrava come un pazzo potesse diventare dittatore. La prima grande occasione gli fu offerta da Garinei e Giovannini che, nel 1945, lo scritturarono per Soffia so’. Intanto, vanno segnalati due successi particolari: la vittoria al concorso indetto dalla MGM per doppiare Oliver Hardy e la scrittura alla Radio con una trasmissione che si intitolava Vi parla Alberto Sordi. La radio, a quei tempi, sanciva il successo di un attore, oltre che la notorietà. Basterebbe ricordare le trasmissioni di Franco Parenti (Anacleto il gasista), Tino Scotti (Buon giorno Buonasera) e Dario Fo (Poer nano) che, grazie ai loro sketch esilaranti, poterono accedere al grande pubblico. Sarà ancora Milano a offrirgli una ulteriore opportunità: Remigio Paone lo scelse come partner di Wanda Osiris in Gran Baraonda (1952), con la regia di Garinei e Giovannini. Sordi veniva da un fiasco clamoroso dovuto allo Sceicco bianco (1951) di Federico Fellini, diventato successivamente un film cult.
La vera storia di attore cinematografico, con pieno successo, la deve a I vitelloni, sempre di Fellini, che gli fece vincere il Nastro D’Argento a Venezia. Fu l’inizio di una carriera che durò fino al 1998.
A Sordi dobbiamo la trasformazione della maschera individuale in maschera sociale, avendo portato sullo schermo un campionario di vizi e difetti di tutte le tipologie di italiani: dal mediocre burocrate all’essere servile, anticipando Fantozzi, dal mammone allo scapolo, dal vedovo al borghese piccolo piccolo, dall’inetto all’imbroglione.
La maschera ‘Sordi’ non è quella ‘nuda’ di Pirandello che mette in gioco i flussi identitari: è la maschera del quotidiano che coinvolge l’uomo di potere e l’uomo della strada, è quella del vigliacco, del pavido, del corruttore e del corrotto, una maschera che si tinge di ironia, di sottile umorismo, comica e tragica contemporaneamente e che, in alcuni casi, attinge alla buffoneria.
Nel volume, Porro raccoglie una serie di giudizi di Comencini, Lattuada, Loy, Risi, Morandini, Montesano, Scola, e lo arricchisce con due sue lunghe interviste e con una iconografia ragionata.
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La grande avventura d’un teatro minore. Amato dai Futuristi. Tra acrobati, giocolieri e chanteuses. Ecco il Café Chantant
A chi voglia conoscere la storia del Café Chantant in Italia, dalla sua nascita agli ultimi strascichi del secondo Novecento, consiglio di leggere il libro di Rodolfo De Angelis: Café-chantant, pubblicato da Cue Press, nella Collana «I saggi del teatro», a cura di Stefano De Matteis, a cui dobbiamo anche la pubblicazione nel 1980 di Follie del Varietà, 1890-1970 (Feltrinelli), coadiuvato nella curatela da Martina Lombardi e Marilea Somaré. Follie del Varietà, 1890-1970 costituisce una specie di arricchimento al libro di De Angelis, coinvolgendo, con brevi scritti di ricordi personali, impresari, comici, soubrettes, critici, tutti attenti a raccontare la grande avventura di ‘un teatro minore’ che ha poco da invidiare al teatro borghese del tempo.
Nella seconda metà dell’Ottocento, grazie a una nuova legge di liberalizzazione in materia teatrale, si affermarono nuovi generi che favorirono l’estensione dello spazio teatrale dal palcoscenico al Caffè, segnando il passaggio da un luogo di dibattito e di riflessione a un luogo di divertimento.
È chiaro che, ogniqualvolta nasce un genere nuovo, non basta indagarlo esteticamente, anzi diventa necessaria una indagine di tipo sociologico proprio perché, la diversità dei generi, presuppone pubblici diversi, con differenziazioni di classe sociale, alle quali corrispondono modalità fruitive a loro volta differenti dovute a forme di adesione al genere scelto che rispecchiano la formazione culturale dello spettatore. Basterebbe elencare i generi che si affermarono nel periodo indicato: dal Melò al Melodramma, dal Café Chantant al Varietà, dall’Avanpettacolo al Music Hall, per capire le preferenze di un pubblico che offrono uno spaccato dell’Italia liberale e, successivamente, di quella Umbertina e Giolittiana, con i primi successi dei socialisti. Il pubblico che frequenta il Café Chantant è quello di strada che non va in cerca della legittimazione sociale come quello dei teatri borghesi.
Al Café Chantant bastava una pedana, un pianoforte, una cantante e un’attrazione per far diventare complice lo spettatore, libero di intervenire, durante lo spettacolo, con approvazioni e disapprovazioni, col consenso e il dissenso. Il momento d’oro del Café Chantant coincide col primo decennio del Novecento, proprio quando inizia l’attività Rodolfo De Angelis che, da apprendista ragioniere, si vede catapultato sulle tavole di palcoscenici improvvisati.
Secondo De Matteis, De Angelis non fu né un grande comico, né un grande artista, bensì un buon cantante e, successivamente, un ottimo organizzatore, oltre che un testimone. Dobbiamo a lui il lungo racconto di questo genere, in particolare, di quanto avveniva nei locali di Napoli e Milano, con la capacità di farci rivivere le programmazioni dei Café Chantant, raccontandoci non solo degli artisti, ma anche dei tirasipario e dei portacesti, ai quali si doveva il successo o l’insuccesso dello spettacolo. Si sofferma, inoltre, sugli ‘ordini del giorno’, dove si leggeva: «Ogni minuto di ritardo sarà multato», sui vari ‘numeri’ che venivano eseguiti, sulla spartizione del repertorio. Indugia anche sul malcostume degli spettatori, spesso chiassosi e irriverenti, pronti a evidenziare i loro gusti sessuali, invocando l’artista tettona e ‘cicciuta’, con le divette che si dividevano gli spettatori, che, per loro, si trasformavano in un vero e proprio incubo.
Fondamentale il capitolo che De Angelis dedica alle attrazioni, elencandole quasi tutte: si va dagli acrobati, ai danzatori sul filo, al giocoliere, all’uomo serpente, al ventriloquo, al fachiro, al lanciatore di coltelli, al trio ciclistico, fino ai Quadri plastici che tanto piacevano ai Futuristi, con i quali De Angelis iniziò una collaborazione, non solo come autore insieme con Marinetti e Cangiullo del Teatro della sorpresa, di cui si possono leggere, nel libro, i Manifesti, ma anche come organizzatore della Compagnia del Teatro Futurista che, a dire il vero, non ebbe lunga vita.
Negli anni Trenta, De Angelis registrò un successo travolgente con la canzone: Ma cos’è questa crisi, che lo fece vivere un po’ di rendita, dato che il Café Chantant mostrava già il suo declino.
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Teatro
Dice Jordi: «…ho paura».
Risponde Anna: «…siamo tutti spaventati».
Queste battute poste a chiusura de Il principio di Archimede (2012) costituiscono il sottile filo conduttore che attraversa il Teatro del catalano Josep Maria Mirò raccolto in questo prezioso e importante volume di Cue Press.
I due personaggi, rispettivamente un giovane estroverso istruttore di nuoto e la severa direttrice, affiancati dal riservato e composto Hector, agiscono nello spogliatoio degli istruttori di nuoto di una piscina che all’improvviso si trova al centro di uno scandalo per colpa di un innocente bacio dato da Jordi a un bambino spaventato dall’acqua. La diffusione della notizia attraverso i social network si trasforma in accusa di pedofilia da parte dei genitori degli allievi, di cui è portavoce David, fino a diventare psicosi collettiva. Il testo de Il principio di Archimede assorbe l’elemento tragico e lo diluisce in una griglia di dialoghi di natura psicologica che bene disegnano la precarietà delle dinamiche interpersonali e sociali quando chiamate a confrontarsi con un fatto destabilizzante. Realtà e falsità si confondono e liberano la paura dell’irrazionale. È questo il male oscuro, secondo Mirò, dell’uomo moderno.
Il gioco capriccioso e inquietante dei timori mina il perbenismo e il conformismo della giovane coppia protagonista di Nerium Park: il loro lussuoso appartamento appena acquistato in un quartiere residenziale di nuova costruzione si trasforma in una cella delle torture fino al tragico epilogo. Mirò costruisce un testo oscillante tra commedia familiare e thriller contaminata da elementi vagamente kafkiani per radiografare gli effetti della crisi economica che mette in difficoltà i progetti di Bruno e Anna sempre più tormentata dal sentirsi spiati dai vicini, minacciata dalla presenza di uno strano individuo accampato abusivamente nel caseggiato che incuriosisce l’uomo al punto da diventarne amico mentre ciò aumenta il panico nella donna. Il fattore ansiogeno destabilizza le labili certezze dell’inconscio.
Il principio di Archimede e Nerium Park sono stati tradotti da Angelo Savelli e presentati con successo in prima nazionale al Teatro Rifredi di Firenze. Rimangono invece inediti per le platee italiane Dimentichiamo di essere turisti e Tempi selvaggi, commedie composte da Mirò nel 2017. Sono, questi, testi molto interessati e di pregevole spessore letterario perché articolano l’analisi del disagio/turbamento come vissuto dai personaggi in un certo ambiente. Può essere familiare come la zona residenziale composta da quattro appartamenti con prato e piscina in cui abitano le quattro coppie di Tempi selvaggi; oppure diventano i luoghi argentini incontrati dagli spagnoli Carme e Martì durante un loro viaggio che da evasivo si trasforma in ricerca di identità e di memoria come raccontato nel sorprendente Dimentichiamo di essere turisti.
In merito ai contenuti affrontati dal drammaturgo, il direttore artistico del Teatre Nacional de Catalunya Xavier Alberti sottolinea l’efficacia con cui trasferisce nel linguaggio teatrale «il malessere di persone, di personaggi, di verità da rappresentare, di emozioni che cercano un nuovo contesto ideologico, dei sopravvissuti che forse saremo, per tornare a convocare la tribù in assemblea e stipulare nuovi patti di convivenza, in cui il malessere occupi il posto che gli spetta in questa società instabile, in movimento, e che ogni tanto espelle quello che non è più capace di digerire» (p. 7).
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Io, l’altro. Il teatro di Sergio Blanco
Io. Soltanto la prima persona singolare, il soggetto che agisce o subisce, il cartesiano ego cogitante: solo l’io, nient’altro. Un territorio che trova il proprio confine – concreto, e ciò nonostante apparente – nel corpo, e che tuttavia sembra in costante e altalenante metamorfosi tettonica: ora in grado di accogliere e conquistare sconfinate porzioni di mondo, ora di restringersi e contrarsi in recessi di ombra. È tutto qui – ed è così immenso – lo spazio nel quale Sergio Blanco si muove e muove con sé una piccola folla di anime: un paesaggio che lo scrittore franco-uruguaiano, più che cartografare, di volta in volta inventa, edifica in atti e battute, in scene e prologhi che meticciano l’autobiografia con l’invenzione. Lungi dal costituire una declinazione inedita di un genere canonico, l’autofinzione – termine coniato da Serge Doubrovsky già nel 1977 per descrivere il proprio romanzo Fils – sembra però aver trovato, grazie a Blanco e alle sue tante creazioni, una peculiare legittimazione etico-politica, grazie alla quale tentare di schivare qualsiasi facile accusa di attitudine ‘ombelicale’ – invero più diffusa in ambito letterario che teatrale – e tradurre in «espressione del bisogno di sentirsi amati», in «urgenza dell’incontro con l’altro» l’ormai nota trasposizione sul palco di brandelli di vita vissuta: e sognata.
Pubblicato da Cue Press nella collana Gli artisti e tradotto da Anabella Caneddu, Autofinzione. L’ingegneria dell’io è il breve saggio – inteso dall’autore nel suo senso di «prova, luogo di dubbi, di quesiti e interrogativi» – con il quale Blanco offre ai lettori la propria interpretazione di tale dispositivo narrativo, individuando – forse con un approccio eccessivamente antologico e sommario – una serie di ‘scritture sull’io’ nelle quali riscontrarne le forme prodromiche e i primi tentativi di sistematizzazione: dalla Lettera ai Galati di San Paolo al Libro della Vita di Santa Teresa, dall’Ermeneutica del soggetto di Michel Foucault alle riflessioni di Virginie Despentes e Paul Ricoeur. È tuttavia nella sezione conclusiva del volume, intitolata Domande a me stesso: perché l’autofinzione?, che Blanco affonda lo sguardo nel processo creativo, giustapponendo a un ‘decalogo di un tentativo di autofinzione’ sezioni tratte dalle sue opere, in un inesausto scambio tra teorizzazione e risvolto scenico, tra idea e parola, tra scrittura e teatro. Se la narrazione dell’Io è «un semplice tentativo di capire me stesso per arrivare a capire gli altri», i drammi di Blanco – già insigniti di alcuni tra i più prestigiosi premi del settore – mettono al centro le infinite possibilità di un’esistenza quotidiana e riconoscibile: quella di uno scrittore di successo, dal doppio passaporto e dalla sessualità fluida, in un travaso che tuttavia confonde gli snodi reali e le vicende accadute con la loro affabulazione più fantasiosa. Al lettore e allo spettatore è impedito sapientemente di distinguere fra verità e finzione, tra romanzo e documento, in un rifiuto netto di qualsiasi dogmatismo dello sguardo, e in una nuova versione della verosimiglianza manzoniana che racconta l’oggi attraverso lo sguardo di un unico individuo, sia esso rivolto alla realtà o proiettato verso l’immaginazione.
Chissà se S, drammaturgo trentanovenne, ha realmente proposto al Teatro San Martín di Buenos Aires un progetto che avrebbe coinvolto Martín, un giovanissimo parricida. Chissà se è stato proprio di giovedì che Federico ha partecipato al provino per interpretare l’assassino a teatro. Chissà se il corpo del padre di Martín è stato realmente appoggiato al frigorifero dell’abitazione per un tempo così lungo, e se questa idea abbia davvero impressionato S. con tale forza. Tebas Land, candidato al premio UBU 2019 come miglior testo straniero messo in scena da compagnie o artisti italiani (nello specifico Pupi e Fresedde – Teatro di Rifredi, per la versione diretta da Angelo Savelli e portata in scena da Ciro Masella e Samuele Picchi), costituisce l’exemplum di una scrittura che gioca scopertamente con i piani temporali, accostando il racconto del passato con la sua immediata resa scenica, e che nella mistificazione di una vicenda di colpa e possibile redenzione trova l’occasione per un’indagine sul mito di Edipo e sul senso stesso del fare teatro. Proprio in occasione del debutto nazionale dello spettacolo, Cue Press ha raccolto in volume tre testi di Blanco nella traduzione firmata da Savelli: oltre a Tebas Land, L’ira di Narciso e quel Bramido de Düsseldorf candidato al premio UBU 2019 come miglior spettacolo straniero, presentato in Italia nella versione diretta da Blanco stesso. A Savelli dobbiamo una resa piana e accurata del dettato, esito collaterale di un pluriennale progetto di ricerca e scouting focalizzato sulla nuova drammaturgia contemporanea, in grado di trasformare progressivamente il palcoscenico di Rifredi nella casa, tra gli altri, di Eric-Emmanuel Schmitt, di Rémi De Vos, di Josep Maria Mirò: un luogo dove, direbbe Blanco, intraprendere una volta ancora quel «percorso che si snoda al di là di sé stessi per dirigersi verso un Altro».
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Premio Fiesole
Cue Press ha ricevuto il Premio Speciale Fiesole 2019, un riconoscimento che celebra eccellenze e innovazioni nel panorama culturale.
Il Premio Fiesole è un prestigioso riconoscimento assegnato annualmente a personalità, istituzioni o realtà che si distinguono per il loro contributo innovativo e significativo alla cultura, all’arte e alla società.
Ideato per celebrare l’eccellenza in diversi ambiti, il premio evidenzia l’importanza di iniziative che arricchiscono il panorama culturale, promuovendo valori di creatività, tradizione e sperimentazione.
La giuria ha premiato la casa editrice per il suo straordinario contributo al rilancio dell’editoria teatrale, un settore spesso trascurato, con un approccio innovativo che coniuga tradizione e contemporaneità. L’uso di tecnologie editoriali avanzate ha permesso di unire agilità digitale e qualità del cartaceo, rendendo accessibili opere altrimenti dimenticate:
«Una casa editrice che ha solo sette anni di vita ma che sta riuscendo in un compito che sembrava impossibile: rilanciare l’editoria teatrale (Mattia Visani, anima e fondatore, proviene dall’esperienza di Ubulibri), non senza significative incursioni in campo cinematografico, con la pubblicazione a ritmo serrato di un ampio ventaglio di titoli. Guardando contemporaneamente – per quanto riguarda il teatro – ai testi classici dei grandi maestri e teorici del passato (Mejerchold, Stanislavskij, Appia, Vachtangov, Craig) e agli studi e saggi di studiosi che hanno lasciato il segno nell’indagine sulla storia e i linguaggi della scena, ma anche, con un occhio attento e vivace, agli autori, ai testi, ai teatranti di questi ultimissimi anni, entrando anche nel vivo nel dibattito teatrale di inizio millennio. E il campo di interesse sono al tempo stesso l’Italia e il resto d’Europa e del mondo. Il punto di partenza dell’attività di Cue Press è quello dell’editoria digitale: l’utilizzo di tecniche di produzione editoriale avanzate e a basso costo la cui agilità permette di raggiungere risultati pratici altrimenti impensabili ha consentito però anche il rapido ‘sbarco’ sul cartaceo, con libri tradizionali che affiancano le versioni eBook e digitale interattiva dei diversi titoli. Libri che apparentemente sembrano non concedere nulla alla ‘bellezza’ esteriore del prodotto ma che invece hanno un loro stile, lineare e rigoroso, in sintonia con quella che è la logica operativa di Cue Press. «Superare gli steccati che separano la produzione settoriale dalle logiche del mercato e dell’imprenditoria. Restituire valore commerciale ad opere che i consueti standard di produzione hanno condannato alla scomparsa»: questi gli obiettivi dichiarati della casa editrice Cue Press. Obiettivi anmbiziosi che Mattia Visani e il suo gruppo stanno rendendo raggiungibili e non più utopici come potrebbero sembrare».
Con il Premio Fiesole, Cue Press vede riconosciuto il proprio impegno nel dare nuova vita all’editoria teatrale, trasformando utopie in realtà.
La cultura è impresa
Una volta, parlando con un’agente di teatro italiana, ho sentito da lei che non ha mai rimesso soldi sulle pubblicazioni di libri di teatro, ovvero che ci ha sempre guadagnato, cosa impossibile in Polonia. Si vendono o non si vendono i libri di teatro?
Perdere dei soldi in una attività culturale è più facile che guadagnarne. Almeno in Italia. Per quel che riguarda i libri di teatro. Cue ha un bilancio in equilibrio e una attività in netta crescita. Cerchiamo di essere realisti, in un paese molto fantasioso.
Cosa significa costruire un progetto in questo caso?
Significa avere consapevolezza del contesto attenzione ai dettagli, agire un passo alla volta. Aumentando le vendite, cresce proporzionalmente la possibilità di reinvestire in nuovi progetti. È una banalità a dirsi, ma non è un così scontato in un settore, quello della produzione culturale, dove non si fa altro che invocare l’intervento dello Stato. Lo stato dovrebbe semplicemente preparare il contesto, rendere il terreno fertile e produttivo, non finanziare azioni sconnesse che rispondono a logiche personali e, molto spesso, di basso profilo.
Sono debitore naturalmente a Franco Quadri: la Ubu è invecchiata e poi è scomparsa insieme a lui, ma storicamente è stata un vero punto di riferimento culturale, di rinnovamento culturale, non solo per il teatro ma anche per l’editoria. Bisogna conservarne la lezione e, con essa, considerarne i limiti. I libri non vengono promossi, distribuiti e venduti per una loro virtù immanente. Per creare un’impresa culturale, bisogna che ci siano una serie di cosa che stiano a loro posto.
Per prima cosa, una struttura aziendale credibile e che ti permetta di agire: l’editoria è impresa, la cultura è impresa. Una Associazione Cultuale, per statuto, non è uno strumento adatto a questo scopo. Un contesto poco chiaro non fa bene a nessuno.
Secondo un progetto di sviluppo credibile: non è credibile che una casa editrice pubblichi quattro libri all’anno, fossero pure i quattro libri dei grandi Grotowski e Kantor. Questi editori sono morti che camminano. Così muoiono anche i libri, la cultura. E il terreno diventa sterile per ogni attività d’impresa, di pro-mozione, di pro-gettualità. Ma questo aprirebbe il tema del rapporto tra pubblico e privato. Ed è un tasto è troppo dolente. Mi trovo anche nella circostanza di fare concorrenza a me stesso: con i soldi dei miei stessi contributi… Questo non significa che i grandi classici non abbiano un valore, Cue Press ne è la prova.
Terzo l’identità. Ovvero, la capacità di distinguere nei contenuti e nella forma la propria attività tra molte dello stesso genere. Per questo è necessario avere le giuste competenze: un ottimo progetto grafico, saper scegliere i materiali culturali, contestualizzarli in maniera adeguata, una buona dose di umiltà. Poi si comincia a lavorare…
Dei casi clamorosi delle catastrofi di editoria teatrale negli ultimi anni ti vengono in mente?
È un terreno di macerie. Non posso produrmi in una analisi dettagliata. Te lo dico quando stacchi il microfono.
Quindi, tu ti riferisci al fatto che ci vuole una cultura imprenditoriale, ed è un po’ l’argomento di cui abbiamo parlato in un’altra occasione, non soltanto di pubblicare libri perché hanno un valore intrinseco.
Sì e no. Certamente hanno un valore intrinseco ma bisogna saperli inserire in un contesto adeguato. Cosa succederebbe se pubblicassero Ken Follett in una collana di caccia e pesca? Aumenteresti il prestigio della collana o uccideresti Ken Follett o, peggio, l’una e l’altro? Il concetto di collana editoriale, oggi, è debole, una volta oltrepassata la frontiera del web. È inadatto ad affrontare la molteplicità e ‘il caos’ della rete. Sono necessari grandi contenuti e forte identità, che è un principio di relazione non di unicità. Altrimenti non esisti. Questo significa anche organizzare adeguatamente i contenuti. Il valore intrinseco esiste, però bisogna anche sapere che un libro che ha un grandissimo valore culturale potrebbe avere anche unico lettore. Possiamo dire grotowskianamente, che basta un libro e un lettore. Però è importante ci si sappia rivolgere precisamente e consapevolmente a quell’unico a quell’unico lettore (spettatore) che il libro (spettacolo) potrà intercettare. Allora opera continuerà ad avere valore e vita. Se tu inserisci un’opera, in un contesto che produce un progetto all’anno, allora, anche l’opera più grande, non avrà nessun valore in termini di relazione, visibilità, non aiuterà altre opere ad emergere. Sarà soltanto un libro buttato su un scafale di una biblioteca o in fondo di un magazzino o senza nessun criterio e consapevolezza nel magma del web dove resta alcuna traccia. Un click all’anno sarà il suo destino. È questo che penso quando dico che i libri, ormai, nel mondo del digitale, non sono oggetti, sono progetti. Il digitale non può miracolosamente resuscitare un libro. Può offrire un campo dove creare nuove relazioni. Al centro ci sono sempre i contenuti e la loro organizzazione. Mi dispiace, questo potrà fare male a qualcuno, ma non è vero che i libri di teatro non si vendono. Non lo posso dire. Non posso dire che se ne vendano tanti. Ma se Cue Press continuerà a crescere al ritmo attuale, tra poco raggiungemmo i numeri considerevoli.
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Turbare l’anima dello spettatore davanti alla violenza, per renderlo complice e aiutarlo così a smascherare la realtà
Realismo globale di Milo Rau, Editore Cue Press, è un libro necessario per meglio conoscere il regista, che, in questo ultimo decennio, ha fatto parlare di sé e del suo teatro d’impegno sociale, politico, anche se non proprio ideologico. Sfruttando certi eventi drammatici, diventati iconici, ha potuto portare in scena il mondo globalizzato, in particolare quello dei vinti, ricorrendo a un realismo che non ha nulla a che fare con quello di matrice naturalista, perché la realtà che a lui interessa è quella dell’accadere, matrice del ‘realismo globale’, ovvero di quello che si trova nello spazio interno al capitalismo mondiale, con i suoi effetti deleteri, ma è anche la realtà degli invisibili, degli oppressi, delle dignità calpestate.
Milo Rau ha fatto studi di sociologia, suoi maestri sono stati Derrida e Ziegler, è infarcito di nozioni che riguardano il postmoderno e il decostruzionismo. Egli pone, dinnanzi a sé, il mondo globalizzato, consapevole che i metodi estetici di prima siano stati superati da eventi che riguardano, non le realtà di una nazione, ma quelle del globo, mettendone in luce tutte le contraddizioni. Negli anni Settanta, i teorici sostenevano che il teatro andava rietralizzato.
Oggi compito del teatro è quello di vigilare, di rappresentare le violenze, le conflittualità che avvengono in molte parti del mondo, che producono emozioni estreme, proprio quelle che Milo Rau porta in scena attraverso la dialettica tra il reale e l’immaginario, a vantaggio, però, di una riflessione sociale. Per questo motivo, egli cerca di rappresentare la realtà utilizzandone tutte le implicazioni, mostrandola direttamente in azione, che non vuol dire riproporre la formula del Teatro documento, quello, per intenderci, di Il caso Oppenheimer (1964), Il processo di Savona (1965), L’istruttoria (1965), Il caso Matteotti (1968), Il fattaccio di giugno (1968), Cinque giorni al porto (1969), Otto Settembre (1971), W Bresci (1971), Duecentomila e uno ( 1973), solo per citare alcuni esempi di una Stagione irripetibile.
A Rau interessa recuperare la memoria del presente, per poter riflettere sugli eventi estremi che produce, quella che lui chiama re-enactment, che vuol dire rievocazione, ricostruzione. Non è il contesto che gli interessa, bensì la riproduzione delle sensazioni di sconvolgimento che proviamo dinanzi a quegli eventi, in modo da creare uno spettatore complice, oltre che partecipe di questi sconvolgimenti, senza la conoscenza dei quali, non può esserci smascheramento.
Il volume raccoglie una serie di interviste, di discorsi, di manifesti, dove teorizzazioni, anche politiche, si alternano con le note di regia degli spettacoli messi in scena dal 2009 al 2019, da The last days of Ceausescus a City of Change, da Hate Radio a Breivik’s Statement. Gli argomenti trattati riguardano il «realismo globale», «L’Umanesimo cinico», «Il teatro mondiale», «L’attore nel XXI secolo». Vi troviamo anche Il manifesto di Gent, dove Milo Rau si sofferma sulle ‘Regole’ che le Istituzioni dovrebbero rendere pubbliche, sul ‘teatro di città del futuro’, sui contenuti, sui programmi, sulle tournée, sull’ensemble multilingue.
Rau vorrebbe cambiare il mondo attraverso il teatro. In questo non è certamente il solo. Ci hanno provato i Maestri del passato, consapevoli del fatto che il teatro sia la fonte primaria dell’utopia. Si spera, che in un prossimo libro, possano essere raccolti i suoi copioni per poter fare un confronto tra quanto è stato teorizzato e quanto appartiene al testo scritto.
Il volume è preceduto da un intervento di Marco Martinelli ed Ermanna Montanari, dalla premessa di Rolf Bossart, autore anche delle interviste a Rau, e da una nota al testo di Silvia Gussoni, che ha curato anche la traduzione con Francesco Alberici.
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