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Approfondimenti, interviste, recensioni e cultura: il meglio dell’editoria e delle arti da leggere, guardare e ascoltare.


Viaggio nel corpo. La commedia erotica nel cinema italiano
Questo libro ha l’indubbio merito di riportare all’attenzione del lettore un testo sepolto, indisponibile anche per un ostinato bibliofilo. Però sarebbe meglio leggerlo cominciando dalla fine. Vediamo di spiegare perché. Che mondo è quello della commedia erotica italiana?
È un mondo che, visto con gli occhi di chi lo descrive alla fine degli anni settanta, ha già il sapore della nostalgia. È una bestia strana la nostalgia, e a giocare al si stava meglio quando si stava peggio alla fine ci si può anche scottare: è come un vecchio cane pulcioso e incimurrito che una volta si è cacciato in malo modo e poi ci se ne pente, la nostalgia, perché quelli animaletti moderni col pelo lisciato e il pedigree da passaporto sono a volte piuttosto noiosi nella loro perfezione e pulizia.
Agli occhi del lettore sfogliando il volume si apre una lezione di archeologia erotica. Sì perché onestamente i nostri tempi han ben poco di erotico: sono, come si dice, sessualmente espliciti (e già lì c’è il baco perché il sesso è o dovrebbe essere gioco, mistero e intimità tutta implicita), ma scarsamente sexy. E infatti sublimiamo, altroché se sublimiamo: sbaviamo per un paio di scarpe, fischiamo come Mastroianni per una confezione sgargiante o un manicaretto vegano, deliriamo per una sequenza innovativa di bit.
E Turroni ci fa eco dagli anni settanta: «Si dice da più parti… che non è mai esistita epoca -sotto qualsiasi cielo politico- più repressa sessualmente della nostra. La quantità enorme di materiali erotici e pornografici, di immagini fotografiche e filmiche, starebbe a testimoniare questa mancanza di verità, questo eluso, e oramai compromesso e alienato, rapporto di identità dell’uomo moderno con la natura del sesso…»
E dovevano ancora venire guerre, crisi globali, pandemie, crisi economiche, pornografia in rete (dove il sesso fa sempre più rima con sterilità rituale, violenza e ginnastica invece che con piacere e bellezza) ed ecodisastri a turbare i nostri sonni.
E quindi ecco squadernarsi un mondo di giovannone cosce lunghe, che anche Veltroni sdoganò forse un po’ sommariamente negli anni novanta per aver «aiutato a sconfiggere risorgenti integralismi bacchettoni e a dislocare verso equilibri più avanzati il comune senso del pudore», e che oggi programmi seguitissimi narrano con toni epici ed inutilmente celebrativi quasi che ormai glutei e mammelle raffigurati in tutte le pose brillassero più dello scudo di Achille nell’Iliade. Il tutto viene qui descritto più realisticamente per quello che probabilmente in realtà è, ma con molta rispettosa e interessante profondità di analisi.
Ricapitolando, non si tratta di arte e retroterra letterario perché «tornando alla nostra commedia erotica, c’è da dire che nessun brivido intellettuale l’ha mai toccata». O se è successo, ce ne si pente ancora, basta pensare al delirio decamerotico che seguì Il Decameron di Pier Paolo Pasolini del 1971, tra cui non si può non citare per la manifesta creatività del titolo il Decameron proibitissimo, meglio noto come Boccaccio mio statte zitto.
Insomma dietro queste fatone cremose che non ci fanno neanche più tanto effetto e ci sembrano ormai innocue e bonarie ‘Susanna tutta panna’, non si nasconde nessun intento artistico e nessuna sperimentazione, anche perché al tempo tra gli addetti ai lavori vi era scarsa preparazione culturale e anche «scarsa preparazione per quanto concerne le materie visive e figurative», ma tanta voglia di ridere e tanta genuinità, figlie di un retroterra culturale ancora da costruire ma anche di una società molto, di gran lunga, più ottimista della nostra e dotata anche di grande intuito cinematografico.
In termini industriali paragonare l’erotismo di allora con quello (se c’è) di oggi sarebbe come confrontare il correre impetuoso di un industriale positivista come Edison con l’ansimare di un depresso e scoraggiato startupper dei nostri giorni.
Se ne conclude che negli anni settanta non tutto era ancora virtuale e almeno la commedia erotica garantiva il contatto «con il corpo vivo della pagina e del film». Quindi niente Pasolini, niente Fellini e Giulietta degli Spiriti, niente sperimentalismi anglosassoni, ma un sano fatto di costume e storico, questa è la tesi di fondo del libro: se nelle commedie rosa, nelle commedie dei telefoni bianchi del nostro cinema anni Trenta e Quaranta ci si fermava alle porte della camera da letto, negli anni settanta ci si entrava a passo di carica. Ma non per consumare in fondo, perché a ben vedere questo non accadeva mai, ma piuttosto per farsi una risata a spese di tanti deficienti e macchiette, e forse anche per conquistarsi un po’ di poesia, se uscendo dalle sale si pensava al corpo lunare e candido della Fenech che «campeggia su quelli grigi, bruni, foschi e storti della truppa».
Ma alla fine a ben vedere nei secoli passati non è stato sempre così? La vera letteratura erotica fa da prodromo a quella commedia e si spoglia da orpelli letterari perché doveva essere immediata, ma anche moderatamente macchiettistica e anche un po’ rivoluzionaria, doveva assecondare la rapidità del piacere proibito che il lettore si voleva attraverso essa garantire. Doveva in altre parole tener d’occhio il piacere del lettore e la credibilità del racconto ma anche la cornice sociale «la geografia politica della cornice entro la quale il quadro si muove, si svolge, prolifera e, eroticamente, si verifica». Ed è così nel diciassettesimo, diciottesimo e diciannovesimo secolo, da Prevost e Casanova, da de Sade a Voltaire.
E infatti i registi e gli interpreti nostrani erano ottimi osservatori, spesso dotati di geniali intuizioni, capaci di pierinate grossolane ma anche di battute passate nel linguaggio popolare e di interpretazioni che contagiarono anche i registi stranieri (Pippo Franco ad esempio non è solo quello dell’Ubalda o della Giovannona nostrane, ma anche l’eccellente Matarazzo di Avanti!, commedia di Billy Wilder).
E questo il cinema «detto pornografico non ce lo darà mai, perché è materia grezza, vuoto, arida, senza fantasia e senza amore».
Perché iniziare il libro dal fondo, come si diceva all’inizio? Perchè tutte queste interessanti ma dotte considerazioni potrebbero indurci a trascurare per stanchezza il bel repertorio iconografico che, come un viaggio nella nostalgia dedicato a chi vuol scoprire cosa unisce Proietti, la Fenech, Massimo Ranieri e Jodie Foster, anima la parte finale del volume, da Il sole negli occhi del ’53 al Candido Erotico del 1978. E la nostra libido, crediamo, ne risentirebbe ulteriormente.
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Milo Rau, l’artista che vuole cambiare il mondo
Alla fine di settembre il regista svizzero Milo Rau ha portato al RomaEuropa festival Orestes in Mosul, il suo ultimo lavoro, parzialmente ambientato in Iraq. Il 1 ottobre al Fit, il Festival internazionale di teatro al Lac di Lugano, ha presentato il suo film del 2017 The Congo tribunal, già proiettato al RomaEuropa festival nel 2018; l’opera mette in scena un immaginario tribunale internazionale per i crimini di guerra per il conflitto civile che attraversa la Repubblica Democratica del Congo (Rdc) dalla fine degli anni novanta. Il 10 ottobre, sempre a Roma al teatro Argentina, ci sarà la prima presentazione pubblica del suo prossimo progetto La rivolta della dignità – Resurrezione, una sorta di reenactement del Vangelo con il sindacalista dei braccianti Yvan Sagnet al posto di Gesù.
È difficile stare dietro alla capacità produttiva di questo regista, la cui mappa dell’intelligenza creativa corrisponde al territorio infinito delle possibilità perfino geografiche; ma dall’altra è necessario farlo perché Rau è oggi uno degli artisti non solo teatrali più importanti al mondo, e anche i suoi lavori di passaggio lasciano negli spettatori una tale molteplicità di spunti di riflessione sul senso del teatro oggi che vanno presi come riferimenti per censire lo stato dell’arte.
Partiamo da Orestes in Mosul. Ci sono attori straordinari che interpretano Agamennone, Clitennestra, Oreste, Pilade e al tempo stesso s’interrogano sul perché e il come rappresentare l’Orestea oggi: lo fanno in due spazi, sul palco e in uno scenario post bellico a Mosul, in Iraq. Rau ha portato la sua compagnia e altri attori, professionisti e non, nel piazzale dove il gruppo Stato islamico (Is) metteva in scena le sue esecuzioni. Noi spettatori vediamo le immagini registrate su un grande schermo sopra il palco.
La vicenda degli Atridi – l’Orestea è l’unica trilogia del teatro classico che ci è arrivata intatta – è la storia di come dalla successione di fatti di sangue si passi alla giustizia: Agamennone uccide la figlia Ifigenia per avere il sostegno degli dèi nella guerra contro Troia; la moglie Clitennestra lo tradisce e complotta insieme al cugino Egisto mentre Agamennone è al fronte e lo uccide al suo ritorno insieme alla sua schiava concubina troiana Cassandra; il loro figlio Oreste vendicherà il padre uccidendo la madre e il suo amante e verrà perseguitato dalla furia delle Erinni, ma poi ci sarà un processo con il tribunale che scagionerà Oreste, con Atena a dargli l’assoluzione finale e a trasformare le Erinni in Eumenidi: il senso di vendetta tramutato in senso di giustizia. Il campo di riflessione più forte che Rau scuote è quello della fruizione, quella società che spesso identifichiamo con l’audience.
L’ambizione di inscenare questa tragedia a Mosul, teatro di conquista dell’Is prima e di una vendetta sanguinaria poi, nella liberazione della città, è talmente potente che ogni minuto del lavoro di Rau lascia un senso di vertigine, moltiplicando le allusioni – le parole dell’Orestea diventano di volta in volta inquietantemente letterali (le esecuzioni violente), utopiche (il processo che dovrebbe dare il via alla civilizzazione), o anche comiche: nella parte più straordinaria dello spettacolo il ritorno di Agamennone viene trasformato in una cena da commedia borghese a quattro – Agamennone, Cassandra, Clitennestra, Egisto – con frecciatine e veleni.
La generosità, l’apertura totale, la curiosità sono gli elementi qualificanti di questo genere di spettacoli. Milo Rau ha una funzione essenziale nel dibattito sull’arte contemporanea: non solo perché, come si dice ormai di qualunque performance multimediale, cancella i confini tra le discipline, ma soprattutto perché manda in cortocircuito un’altra serie di aspetti che riguardano lo statuto dello spettacolo stesso – il processo produttivo, il rapporto con il dibattito politico contemporaneo, il ruolo dell’attore. E c’è di più: il campo di riflessione più forte che Rau scuote è quello della fruizione, quella società che oggi spesso noi identifichiamo semplicemente con l’audience.
L’opera di Rau va vista allora più come un modo di eliminare le distinzioni tra teatro e agorà. Quasi sempre i suoi lavori ritrasformano le scene (di guerra, televisive, politiche) in scene sul palco. E quasi sempre sul palco ci sono altre forme di rito che si fondono con quello teatrale. Il caso di Congo tribunal è paradigmatico: il film somiglia a un mockumentary su un tribunale internazionale sui crimini di guerra che sono avvenuti in Congo negli ultimi vent’anni; in realtà per lo spettatore è da subito chiaro che il tribunale è una messa in scena. Questo non rende meno potente il rito della messa in scena, ma anzi la avvalora, perché anche noi nello schermo facciamo parte del rito.
L’ambizione di Rau è quella di sfondare la divisione tra due comunità, quella degli artisti e quella degli attivisti. «Io sono un attivista e un artista», scrive nel libro Realismo globale, per poi analizzare qual è il contesto in cui oggi teatro e politica si confrontano, con un grado di disinteresse reciproco: «Le opere di nuova concezione o quelle non europee, così come gli attori non professionisti o quelli di lingua straniera, gli attivisti o i gruppi indipendenti, compaiono solo nei programmi collaterali e sulle scene ‘off’. Si è costretti a fare una scelta: scena indipendente o teatro di città, produzione o distribuzione, adattamenti classici per un pubblico di ceto medio o carambola di tour internazionali per le élite globali. Tutti i tentativi di ‘aprire’ il modello del teatro di città, di combinare i modi di produzione urbani, nazionali e internazionali, e di creare un ensemble aperto alla collaborazione continua con le compagnie ospiti, sono falliti a causa dei limiti impliciti nel sistema del teatro di città. Il primo passo verso il ‘teatro di città del futuro’ è quindi trasformare le regole implicite in regole esplicite – e i dibattiti ideologici in decisioni concrete. Che aspetto dovrà avere veramente il teatro di città del futuro?»
L’esito di questa impasse è stata per Rau la scrittura del manifesto di Gent (la città belga dove dirige un teatro dal 2018), un decalogo che vale la pena riportare per intero.
- Non si tratta più soltanto di rappresentare il mondo. Si tratta di cambiarlo. L’obiettivo non è quello di rappresentare il reale, ma di rendere reale la rappresentazione stessa. Il teatro non è un prodotto, è un processo di produzione. La ricerca, i casting, le prove e le relative discussioni devono essere resi accessibili al pubblico.
- Il teatro non è un prodotto, è un processo di produzione. La ricerca, i casting, le prove e le relative discussioni devono essere resi accessibili al pubblico.
- L’autorialità spetta esclusivamente a coloro che sono coinvolti nelle prove e nelle repliche, qualunque sia la loro funzione – e a nessun altro.
- L’adattamento letterale dei classici sul palco è proibito. Se un testo – sia esso tratto da un libro, da un film o da un’opera teatrale – è disponibile all’inizio del progetto, non può costituire più del 20 per cento della durata finale della pièce.
- Almeno un quarto del tempo di prova deve svolgersi al di fuori di uno spazio teatrale. ‘Teatrale’ è qualsiasi spazio all’interno del quale sia già stata provata o messa in scena una pièce.
- Almeno due lingue diverse devono essere parlate sul palco in ogni produzione.
- Almeno due degli attori in scena non devono essere dei professionisti. Gli animali non contano, ma sono i benvenuti.
- Il volume totale del materiale di scena non deve superare i 20 metri cubi, cioè deve poter essere contenuto in un furgone che può essere guidato con una normale patente di guida.
- Almeno una produzione per stagione deve essere provata o replicata in una zona di crisi o di guerra, senza infrastrutture culturali.
- Ogni produzione dev’essere messa in scena almeno in dieci località, in almeno tre paesi. Nessuna produzione può essere rimossa dal repertorio di NTGent prima che questo numero sia stato raggiunto.
Un manifesto è un atto performativo e politico insieme, e in questo caso è un proclama coraggioso, che ricorda un po’ le undici tesi su Feuerbach di Karl Marx e un po’ il manifesto Dogma 95 dei registi danesi (Lars von Trier, Thomas Vinterberg… ). Queste regole servono per Rau a far somigliare un po’ di più il teatro a una società non solo contemporanea ma possibile, mentre sappiamo bene come il rischio evidente per chiunque vada a teatro oggi è quello di ritrovarsi rassicurato in qualche tradizione culturale, in una piccola comunità borghese, colta, laica, aperta.
Non sempre i suoi spettacoli sono del tutto riusciti (cosa poi vuol dire riuscito?), ma i difetti o i fallimenti sono interessanti quanto i momenti felici. Il meccanismo del reenactement in The repetition – visto l’anno scorso al Teatro Vascello sempre per Romaeuropa – era mostruoso per la capacità di portare la macchina teatrale a mangiarsi gli altri mezzi di comunicazione in una sorta di teatro aumentato.
Gli attori prima raccontavano, poi discutevano su come rappresentare un omicidio omofobo feroce avvenuto a Liegi nel 2012, e infine lo mettevano in scena, contemporaneamente sul palco e sullo schermo, attraverso un cameraman che a mano filmava il tutto in tempo reale. Questa modalità – che Rau usa spesso, anche in Orestes – è perturbante, perché liquida qualunque discussione contemporanea sulla rappresentazione: non viviamo in un’era in cui siamo sempre allo stesso tempo dal vivo e sullo schermo?
Come dice direttamente Rau: «Come artista, sono prima di tutto e perlopiù interessato a un coinvolgimento totalmente pratico e reale. La sola cosa che mi è stata insegnata senza sosta negli anni dei miei studi liceali è stata la necessità di essere critici. Essere intelligenti significava essere capaci di analizzare e decostruire le narrazioni e le letture della realtà e, se poi si diventava artisti, soffrirne un po’ o, a seconda dell’approccio estetico, affrontarle direttamente o indirettamente. La fantasia sociale è esattamente l’opposto: è attiva, ha l’urgenza di essere realizzata, vuole abbracciare in un colpo solo il mondo intero e soprattutto lo vuole cambiare».
Ed è questo l’esito più profondo, da un punto di vista politico, dell’opera di Rau. Al tempo dei social network, dei populismi, della crisi della democrazia rappresentativa, non siamo soltanto tutti performer, ma abbiamo tutti in quanto performer una responsabilità politica.
In questo senso va il nuovo film sul Vangelo, che presenterà il 10 ottobre a Roma. In questo vanno tutte le interviste del suo libro, che sono una chiamata generale alla militanza per una generazione globale che ha imparato a interpretare il mondo, ma non si è messa alla prova nel trasformarlo.
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Travestimento, solo virtuosismo? Anche ricerca sul mistero dell’identità sessuale e scenica, tra maschera e personaggio
Mentre Galatea Ranzi interpreta il personaggio della Bernhardt in Lezioni di Sarah, regia Ferdinando Ceriani, che prende spunto da L’arte del teatro e, in particolare, da tre lezioni della famosa attrice, Mattia Visani pubblica, per Cue Press, il testo esauritissimo di Laura Mariani: Sarah Bernhardt, Colette e l’arte del travestimento (prima edizione, Il Mulino, 1996).
Si tratta di un volume bipartito perché contiene, nella prima parte, una breve storia del travestimento e dell’intersessualità a teatro, ottimamente documentata da una fitta bibliografia, mentre, nella seconda, troviamo le biografie professionali e artistiche della Bernhardt e di Colette.
La prima parte, pertanto, è propedeutica alla comprensione della seconda, perché, approfondendo il tema del travestimento, dal teatro greco-romano a quello di fine Ottocento e oltre, l’autrice mette il lettore nelle condizioni di conoscere come certe scelte, in ambito teatrale, non siano il frutto di facili virtuosismi, bensì di un itinerario che si è modificato nel tempo, acquisendo, di volta in volta, significati non solo artistici, ma anche sociali e antropologici.
Cosa ha significato il travestimento in teatro e in letteratura? Si chiede la Mariani. A giudicare dal materiale raccolto, la risposta consiste nel sottolineare la molteplicità di accezioni che il travestimento ha assunto, per l’artista, sempre portatore di nuove visioni e sempre in cerca del mistero dell’identità, quella sessuale e quella scenica, che mette in contrapposizione il rapporto tra maschera e personaggio, alimentando una forma di ibridazione. Il processo della Mariani, pur partendo dal passato, ha uno sguardo fisso al presente, tanto da elencare una serie di attori che, nel secondo Novecento, hanno fatto ricorso a tale arte, da Carmelo Bene a Enzo Moscato, da Marisa Fabbri a Mariangela Melato, da Edmonda Aldini ad Andrea Jonasson, da Maddalena Crippa a Elisabetta Pozzi, da Laura Curino a Ermanna Montanari. Un posto particolare occupano Leo de Berardinis per la sua Ilse nei Giganti della montagna, di cui era anche regista, Marion D’Amburgo per Genet a Tangeri, regia di Tiezzi, Franca Nuti per Ignorabimus, regia di Ronconi. Si tratta di una scelta del travestimento che non ostenta la femminilità, che non utilizza la mascherata e, tanto meno, la dissimulazione della figura femminile e del suo doppio.
Quando si arriva alla Bernhardt e a Colette, il piano di studio della Mariani può accedere a dei confronti, ma anche a delle attese, nel senso che, di queste due artiste leggendarie, ci offre dei ritratti singolari, attraverso i quali il professionismo artistico si alterna con quello imprenditoriale, tanto che seppero, entrambe, costruire il binomio arte-industria, grazie ai mutevoli rapporti che ebbero con la recitazione, con la letteratura e con l’arte figurativa. Entrambe conquistarono gli spettatori esibendo il doppio della loro femminilità, intrecciando l’attività teatrale con l’elaborazione di un linguaggio che fosse connaturato alla loro natura, quella di attrice (Bernhardt) e quella di performer (Colette). Ecco il motivo per cui sono state figure di riferimento per attori e attrici del Secondo Novecento.
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Il teatro del futuro di Georg Fuchs
Il teatro è soprattutto luce. In un momento in cui il teatro italiano si caratterizza per la sua inessenzialità, o meglio, per assenza di necessità, avendo abiurato alla sua funzione, per scimmiottare con le contaminazioni provenienti dalla tecnologia più sofisticata, dalla letteratura, dalla filosofia, forme considerate spurie, leggere II teatro del futuro di Georg Fuchs, che Mattia Visani ha pubblicato per Cue Press, è come abbeverarsi alla fonte. Nel senso che l’autore tedesco, scagliandosi contro il Naturalismo del suo tempo, propose una specie di secessione scenica, un po’ simile a quella del ‘Secessionismo’ pittorico, per il ripristino del teatro delle origini, in nome del quale, propose una ‘riteatralizzazione’, intendendo, con questo termine, un teatro capace di rinascere partendo proprio dalle sue fonti, ovvero dalle sue radici rituali, cultuali e orgiastiche, col recupero del Coro, delle Cerimonie, dell’idea di Sacrificio, e dallo spazio, concepito come recinto sacro e come luogo comunitario.
Per Fuchs il teatro è prima di ogni cosa ritmo, tanto da delegare l’attore a metterlo in pratica, ad assumere un compito di ‘traslazione’, rifiutando il compromesso con qualsivoglia forma di estetismo, da intendere come una specie di vuoto che l’attore dovrà riempire con la sua ‘esperienza vissuta’ (Erlebnis). Oggi assistiamo a un riscatto estetico della forma teatrale, creato da un efficace uso della tecnologia, magari con risultati sorprendenti dal punto di vista visivo, ma certamente nudi dal punto di vista concettuale, tesi a sottolineare il gusto della meraviglia, tipico della scena barocca, che Fuchs rifiutò considerandola puro ornamento, se non puro formalismo. Questo tentativo di analizzare ‘il teatro del futuro’, rapportandolo alla situazione attuale, per capire quanto sia necessaria la visione di Fuchs, oltre che il suo ostracismo nei confronti della letteratura e della narrativa che, oggi, abbondano sui nostri palcoscenici, vorrebbe dimostrare come, simili ricorsi, abbiano poco a che fare con l’essenza del teatro e con la sua stessa autonomia. Fuchs non nascondeva il suo disprezzo per il teatro convenzionale, che riteneva degradato, non amava quello intellettualistico, considerava fondamentale il ritorno alla ritualità, quella che sapeva far convivere la poesia con la danza, come accadeva nel teatro greco o in quello giapponese, per i quali, il movimento ritmico del corpo dell’attore, doveva svincolarsi da ogni dimensione coscienziale e tendere a una ‘magica euritmia’, a una sorta di trance, per andare in cerca della valenza catartica della messinscena. In fondo, diceva Fuchs, il dramma era nato dalla danza che prendeva quota nel suo movimento festoso e cerimoniale, nella capacità di fare rientrare la parola nella indicibilità del mistero. Per questa tipologia di teatro, era necessaria anche una nuova forma architettonica che egli realizzerà insieme a Litmann, con la divisione del palcoscenico in tre parti, formati da un proscenio, da un palco centrale e da un palco arretrato, in modo che lo spazio scenico risultasse suddiviso in tre paratie, con le due parti posteriori da utilizzare per veloci cambi di scena e per grandi scene di massa. Non servivano né graticce, né sottopalchi per macchinari, tutto doveva avere il segno dell’autenticità, senza nessuno effetto naturalistico che gli attori dovevano rifiutare a vantaggio di una interpretazione ritmica. Fuchs diceva: «Il teatro è, soprattutto, luce».
Il volume è preceduto da una introduzione di Eloisa Perone, studiosa del teatro Espressionista di cui, a suo avviso, Fuchs fu un anticipatore.
Il teatro del futuro
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Mai morti
Circolano testi teatrali che valgono un manuale di storia per il modo in cui articolano la ricostruzione e il racconto il flusso caotico di azioni collettive di matrice ideologica. Se poi l’onda silenziosa del passato bagna le spiagge del nostro presente, l’incontro tra il Teatro e la Storia diventa una visione e uno strumento che aggiunge preziosi tasselli per arricchire la conoscenza e la decodificazione di un sistema perverso e aggressivo intorno al quale gravitano uomini di ieri e di oggi.
È il caso di Mai morti di Renato Sarti. Scritto all’inizio del 2000, poi migliorato e rifinito per la produzione del Teatro dell’Elfo nel 2002, è stato per molti anni il fiore all’occhiello del Teatro della Cooperativa. L’escamotage narrativo assunto da Sarti è un uomo vecchio, nella sua stanza che, sorseggiando whisky e assumendo medicine, anima un incredibile-credibile racconto autobiografico che inizia con una precisa domanda: «La morte per strage – banche, piazze, stazioni, piazze, treni – di poveri innocenti può forse arrestare il corso della storia e dei suoi mutamenti?», alludendo alle stragi del terrorismo fascista avvenute in Piazza Fontana di Brescia e alla stazione di Bologna. In merito il monologo di Sarti intende cercare, nel groviglio della storia, i fili primordiali della matassa della violenza e di certo odio contemporaneo.
Non a caso il protagonista è un ex ufficiale squadrista appartenente ai ‘Mai Morti’, nome di una delle più violente compagnie della Decima Mas, corpo militare indipendente che si unì all’esercito nazista dal 1943 al 1945 in opposizione alla Resistenza italiana, distinguendosi per azioni di truce terrorismo e macchiandosi di crimini di guerra e contro l’umanità.
Il suo è un delirante ma autentico monologo di violenza vissuta come naturale manifestazione di un meccanismo vorticoso in cui egli stesso si identifica e che intende tenere in vita. Per esempio ricorda una serata accomodato in platea al Piccolo Teatro di Milano non per parlare di spettacolo ma per rievocare le urla strazianti per le torture patite da parte degli oppositori del regime nelle celle che ora sono i camerini per gli attori. Oppure celebra, tra gratificazione e nostalgia, lo sterminio della comunità copta di Debrà Libanòs e i massacri nel campo di concentramento italiano di Danane. La conclusione del suo discorso è tanto coerente quanto segno di delirio criminale: «In Africa abbiamo ucciso quasi un milione di negri? Sicuro! C’è chi dice due. Non c’è acqua, figurarsi l’anagrafe… come si fa a calcolare? Facciamo uno».
Lo stesso atteggiamento ritorna quando si parla di eccidi di partigiani nel Canavese: «La maggioranza dei sopravvissuti alle torture veniva fucilata, come nella migliore tradizione della Decima, alle spalle».
Mai morti non finisce qui. Continua con l’aggiornamento del passato del protagonista al presente. Ecco quanto rivela: «Faccio parte del comitato promotore per un gruppo di cittadini dell’ordine» contro «negri, puttane, omosessuali, alcolizzati, drogati, spacciatori, ebrei, zingari, extracomunitari» e anche contro le onlus, «a quelle gli facciamo un culo quadro così… prima gli italiani, prima gli italiani!». Più chiaro e attuale di così…
Privo di retorica, sostenuto da un linguaggio efficace e diretto, Mai morti di Sarti assurge a mirabile esempio di vero teatro civile grazie ad un testo costruito sullo studio approfondito delle fonti storiche relative agli orribili fatti raccontati con lucidità e schiettezza e, soprattutto, consegnati a quella memoria che porta alla consapevolezza dell’orrore, allo smascheramento di scomode verità sempre nascoste. E Sarti e Bebo Storti che interpreta in monologo in scena ci fanno capire i tanti perché.
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Lettere, August Strindberg: una sana follia
Con la rigorosa introduzione di Franco Perrelli, la Casa Editrice Cue Press ha dato alle stampe una parte (delle diecimila!) Lettere di August Strindberg, con note a margine, indice delle opere e indice dei nomi .
Uno scrittore è tale quando scrive. Quando non scrive è un cittadino qualunque. Questo vale anche per lo scrittore di lettere. Le parole non appartengono al genere codificato fisso. Non sopportano travasi e adattamenti tecnicistici. Non entrano nella letteratura.
Con Strindberg siamo nel campo aperto della sperimentazione linguistica. Perrelli precisa con espressione felice che il drammaturgo svedese «si rivolge in termini liberatori alla nostra più sana follia». E aggiunge: «La mia esistenza ha sempre la caratteristica di assumere la forma dei romanzi, senza che sappia dire propriamente perché».
Dunque, è un campo aperto quello della sperimentazione linguistica. E se la mia esistenza assume «la forma dei romanzi» vuol dire che diventa lingua e linguaggio in autonomia con la specificità del ‘come’ fondamentale del dialogo (non del monologo) che consente all’autore delle lettere la verifica continua del reale e della propria condizione.
Nella creazione artistica ci può essere verità senza meraviglia e scandalo? No. Non si può certo dire che la vita di Strindberg non sia stata avventurosa e per certi aspetti travagliata. Fantasia e immaginazione, finzione e realtà. Perrelli attribuisce alle Lettere «la quintessenza del metodo della rappresentazione dal momento che producono una vera molteplicità nelle differenti proiezioni che ciascun corrispondente suscita», saldandosi – come si è detto – al monologo piuttosto che al dialogo.
Furono probabilmente alcuni amici a condurre August nei luoghi facili del divertimento giovanile. Siccome il fratello Omar non intendeva finanziare – sulle orme di Theodore Parker – le spese per la vita mondana, August fu costretto a dare ripetizioni per far fronte alla situazione debitoria. «Ma ogni volta, in primavera, scopriva la straordinaria bellezza dell’arcipelago di Stoccolma», che fungeva da stimolo della creatività letteraria da una parte e dell’attività pittorica dall’altra.
«Non capivo quello che vedevo. Il mare azzurro sembrava il cielo, e l’arcipelago assomigliava a un bianco di nubi galleggianti in quell’azzurro! Caddi in estasi e ruppi in lacrime. Non era la terra, era altro! Cos’era? Una memoria ancestrale! Chissà! Ma in seguito ne ho avuto sempre nostalgia. E continua, nonostante tutto!» Sulle orme del predicatore Theodore Parker integrate con le teorie degli studiosi di teologia critica Rydberg e Broström, Strindberg approdò a Rousseau.
Sulla misoginia si è scritto molto e sono state fatte molte illazioni, però, non suffragate dai fatti. A sentire i suoi amici c’è da credere che non avesse niente di misogino, ma un’alta considerazione della donna. Nel mese di maggio del 1869 si propone di prendere la laurea in medicina: tenta l’esame di chimica, ma è bocciato. Decide allora di diventare attore e si presenta al Teatro Reale. Dopo alcune comparsate, fu il drammaturgo Frans Hedberg a scoprire in lui ‘la scintilla’ nascosta del teatro.
Nel gennaio 1895 Langen pubblicava L’autodifesa di un folle su «La revue Blanche», mentre usciva la traduzione di Littmanson su L’infériorité de la femme che mise Strindberg al centro dei grandi dibattiti parigini. «Detestare le donne? Io non le detesto quando sono semplici e naturali. È l’artificio che non riesco a sopportare: sembra che siano le donne e quel satana di Cristo a dominare il mondo iper-civilizzato, come l’ambiente editoriale. Mi avvio a diventare ateo in un mondo governato da folli. Quindi Dio è un folle».
Dall’11 al 31 gennaio lo scrittore venne ricoverato all’ospedale per una psoriasi di cui soffriva da tempo e che si era forse aggravata con la manipolazione dei reagenti chimici. «Recentemente lei ha scritto che si cerca: Lo Zola dell’occultismo. Io avverto la chiamata. Ma in tono grandioso. Un poema in prosa: intitolato Inferno. Lo stesso tema di Sul mare aperto. La rovina dell’individuo allorché si isola. Salvezza attraverso il lavoro senza riconoscimenti o oro, il dovere, la famiglia, di conseguenza – la donna – la madre e il figlio. Rassegnazione attraverso l’individuazione del ruolo assegnato a ciascuno dalla Provvidenza».
La fragilità del rapporto con Edlund, la relazione con un artista inglese, l’abbandono della scienza e dell’alchimia, le insufficienti disponibilità finanziarie, le manie di persecuzione attribuite ai parenti che immaginava fossero intenzionati ad avvelenarlo rendevano la sua vita tutt’altro che tranquilla.
«Ho quarantotto anni e non ho mai visto l’arrivo delle rondini. Com’è che arrivano, sì, ma mai passando in stormi. Una sola volta, in Danimarca, ho visto tremila rondini riunite per la migrazione. Un paio di ore dopo erano regolarmente sparite. Avevano preso il volo. Quando penso ai nibbi in primavera che si spingono ad una grande altezza e si avvitano giù a spirale mi sembra come se si sprofondino dall’alto e come se si abituino alla nostra atmosfera, prima di cadere giù».
«Stanotte, entrando nella nuova stanza, ho spalancato la finestra, ho guardato fuori e ho visto l’Orsa Maggiore e la Stella Polare. Mi sono chiesto: sarà a nord che devi andare. Non so ancora cosa voglia Dio da me! Devo recarmi a Istat dove mi aspetta l’ospedale di Lund? Devo forse attraversare anche questo Golgota? Per fare cosa? Per essere ancora istruito…».
Se vuoi imparare a conoscere l’invisibile, osserva a occhi aperti il visibile… è una regola… «La mia scrittura è una ricerca della verità. Forse in sé idiota perché la verità è solo convenzionale. Si concorda in massa che una cosa è vera, così l’altra diventa falsa». E dimmi, perché scrivi…? «Scrivo per me stesso… per chiarire i miei pensieri e liberarmi…»
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Animali da Bar
«Nasciamo e moriamo. Bene, lei non crede che, forse, bisognerebbe dare un minimo di importanza a quello che succede nel mezzo? E quella roba lì si chiama vita, caro amico. Vita!«
L’affermazione è di Colpo di frusta, un uomo così soprannominato per le conseguenze dalle violenze domestiche subite da parte della moglie piuttosto aggressiva; inoltre è un buddista inetto e impegnato nella lotta per la liberazione del Tibet. Soprattutto è un assiduo frequentatore di un bar squallido e lascivo in cui si ritrovano, quasi a formare una comunità, anime solitarie tormentate: sono gli Animali da Bar come recita il titolo della commedia di Gabriele Di Luca.
In questo microcosmo di umanità disperata ed emarginata agiscono altri personaggi emblematici e fortemente connotati che ruotano intorno alla barista Mirka, donna ucraina dal passato difficile e dal presente altrettanto complicato. Come non si fa mancare frequenti e abbondanti bevute di vodka, così arrotonda lo stipendio affittando l’utero. Per lei il destino non sarà felice. Il proprietario del fatidico bar è un vecchio malato, razzista e misantropo, tanto che nel testo la sua voce risulta posizionata fuori campo.
Altro personaggio indicativo, nonché sorta di epicentro narrativo, è Swarovski, uno scrittore nichilista alle prese con la stesura di un improbabile romanzo dedicato alla Grande Guerra che poi si scoprirà essere lo stesso copione di Animali da Bar, in cui si riveleranno le prospettive esistenziali dei protagonisti. La sua passione per i drink, quale segno di dissoluzione, lo avvicina idealmente a Charles Bukowski, dal quale deriva la storpiatura del suo nome.
Il senso della ricerca di sé caratterizza anche il profilo di Sciacallo, zoppo bipolare che svaligia le case ed è animato da una tensione particolare: riuscire a trovare la migliore forma di suicidio. Manifesta disturbi altrettanto inquietanti l’imprenditore cocainomane di pompe funebri per animali di piccola taglia. È infatti un ipocondriaco al quale non manca il desiderio di costruire una famiglia anche se il futuro sarà per lui la condanna alla solitudine.
Tutti questi soggetti cercano di dimenticare quel qualcosa da cui provare a riscattarsi e ricostruirsi. In questa tana-bar si animano dialoghi umani e folli, si vivono improbabili amori, si cullano viaggi mentali, si incrociano manifestazioni di debolezza e rabbia. Tra delicata comicità e velata denuncia sociale il testo di Di Luca si avvicina, anche nella struttura linguistica, al cosiddetto filone dei Nuovi arrabbiati di scuola anglosassone e irlandese rivisitati con il filtro antropologico e culturale italiano. Ma la sostanza non cambia: si racconta con umana sensibilità e senza retorica una situazione di disagio prodotta e connaturata al sistema. E questo non è poco.
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Il Teatro di Josep Maria Miró è di casa al Teatro di Rifredi
Il drammaturgo catalano Josep Maria Miró nel volume Teatro edito in Italia da Cue Press, ha pubblicato quattro delle sue opere teatrali, tra le più conosciute, Il principio di Archimede, Nerium Park, Dimentichiamoci di essere turisti, Tempi selvaggi: ed è quest’ultimo titolo ad aver vinto il Premios Max de Las Artes Escénicas (giunto alla ventiduesima edizione), ricevendo anche il Premio per la miglior regia consegnato a Xavier Alberti, direttore artistico del Teatre Nacional de Catalunya che lo ha prodotto. Un allestimento premiato dai giurati del Premios Max: il più importante riconoscimento in Spagna conferito dalla Fundación SGAE. I testi di Miró in Italia sono stati tradotti da Angelo Savelli, regista e codirettore artistico del Teatro di Rifredi, insieme a Giancarlo Mordini. Nel frattempo oggi, venerdì 24 maggio, ci perviene da Siena durante lo svolgimento di In – Box dal vivo, la notizia del Premio TOC 2019 consegnato a questo Teatro capace di aver creato una comunità tra gli spettatori, inclusiva non solo per l’offerta artistica, quanto e più importante, essere stati in grado di coltivare rapporti sociali e umani sul territorio della città di Firenze. Il cosiddetto «luogo deputato allo spettacolo» (in passato i teatri erano definiti anche così: «luogo in cui un’azione, un evento può realizzarsi o riuscire al meglio»), è diventato la seconda casa degli spettatori. Il Tavolo Etico di C.Re.S.Co conferisce al Teatro di Rifredi: «Il titolo di Teatro d’Origine Certificata 2019 per la cura che profonde quotidianamente nell’attuazione dei principi di trasparenza, concorrenza leale, dignità del lavoro e del lavoratore che sono le fondamenta del codice di responsabilità approvato dal coordinamento. Il premio è assegnato per conto di 407 operatori, organizzatori, artisti, compagnie su 756 votanti».
Riavvolgendo il nastro all’indietro è necessario ricordare, come la presentazione del volume Teatro a Firenze, sia stata resa possibile grazie anche alla collaborazione dell’Institut Ramon Liull di Barcelona. L’editore CuePress è un prezioso contributo per conoscere uno dei drammaturghi europei più conosciuti e affermati, capace di raccontare storie di ordinaria quotidianità virandoli sul piano delle relazioni umani: aspetti psicologici da svelare nella loro complessità. Nel Prologo del corposo testo, Xavier Alberti scrive: «Quattro architetture di parole che rispondono all’espulsione di un malessere, un malessere provocato dalla chiara presa di coscienza di aver abbandonato i tempi postmoderni e di star avanzando verso un’apocalisse che, come società, e probabilmente, anche delle nostre più elementari condizioni di sopravvivenza. L’abbandono della post modernità ha invalidato le funzioni meta culturali del teatro contemporaneo e gli imposto di nuovo l’urgenza di testimoniare un malessere».
Josep Maria Mirò è stato messo in scena per la prima volta in Italia dal Teatro di Rifredi nel 2018 con Il principio di Archimede nell’allestimento curato da Angelo Savelli. Uno spettacolo a cui la critica e il pubblico hanno decretato un successo unanime sia per la direzione registica che per la recitazione dei quattro eccellenti protagonisti: Giulio Corso, Monica Bauco, Riccardo Naldini e Samuele Picchi. Nel mese di marzo scorso Il Nuovo Teatro Sanità di Napoli il regista Mario Gelardi ha diretto al Teatro di Rifredi, Nerium Park con l’interpretazione di Chiara Baffi e Alessandro Palladino.
Josep Maria Mirò è nato a Vic in Catalogna nel 1977, si è diplomato in regia e drammaturgia all’Istituto del Teatro di Barcellona e in giornalismo all’Università Autonoma di Barcellona. Giornalista radiofonico è anche professore di drammaturgia all’Università di Girona e docente di arti sceniche alla Scuola Superiore di Cinema e Audiovisivi di Catalogna. Le sue opere sono tradotte in quindici lingue e vengono rappresentate in altrettante nazioni. Un drammaturgo capace di rappresentare le tante contraddizioni della contemporaneità. La paura irrazionale è il filo conduttore drammaturgico de Il Principio di Archimede visto a Rifredi dove il regista Angelo Savelli ne ha ha curato la traduzione dal catalano, con la collaborazione di Josep Anton Codina. Ne avevamo scritto nel 2018 dopo aver assistito alla rappresentazione a Rifredi.
Una scelta artistica di grande pregio e meritevole di essere riportato in scena per aver colto quanto sia attuale – nel nostro presente storico sociale – la necessità di scegliere un argomento all’ordine del giorno: la diffusione di notizie tramite i canali dei media e dei social network, facilmente manipolabili […] Il Principio di Archimede parla alla contemporaneità del nostro agire e vivere quotidiano, lacerato da profonde contraddizioni e inquietudini; causate in primis da una forma sempre più disgregante che colpisce le relazioni e i rapporti tra gli individui. Della forma ne scrive nel programma di sala dello spettacolo, (andato in scena in prima nazionale il 15 febbraio 2018 al Teatro di Rifredi, in esclusiva italiana e alla presenza dell’autore): «La rappresentazione si concentra sulle dinamiche interpersonali e sociali che si scatenano implacabilmente a partire da un evento la cui realtà o falsità diventa del tutto influente rispetto agli effetti che produce». L’occasione per rivedere e incontrare Josep Maria Mirò si palesa dopo Nerium Park: l’invito a rilasciare un’intervista viene accolto con la sua spontaneità che lo contraddistingue come persona ben distante da ogni forma di auto referenzialità.
La lunga conversazione si rivela densa di contenuti e spunti critici per affrontare non solo l’argomento strettamente legato al suo percorso artistico teatrale, quanto una disamina sulla cultura che caratterizza la nostra società. «Il mio è un teatro di parole che rompe lo schema del metateatro per tornare a quello che da valore al linguaggio e alla drammaturgia, come aveva scritto Pier Paolo Pasolini nel suo Manifesto per un nuovo teatro (pubblicato nel 1968 per polemizzare con il teatro borghese ufficiale definito teatro della chiacchiera e con gli spettacoli d’avanguardia teatro del gesto e dell’urlo, a difesa dello scrittore della parola, ndr). La traduzione in italiano dei miei testi la considero un onore perché è una lingua sorella della mia e voglio ringraziare Angelo Savelli e Giancarlo Mordini che mi hanno dato l’opportunità di ascoltare le mie opere in italiano, così come dico grazie anche a chi ha deciso di rappresentarle in altre lingue. Questo mi permette di essere più generoso e di vedere un altro modo di mettere in scena gli spettacoli. Il testo drammaturgico è una partitura fino al momento finale della messa in scena non si capisce cos’è; il teatro è parola ed è viva perché la lingua evolve in continuazione. Il teatro non è altro che il disperato sforzo dell’uomo di dare un senso alla vita, affascinato dalla possibilità di creare attraverso il linguaggio una creazione. Noi inventiamo storie, le manipoliamo, le travestiamo ma poi in teatro cerchiamo di raccontare la verità attraverso la parola agita e l’emozione. È importante che il risultato, per come sono strutturate le battute, sia quello di creare una comunicazione con degli essere umani, toccando il loro stato d’animo e i loro pregiudizi. Nel mio teatro la cosa più importante è la parola, la materia prima del mio teatro. Per quanto quotidiana possa sembrare, la parola in teatro si struttura come una precisa partitura con implicazioni ideologiche ed emotive. Io stesso scrivo drammaturgie di cui non ho una risposta ma quando inizio a farlo è un’esperienza meravigliosa per aprire una discussione su questi temi che non hanno risposta. Una seconda fase è quella della riflessione condivisa e la terza è rappresentata dal debutto – ci spiega Josep Maria Mirò -, il momento in cui consegniamo questa domanda allo spettatore. Io non mi azzarderei mai a fare un teatro che dia una risposta, perché io non ne possiedo. Il teatro borghese è quello dove lo spettatore va a vedere per quello che lui pensa di dover partecipare come cittadino. Parafrasando Xavier Alberti posso dire che un teatro che inizia con una domanda ha tutto il tempo per trovare una risposta.»
Tempi Selvaggi vincitore del Premios Max è ambientato in una zona residenziale composta da quattro appartamenti con prato e piscina dove ci abitano quattro coppie. Ivana è uno dei personaggi la quale chiede: «Questo è un bel posto da viverci?». Mirò spiega che è una delle frasi: «Passata in tutti i miei testi. Non parla di architetture né di paesaggi. Parla di alcuni intangibili diritti/doveri che dobbiamo costruire attraverso l’etica e il dialogo e che hanno a che fare con i nostri stessi valori e patti di convivenza con gli altri. Vuole chiedere se noi come esseri umani siamo riusciti a costruire uno spazio migliore in cui vivere. Anche io mi chiedo se abbiamo generato un posto bello per vivere in un territorio dove muoiono migliaia di persone cercando di attraversare i nostri mari; dove viviamo con il costante e doloroso conteggio di vittime della violenza maschilista; dove ci sono cittadini di prima e seconda categoria; dove si preferisce salvare le banche piuttosto che le persone; dove non c’è separazione di poteri; dove c’è chi viene privato di libertà per pensare e difendere certe idee; dove c’è gente della cultura alla quale si nega loro un diritto fondamentale come la libertà di espressione e di creazione. È una domanda che mi pongo come cittadino pure io: dov’è un posto in cui vivere? Il Mediterraneo cristallino e azzurro dove cercano di rifugiarsi migliaia di rifugiati? È un posto bello dove vivere? In un paese dove le persone vengono incarcerate per le loro idee è un bel posto dove vivere?»
Anche Xavier Alberti cita questa frase assunta quasi a dichiarazione d’intenti del drammaturgo, spiegando nel Prologo del volume Teatro. I testi di J.M.Mirò di aver visto stampato su una maglietta indossata da Mirò la frase «È un bel posto per vivere questo?», regalata dalla Compagnia in occasione del debutto di Tempi Selvaggi. E la conversazione ad un certo punto vira anche sul teatro italiano. Mirò ammira in particolare uno dei drammaturghi più celebri.
Che idea ha della drammaturgia teatrale italiana. Quali sono gli autori che preferisce e che conosce meglio?
Eduardo De Filippo è stato un grande costruttore di teatro attraverso il linguaggio. Ne ho parlato anche con Josep Benet I Jornet, (considerato uno dei massimi autori del teatro spagnolo e il padre della drammaturgia catalana, ndr) al quale ho detto che l’uomo artista italiano che ho amato di più è De Filippo perché aveva la capacità di fare teatro di alta qualità popolare. Sapeva affrontare temi importanti senza mai escludere nessun spettatore – cittadino seduto in platea. La sua lingua veniva riconosciuta universalmente da tutti e il meccanismo sul quale ha lavorato di più è stata la parola. Il teatro è una cosa meravigliosa perché noi siamo capaci di costruire una menzogna, e lo spettatore che sa di andare a vederla incontrerà anche la verità e le emozioni suscitate dallo spettacolo. A volte qualcuno sta male per quello che vede ma questo non va bene. Se riusciamo a discutere insieme agli spettatori questo significa che il teatro ha anche una funzione di politiche culturali. Siamo una collettività che condivide sentimenti e valori. Andare a teatro è una revisione intima e collettiva nel partecipare alla visione di una ‘favola’.
E lei come autore drammaturgo teatrale come si definisce?
Quando mi chiedono il mio punto di vista come autore so di avere una mia versione personale ma non possiedo la verità in quello che scrivo. Bisogna invece costruire i personaggi attraverso le loro verità. Nel Il Principio di Archimede tutti e quattro i personaggi possono avere ragione, dire la loro verità. In Nerium Park si parte da una coppia che ha una visione condivisa, ma al momento che inizia la scansione dei mesi iniziano ad evidenziarsi delle divisioni tra la società e loro stessi. In un primo momento si pensa che sia una coppia dotata di affinità elettive, poi nel momento in cui non riescono a trovare delle intese tra di loro, non realizzeranno un progetto di vita comune. Mi viene da pensare alla politica che è dialogo se ascoltare l’altro. Per me è importante riuscire a fare un teatro dove sia possibile sollecitare una riflessione condivisa mentre la politica non è capace di far nascere progetti di integrazione. Io insisto nel dire che è necessario fare un teatro capace di suscitare un pensiero e sviluppare occasioni per incontrare l’altro e non espellerlo. Stiamo vivendo un momento storico dove la politica vede tutto bianco o nero e si assiste ad una polarizzazione ad una cultura del populismo. Il fascismo è un fenomeno sempre più globale e non locale.
L’attesa di rivedere un altro testo di Mirò è paragonabile ad un momento di suspense prima di una gara: non vedi l’ora di come vada a finire tanto è la sua capacità di coinvolgerti nell’azione drammaturgica della storia costruita per continui cambi di registro. Il claustrofobico appartamento di Nerium Park è abitato da una giovane coppia la cui vita condominiale sembra iniziare nel miglior e dei modi ma dall’idillio iniziale si passerà ad una sorta di incubo, fino ad una separazione dal tragico finale. Da subito si percepisce però una dicotomia tra la scrittura teatrale e la resa registica: le scene evolvono seguendo le didascalie previste: 12 scene per altrettanti mesi di convivenza in cui non si riesce quasi mai a dinamizzare – vivacizzare meglio l’apparente staticità della relazione che complica sempre più il rapporto della coppia. Il teatro di Mirò verte sempre su tematiche di denuncia sociale capaci di infiltrarsi nei rapporti privati ed intimi dei suoi personaggi. È sempre presente la paura, il fattore ansiogeno e lo spavento per qualcosa che deve o potrebbe accadere. Il senso di colpa può assumere la responsabilità di sentirsi vittima ma anche carnefice di se stesso e viceversa. I confini labili dell’inconscio umano sono permeabili ad un interrogativo di fondo che si instilla nelle menti di chi assiste: che sia la società di cui facciamo tutti parte a renderci cosi? Vittime o colpevoli? Il drammaturgo non da risposte (come viene confermato dalle sue parole rilasciate nell’intervista) ma lascia sempre allo spettatore la libertà di decidere e scegliere da che parte stare. Ci si smarrisce alla fine vedendo Nerium Park in cui non emergono quelle emozioni dettate dall’empatia necessaria affinché i due protagonisti riescano a coinvolgere lo spettatore affidandosi ad una recitazione molto convenzionale, se pur fedele al dettato registico ma che avrebbe potuto esaltare maggiormente le tante sfumature psicologiche presenti nel testo.
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