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Eleonora Duse torna sulla scena
Improvvisamente ritorna all’attenzione del pubblico, sui giornali e alla televisione, l’immagine di Eleonora Duse. Perché? Non ricorre in questi giorni alcun anniversario, nessuna particolare occasione celebrativa è prevista. Che succede? Da quale soprassalto della memoria collettiva scaturisce una volta di più questo fantasma inquietante? Per iniziativa dell’Ente Festival di Asolo una mostra sulla ‘divina’ si è inaugurata in questi giorni a Palazzo Venezia, ideata e ordinata da quel grande specialista dusiano che è Gerardo Guerrieri; due libri, che hanno avuto l’alloro del premio Curcio sono usciti contemporaneamente il mese scorso: L’attrice divina di Cesare Molinari (Bulzoni editore) e Eleonora Duse di William Weaver (Bompiani), esaurientissima biografia, già apparsa, nel 1984, a Londra.
Queste sono le occasioni di cronaca, ma esse non possono bastare ai nostri interrogativi. In realtà c’è in questi anni, negli studi italiani sul teatro, un recupero della figura del grande attore pre-novecentesco, quasi un ritorno ai padri. Ma forse, al di là di questo interesse scientifico, c’è anche, sollecitata dai documenti che sempre più numerosi affiorano (benemerite in questo senso l’attività del Museo Biblioteca dell’Attore di Genova, diretto da Sandra D’Amico e le ricerche di quella puntigliosa rivista che è «Quaderni di teatro»), una fascinazione del tempo perduto, quasi lo sciogliersi d’un grumo di memorie inconsce, che del teatro, arte che vive lo spazio d’una sera, immagine che si fa subito assenza, è il residuo, il colaticcio si vorrebbe dire, più doloroso e tenace.
Questo, poi, con l’immagine della Duse è quasi inevitabile. Si riassume in lei il senso di un tempo e di un teatro, in quell’Italia post-risorgimentale. E la sua solitudine in quel mondo – la solitudine del precursore – e le sue due grandi vicende sentimentali, prima con Boito poi con D’Annunzio, la condanna al nomadismo, i pubblici in delirio per lei dalla profonda Russia alla New York pionieristica di fine Ottocento, la malattia, le lettere in cui versò a sussulti la storia quasi quotidiana della sua anima, i grandi scrittori, da Shaw a Hofmannsthal a Rilke, che le dedicarono pagine entusiaste o estatiche, l’esilio ad Asolo, il ritorno al teatro nel 1921, l’ultima tournée in America, fino a quella sosta sotto la pioggia gelata, davanti alla porta chiusa d’un palcoscenico a Pittsburg: tutto ciò si compone, nella nostra memoria inconscia, come un nodo d’angoscia, la macchia d’un rimorso che non si essicca. Perciò scrissi una volta: con la Duse siamo giunti al dunque, basta con le lacrime. Come dire che è arrivata l’ora della risistemazione critica, definitiva, che bisogna mettersi a lavorare, su quanto ci resta di lei, non più per rievocare ma per ragionare.
Tutti i segni dell’attuale revival dusiano sembrano andare in questa direzione. La mostra ideata da Gerardo Guerrieri non è una mostra di cimeli. Il cimelio in bacheca spreme inevitabilmente un certo patetismo per il fatto d’aver appartenuto, oggetto o scrittura, alla persona scomparsa. Qui di veri e propri cimeli dusiani non ci sono che alcune vesti da camera, offerte da Sister Mary Mark, la nipote di Eleonora, la figlia di sua figlia Enrichetta, che è suora domenicana in un convento inglese; l’unica discendente dell’attrice: e dava una certa emozione vederla aggirarsi per quelle sale di palazzo Venezia o seguire, su un video, le immagini di Cenere, il solo film interpretato – e praticamente diretto – dalla Duse.
l cimeli naturalmente ci sono (lettere, fotografie, articoli di giornali, manifesti) ma vengono proiettati su schermi e intanto voci registrate rendono vive memorie, testimonianze, racconti (c’è per esempio, a interpretare alcune lettere della Duse, la voce di Valeria Moriconi). Insomma, vuol essere, almeno nelle intenzioni, una mostra-spettacolo; ma una mostra-spettacolo che si attiene a criteri rigorosamente storico-critici. Guerrieri sostiene che la vicenda e la stessa arte della Duse non si possono ripercorrere che rifacendosi alla letteratura.
Dopo un proemio, Ricordi familiari; dal nonno Giacometto allo zio Enrico, ecco il capitolo Napoli 1879, cioè la città e l’anno in cui la allora giovanissima attrice (ventunenne) si rivelò, recitando accanto a Giovanni Emanuel e a Giacinta Pezzana e dove ebbe la nota disavventura amorosa con Martino Cafiero, il galante direttore del «Corriere del Mattino» (c’è un gustosissimo, tra malinconico e cinico, ritratto di questo seduttore, firmato da un altro noto giornalista di quel tempo, Ferdinando Verdinois). Poi la sezione intitolata Arrigo e Lenor, dedicata al rapporto fra la Duse e Boito e a quel loro enorme romanzo epistolare pubblicato cinque anni fa dal Saggiatore, a cura di Raul Radice.
Boito – dice Guerrieri – in fondo tentava di sottrarla al teatro. Il teatro, per lui, era la causa dei suoi mali, il tarlo che la corrodeva: quelle opere cui sei condannata, le diceva, basse, volgari. I successi ottenuti a prezzo della salute, della vita. La nausea del teatro, la fuga verso un avvenire di verde serenità fu il leitmotiv del loro rapporto. Segue la sezione dedicata al capitolo centrale, il più drammatico, di quella che fu davvero una vita inimitabile: il capitolo D’Annunzio. Poi la ripresa disperata del vagabondaggio, più sola ma anche più forte, la grande fase ibseniana, il ritiro dal 1909 al 1921, le testimonianze dell’ultimo viaggio in America, fra le quali un emozionante articolo di Charlie Chaplin che la vide ne La Porta chiusa di Praga, due mesi prima della sua morte: «Evidentemente, è una donna molto vecchia e non fa nulla per nasconderlo ma c’è qualcosa in lei che fa pensare a un bambino, un bambino dolente…»
A parte, in un’altra saletta, il momento cinematografico della Duse, quello che ci diede il suo unico film, Cenere. E qui è buona l’idea di mettere a confronto, su tre video uno accanto all’altro, le magre, già neorealistiche sequenze di Cenere con il floreale e il melodrammatico dei film di Francesca Bertini, Maria Jacobini, Pina Menichelli, la produzione cinematografica italiana di quegli anni, da una parte; e, dall’altra, il linguaggio nuovo di David Griffith, dal quale, nel 1915, la Duse ebbe un’offerta per un film e forse si trattava di Intolerance.
«E vedi – dice Guerrieri – come, da Cenere e poi nei tre anni di ritorno al teatro, dal 1921 fino alla morte, la Duse non abbia interpretato, prevalentemente, che ruoli di madre. Cosi, come in gioventù aveva assunto su di sé, per darle voce e volto la nevrosi della donna di fine secolo, quella scontentezza, quel pianto o quell’allegria stralunata e febbrile, ecco che da vecchia si fa interprete di tutte le materne gramaglie del mondo su cui era passata la guerra.
Forse è per questo che gli studi su questa attrice si sono sviluppati per sessant’anni soprattutto lungo il solco della sua vicenda esistenziale, trascurando di approfondire, salvo eccezioni, al di là delle citazioni d’obbligo (gli scritti di chi la vide sulla scena) una vera analisi, certo a posteriori, certo un po’ alla cieca, sui suoi modi interpretativi. Il fatto è che davvero, con lei, è difficile distinguere l’arte dalla vita.
Il libro di Cesare Molinari ha questo indubbio merito. È un’indagine che cerca, penetrando nella selva delle testimonianze e mettendole a confronto anche con le rare contraddizioni e modifiche successive (perché la Duse cambiava di continuo le proprie interpretazioni), d’estrarne il profilo dell’attrice più che il madido ritratto della donna. In questo senso ci interessa più della pur aggiornatissima biografia dell’italianista americano William Weaver, che è ricca di notizie e documenti inediti, specialmente sulle tournées dell’attrice negli Stati Uniti.
Ma nel libro del Molinari c’è un capitolo, La polemica dello stile, che è a nostro parere un apporto notevole negli studi dusiani. La polemica dello stile fu quella dei contemporanei che, sconcertati dalla novità di quella recitazione, non è che si adeguarono tutti nelle lodi. Ci furono, specialmente sul principio, oppositori accaniti che a quella spezzettata e nevrotica della Duse preferivano la recitazione limpidamente classica e vibrante delle ‘prime donne’ tradizionali, Adelaide Tessera, Virginia Marini, Giacinta Pezzana.
In fondo, la accusavano di aver distrutto il ruolo, accusa che non era poi infondata ché la Duse, apparentemente (in realtà non era vero), sovrapponeva se stessa al personaggio. E degli stilemi che, secondo le convenzioni correnti, il ruolo esigeva si era sbarazzata, a giudizio di quei critici, perché non era dotata dei mezzi necessari ad esprimerli: una voce che si arrochiva e si rompeva se appena forzata (la voce esile e svuotata dei tisici, uno ebbe la delicatezza di scrivere); un gesto frammentato, privo d’una linea armoniosa, che indugiava stranamente sugli oggetti sfiorandoli, carezzandoli; o, come a prendere forza, cercava contatti ripetuti e fuggevoli col volto, con le spalle del partner, alterando ogni misura di composizione scenica, turbando la geometria degli spazi e l’ottica degli spettatori (e quel suo incedere non mai propriamente eretto, sempre un po’ curvo in avanti o pencolante o all’indietro, correlativo gestico di una insicurezza, di uno squilibrio; quel passarsi le mani sul viso e sui capelli).
Di tutti questi sparsi elementi, del resto in fase di continua trasformazione fino a che si composero nell’essenzialità ascetica degli ultimi anni (la voce nuda e la chioma bianca di Ellida, La donna del mare) Molinari riesce a tramare lo sconvolgente concerto dusiano, ritracciando la lunga linea di quella sofferenza istrionica che attraversò mezzo secolo di teatralità italiana; e ancora è lì, come una ferita non medicata.
E un’altra novità importante c’è in questo libro: per la prima volta l’analisi del Fuoco, il romanzo dannunziano ispirato dalla relazione fra il poeta e l’attrice, che tanto scandalo fece quando uscì (1900), ma non dal punto di vista letterario, proprio come studio di quel rapporto, di quello che Eleonora definiva, in una lettera amara, «il segreto donato alla folla».
D’Annunzio, forse, con il suo teatro, non giovò alla Duse come attrice; la costrinse a indossare il manto rigido, faticoso e fastoso delle sue parole mentre lei era un’altra cosa, quel soffio intermesso, quell’angoscia spezzata, quella verità allibita e inerme. Non le giovò nel teatro (quantunque è dal loro incontro che per la prima volta ebbe diritto di circolazione in Italia un’idea più nobile e alta di quest’arte). Ma nessuno capì la donna e l’attrice come lui. Nelle pagine del Fuoco (e questo acuto saggista ce lo dimostra) Foscarina, cioè Eleonora, è la «donna in cui si incarna la sostanza primordiale e mitica, ideale e biologica della femminilità». Per questo essa realizza la simbiosi conturbante con l’attrice.
«Non c’è distinzione possibile fra le due cose: la donna è sempre attrice, e l’attrice è sempre la donna nell’inesauribile molteplicità delle sue fenomenologie…» Davvero in questo romanzo fosco e barocco, battuto dallo scirocco d’una Venezia crepuscolare, D’Annunzio toccò uno dei miti profondi del teatro, la fenditura della sua vita più intima; e in pari tempo «una donna non più giovane, dalle tempie inumidite, dalle palpebre simili alle violette» ci diede il ritratto segreto, l’unico che ci sia giunto, di colei che fu, debole, malata, disperata e fortissima, la più grande attrice di tutti i tempi.
Quei maestri del teatro russo tra disciplina e rivoluzione
La morte di Nekrosius, di matrice lituana, rivoluzionario quanto il suo maestro Mejerchol’d e altrettanto innovatore del linguaggio scenico soprattutto con i suoi Shakespeare barbaraci, grazie all’uso, sulla scena, di elementi primordiali come aria, acqua, fuoco e terra, è l’occasione per poter ritornare a parlare del regista che andò oltre Stanislanskij per traghettare la regia russa verso il secondo e terzo millennio, ovvero verso Vassiliev e Nekrosius.
L’editore Cue Press ha appena pubblicato gli scritti di Mejerchol’d: 1918: Lezioni di teatro a cura di Fausto Malcovati, docente di letteratura russa all’Università di Milano che si è occupato di Gogol, Dostoevskij, Tolstoj, ma soprattutto del teatro russo dell’inizio del Novecento, lavorando sugli scritti teorici dei tre maestri più importanti della regia: Stanislavskij, Vachtangov, Mejerchol’d.
La data fa riferimento a uno dei momenti più drammatici della storia dell’Unione Sovietica, quella del 25 Ottobre 1918, giorno della rivoluzione russa, che non fu solo un evento politico o ideologico, bensì anche culturale. I teatri imperiali cedettero il posto a quelli statali, le scene decorative a quelle fatte di nulla, la recitazione declamatoria a quella naturalista, il testo, all’autonomia della messinscena. Ciò che accadde, in quella data famosa, diventerà il modello per le rivoluzioni artistiche successive che coinvolsero l’architettura, la pittura, la musica, il teatro, la scrittura, con l’abbandono della tirannia della parola a vantaggio di una maggiore autonomia della gestualità e dell’uso del corpo, proprio come avviene nel teatro di Nekrosius. Un simile cambiamento contribuì alla trasformazione sociale e a quella della comunicazione dato che, nuovi linguaggi, si affacciarono all’orizzonte di un’era che avrà una certa ’68. L’edizione è a cura di Fausto Malcovati, punto di riferimento per chi voglia mettere in scena un autore russo, non solo per la sua padronanza della lingua e per la conoscenza della letteratura russa, ma anche per le sue competenze teatrali, il quale fa precedere le Lezioni da alcune considerazioni che sintetizzano il momento storico e il lavoro di Mejerchol’d al TEO, oltre che le sue predilezioni nel campo della regia. Le lezioni durarono dieci mesi, dal 26 Giugno 1918 al 27 Marzo 1919, durante i quali il maestro offrì ai suoi allievi una mole di insegnamenti tali da estendersi fino ai giorni nostri.
Personalmente ho letto queste Lezioni come una ministoria del teatro, dato che l’autore parte dalla rivoluzione apportata dai Meininger, dei quali sottolinea l’idea di disciplina, non mostrando, però, fiducia al loro uso smodato del Naturalismo, concepito come riproduzione della realtà, per arrivare all’idea di Gordon Craig, ritenuto più ‘maestro’ di Stanislanskij, perché più creativo e più ‘infedele’, visti i suoi insegnamenti alla Scuola di Firenze (1913), dove gli allievi dovevano imparare la musica, il trucco, la mimica, la danza, ma, soprattutto, dovevano essere degli intagliatori, dei modellisti, dei disegnatori, dei trovarobe. Insomma, per esibirsi, dovevano avere padronanza degli oggetti e dei materiali di scena. Anche Mejerchol’d era un fanatico delle competenze, benché non disdegnasse l’improvvisazione e l’immaginazione, ma su ogni cosa, elevava l’arte della regia, rivendicandone la peculiarità del linguaggio, così come ha sempre fatto Nekrosius. Ai suoi allievi cercò di insegnare la difficile arte del teatro, anche di quello che si fa fuori dai luoghi deputati, essendo un sostenitore del teatro di strada, della pantomima, dell’uso del ‘grottesco’ nella recitazione.
Nacque così lo spazio del teatro greco, a cui si ispirò anche quello circense, come dire che basta un nulla per approntare un palcoscenico: un vicolo a fondo chiuso con una scena sopraelevata, un granaio rotondo con dei semplici materiali, come corde o canne di bambù, per dare l’idea di un Globe Theatre. Ciò che conta è immaginare e lasciare agli altri di farlo. Le sue Lezioni, in fondo, stanno a base del primo momento più significativo sui processi di trasformazione della scena internazionale che avrà in Nekrosius il suo continuatore. A testimonianza di quanto il teatro russo continui a essere all’avanguardia nell’uso del linguaggio scenico, ricordo gli spettacoli, in lingua originale, che debutteranno al Piccolo Teatro: Your Gogol. The last Monologue, Eugenenij Onegin, una sorprendente lettura di Le tre sorelle e il Poema, di Aleksander Blok: The Twelve, appuntamenti da non perdere per conoscere il tracciato che da Mejerchol’d arriva alla regia russa contemporanea.
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Stracci della memoria
Il libro, di fatto, è la raccolta dei diari di lavoro, di dodici anni di ricerca, intorno al tema della memoria.
Questa è intesa dagli autori come una borsa, ma una borsa bucata, simile a quel vaso forato a cui Lucrezio nel De Rerum natura paragona l’essere umano. I ricordi sono la prima cosa che perdiamo o che ci restano? La sensazione è quella di essere sorretti da un vuoto, dietro al quale si agitano le ombre della nostra verità. Freud le chiamava tracce mnestiche, impronte dalle quali si tratta di ricostruire un filo tra la mancanza e la storia.
Si tratta di mettersi in ascolto del proprio corpo, sollecitato dal suono di un idioma straniero, un colore, un paesaggio naturale, uno spazio teatrale in rovina. Tutte questo fanno da esca per catturare le memorie sepolte nel corpo del performer. Dalla Corea del sud al Messico, dalla Romania alla Polonia, Anna Dora Dorno e Nicola Pianzola mettono i panni di moderni clerici vagantes, quegli studenti che nel Basso Medioevo – approfittando degli ordini minori – girovagavano in Europa al seguito dei maestri.
I maestri di Instabili Vaganti sono Carmelo Bene, Jerzy Grotowski, Vsevolod Mejerchol’d, Tadeusz Kantor, Leo De Berardinis. Il teatro è qui inteso non come rappresentazione di un testo, ma come un lavoro di scavo dentro se stessi, il cui esito è una performance che si materializza sulla scena come in un sogno e il performer è alla porta tra corpo e mondo. Se la carne conserva i ricordi, questi riemergono intrecciati al desiderio, col pubblico ad assistere alla nascita di forme cangianti ed eteree, simili a spiriti, che si mostrano timidamente per poi subito sparire.
Instabili vaganti vogliono far diventare carne le parole di Prospero ne La Tempesta: gli attori sono spiriti che ritornano alla memoria, quella che per il tempo di un sogno li ha partoriti sulla scena. Noi siamo il sogno di nostro padre e di nostra madre, siamo il sogno della terra, che ora è dolce, ora è incubo.
Tutto nasce dall’origine di ogni cosa: da una mancanza (di spazi, di mezzi), ma anche da un desiderio di arrivare al punto minimo dell’espressione, al movimento conducente allo zero, alla parola che ancora non c’è, a quella che sta per tutte le altre e che sempre manca. È un teatro che si avvicina pericolosamente al rito. Una danza tribale è interessante per quanto si disinteressa dal simulare la realtà, mettendoci direttamente a fronte di una sorta di inconscio fuori di noi. Il teatro – allo stesso modo di Artaud con le danze balinesi e del triste tropico di Lévi-Strauss – è una forza magica che permette di trarre oscura luce dall’enigma di vita e morte.
Il movimento nello spazio segue la spinta del desiderio, come una nave è spinta dal vento che ora soffia, ora cade, ora è tempesta che fa toccare la morte. Si scommette sull’assenza di rassicuranti formule. Se a Seoul gli attori partecipanti al workshop hanno una formazione rigidamente accademica, allora si tratta di rompere qualcosa del già conosciuto. Una danza popolare può giungere a proposito, se è il suggerimento per muoversi fuori dal registro di un corpo incatenato a un testo.
Ogni volta che la ricerca porta a una forma, si tratta subito di demolirla, sulle cui macerie costruire qualcosa di nuovo. Ad Arad, in Romania, il Teatrul Vechi è lo spazio teatrale ideale. Imperano rovine, calcinacci, detriti. I piccioni sono padroni del cielo sopra le teste del pubblico; al suono del flauto il loro casuale battito d’ali sembra sorprendentemente a tono. Thomas Stearns Eliot si incontra alla perfezione con quello spazio desolato, impossibile da ricreare in un teatro di posa. Il degrado non è deriva, ma la sostanza del Teatro, la materia stessa della creazione.
Se l’artista è colui che si fa attraversare dai ricordi dell’umanità, se si fa transfert di patimento con l’altro, può farlo solo mediante un incontro esposto con lo spettatore, senza nascondersi in un ruolo che riferisce. L’attore – come lo intendono Dorno e Pianzola – è piuttosto corpo/voce che ferisce e si ri-ferisce, costituendo l’invito al pubblico per un rischio comune. Stracci della memoria di fatto è un’incessante invocazione: a cercare il proprio desiderio tramite il Teatro, a intrecciarlo con quello del mondo, senza fare affidamento su niente che non sia uno spazio aperto e senza frontiere.
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E con la Rivoluzione d’Ottobre, Mejerchol’d rivalutò il teatro povero. In un vicolo, o in un granaio, con semplici materiali
Il 25 Ottobre 1918 la rivoluzione russa non fu solo un evento politico o ideologico, bensì anche culturale. I teatri imperiali cedettero il posto a quelli statali, le scene decorative a quelle fatte di nulla, la recitazione declamatoria a quella naturalista, il testo all’autonomia della messinscena. Ciò che accadde, in quella data famosa, diventerà il modello per le rivoluzioni artistiche successive che coinvolsero l’architettura, la pittura, la musica, il teatro, la scrittura, con l’abbandono della tirannia della parola a vantaggio di una maggiore autonomia della gestualità e dell’uso del corpo.
Un simile cambiamento contribuì alla trasformazione sociale e a quella della comunicazione, dato che nuovi linguaggi si affacciarono all’orizzonte di un’era che avrà una certa ripercussione persino nei movimenti del Sessantotto.
L’editore Cue Press ha pubblicato: 1918: lezioni di teatro, di Mejerchol’d, a cura di Fausto Malcovati, punto di riferimento per chi voglia mettere in scena un autore russo, non solo per la sua padronanza della lingua e per la conoscenza della letteratura russa, ma anche per le sue competenze teatrali. Malcovati fa precedere le Lezioni da alcune considerazioni che sintetizzano il momento storico e il lavoro di Mejerchol’d al TEO, oltre che le sue predilezioni nel campo della regia. Le lezioni durarono dieci mesi, dal 26 giugno 1918 al 27 marzo 1919, durante i quali il maestro offrì ai suoi allievi una mole di insegnamenti tali da estendersi fino ai giorni nostri.
Personalmente ho letto queste Lezioni come una ministoria del teatro, dato che l’autore parte dalla rivoluzione apportata dai Meininger, dei quali sottolinea l’idea di disciplina, ma non quella del loro attaccamento al Naturalismo, concepito come riproduzione della realtà, anche per la precisione delle scenografie, troppo cupe e per i costumi poco teatrali, per pervenire a quella di Gordon Craig, ritenuto più ‘maestro’ di Stanislavskij, perché più creativo e più ‘infedele’, visti i suoi insegnamenti alla Scuola di Firenze (1913), dove gli allievi dovevano imparare la musica, il trucco, la mimica, la danza, ma, soprattutto, dovevano essere degli intagliatori, dei modellisti, dei disegnatori, dei trovarobe. Insomma, per esibirsi, dovevano avere padronanza degli oggetti e dei materiali di scena.
Anche Mejerchol’d era un fanatico delle competenze, benché non disdegnasse l’improvvisazione e l’immaginazione, ma su ogni cosa elevava l’arte della regia, rivendicandone la peculiarità del linguaggio. Ai suoi allievi cercò di insegnare la difficile arte del teatro, anche di quello che si fa fuori dai luoghi deputati, essendo un sostenitore del teatro di strada, della pantomima, dell’uso del grottesco nella recitazione, per liberarla dal Naturalismo stucchevole; fu amante persino delle strutture primitive del teatro, ricordando che fu la natura a crearlo e non l’architetto, in quanto bastò una collina, dove mettere il pubblico e una piattaforma circolare per gli attori e il coro, per dare vita a uno spettacolo. Nacque così lo spazio del teatro greco, a cui si ispirò anche quello circense, come dire che basta un nulla per approntare un palcoscenico: un vicolo a fondo chiuso con una scena sopraelevata, un granaio rotondo con dei semplici materiali, come corde o canne di bambù, per dare l’idea di un Globe Teatre. Ciò che conta è immaginare e lasciare agli altri di farlo.
Le sue Lezioni, in fondo, stanno a base del primo momento più significativo sui processi di trasformazione della scena internazionale.
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Anna Barsotti, Eduardo De Filippo o della comunicazione difficile
Anna Barsotti, ordinario di Discipline dello Spettacolo all’Università di Pisa, ha dedicato a Eduardo De Filippo una parte importante della sua attività, sia come autrice di alcune importanti monografie che come curatrice di una fortunata edizione della Cantata dei giorni dispari e della Cantata dei giorni pari. Ora ripubblica uno dei suoi saggi più significativi, Introduzione a Eduardo del 1992, accompagnandolo con alcune nuove pagine, dedicate da una parte alle edizioni e varianti del teatro eduardiano, dall’altra a un breve saggio, particolarmente interessante, che chiarisce il nuovo titolo, Leitmotiv della comunicazione difficile.
Chi non conosce le precedenti monografie, troverà un’analisi attenta e mai datata di tutta l’opera eduardiana, dalle prime farse scarpettiane ai capolavori del primo dopoguerra fino alle commedie-testamento degli ultimi anni. La Barsotti analizza l’evoluzione del teatro di Eduardo come una sorta di romanzo dove ogni commedia ha il suo posto e il suo significato, in un work in progress che è proprio di un autore-attore che vive ogni giorno la realtà del palcoscenico.
Il nuovo capitolo approfondisce il discorso, inserendo la sua drammaturgia in una linea che va da Pirandello, punto di riferimento fondamentale per Eduardo, ai due più illuminanti autori del teatro dell’assurdo, Beckett e Ionesco. Sottolinea lucidamente la Barsotti: «[De Filippo] marca il problema dei rapporti comunicativi fra individuo e società al punto da inventare per il suo protagonista un linguaggio privato (Sik-Sik, l’artefice magico) e a spingerlo fino alla solitudine estrema dell’afasia (Gli esami non finiscono mai); il filo rosso che collega le sue diverse commedie è lo stesso che attraversa, con il leitmotiv del difetto di dialogo, la drammaturgia europea del Novecento».
Tuttavia c’è una differenza importante in Eduardo.
Nei suoi testi le parole hanno ancora un senso, possono essere usate come armi di offesa e difesa, anche e soprattutto quando vengono a mancare: anzitutto grazie alla matrice partenopea dell’attore, al suo bagaglio di abitudini generative, a quel repertorio che contamina livelli e generi di spettacolo come in un teatro della memoria. D’altra parte, quando il discorso del protagonista non viene inteso dagli altri personaggi, il personaggio in più, il pubblico lo comprende.
«L’esempio più radicale di comunicazione difficile, come la definisce l’autrice, è certamente l’ultimo testo di Eduardo, Gli esami non finiscono mai, destinato a diventare un detto popolare, ma importante per molti aspetti. Una commedia concepita nel 1953, ma elaborata e poi rappresentata venti anni dopo, che la Barsotti inserisce nel panorama internazionale, citando questa volta Thornton Wilder, autore di quel capolavoro che è La piccola città, oltre a Beckett».
Anche qui c’è una differenza con questi autori: «In Eduardo, il protagonista che non riesce a comunicare, né con i componenti della propria famiglia né con una società che si rivela spesso antagonistica, vive con sofferenza questa condizione di isolamento. Quindi per lui abbiamo preferito parlare di comunicazione difficile, anche perchè, in alcuni casi, la situazione si risolve positivamente nel finale. Ciò non avviene in La grande magia, e soprattutto in Gli esami non finiscono mai dove Gugliemo Speranza (il protagonista) approderà a un muto isolamento di cui avverte il peso sin dall’inizio».
L’ossessione di Eduardo nel creare i suoi personaggi, le loro storie di miserie, di sofferenze e di solitudini. E i loro silenzi
Anna Barsotti, da vent’anni, lavora al teatro di Eduardo. Ha curato, per Einaudi, la nuova edizione della Cantata dei giorni dispari (1995) e della Cantata dei giorni pari (1998), precedute da una monografia: Eduardo drammaturgo (1988).
Il testo Eduardo De Filippo o della comunicazione difficile era stato pubblicato da Laterza nel 1992, col titolo: Introduzione a Eduardo, ormai introvabile. Mattia Visani, l’editore che pubblica con continuità testi teatrali, lo ha ristampato per le edizioni Cue Press, con degli aggiornamenti bibliografici, oltre che con un capitolo di esegesi sulla comunicazione difficile.
Da che cosa nasce la comunicazione eduardiana? Certamente dal suo spirito di osservazione tanto implacabile quanto instancabile, direi ossessivo, col quale egli costruisce i suoi personaggi con le loro miserie, solitudini e sofferenze. Il suo problema consiste nel mettersi in relazione con loro e nella capacità di comunicare i loro drammi al pubblico, al quale si rivolge con i ben noti monologhi-dialogo. Egli si pone, pertanto, nei panni dell’analista, tanto da ritenere la comunicazione come un sinonimo di cura, in particolare per le tante coppie che hanno smesso di dialogare. Assumendo il compito del terapeuta, Eduardo va in cerca delle «voci di dentro», ovvero di quelle voci che abitano nella nostra mente e che stanno a base del nostro dialogo interiore, proprio quello che non riusciamo a trasmettere agli altri, perché, pur essendoci le parole adatte, preferiamo distorcerle o caricarle di ambiguità, come osserva Michele, protagonista di Ditegli sempre di sì.
Anna Barsotti ripercorre tutto il teatro di Eduardo, in otto capitoli, il primo dei quali: Il teatro che comunica è propedeutico alla sua particolare lettura. È chiaro che quanto Eduardo comunica nella Cantata dei giorni pari sia ben diverso da quanto comunica nella Cantata dei giorni dispari, anche perché ci sono di mezzo le due guerre. Nella produzione del primo dopoguerra, Eduardo va cercando un proprio linguaggio attraverso delle sperimentazioni che alternano il dialetto con la lingua nazionale. Perverrà a questa dopo il dissolvimento del dialetto stesso, utilizzando, nel secondo dopoguerra, la lingua nazionale con forza dirompente, quando il teatro assume su di sé un duplice compito, quello di essere accreditato come istituzione (Teatri Stabili) e quello di trovare un linguaggio scenico capace di rappresentare la nuova società, martoriata dal disastro bellico, che va in cerca di una nuova categoria (che Luigi Squarzina definirà: teatricità).
L’uomo del dopoguerra viveva in uno stato di shock, tale da trovarsi incapace di comunicare persino la propria disperazione. Il problema del linguaggio si trasforma, in simili casi, in quello della comunicazione difficile, tanto che, spesso, il dialogo risulta incomprensibile, favorendo la forma monologante, i famosi a tu a tu di Eduardo con il proprio dirimpettaio in Questi fantasmi. La tensione monologante la troviamo nei grandi riformatori come Pirandello o Beckett, ai quali Eduardo maggiormente si accosta con la Cantata dei giorni dispari, dove pone la famiglia al centro del dibattito, sulla quale si è abbattuto il silenzio a cui Eduardo affida l’ultima parola, quella di Zio Nicola, che comunica soltanto coi fuochi di artificio. Questa parola è quella del cuore, «Io mi comunico col silenzio», diceva Ungaretti. Quali sono, allora, le valenze del silenzio? Quali le sue complicità in un rapporto di coppia? Il silenzio è diverso dal tacere, il primo è attraversato da riflessioni interiori, il secondo è una scelta, una interruzione. Il silenzio appartiene ai grandi mistici, forse anche Eduardo lo era, magari senza saperlo.
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Il mondo nel corpo dell’attore
Anna Dora Dorno e Nicola Pianzola, registi e performer, rivelano la dote preziosa di saper raccontare le pratiche del proprio lavoro e il loro senso. Stracci della memoria è un progetto internazionale di ricerca e formazione nelle arti performative nato insieme alla compagnia Instabili Vaganti nel 2006, «trasfigurando in modo creativo la precarietà» di un mestiere sempre in bilico tra arte, artigianato ed economia.
Studiare, lavorare in dialogo con il mondo, per immaginarne altri possibili, se non per cambiare l’esistente attraverso l’arte più sociale che ci sia – il teatro – erano motori delle scelte dei due artisti. Da questo nasce il progetto che è insieme produzione artistica (la Trilogia della memoria), percorso formativo, viaggio nel tempo e nello spazio, in costante dialogo con le molte culture del mondo che ne han fatto parte. Se il tema del viaggio è noto anche ai nostri lettori, per i quali da tempo Nicola Pianzola racconta dal Cile, dall’India, dal Messico, il volume raccoglie il percorso del progetto Stracci della memoria, riportando preziose testimonianze del suo nascere, evolversi, del suo essere in progress. Nella prima parte prendono forma le tre fasi della Trilogia della memoria – La memoria del corpo, Il canto dell’assenza e Il Rito – in cui chiari si svelano i fondamenti di una pratica artistica e pedagogica che ha in Grotowski e nel Bauhaus i maestri e che converge, nell’ultima parte del volume, nel racconto delle sessioni internazionali del progetto formativo, con escursioni in India, Messico, Italia, Corea, Tunisia, Cina.
Un discorso sul metodo di ricerca, radicato nelle azioni fisiche, nel corpo dell’attore, nella potenza ispiratrice degli spazi. Un mondo intero di culture, inscritte nei corpi dei performer, emerge dai racconti di Nicola e Anna. Bellissimi, nella loro frammentaria complessità, i brani dei diari di lavoro conservati in circa dieci anni di viaggio. Completano il volume un essenziale repertorio fotografico e una cronologia delle fasi di un progetto che, dopo oltre dieci anni, non ha ancora esaurito la sua forza vitale.
Strindberg femminista? Beh, non la pensava certo come Ibsen. Il rapporto tra i sessi? La via più facile per l’inferno
Nel 1986, Franco Perrelli, uno dei più accreditati studiosi di Strindberg, oltre che traduttore, pubblicò, per l’editore Olschki di Firenze: Sul dramma moderno e il teatro moderno, dove figuravano alcuni saggi dell’autore svedese: Omicidio psichico, Prefazione alla Signorina Giulia, Sul dramma moderno e il teatro moderno che dava il titolo al volume citato, il Memorandum del regista per i membri del Teatro Intimo, e, in Appendice, Osservazioni sull’arte dell’attore.
Quel volume è introvabile, quindi ha fatto bene Mattia Visani a pubblicarlo, per Cue Press, con un nuovo titolo: Scritti sul teatro, che raccoglie, oltre i saggi citati, altri che riguardano testi di Shakespeare e di Goethe, autori che scelse come modelli della sua drammaturgia.
Perrelli fa precedere i testi dei saggi con delle sue introduzioni alla lettura, che suddivide per annate, alle quali fa corrispondere i momenti più innovativi della produzione strindberghiana.
Si va dagli anni 1869 al 1912, durante i quali, assistiamo alle difficoltà degli inizi, alla necessità di trovare un teatro per mettere in scena i suoi testi e per potere anche sperimentare una sua idea di teatro e di recitazione che andasse contro le normative dei teatri di Stato, tipici osservanti della tradizione e delle convenzioni, a vantaggio di un teatro concepito come dibattito di idee, con temi che attenessero al concetto di libertà o a quello riguardante il femminismo, allora agli inizi, che lo vide mettersi in contrapposizione a Ibsen, difensore della libertà delle donne, idea per nulla sposata da Strindberg che vide, nel rapporto tra i sessi, tema costante del suo teatro, la via più semplice per accedere all’Inferno.
Nei saggi, egli si scontra con il Naturalismo, al cui teatro fisiologico contrappone quello psicologico, tanto da inscenare omicidi o suicidi psichici, a dire il vero, già presenti in Rosmersholm di Ibsen, da lui stesso accertati, ma sottoposti a una specie di analisi clinica. Nel suo teatro c’è poco spazio per i sentimenti che riteneva superflui, così come riteneva inutili i ‘caratteri’, essendo l’animo umano alquanto complesso, la cui psiche era difficile da decifrare.
Il cammino che lo portò alla nascita del Teatro Intimo, dove, in tre anni, realizzò 24 allestimenti per 1147 rappresentazioni, passò attraverso l’esperienza negativa del Teatro sperimentale scandinavo che ebbe vita breve per mancanza di mezzi economici e per una modesta organizzazione. Egli sognava uno spazio simile a quello del Theatre Libre di Antoine, del Theatre de l’Oeuvre di Lugne Poe, della Freie Buhne di Otto Brahm, dello Hebbel Theatre di Berlino, mentre teneva come punto di riferimento, per la regia, Max Reinhardt, che aveva messo in scena La signorina Giulia, Il legame e Delitto e delitto. Quando, finalmente potrà dar vita al Teatro Intimo, con 160 posti e un palcoscenico 6×4, nel Memorandum ne espose le idee guida: niente intrighi né sviluppi sentimentali, ricerca di una realtà interiore, abbandono di ogni virtuosismo, niente scene parapettate, sostituite da proiezioni, anticipazione delle ‘lanterne magiche’. Preferenze per testi brevi, magari di un quarto d’ora, sulla linea del Futurismo, che portassero in scena conflitti d’anime, da recitare con naturalezza, senza enfasi, con attenzione alla parte, per il pubblico e non contro il pubblico. Insomma, un teatro da camera, ricondotto all’essenza del testo e dell’attore.
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Dal tragico al dramma borghese. E infine il postdrammatico. Un nuovo modo di fare teatro. Che valorizzò anche gli eretici.
Il teatro postdrammatico di Hans-Thies Lehmann, fu pubblicato nel 1999; in Italia arriva oggi con un ritardo impensabile, grazie a Mattia Visani, editore di Cue Press e alla traduzione di Sonia Antinori. Il ritardo non ha intaccato per nulla il lavoro di Lehmann che è la diretta prosecuzione di quello di Peter Szondi, autore di Teoria del dramma moderno (1980), e di quello di Richard Schechner, Teoria della performance (1988), studi che stanno all’inizio di quello che diventerà il postdrammatico.
Diciamo subito che il dramma è di matrice europea, che nasce dopo la dissoluzione del tragico, quando, all’interno di un salotto borghese, si potevano risolvere razionalmente anche le cose più scabrose. Al contrario, il postdrammatico appartiene a una cultura senza confini che attraversa le Americhe per approdare in Europa, dove trova un giusto collocamento.
In che cosa consiste, allora, la differenza tra dramma e postdrammatico? Certamente in una percezione diversa del tempo e del luogo scenico, dovuta, come in certe avanguardie del passato, all’intrusione di concetti come simultaneità e multiprospetticità che favoriscono una diversa lettura del linguaggio scenico da intendere, non più come conseguenza del dialogo tra i vari personaggi, bensì come elemento teatrale indipendente a cui corrisponderebbe una nuova logica estetica che si contrapporrebbe a quella dell’illusione mimetica.
Come dire che dal 1968 sia nata una nuova costellazione, nell’ambito teatrale, che ha messo in discussione alcune certezze metodiche, fondate sulla declamazione o illustrazione del testo, senza accorgersi delle diverse esigenze degli arsenali scenici che hanno raccolto i nuovi ritrovati della tecnologia e che hanno permesso, al corpo e ai gesti, di trovare nuove potenzialità espressive.
Lehmann orienta il suo campo d’indagine verso gli eretici della scena internazionale, da Wilson a Fabre, a Goebbels, a Vassiliev, a Pina Bausch, Peter Brook, Grotowski, Barba, Kantor, Nekrosius, Foreman, senza dimenticare alcune realtà italiane come Raffaello Sanzio, Falso Movimento, Barberio Corsetti.
Quali sarebbero, allora, i confini e i limiti imposti dal dramma, compreso quello di Brecht, da superare? Come scoprire il teatro teatrale? Cancellando i confini tra i generi, per spingersi verso i margini della teatralità o verso la ricerca delle origini e aprire lo spazio del discorso a quello del teatro, alla sua indipendenza, alla sua specificità, alla sua visionarietà, ponendo, al centro della ricerca, una drammaturgia visiva, accompagnata da una vasta gamma di modalità performative, favorendo, in tal modo, il teatro del disturbo, dell’iterazione, del lavoro di gruppo, del collettivo, delle installazioni, della festa comunitaria. Per Lehmann, il futuro del teatro creativo non passa dalle grandi istituzioni, bensì dai piccoli gruppi autogestiti che negano la figura stessa del regista, preferendo proprio quella collettiva.
Si può, pertanto, affermare che il teatro postdrammatico non aspira a uno stile, a un genere, a una tipologia di forme affini, perché indirizza le sue preferenze verso il processo teatrale, scavalcando la composizione mentale dell’autore, virando la sua attenzione verso gli spazi virtuali o verso ordinamenti visivi che si impongono come nuovi linguaggi della scena.
L’edizione italiana del testo è corredata da una postfazione erudita di Gerardo Guccini e da interventi di Marco De Marinis, Lorenzo Mango, Antonio Attisani, Cristina Valenti, Marco Martinelli.
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