Un viaggio nel grande cinema del Novecento
Giuseppe Costigliola, «Il Mondo Nuovo»
Oreste De Fornari lo ricordiamo quale arguto conduttore di gustosi programmi Rai, in affiatata coppia con Gloria De Antoni. Erano i tempi ormai remoti in cui l’emittente pubblica sapeva realizzare format originali, unendo spettacolo e cultura. Oltre che autore televisivo, De Fornari è un critico di vaglia della settima arte, con all’attivo pregevoli studi (tra gli altri, su Sergio Leone e sulla cinematografia americana), e di recente la casa editrice Cue Press, che da anni dà alle stampe delle perle sul variegato mondo delle arti performative, ne ha pubblicato un volume interessante, Diario del verosimile. Un viaggio nel cinema del Novecento (p. 288, € 32,99).
Di ‘viaggio’ davvero si tratta, un affascinante percorso composto da frammenti critici, quasi delle note appuntate per proprio uso dopo la visione di grandi film, basate su suggestioni, spunti, arabeschi: l’autore ripercorre un secolo di cinema «attingendo ai vecchi diari e interpolando qualche articolo pubblicato nel corso degli anni», una silloge che plana con moto lieve ma incisivo su tanti capolavori; considerazioni buttate giù non rispettando una rigida cronologia, ma pervase da accenti intimi e riflessivi che suggestionano il lettore – per quanto qua e là baleni il tono saccente caratteristico dei critici cinematografici –, ben utili per chi voglia alfabetizzarsi sulla storia del cinema senza imbarcarsi nello studio di noiosi manuali.
Il volume è introdotto da Nuccio Lodato, che tra l’altro ricorda «l’aurea Genova cinéphile a scavalco tra gli ultimi anni Sessanta e i primi anni Settanta» in cui De Fornari si formò grazie all’attività di cineclub come il Centrale d’Essay e il Filmclub Filmstory, in cui illuminati personaggi quali Sandro Ambrogio e Aldo Viganò programmavano capolavori.
Seguono diciotto densi capitoli, dove, a partire dal microcosmo «Genova 1968», in cui si focalizza il concetto di «verosimile» sul quale si fonda il «diario», si affronta il grande cinema novecentesco: dai pionieri (Lumière, Méliès, Griffith) agli anni Venti (Chaplin, Keaton, Langton e Lloyd, Laurel & Hardy, raggruppati nel genere «comico»; la filmografia sovietica e i suoi maestri (Ejzenstein e compagni), dall’Espressionismo tedesco (Murnau, Wiene, Lang) a «Due maestri del muto» (von Stronheim, Dreyer), a Renoir. Quindi è la volta dei cineasti italiani, con le «tre corone del neorealismo» (Rossellini, De Sica, Visconti), «gli altri neorealisti» (lunga la lista), «Due maestri» come Fellini e Antonioni.
Quindi si analizzano i «maestri europei» (Bergman e Buñuel). Corposo l’elenco degli autori della commedia all’italiana, dai «classici» a Virzì e Moretti, con una sezione dedicata ai «nuovi maestri» (Pasolini, Petri, Rosi ed altri). Intriganti le analisi dei «falsamente minori» (Vancini, Pontecorvo, Maselli, Zurlini e Avati), dopo di che si passa – finalmente – al cinema di genere (Leone, Bava, Argento, poliziesco all’italiana e persino il film a luci rosse). Non potevano mancare, in questo ampio excursus, la Nouvelle Vague e le «altre ondate» (in cui compare Kubrick), la «Hollywood classica» (ecco Hitchcock, Lubitsch e, tra i molti, Disney), la Hollywood «moderna e postmoderna» (da Allen a Tarantino) e «piccoli maestri postmoderni» (Cuarón Almodóvar, Sorrentino). Chiudono il viaggio delle «Conclusioni esitanti», con «Il verosimile in pillole», una «Postilla sui teorici», l’indicazione delle fonti e l’utile filmografia.
Scavalcando rigide categorizzazioni ideologiche, storiche e geografiche, sollecitando il lettore a riflettere sulla funzione del cinema nel rappresentare la realtà – e le sue illusioni –, De Fornari esplora quindi il concetto di verosimiglianza nel linguaggio cinematografico, soffermandosi sui diversi modi in cui registi di ogni tempo e latitudine hanno rappresentato sullo schermo l’idea di «vero» o di «credibile», rintracciando così una tassonomia del verosimile filmico.
Ecco sfilare davanti ai nostri occhi incantati il verosimile «di chi sa vedere l’assurdo del mondo attraverso la psicologia infantile del clown» (i film comici degli anni Venti del secolo passato); il verosimile magico e disadorno (Bergman, in cui la realtà si sovrappone a una dimensione simbolica e spirituale); l’assurdo e «gesuitico» (Buñuel, destabilizzatore del senso razionale); il malizioso (Lubitsch); l’allegorico (il cinema sovietico); il bellico (Jancsó, che affronta la rappresentazione realistica in contesti bellici e politici), e così via, tra rivalutazioni e svalutazioni personalissime, sino all’interpretazione «a montagne russe» di un autore come Tarantino.
Tale rapporto dialettico tra realtà e finzione nel cinema, quest’ultimo visto come strumento di mediazione tra il mondo reale e la percezione soggettiva attraverso la narrazione filmica, è forse l’elemento di maggiore interesse di questo libro, il cui ineludibile approdo è la complessità dell’interpretazione (del mondo, prima ancora che del film analizzato) e l’inattingibilità della «verità», astrazione sempre relativa, costruita con il fare artistico. La grande forza di questo tipo di espressioni risiederebbe insomma «nell’allontanarsi dalla riproduzione della realtà, anche solo per proporne una visione più ampia, originale e spiazzante».
Ma da queste pagine il cinema emerge anche come memoria culturale e sociale, quasi una fonte storica primaria per la sua capacità di registrare, interpretare e trasformare gli eventi e la loro percezione. Esso è appunto, come da titolo, un «diario del verosimile», una delle forme più complesse attraverso cui l’essere umano vede e rappresenta il reale. Da questo angolo critico, in definitiva, la verosimiglianza – e il cinema quale forma di linguaggio estetico – si intride di implicazioni etiche, culturali e antropologiche che evidenziano la complessità della rappresentazione filmica. Buona lettura, e buona visione.
