Logbook

Approfondimenti, interviste, recensioni e cultura: il meglio dell’editoria e delle arti da leggere, guardare e ascoltare.

Strade maestre rau
12 Ottobre 2023

Strade maestre: D’Elia e Maifredi tra i grandi registi del contemporaneo

Vincenzo Sardelli, «Krapp's Last Post»

Le vie del teatro come la via della seta. La ricerca dell’arte e la riflessione sull’arte, sulle tracce dei maestri che hanno fatto grande il teatro contemporaneo. È una piacevole scoperta Strade maestre di Corrado d’Elia e Sergio Maifredi. Fresco di stampa, il libro (Cue Press, Imola 2023, pp. 224, € 24,99) è un itinerario nella vita, nell’arte e nella filosofia di alcuni grandi registi europei viventi. D’Elia, fondatore di Teatri Possibili, incontra Maifredi, fondatore di Teatro Pubblico Ligure. Insieme battono il Vecchio Continente per confrontarsi con giganti del calibro di Peter Stein, Eugenio Barba, Stefan Kaegi, Milo Rau, Thomas Ostermeier, Antonio Latella, Krzysztof Warlikowski, Lev Dodin e Ariane Mnouchkine.
Un’ossessione guida il percorso: il concetto di Maestro (scritto con la M maiuscola), partendo dalla sensazione che i giovani teatranti non riconoscano più il prestigio e l’autorevolezza di un magister. Le domande istituiscono delle conversazioni che, intrecciate in una sorta di puzzle, definiscono lo stato di salute del teatro europeo. A leggere il libro, pare di entrare nel «nobile castello» del Limbo, dove Dante e Virgilio dissertano con Omero, Lucano, Orazio e Ovidio «parlando cose che ‘l tacere è bello». Qui, però, nessuna reticenza. I confronti sono diretti, immediati e spesso spiazzanti; vertono sull’arte e sugli intrecci con la vita; sul metodo registico e sulla relazione con lo spazio scenico; sul rapporto con pubblico e istituzioni; sul concetto di teatro ideale. Ma il canovaccio si dissolve, si deforma sulla poetica di ogni artista, modificato dalle diverse risposte.
Ciò che interessa in questo itinerario ricco di belle foto (di Ruggiero Dibenedetto) e note biografiche, è anche il primo ricordo di vita vissuta e di vita teatrale degli artisti interpellati. Essi sono interrogati sull’evoluzione della loro arte, sul rapporto con la società e con la politica, sul legame con la lingua, la scrittura e l’identità. Le biografie intersecano la grande storia: ad esempio la guerra, cui sono legati i primi ricordi di Stein, di Barba e di Mnouchkine; oppure la Cortina di Ferro, che riecheggia nei racconti di Ostermeier o Warlikowski. E che dire del russo Dodin, irraggiungibile dopo lo scoppio della guerra in Ucraina, che pure ha il coraggio di denunciare senza mezzi termini su una rivista russa la barbarie aggressiva di Putin e un «ventunesimo secolo più orribile del ventesimo»?
Strade maestre tocca i grandi temi esistenziali, dalla morte alla fede, al lockdown. Gli incontri sono avvenuti proprio in epoca Covid. Ne avvertiamo quel soffio grigio, eppure ricco di opportunità.
Le parole degli artisti sono un’antologia di riflessioni mai banali. Domande e risposte sembrano compenetrarsi, e non sembra casuale la scelta dei caratteri grafici quasi indistinguibili per le une e le altre, senza l’uso di corsivi o neretti. Queste pagine ben scritte oscillano tra cronaca e letteratura. Colpisce la descrizione dei luoghi, succinta e sognante: Roma «luminosa e allegra come una giovane sposa»; Losanna, distesa con dolcezza lungo il lago Lemano; Berlino, città-stato sterminata, vecchia conoscenza archetipica del nostro immaginario, «metropoli poliedrica, permissiva e multietnica».
Strade maestre è uno scrigno di pensieri acutissimi. Non mancano le staffilate. Ecco Peter Stein che boccia l’architettura del teatro all’italiana («per me la morte del teatro»), che biasima lo streaming e il dilagare in sala delle immagini, che stigmatizza i monologhi e la performing art, che deplora i CdA politicizzati, o certi registi che usano un pene di plastica laddove il testo richiederebbe solo di sguainare una spada. Fino alla bordata di definire associazioni a delinquere i Teatri Stabili. Per converso, Latella magnifica l’identità liquida democratica e multiculturale di Berlino e i copiosi finanziamenti di cui godono i teatri tedeschi (22 milioni all’anno per un teatro medio). Intanto, mentre postula l’inscindibilità tra vita, lavoro e arte, Latella magnifica la scena off italiana e la capacità di registi come Castellucci di creare un nuovo codice espressivo. E chissà che non pensi proprio a Stein quando sentenzia che «i registi tedeschi che amano il teatro dittatoriale prima o poi vengono a lavorare in Italia».
Strade maestre è un viaggio. Non meno della storia, la strada è maestra di vita. Come Diogene con la lanterna, d’Elia e Maifredi peregrinano tra città, artisti e teatri. Mentre cercano l’arte e la riflessione sull’arte, mentre scandagliano la poetica e il metodo dei grandi maestri, di fatto si mettono in cerca dell’uomo. Per affinare lo sguardo, occorre uscire dal recinto. Perché nessuna arte, più del teatro, avviene tra le persone: è incarnata dalle persone, vive tra le persone, è realizzata per regalare sogni, dubbi, pensieri, alternative alle persone.

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Agitprop
10 Ottobre 2023

La danza e l’agit-prop. I teatri non-teatrali nella cultura tedesca del primo Novecento

Barbara Berardi, «Theatron 2.0»

I primi decenni del Novecento hanno visto nascere il desiderio, da parte dei cosiddetti padri fondatori del teatro e della danza, di attuare una vera e propria «ri-teatralizzazione» attraverso rivoluzioni stilistiche e sperimentazioni nel campo dell’arte scenica. Nel libro intitolato La danza e l’agitprop: I teatri non-teatrali nella cultura tedesca del primo Novecento, pubblicato da Cue Press nel 2015, Eugenia Casini Ropa si sofferma sulla rivoluzione culturale avvenuta in quegli anni in Germania. Studiosa del teatro e della danza del Novecento, ha pubblicato numerosi saggi e volumi di stampo socio-politico sul teatro tedesco e sulla storia della danza moderna e contemporanea. Inoltre, è curatrice della collana editoriale I libri dell’Icosaedro e delle riviste Teatro e Storia e Danza e Ricerca. Casini Ropa sceglie come soggetti privilegiati di indagine due fenomeni – «i teatri non-teatrali» – che in quegli anni rivelarono in modo più radicale le proprie esigenze di rifondazione. La «nuova danza» tedesca, nata dalla rivalutazione pedagogica del corpo umano, basata sul rapporto di interdipendenza e simultaneità tra anima, corpo, disciplina e natura; e l’agitprop, teatro rivoluzionario operaio di agitazione e propaganda nato dall’ideologia socialista. Dopo un contesto artistico iniziale, lo studio continua concentrandosi su come le realtà e gli artisti che si dedicarono alla scoperta e allo studio della pedagogia, del rito, dello sport, della religione, dell’associazionismo e della politica contribuirono a scardinare gli antichi schemi del linguaggio artistico per creare un nuovo teatro del movimento espressivo.

Il volume si apre esaminando un concetto alla base del cambiamento di pensiero di quegli anni: la Körperseele (fusione perfetta tra anima e corpo). Questa visione innovativa portò diversi studiosi a rivoluzionare il lavoro con il corpo degli attori e dei danzatori, trasformandolo in una ricerca di una nuova armonia non solo fisica, ma anche morale e spirituale. Tra i protagonisti citati, ci sono pionieri di questa nuova era per la Körperkultur (cultura fisica), tra cui François Delsarte, Madeleine G. e Mary Wigman, tra le più innovative danzatrici della loro generazione, e il confronto tra la ginnastica euritmica di Émile Jaques-Dalcroze e il metodo di Rudolf von Laban, considerato il padre della danza libera, narrato in seguito all’esperienza della scuola-colonia di Monte Verità.

La seconda parte si concentra sul teatro proletario in Germania, esaminando i suoi sviluppi tra gli anni Venti e Trenta e il conseguente rafforzamento di un sentimento collettivo di consapevolezza e lotta di classe. L’agit-prop, nato dalla collaborazione tra attori-operai e scrittori rivoluzionari, metteva in scena rappresentazioni con un forte contenuto ideologico e propagandistico, finalizzate a risvegliare una nuova e consapevole coscienza di classe tra il proletariato. Erwin Piscator, Béla Balázas, Friedrich Wolf e altri intellettuali engagé si fecero portavoce di un allontanamento drastico dalla forma, dai temi e dal naturalismo del teatro borghese, per dare vita a una nuova tipologia di «teatro-comunicazione».

Alla conclusione dei vari contesti storici indagati, segue un ultimo capitolo dedicato alle testimonianze iconografiche. Eugenia Casini Ropa conclude il volume con una ricca raccolta di immagini: danzatrici con tuniche in pose che richiamano i fregi e le statue dell’antica Grecia, allievi della scuola labaniana, esempi di esercizi di ritmica nell’Istituto di Hellerau di Dalcroze (fotografie che mostrano il lavoro di ristrutturazione effettuato in collaborazione con Adolphe Appia), e foto dei gruppi agitprop, ritratti espliciti dello spirito di lotta che li animava. Un’enciclopedia di fotografie che facilita la comprensione degli studi rivoluzionari di quegli anni e delle peculiarità che caratterizzano le diverse tipologie di ricerca artistica.

«Che cosa resta di tutto questo e che cosa può ancora oggi, a un secolo di distanza, risuonare in qualche modo dentro il lettore? Qualcosa di attuale compare, almeno ai miei occhi, guardando più a fondo. Qualcosa allora sognato, sperato, perseguito nel pensiero e nella pratica, sperimentato in prima persona come modo di vita sia individuale sia sociale, portato con decisione alle estreme conseguenze.
E questa qualità del vissuto è già in sé un primo, forse semi-cosciente motivo di attrazione ai nostri giorni: la lezione esplicitata della ormai tanto difficile capacità di credere fino in fondo in un’idea – che non sia il denaro e il successo – e di tradurla in azione costante nella vita e per la vita. Compare qualcosa, dicevo, che si sintetizzava allora in due concetti in problematica dialettica: emancipazione dell’‘individuo’ e costruzione del ‘collettivo’ o del ’coro’, a seconda delle parti in causa, e che oggi, in mutate condizioni, potremmo tradurre in: ridefinizione della persona e costituzione della comunità. […] La danza, il teatro, l’arte in generale, si propongono ancora oggi come allora, ma con forza e voce purtroppo assai affievolita – almeno nel nostro Paese – da un clima culturale sfavorevole, come possibili, creativi strumenti di formazione personale e di relazione e aggregazione sociale. Occorre scoprire e diffondere – e in questo nuovo inizio di secolo molto già si lavora sperimentando – i modi più efficaci per fare ancora dell’arte un laboratorio sperimentale utile alla crescita delle persone e della cultura sociale. E poiché non si può prescindere dalla storia per orientarsi al futuro, le immagini un po’ sbiadite e fuori moda di questo volume acquistano probabilmente nuova brillantezza e le storie di uomini e donne che hanno creduto e lottato fino in fondo, qualunque si sia poi rivelato l’esito delle loro lotte, possono ancora mettere in moto il pensiero e risvegliare in chi legge l’eco di una necessità di partecipazione mai del tutto sopita».

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Strade maestre barba
8 Ottobre 2023

Post Teatro

Anna Bandettini, «la Repubblica»

Letture di resistenza

«Non ricordo quasi niente della mia infanzia. La mia memoria comincia con la morte di mio padre. Prima di quell’agonia che ho vissuto come un rito di passaggio e una nuova consapevolezza della condizione umana, ho rari ricordi, tutti di guerra». Sono parole del regista Eugenio Barba, grande «maestro» e rivoluzionario del teatro della seconda metà del Novecento, dal libro Strade maestre di Corrado D’Elia e Sergio Maifredi. Nella newsletter di oggi, infatti, parlo di libri. Non soltanto di letture piacevoli per le vacanze estive, ma di resoconti e racconti su cui vale la pena riflettere per il loro valore di «resistenza» al conformismo dilagante, o perché hanno un loro pensiero originale, o semplicemente perché ci stimolano a farcene uno proprio.

La lezione dei «maestri»

È stato una bella sorpresa la lettura di Strade maestre, il libro di Corrado D’Elia e Sergio Maifredi (Cue Press, € 24.99) che consiglio vivamente. Intanto è bella l’idea da cui nasce: interrogare i più grandi registi della scena contemporanea, «maestri» come Eugenio Barba, appunto, Lev Dodin, Arianne Mnouchkine, Peter Stein, e nuovi maestri come Warlikowski, Ostermeier, Latella, Stefan Kaegi, Milo Rau. Una bella scelta. I due autori li hanno incontrati, non per intervistarli come «giornalisti», ma per capire dalla loro vita e dal loro lavoro, dagli inizi, dalle domande che li hanno accompagnati nel corso degli anni, dalle relazioni che hanno costruito, il senso del fare teatro. Ne escono una serie di autobiografie umane e artistiche molto interessanti.
C’è Peter Stein che parla della cultura in modo profondo (leggete la risposta in cui parla della regia), c’è Milo Rau che precisa la sua idea di «nuovo teatro popolare», Arianne Mnouchkine che ricorda l’importanza di avere «maestri», Antonio Latella che confessa come il teatro lo ha fatto ritrovare. Sono parole spesso importanti, quelle dei «maestri», pensieri che sono radici da cui ripartire se si vuole capire il teatro. Ma non è un libro solo per teatranti o per chi frequenta il teatro, perché racconta come il teatro non sia solo una macchina per produrre, per vendere, per mostrare spettacoli, ma un luogo che congiunge tutte queste cose, che ha a che fare con la vita delle persone , con la società che c’è intorno.
Il teatro come macchina per comunicare, che talvolta ci appare disordinato e confuso, ma che attraverso le personalità di grandi artisti che riempiono le sue strade, ci appare una «strada maestra».

Fosse libro
7 Ottobre 2023

Jon Fosse, il Nobel alla Letteratura e la piccola casa editrice di Imola: «Sommersi di richieste, tremila libri in poche ore»

Simona Cantelmi, «Corriere di Bologna»

La notizia del Nobel per la Letteratura allo scrittore norvegese Jon Fosse ha sconvolto la routine di una piccola ma prestigiosa casa editrice di Imola. La Cue Press, che pubblica testi di teatro e cinema, è la casa editrice italiana che ha pubblicato alcuni testi teatrali di Fosse e in queste ultime ore è stata travolta da migliaia di richieste come spiega il fondatore della casa editrice, Mattia Visani.

Immagino che queste siano ore calde.

Sì, abbiamo ricevuto più di tremila richieste dei suoi testi in poche ore, ne siamo molto felici. Di Jon Fosse abbiamo pubblicato una raccolta di tre testi teatrali (E non ci separeremo mai, Qualcuno verrà e Il nome), un testo singolo (Caldo) e il testo teorico Saggi gnostici. E non è l’unico Nobel del nostro catalogo: abbiamo anche Samuel Beckett.

Cosa avete in programma con Jon Fosse?

Vogliamo portarlo a Bologna e a Imola, cominceremo a breve a dialogare con i suoi agenti. Poi speriamo che tutto ciò sia da traino alle vendite delle altre pubblicazioni.

Qual è stato l’iter di pubblicazione dei suoi testi?

Jon Fosse è prima di tutto un drammaturgo, uno scrittore per la scena e nel mondo del teatro è già conosciuto da vent’anni. Ma nell’ambito della drammaturgia italiana e straniera ha una vita molto particolare, nel senso che non è che andasse a ruba, ma noi ci abbiamo sempre creduto perché è un grande autore. Lo abbiamo pubblicato prima di Elisabetta Sgarbi (direttrice de La nave di Teseo, l’altra casa editrice italiana di Fosse, [N.d.R]), per esempio, è un dato di fatto. Conoscevo la sua produzione e sono andato a cercarlo, dialogando poi col suo agente norvegese.

Ci racconti della sua casa editrice.

Cue Press è nata dieci anni fa, da una costola di Ubu Libri. Quando uscì il mio libro Franco Quadri di Ubu Libri morì e decidemmo di aprire una casa editrice digitale. Vedete, in quel periodo le case editrici digitali erano di moda e una grande promessa. Ma negli anni molte sono nate e poi morte, mentre noi siamo ancora qua. Poi oggi ovviamente abbiamo in primis la produzione del cartaceo. In un anno facciamo circa ottanta uscite, ma ci stiamo proiettando verso le cento.

Progetti futuri?

In tema di Nobel, stiamo completando un grande lavoro di pubblicazione dei testi Samuel Beckett, come ad esempio un volume che raccoglie gli appunti di regia, i testi riveduti sulla base della sua esperienza registica. A fine mese usciranno i suoi Testi brevi. E stiamo trattando anche la prima mondiale del quaderno di regia di Happy Days. Per la prima volta in Italia potremo inaugurare un vero e proprio settore di studi beckettiani. Poi a breve uscirà il grande Scene madri di Bernardo Bertolucci e Enzo Ungari. Insomma, tanti progetti sia teatrali sia cinematografici.

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6 Ottobre 2023

Fosse, il Nobel venuto dai fiordi

Stefano Gallerani, «Il Mattino»

Come spesso accade, anche stavolta i telefoni delle librerie impazziranno e le rotatorie delle case editrici faranno gli straordinari per rimpinguare la non straordinaria presenza editoriale nel nostro paese di Jon Fosse (classe 1959), fresco vincitore del centosedicesimo premio Nobel per la letteratura. Fortuna che – dimostrando buon fiuto – da qualche anno a questa parte La Nave di Teseo abbia cominciato a pubblicare brani significativi dell’opera in prosa di un autore che il pubblico italiano conosce più come drammaturgo che come narratore: nel 2019 è toccato alla novella Mattino e sera mentre due anni più tardi è stata la volta di L’altro nome, che raccoglieva i primi due capitoli della Settologia romanzesca di cui martedì prossimo usciranno, sotto l’intestazione rimbaudiana di Io è un altro, le parti da tre a cinque (come le altre tradotte da Margherita Podestà Heir). Nel 2009 era stata invece Fandango a stampare per noi Melancholia, struggente dittico monologante che ha come protagonista il pittore ottocentesco Lars Hertvig. Quattro testi, insomma, che, al netto delle pubblicazioni teatrali (per Titivillus, Cue Press e i tipi di Editoria e Spettacolo) e della raccolta teorica di Saggi gnostici, rappresentano un buon viatico per un artista che vanta, in originale, oltre cinquanta titoli tra drammi, romanzi e poesie, e di cui l’Accademia svedese ha riconosciuto – così nella motivazione – la capacità di «dare voce all’indicibile».

Nella loro estrema concisione, i savi di Stoccolma hanno efficacemente colto un punto che solo all’apparenza si risolve in un facile ossimoro. Già, perché se c’è una qualità che salta all’occhio sin dal primo incontro con la scrittura di Fosse è che il suo campo d’elezione è quel lembo di realtà in cui la riconoscibilità (di luoghi, situazioni e dinamiche) non ha altro scopo che velare, ma non del tutto, quella dimensione spirituale che difficilmente trova spazio nell’equivoco realista. Il quotidiano diventa, in questo modo, assoluto, così come i personaggi finiscono per rappresentare nient’altro che lo specchio di un unico «sé». Non a caso, tra i nomi che ora si tirano in ballo per rendere più potabile questo neolaureato dallo stile asciutto e vagamente sperimentale (se così si intende qualsiasi cosa esca appena fuori dal seminato della grammatica più convenzionale), quello in pole position è senz’altro Samuel Beckett (altro Nobel conteso tra pagina e palcoscenico). Pure, per quanto nobile, l’ascendenza con l’irlandese rischia di diventare equivoca, se non limitativa, tanto ingombra il giudizio – e il pregiudizio – che grava sull’autore di Murphy e Aspettando Godot. Ben più interessante è, invece, capire quali siano i punti di distanza e quelli di contatto tra Fosse e il connazionale Ibsen, che con il primo condivide il primato di essere il drammaturgo norvegese più rappresentato al mondo. Di sicuro, ad accomunarli è lo stigma ibseniano per antonomasia: quegli «spettri» attraverso cui le ombre del passato si manifestano nell’esistenza per conferirle una prospettiva e una profondità inedite.

Distante appare, invece, la dinamica del conflitto, laddove la spietatezza di Ibsen – e per essa, in grado superiore, l’odio – è un detonatore assente (o quantomeno depotenziato) dalle pagine di Fosse. Non a caso – è stato lui stesso a confessarlo in più di un’occasione – i suoi personaggi cercano né più né meno che nell’amore una ragione per vivere e sopravvivere. Di che tipo di amore si tratti, poi, è tutt’altra e ben più complessa ragione. Una ragione, anzi, che Jon Fosse rimette in quasi tutta la sua interezza nelle mani del lettore, interlocutore imprescindibile di figure che, su carta, non hanno mai – o quasi – nome. Per Fosse, infatti, il nome costringe l’essere umano in un ruolo sociale, spogliandolo della sua umanità. Esemplare in tal senso, tra i molti, il dramma Io sono il vento (allestito in Italia nel 2013 per la regia di Alessandro Greco), i cui personaggi, abbandonati su una nave in balia del mare sono, semplicemente, «l’uno» e «l’altro»: figure speculari che agiscono su un piano che, anche temporalmente, ha poco a che fare con la sequenza cronologica di passato e presente. Di loro si sa poco, né si conosce esattamente il legame che li costringe in quell’isolamento forzato. Se «l’uno» sia il padre de «l’altro», se siano solo amici (così come potevano esserlo i Vladimiro e Estragone beckettiani) o se tra di loro esista un rapporto di sangue – ma, anche, se addirittura siano contemporanei – non è dato sapere. Pure, nell’astratto furore immaginativo di Fosse, ogni loro parola e ogni loro frase hanno un’esatta, per quanto enigmatica, luminosità. Sta qui, probabilmente, la misura «universale» di Fosse – il quarto scrittore del suo paese a ricevere il più prestigioso premio letterario del mondo dopo Bjørnstierne Bjørnson (1903), Knut Hamsun (1920) e Sigrid Undset (1928). Sta in quest’apertura di senso la forza di una scrittura che, come sempre la grande letteratura, coinvolge chi legge in un agire di segno uguale e contrario a quello di chi scrive. Una forza, insomma, che vale un Nobel.

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6 Ottobre 2023

Jon Fosse, il Nobel che racconta l’indicibile

Carmelo Claudio Pistillo, «Libero»

Dopo Bjørnstjerne Bjørnson 1903, che insieme a Henrik Ibsen ha contribuito alla nascita della drammaturgia norvegese, Knut Hamsun, premiato nel 1920 e Sigrid Undset, nel 1928, la Norvegia si porta a casa il quarto premio Nobel della Letteratura. A godere di questo privilegio è Jon Fosse, scrittore, poeta e drammaturgo nato nel 1959, amante di autori di assoluto rigore e inimitabile complessità, come un sovvertitore del linguaggio teatrale che risponde al nome di Samuel Beckett, il percussivo e narrativamente implacabile Thomas Bernhard o l’oscurissimo Georg Trakl, legato incestuosamente alla sorella. Già da questi nomi, che racchiudono alcune sue predilezioni letterarie, non certamente di metodo, si può dedurre la precisione con cui l’Accademia Svedese ha inteso motivare l’assegnazione del premio a questo scrittore prolifico e appartato: «Per le sue opere teatrali e di prosa innovative che danno voce all’indicibile». Poco conosciuto ma assolutamente in evidenza per i suoi libri pubblicati in Italia e tradotti in quaranta lingue, nella sua residenza nel Grotten, datagli in affido dal re di Norvegia per i suoi meriti letterari, il poliedrico scrittore sta vivendo una crescente e inaspettata popolarità. In un’intervista rilasciata al Corriere nel 2022 dichiarava non senza qualche imbarazzo la sua incredulità rispetto all’ipotesi del conferimento del premio Nobel. Ecco le sue parole: «Non so se sono un vero candidato, comunque è un onore che molte persone pensino che io lo meriti, o almeno che pensino che l’Accademia svedese pensi che io meriti un Premio Nobel. Invece il pensiero di essere premiato è terrorizzante». Raggiunto al telefono in queste ore, dopo essere già stato nominato cavaliere dell’Ordre national du Mèrite in Francia nel 2007, con questo felice annuncio Fosse sembra essere entrato con sobrietà ed eleganza nell’abito del vincitore: «Sono così felice e sorpreso. Non me lo aspettavo davvero».
Nessuno se lo aspettava, anche se il suo nome echeggiava con sicurezza negli ambienti più più vicini all’Accademia svedese.

La reazione a Godot

Ma chi è Jon Fosse, considerato il «Samuel Beckett del XXI secolo» per le sue qualità drammaturgiche riconosciutegli dopo il suo debutto come autore teatrale di Qualcuno arriverà, scritto come reazione ad Aspettando Godot. Come i grandi letterati, anche il nuovo premio Nobel non si accontenta della descrizione della realtà senza che in questa aleggi il respiro di un altro ipotetico universo. La letteratura è uno strumento d’indagine sul senso ultimo delle cose. Di aiuto, in questa sua ricognizione, ha un ruolo fondamentale il silenzio da cui cerca di estrarre parole insperate ma degne di entrare e caratterizzare la pagina scritta. La sua prosa non attinge alla dimensione più autobiografica se non in termini di suggestioni, ma si nutre d’immaginazione e non di fantasia. Dichiarò nel 2022: «Non scrivo mai per parlare di me ma per liberarmene, allontanarmi. Da questo punto di vista, la scrittura somiglia al bere. Ecco perché forse non ho mai scritto così tanto come dopo avere smesso con l’alcol. La letteratura può essere una forma di sopravvivenza, per me è stata di sicuro un modo per vivere». Una tecnica sapiente, la sua, dove al ritmo studiato nella poesia unisce la coerenza lungo tutta la trama assorbite dal teatro. Sono più d’una le traduzioni italiane delle sue opere spesso dominate dal paesaggio nordico. Diverse le case editrici che in questi ultimi anni hanno fiutato con lungimiranza il valore dello scrittore: Fandango con Melancholia (2009) e Insonni (2011) entrambi tradotti da C. Falcinella, Cuepress con Saggi gnostici (2018) e Caldo (2018) curati da uno dei maggiori esperti della letteratura nordica come Franco Perelli, ma prima ancora, a mettere le mani su questo autore, è stata Editoria e Spettacolo con Teatro (2006), per la cura di Rodolfo Di Gianmarco. Con protagonista il tormentato Lars Hertevig, fra i maggiori pittori norvegesi, è utile ricordare un gioiello come Melancholia, che si avvicina, almeno nella trama, al miglior Bernhard. Il pittore, infatti, viene colto nell’ultimo giorno di vita prima del suicidio avvenuto per ragioni amorose o forse, per motivi più profondi come l’incapacità di vivere, tema tipicamente bernhardiano.

La vis polemica

Per la Nave di Teseo sono inoltre disponibili sia Mattino e sera (2019) che L’altro nomeSettologia vol. 1-2 (2021), entrambi tradotti da Margherita Podestà. Mentre Mattino e sera racconta i termini della vita attraverso la nascita di un figlio e l’ultimo giorno di un vecchio nella ripetizione di gesti sempre definitivi, L’altro nome è la singolare storia di due uomini con lo stesso nome, Asle, una doppia versione dello stesso uomo. Il dieci ottobre sempre la casa editrice guidata da Elisabetta Sgarbi pubblicherà Io è un altro Settologia III-IV volume, un romanzo-mondo dal titolo rimbaudiano, che vuole essere un riflessione poetica sull’amore, sull’arte e sull’amicizia. Il nuovo Nobel non manca, come accade spesso in questi casi, di vis polemica. Giusto, secondo lui, il premio conferito a Luigi Pirandello ma non quello a Dario Fo, un non scrittore. Così come ritiene ingiusto aver onorato un autore come Bob Dylan. Non è meno tenero con il teatro contemporaneo, a suo avviso troppo legato ai classici e poco incline alle novità. Sicuro, comunque, di una sua ripresa nel solco della contemporaneità.

Oslo, norway 20161012. portrait of author jon fosse. the picture is taken in the state honorary housing for deserving artists, "grotten", in oslo. photo: ole berg rusten / ntb scanpix
6 Ottobre 2023

Jon Fosse. Triste, solitario e Nobel

Anna Bandettini, «la Repubblica»

Ha fama di scontroso, solitario, depresso, ex alcolista, di isolato tra i fiordi e le nebbie della sua Norvegia, ma con le sue parole ha scaldato di emozioni, pensieri, profondità migliaia di spettatori nel mondo, Jon Fosse: una delle voci più innovative della scena internazionale e ora, a 64 anni, Premio Nobel della Letteratura 2023. Poeta, saggista, scrittore (il suo monumentale Settologia, romanzo oversize è per il «New York Times» uno dei più grandi capolavori) e soprattutto grande autore di teatro, Fosse è stato tradotto in più di 40 paesi, con schiere di fan e i suoi testi rappresentati nelle sale dei cinque continenti, dalla Cina agli Usa. Tanto che il suo Nobel (vale 11 milioni di corone svedesi, circa 1 milione di euro) è un po’ anche una festa per il teatro, il segno della vitalità di un’arte, la scrittura drammatica, solitamente considerata elitaria, inutile o futile; e invece decisiva e addirittura primaria, visto che il premio a Fosse segue quello di altri grandi drammaturghi, George Bernard Shaw (1925), Pirandello (1934), Eugene O’Neill (1936), Beckett (1969), Dario Fo (1997), Elfriede Jelinek (2004), Harold Pinter (2005), Peter Handke (2019).

Quel che è certo è che con il riconoscimento al «nuovo Ibsen» come è stato chiamato – con la motivazione che «le sue opere teatrali e di prosa innovative danno voce all’indicibile» – l’Accademia svedese di Stoccolma ha visto giusto e colto nel segno, anche nel segno dei tempi. Perché parliamo di un gigante che ha fotografato le inquietudini e fluidità del mondo contemporaneo e ha attraversato, specie col teatro, le strade più buie dell’animo umano con personaggi che spesso non hanno nome, hanno un linguaggio secco e senza fronzoli, dialoghi apparentemente minimali, ma che scavano nelle angosce e nel fondo delle nostre relazioni e della nostra vita. Storie come Melancholia, Insonni (editi da Fandango), e soprattutto gli amari testi di teatro, Qualcuno arriverrà, Inverno, il bellissimo Io sono il vento, Caldo. «Faccio il possibile per scrivere ciò che non si può dire, come dicevano Wittgenstein e Derrida», aveva dichiarato in una intervista a Repubblica nel 2016, in occasione del debutto mondiale nella rassegna ’Quartieri dell’arte’ di Viterbo della sua commedia Det er Ales (Lei è Alice).

Nato a Haugesund, sulla costa occidentale della Norvegia, un viso nordico, severo, fisico massiccio, laureato in letteratura comparata e in filosofia, Fosse ha cominciato a scrivere a 12 anni. «Ho avuto una infanzia felice, mi piaceva il pallone, con l’adolescenza tutto è cambiato. Ho cominciato a sentirmi estraneo, salvo che nello scrivere. E ancora oggi la scrittura è il rifugio» ha detto. All’esordio nel 1983 con il romanzo Red, Black, seguono, tra i più celebri, Melancholia e Insonni, una favola moderna sulla disillusione di due piccoli protagonisti, fino al capolavoro Settologia, un romanzo di migliaia di pagine, sette parti, scritto nel 2019. Da noi martedì uscirà Io è un altro, i volumi III-V nella traduzione di Margherita Podestà Heir, con La nave di Teseo che ha già pubblicato (oltre al romanzo Mattino e sera) i volumi I e II sotto il titolo di L’altro nome: una storia fiume di due uomini che hanno lo stesso nome (forse sono lo stesso uomo) lungo un non-tempo, come spesso è nell’opera di Fosse, dove «passato e presente si muovono in un solo attimo, come fossero più vicini all’eternità», e sono parole sue. Nonostante abbia smesso di scrivere testi drammatici, come autore di teatro Fosse è stato forse perfino più prolifico e amato. Dal successo, nel 1999, di Qualcuno sta per venire, molte commedie sono tradotte, messe in scena (anche se più spesso da piccole compagnie) e pubblicate, dal volume Teatro (Editoria & Spettacolo, 2006), che raccoglie sei testi (tra cui Sogno d’autunno, Inverno), al bellissimo Io sono il vento (Titivillus). In italiano sono apparsi anche Saggi gnostici (a cura di Franco Perelli, Cue Press, 2018).

Sposato con figli, Fosse vive in prevalenza nella residenza di Grotten, a Oslo, concessagli dal Re per i meriti letterari e da lì si dice conduca una vita quasi claustrale, scossa dall’alcolismo da cui si è dichiarato guarito e dall’ansia cronica in parte risolta con l’avvicinamento alla fede cattolica.

La notizia del Nobel l’ha ricevuta in auto, come successe a Dario Fo; lui guidando nei pressi di Bergen, sulla costa occidentale della Norvegia. «Negli ultimi dieci anni mi sono preparato con cautela al fatto che ciò potesse accadere. Ma credetemi, non mi aspettavo di ricevere il premio oggi, anche se avevo una chance». Vederlo dal vivo in Italia sarà difficile, ma in questa stagione sarà in scena con lo Stabile di Torino La ragazza sul divano con la regia di Valerio Binasco, un’altra vicenda di personaggi irrisolti: qui una donna, alla ricerca di una qualche ragione per vivere. Quale? «Semplice: l’amore», aveva risposto in passato Fosse. Crediamogli.

Jon fosse
6 Ottobre 2023

Jon Fosse, esercizi di incomunicabilità

Andrea Romanzi, «Il Manifesto»

L’introduzione del norvegese Jon Fosse alla letteratura fu – a suo dire – poco invitante e ancor meno lusinghiera: nel corso di una intervista del 2006 per la rivista «Bok & Bibliotek» rivelò al suo interlocutore: «Iniziai a leggere nello stesso momento in cui cominciai a scrivere. La maggior parte di ciò che leggevo non mi piaceva … fatta eccezione per Tarjei Vesaas, di cui lessi prima di tutto Il castello di ghiaccio (Iperborea). Successivamente, ricordo che inserii nell’elenco Gli uccelli (Iperborea)». Erano titoli da cui uno studente norvegese non poteva prescindere: Fosse avrebbe aggiunto, più avanti, fra i suoi autori Knut Hamsun, anche lui Nobel per la letteratura nel 1920, e fra le sue letture l’Inferno di Dante, letto in diverse traduzioni.

Nonostante la sua scrittura abbia una chiara matrice modernista, i pilastri su cui Fosse ha costruito la propria cultura letteraria sono ben radicati nella letteratura classica, in particolare nei poemi epici – l’Iliade e l’Odissea – e nella Bibbia. Nello stile ricorda da vicino alcune pagine di Samuel Beckett, ma la sua scrittura è ancora più radicale e, soprattutto nel teatro, procede per sottrazione, scardinando e deostruendo gli elementi spazio-temporali, così da presentare un ambiente privo di punti di riferimento, dove anche il concetto di identità perde consistenza. Governate da un estremo minimalismo, le pièces di Fosse sono connotate dall’assenza di una trama vera e propria, da una lingua scarna e da pochissimi personaggi privati del nome e di qualsiasi elemento che contribuisca alla loro caratterizzazione.

Quarto scrittore norvegese a ricevere il Nobel per la letteratura, Fosse è nato nel 1959 e ha studiato filosofia e sociologia, prima di specializzarsi in scienze della letteratura. Mentre stava ancora studiando, a metà degli anni Ottanta, pubblicò il suo primo romanzo, Raudt, Svart (Rosso, nero), dando avvio a una carriera prolifica, che spazia tra i generi più disparati: dal romanzo, ai libri per bambini, alle opere teatrali, ai saggi, alle poesie, tutti tradotti in molte lingue e apprezzati soprattutto in Germania, Stati Uniti, Giappone e Polonia.

La componente modernista dei suoi scritti attinge alla corrente letteraria che ha incontrato più larga fortuna nella Norvegia degli anni Ottanta, e di cui Fosse è forse l’esponente più acclamato. Cresciuto in un contesto familiare intensamente permeato dal pietismo e dal quaccherismo, ne prese le distanze molto presto dichiarandosi in un primo tempo ateo, ma convertendosi poi al cattolicesimo nel 2013. Sui suoi scritti i motivi religiosi fanno, patentemente, una grande presa: tutta la filosofia nichilista che parte dalla «morte di dio» è – secondo Fosse – il presupposto fondatore della letteratura moderna; compresa la sua. Il che non gli ha impedito di conferire alla scrittura il carattere sacro di un esercizio religioso.

Già a partire dai primi studi, le questioni di teoria della letteratura entrano stabilmente nei suoi saggi, che risentono palesemente dell’influenza di linguisti, semiologi e aforisti – da Greimas, a Barthes – concretizzandosi in una scrittura letteraria sintatticamente asettica e minimalista ma allo stesso tempo connotata da un gran numero di ripetizioni – che contribuiscono a problematizzare la questione della lingua – e l’incapacità di metterci in comunicazione, con gli altri e con noi stessi. Non a caso, i pochi personaggi delle opere teatrali di Fosse si parlano addosso, si ripetono, pirandellianamente senza capirsi mai, dando luogo a sequenze narrative di natura descrittiva, più che mirata a restituire l’azione dei caratteri in campo. I quali, tuttavia, proprio in quanto sottratti alle esigenze narrative più votate all’intreccio, assumono uno spessore psicologico complesso e intrigante, che si risolve in una focalizzazione introspettiva, consentendo al lettore di scendere nelle più recondite fratture del loro animo.

Già dai suoi primi tre romanzi erano evidenti la potenzialità narrative di Jon Fosse: l’esordio, Raudt Svart (Rosso, nero) si articola in numerosi salti temporali, e altrettanto frequenti cambi di prospettiva, per raccontare la ribellione di un giovane ragazzo nei confronti dell’ambiente pietista in cui cresce. Ma è con Stengd gitar, (Chitarra chiusa) secondo romanzo pubblicato nel 1985, che il nome di Jon Fosse si carica di una maggiore risonanza: la storia di una giovane madre, che, rimanendo chiusa fuori casa, si condanna a separarsi dal suo bambino di un anno, vive sulla pagina grazie alla descrizione allarmante dell’impotenza della donna, restituita con una tecnica narrativa basata su associazione di idee e stati d’animo che scorrono, lineari, sotto gli occhi del lettore.

Più complesso dei precedenti, e chiaramente più evoluto da un punto di vista stilistico, il terzo titolo dello scrittore norvegese si carica di contorni oscuri: Blod. Steinen er (Sangue. La pietra è) (1987) è costruito come un lungo monologo interiore che ruota attorno a un possibile caso di omicidio. «I miei romanzi erano così oscuri e densi che la poesia si fece strada a forza». E, infatti, i suoi versi portano chiara una sorta di necessità naturale, un’ineluttabilità di esistere, almeno sulla pagina.

Negli ultimi anni, la fortuna di Jon Fosse si è costruita soprattutto attorno alla sua produzione teatrale: il debutto avvenne nel 1994 al teatro di Bergen con il primo dramma, E non ci separeremo mai (Cue Press), che lo consacrò come uno dei più importanti drammaturghi della nostra epoca. Spesso inquadrati nel teatro post-modernista, i suoi stykk – come i norvegesi chiamano i testi teatrali – sono anch’essi figli di un inconfondibile stile scarno e pragmatico, che predilige ambientazioni quasi irreali, comunque scheletriche. I suoi personaggi, molto spesso anonimi, sono analizzati – anzi denudati – davanti agli occhi dello spettatore, privi di qualsivoglia barriera e liberi da imbarazzi, portando a galla i desideri, le paure e le passioni più nascoste del nostro subconscio. Torna, anche nelle battute dei personaggi portati sulla scena, l’insistenza sulle ripetizioni, già abbondanti nei lavori in prosa, con un effetto ritmico coinvolgente.

Il motivo per cui le anafore sono una prerogativa imprescindibile nel suo modo di scrivere, Fosse lo ha spiegato in una conversazione uscita sulla rivista «Prosopopeia», dell’Università di Bergen: «Le utilizzo in maniera del tutto involontaria. È la verità. Ho iniziato a scrivere dopo essermi interessato molto di musica; tentavo di riprodurre lo stesso stato d’animo che avevo quando suonavo… È per questo che è sbagliato intendere le ripetizioni come uno strumento narrativo, come un qualcosa di calcolato. Non è mai stato così». Questa naturalezza a cui Fosse fa riferimento è ben percepibile, per esempio, in drammi come Nokon kjem til a komme (Arriverà qualcuno) del 1996, in cui mette in scena una coppia di cui non conosciamo quasi nulla, nemmeno i nomi. I due, che nel testo vengono indicati come «Lui» e «Lei», si recano presso la nuova casa che hanno acquistato, vicino al mare, pianificando una vita tranquilla, lontana dal resto del mondo: vogliono stare soli, è questo che ripetono, ritmicamente, finché un uomo non si presenta bussando alla loro porta e sconvolge i loro piani. L’incontro riporta alla luce desideri nascosti, paure, abiezioni: Lui e Lei si trasformano nel corso dell’opera, mutevoli ed incerti come ognuno di noi.

Un’opera monumentale, che si compone di sette volumi, è in corso di traduzione per La nave di Teseo, che farà uscire, di qui a pochi giorni, il primo libro di questa Settologia, con il titolo Io e un altro (traduzione di Margherita Podestà Heir), che corrisponde ai volumi III-V dell’opera. Fosse prosegue tra queste pagine il racconto cominciato in L’altro nome (volumi I-II) il cui protagonista, Asle, è un pittore che vive sulla costa occidentale della Norvegia. Per Natale dovrà dipingere un’opera, e le aspettative riposte in lui lo forzeranno a rompere l’isolamento in cui si è rifugiato dopo la morte della moglie.

Del resto, la pittura è per lui un tramite per la conoscenza del proprio sé, qualcosa di realistico tanto quanto lo sono le fotografie, pur nella loro diversa concretezza. Il comparto introspettivo viene squadernato in Io e un altro più che in altre prove narrative, e come quasi sempre accade nelle pagine di Jon Fosse, il piano relativo alla propria identità, quello temporale e quello più meramente fisico sfocano i loro contorni scivolando l’uno nell’altro, fino a trasformare la narrazione in un onirico viaggio verso la conoscenza di sé.

Jon fosse
6 Ottobre 2023

Jon Fosse, il Nobel che viene dal rock e sussurra al buio

Camilla Tagliabue, «il Fatto Quotidiano»

Nella solitudine dei campi di cotone in cui vaga il teatro contemporaneo, driiin: l’Accademia di Svezia chiamò. A rispondere è Jon Fosse, norvegese, classe 1959, drammaturgo sopraffino prima ancora che venerato romanziere, fresco di Nobel per la Letteratura per aver «dato voce all’indicibile». Da Pinter a Jelinek, almeno a Stoccolma si ricordano di quell’arte chiamata drammatica, appena espunta, per dire, dal nuovo programma dell’italico Salone del Libro. Chiosa il «NYT»: «Fosse è uno di quegli scrittori che ti senti in colpa di non avere ancora letto». «Sorpreso, ma preparato alla felice evenienza», l’autore dal tipico humour nordico ha già detto «che dopo questo premio, non si arriva più in alto, è solo discesa».
Cresciuto nella Norvegia occidentale, tra i fiordi e la pesca, Fosse vive da tempo a Oslo, nella residenza concessagli dal re per meriti letterari, dall’esordio nel 1983 alle traduzioni in oltre 40 lingue, dalle pièce allestite ovunque ai tanti blasoni e riconoscimenti (due volte Premio Ibsen e Nynorsk Prize; European Prize; il Willy Brandt e il nostrano Ubu…).

«Quando la scrittura è buona ha in sé un dolore. L’arte si fonda su un temperamento malinconico». Con allegrezza artica Fosse debutta a 24 anni con un romanzo sul suicidio, Rosso, nero, mentre in altri suoi testi «si può dire per esempio / che quello che separa noi vivi da noi morti / è una cabina telefonica». Svedese. Credente, cattolico e con una spiccata avversione per l’educazione puritana ricevuta, il Nostro non è nato imparato: «Non ero bravo a scrivere, avevo cattivi voti: sono arrivato alla scrittura dal rock». E ora, sornione, dichiara per mestiere di «sussurrare nella tenebra», mercanteggiando col caos, la solitudine, la depressione, Dio. Antirealista, antipsicologista, Fosse si definisce un «minimalista»;di formazione filosofica più che letteraria, a parte le grandi sbronze: Bernhard, Beckett, Joyce e ovviamente il compaesano Ibsen, unico a batterlo come norvegese più rappresentato al mondo. «Non mi occupo della vita inconscia, ammesso che esista, m’interessa la relazione». Poi certo, le relazioni sono un inferno; non ci si capisce niente, non ci si capisce mai.

Approdato al teatro controvoglia — come i veri drammaturghi ne provava «avversione» — inanella una serie di «commedie», dice lui diabolico, di successo, di grande respiro, cioè da apnea e panico. I titoli sono laconici, lapidari: Caldo; Inverno; Il nome; Qualcuno verrà, seee… Lei, Lui, Uomo, Secondo uomo, Donna, Ragazzo, Madre: i personaggi non hanno nome, sono archetipici, ruoli perché appunto definiti dalla relazione prima che da sé. In Sogno d’autunno, ad esempio, tra i pochi visti su un palco italiano negli ultimi anni (Binasco, 2017), la trama gira di funerale in funerale, ammesso che i protagonisti non siano già morti. Ma la vita del corpo, per Fosse, conta poco, così come pensieri, emozioni e «sentimenti di merda».

Nei suoi Saggi gnostici (Cue Press) si legge: «Ci sono uomini molto sensibili che per questo non diventano buoni artisti, i più anzi non lo diventano, e io credo che molti di questi sensibili siano perdenti». Si muove nel tempo, Jon (ok lo fanno tutti i geni da Proust in su e giù), non nello spazio, come si evince dalla monumentale Settologia (2019-2021), il cui secondo volume è in uscita martedì con La nave di Teseo. Io è un altro c’entra con Rimbaud, al diavolo Lacan: è il flusso di coscienza di oltre 1.300 pagine di Asle, un uomo e il suo doppio. Tra gli altri romanzi, i più noti sono Melancholia e Insonni (Fandango): il primo è sul pittore Lars Hertervig; il secondo è un apologo breve, dall’asprezza biblica, su una coppia di adolescenti che vaga in cerca di un rifugio per la notte, ma nessuno è disposto a ospitarli: lui porta un violino in spalla, lei lo scandalo in grembo. «Così spariscono l’uno nell’altra e si sente solamente, debole, il vento tra gli alberi». Nella solitudine dei campi di cotone. Chissà dove.

19 Aprile 2021

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Stelle & Stars

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Il teatro di Totò, 1932-1946

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