Logbook
Approfondimenti, interviste, recensioni e cultura: il meglio dell’editoria e delle arti da leggere, guardare e ascoltare.


Il segno di Ustica. L’eccezionale percorso artistico nato dalla battaglia per la verità
Il segno di Ustica è un libro molto importante e per diversi motivi: da un lato, conserva la memoria del 27 giugno 1980 quando un Dc-9 dell’Itavia con ottantuno persone a bordo precipita in mare non per «cedimento strutturale» ma per essere stato abbattuto nel corso di un’azione di guerra tra aerei di diverse nazioni, alcune alleate con l’Italia; dall’altro lato, dà voce e respiro alla stessa memoria attraverso L’eccezionale percorso artistico nato dalla battaglia per la verità come recita il sottotitolo del volume curato con maestria da Andrea Mochi Sigismondi, una delle anime assieme a Fiorenza Menni di questo fondamentale progetto condiviso con l’Associazione dei parenti delle vittime guidata dalla caparbia Daria Bonfietti.
«L’incontro con la strage di Ustica – afferma il curatore – è una di quelle esperienze che sono in grado di cambiare la prospettiva attraverso cui guardi il mondo». Ed è la stessa sensazione che si avverte via via leggendo i tanti e variegati contributi di questo libro correlato da un eccellente apparato iconografico. L’impaginazione assembla materiali divisi per sezioni tematiche, per «costruire immagini mentali», perché «per percepire l’enormità dell’accaduto bisogna accostarsi a un relitto composto da migliaia di frammenti recuperati a tremilasettecento metri sotto il mare», sottolinea ancora Mochi Sigismondi.
La prima sezione del libro, preceduta da una luminosa intervista alla sociologa Daria Bonfietti, si apre con il percorso indirizzato a Il Museo per la Memoria di Ustica allestito a Bologna e inaugurato nel 2007 e dove trova ospitalità l’installazione permanente di Christian Boltanski. All’intervista alla semiologa Patrizia Violi, che spiega come l’arte e la cultura possano sviluppare nuove interpretazioni su Ustica, seguono quelle al sociologo Roberto Grandi e alla storica dell’arte Maura Pozzati.
In Il teatro, la musica e la danza, la parte più corposa del volume, si raccolgono gli spettacoli legati alla vicenda di Ustica avviati nel 1992 dall’azione collettiva Le Antigoni della terra, creata da Marco Baliani. A raccontarli sono gli stessi ideatori e interpreti attraverso la formula della conversazione. Tra i tanti, spiccano i nomi di Marco Paolini con il suo Canto di Ustica e I-TGI Racconto per Ustica, Giovanna Marini, Pippo Pollina, Virgilio Sieni con Di fronte agli occhi degli altri, Marta Cuscunà, Motus.
Di rilievo è anche il ricco materiale raccolto nel capitolo dedicato a La poesia, con le dichiarazioni di nomi di spicco quali Francesca Mazza, Mariangela Gualtieri, Enzo Vetrano, Elena Bucci e Marco Sgrosso, fino a Roberto Latini, che ricordano le undici edizioni della manifestazione Notte di San Lorenzo tenuta di fronte al Museo per la Memoria di Ustica con la partecipazione di prestigiosi poeti.
Significativa è anche la partecipazione delle Arti visive, a dimostrazione dell’urgenza comunicativa avvertita dagli artisti contemporanei italiani come bene spiegano Lorenzo Balbi – direttore dell’Area Arte Moderna e Contemporanea dell’Istituzione Bologna Museo – e Tomaso Mario Bolis, che introducono i lavori creativi illustrati da Flavio Favelli, Giovanni Gaggia, Giuseppe De Mattia, Lamberto Pignotti.
Simili al coro di una tragedi greca, il susseguirsi di queste voci – di attori, cantanti, ballerini, fotografi, studiosi, poeti, artisti, musicisti – rivela in maniera trasversale il contributo fondamentale dell’arte e dello spettacolo per la conservazione della memoria di quella maledetta strage, di quel volo spezzato, del suo precipitare negli abissi indefiniti, per poi trovare quella «insepoltura», che l’immaginario alimentato dalle arti sceniche e performative può rendere inimmaginabile per mantenere viva la coscienza civile unita alla rabbia di fronte alle tante menzogne dette e scritte.
Collegamenti
Enriquez: trent’anni di successi, dalla prosa all’Opera. I primi debutti al Piccolo. Poi in TV. E la Compagnia dei Quattro
Franco Enriquez (1927- 1980) è nato sei anni dopo Strehler, eppure, quando collaborò con lui, come assistente, credette di avere a che fare con un vecchio maestro, avendone intuito la grandezza. Era stato anche assistente di Visconti, ma lui si sentiva più vicino al fondatore, insieme a Grassi, del Piccolo Teatro, dove potrà vivere i suoi anni di «Accademia» e dove debutterà, come regista, a soli ventiquattro anni, con Cesare e Cleopatra di Shaw (1952), con la Compagnia Ricci-Magni.
Sempre al Piccolo, l’anno successivo, metterà in scena: Le veglie inutili di Giancarlo Sbragia, attore, ma anche autore, di cui si ricorda un bellissimo testo, Il fattaccio di giugno, 1967, andato in scena, sempre al Piccolo, con la sua regia.
Enriquez fu subito notato dai direttori della Rai, appena nata, scritturato per una serie di spettacoli teatrali che dovevano essere trasmessi dalla Televisione. Accettò, con la consapevolezza di utilizzare spazi e tecnologie diverse, tanto che le sue messinscene non potevano non risentire della sua formazione prettamente teatrale.
Nel 1954, primo anno di trasmissione della Rai TV, realizzò ben sei spettacoli, di autori come Goldoni, Shakespeare, Dostoevskij, Pirandello, ottenendo dei risultati sorprendenti, fino a raggiungere 18 milioni di spettatori.
Un volume, a cura di Paolo Larici, Franco Enriquez e il teatro di regia, edito da Cue Press, raccoglie una serie di testimonianze e di saggi critici che riportano al centro della storiografia teatrale la figura dell’artista fiorentino che seppe dare un notevole contributo a quella «regia critica» che, oltre a Visconti, Strehler e De Bosio, vantava dei continuatori proprio in Enriquez, Missiroli, Puecher, Tolusso, Cobelli, Puggelli, Pagliaro, e, successivamente, in Ronconi, Calenda, Castri, Lavia, Andò, Andrée Shammah.
Per trent’anni, libero da pregiudizi estetici, attento alla creazione di uno stile personale, Franco Enriquez è stato protagonista della scena italiana, imponendosi come un battitore libero, tanto da vederlo impegnato, oltre che negli spettacoli televisivi, anche nel teatro d’Opera, in Festival come quello del Dramma Antico di Siracusa, dove ha realizzato ben quattro tragedie: Le Fenicie (1968), Ippolito ed Elettra (1970), Medea (1972), il cui successo fu tale da essere insignito col Premio Eschilo d’oro, o in Festival come quello di San Miniato, dove realizzò Abelardo ed Eloisa (1978), con Glauco Mauri e Valeria Moriconi che ebbe un successo straordinario, tanto che Enriquez propose, per la stagione successiva, Conversazione con la morte di Testori, impresa impossibile, perché la morte lo colse l’anno dopo.
A Enriquez, dobbiamo alcuni spettacoli memorabili, a cominciare da La rosa di zolfo di Aniante, che debuttò al Festival di Venezia, al Rinoceronte di Ionesco, una novità straniera che fece esauriti in tutti i teatri d’Italia, grazie al quale, la critica gli riconobbe uno stile personale, oltre che un gusto particolare, per la sua capacità di alternare autori classici con autori moderni. De Monticelli scrisse: «Valeva la pena scendere quasi tutta la penisola per andare a vedere a Napoli Il rinoceronte di Ionesco che ha fatto registrare il tutto esaurito per diverse sere al Mercadante. È un risultato sorprendente, lo spettacolo è assai efficace nella sua rigorosa semplicità».
Enriquez vive, sulla pelle, il decennio 1968-78, con La Compagnia dei Quattro, con cui mette in scena altri autori poco noti, come Horvarth, Valle Inclan, Wescher, Durrenmatt, Max Frisch, il cui Andorra, una scelta controcorrente, visto il tema dell’antisemitismo, divenne una specie di consacrazione critica, poiché gli veniva riconosciuto anche il coraggio delle scelte. Dino Villatico, nel suo intervento, sostiene che Enriquez riusciva a dare un tocco universale alle sue messinscene ed aggiunge che «nel teatro di parola l’andamento sembra musicale, mentre in quello musicale sembra alludere al teatro di parola».
Michele Mirabella ricorda i suoi inizi accanto a Enriquez, come assistente alla regia, nel Macbeth, che ritiene una delle regie più belle, ammettendo che, grazie a lui, ebbe modo di capire la tragedia di Shakespeare, pur avendo letto e riletto le pagine del testo.
A Paolo Larici, curatore del volume, dobbiamo l’analisi delle varie versioni della Bisbetica domata, in particolare della prima edizione, quando Enriquez portò in scena la Compagnia dei Quattro su una Balilla, alludendo a un segnale critico e irriverente nei confronti del regime; la Balilla divenne il «moderno cavallo di raggiro, la perfetta trasposizione di una burla».
Giovanni Antonucci inquadra, storicamente, tutte le regie teatrali realizzate da Enriquez per la televisione, attribuendogli il merito di aver trovato un ritmo narrativo e drammaturgico che divenne uno stile, oltre che un modello, per altri registi televisivi. Claudio Di Scanno lo definisce un regista che ha sempre amato il rischio perché scavalcava «il confine della realizzazione scenica».
Il libro, oltre che riconoscere in Enriquez un maestro di regia, tanto che Riccardo Muti, all’inizio del volume, lo definisce «uno dei più grandi registi italiani», si caratterizza per I Diari del Premio Nazionale a lui dedicato e per una ricca iconografia.
Collegamenti
Ruan Lingyu, la diva che lasciò cinque chilometri di disperati
Un tempo cinema voleva dire, per noi, Europa e Stati Uniti. La globalizzazione ci ha insegnato da qualche tempo a modificare le nostre prospettive: il mercato indiano o quello cinese sono ormai importanti quanto quello americano, da cui però ancora dipendiamo, e anche nel mondo dei divi le cose stanno così. Se alcune star cinesi o indiane sbarcano di tanto in tanto sugli schermi hollywoodiani, la maggior parte di loro ci rimangono ignote.
In realtà un «altro divismo» c’è sempre stato, e ricorda fra l’altro un libro di Cristina Colet dedicato a Ruan Lingyu. La diva di Shanghai anni Trenta (Cue Press).
Alla fine della stagione del cinema muto, che in Cina durò fino alla metà degli anni Trenta, Lingyu incarnò un modello femminile in bilico tra vecchio e nuovo, tradizione e modernità. I suoi personaggi di donna sofferente, prostituta o ragazza di campagna traviata dalla città, furono il mezzo che permise a una generazione di registi di sinistra di fare un cinema impegnato utilizzando lo schermo del melodramma: dall’esordio nel 1927 con A Couple in Name fino ai trionfi di titoli come Tre donne moderne, Goodbye Shanghai! e soprattutto The Goddess, titolo più noto.
Stretta in un momento di passaggio e di rivolgimenti politici e ideologici (sono gli anni dell’occupazione giapponese di Shanghai), la fine di Ruan Lingyu fu tragica. Forse per ripicca verso lo spietato ritratto della stampa offerto nel film National Custom, l’attrice subì una violenta campagna scandalistica sulla sua vita privata. Si uccise l’8 marzo del 1935 con un’overdose di barbiturici, come un personaggio dei suoi film. Il suo corteo funebre, raccontano, era lungo cinque chilometri di uomini e donne disperati.
Performance: rito o teatro? Ma diventa arte, se dalla vita passa al sublime della scena. Vedasi anche Grotowskij
Dopo Introduzione ai Performance Studies, di Richard Schechner, con prefazione di Marco De Marinis, a cura di Dario Tomasello, Cue Press pubblica un volume dello stesso Tomasello e di Piermario Vescovo: La performance controversa. Tra vocazione rituale e vocazione teatrale, nel quale, i due autori, il primo docente di Storia della Performance, all’Università di Messina, il secondo docente di Storia del Teatro all’Università Ca’ Foscari di Venezia, ritornano sul «luogo del delitto», per cercare di chiarire il perché la categoria della Performance abbia un carattere controverso e, a volte, contraddittorio, subendo, per la sua pervasività, persino le angherie di detrattori. I quali preferiscono il teatro come testo e rappresentazione. Lo ritengono, infatti, un cardine esclusivo dell’esercizio della professione d’attore che ha seguito una scuola e che gli permette di essere considerato un professionista, al contrario del performer, che segue solo i suoi istinti e che si affida alle proprie capacità inventive che, spesso, si esauriscono nel momento in cui conclude la propria performance.
Perché leggere questo libro è importante? Proprio per non incorrere in certe banalizzazioni o, addirittura, nel rifiuto di una categoria complessa, oltre che multidisciplinare. Il performer è colui che viene colto nell’atto in cui compie o esegue una azione che può accadere in contesti diversi, dentro o fuori dal teatro, offrendo, in quell’occasione, una prestazione straordinaria. Ecco la parola magica che permette a tutti coloro che la compiono di essere chiamati performer, che possono venire, a loro volta, da professioni diverse; si va dal politico, al ginnasta, al calciatore, all’erotomane e, persino, al gestore dell’alta finanza, proprio perché ciascuno può vantarsi delle proprie prestazioni. Ciò vorrebbe dire che esista un abuso del termine e che lo si utilizzi in maniera controversa. I due autori, pertanto, si sono assunti il compito di eliminare il paradosso, ricercandone le origini terminologiche e gli usi che sono stati fatti durante i secoli, seguendo, però, come indagine, il lessico legato alla scrittura drammatica e distinguendo tra Performance Art e Performing arts, appartenendo, la prima, all’arte visuale, alquanto simile all’«Action painting», con la sua occasionalità, causalità e improvvisità, che può estendersi al teatro, la seconda da intendere come arte dello spettacolo che contempla la teatralizzazione dell’atto stesso. Vescovo è convinto che «performance» e «performativo» abbiano finito per coprire un campo molto esteso, addirittura senza confini, generando quegli equivoci che andrebbero ricercati in Goffman (La vita quotidiana come rappresentazione) e nello stesso Schechner.
Diventa, allora, necessario distinguere tra la Performance che appartiene alla vita, alla socialità, da quella che appartiene al teatro, fino a coinvolgere lo stesso Grotowskij, per il quale bisognava sostituire lo spettacolare col rituale e l’attore con l’attante. Dario Tomasello ritiene che esistano categorie, nelle quali, la Performance possa trovare un suo habitat e che fuori da queste categorie non sia catalogabile, chiedendosi, nel frattempo, quando si possa parlare di vera arte. La risposta è molto semplice: quando si accede a una dimensione sublime che coincida col sublime della scena, la stessa che è possibile trovare in Grotowskij, Barba, Carmelo Bene, De Berardinis e, persino, in Eduardo. Come studioso, Tomasello parte da Schechner, evita Lehmann che, nel suo Postdrammatico evita di parlare di Performance, per arrivare all’«intra-teatralità» e a un dubbio metodico. «Possiamo affermare, con assoluta convinzione, che la Performance reclami, perentoriamente, una specificità da opporre a quella del teatro di cui spesso si paventa la rarefazione?», trovandosi d’accordo con Lorenzo Mango e con De Marinis, per il quale esiste l’inutilità di una disputa terminologica, ma, forse, anche con Mackenzie, per il quale la Performance debba essere intesa come forma di conoscenza, benché Dario Tomasello sia convinto che possa ritenersi tale a livello disciplinare, ma non certo a livello storico, dato che la Performance è nata nel momento in cui un ur-performer decise di dialogare con la sua comunità, attraverso l’uso del corpo e della gestualità, mettendo le basi della ritualità sociale che, nel tempo, diventerà ritualità sacrale.
Collegamenti
Getta il libro, stringimi
Lodevole impresa quella di fornire finalmente al lettore italiano la traduzione di un’opera a tratti criptica nella sua complessità ma certamente affascinante. Akropolis è un testo poetico concepito per il teatro nel 1904 da Stanisław Wyspiański, drammaturgo e teorico del teatro, artista visivo, forse il maggiore esponente del modernismo in Polonia. Un saggio dello storico del teatro polacco Dariusz Kosiński fa luce sull’adattamento più famoso di questo testo per il teatro, messo in scena da Jerzy Grotowski nel 1962 in Polonia, fortunatamente ancora visibile in un filmato realizzato dalla tv americana nel 1968. Grotowski aveva così riassunto il senso del dramma di Wyspiański: «Akropolis si svolge sull’Acropoli e allo stesso tempo sulla collina del Wawel, ovvero, in altre parole, sul Wawel che è l’Acropoli polacca, dove l’intera tradizione europea, tutti i suoi motivi, sia della storia biblica che della storia antica, si sono dati una specie di appuntamento. Akropolis si svolge nel ‘cimitero delle tribù’. È proprio lì che assistiamo a un giudizio, per così dire, sui valori della cultura europea, su ciò che in essa è vitale e tragico.»
Il Wawel è la collina che sovrasta Cracovia, su cui sorgono una cattedrale e un castello reale che custodiscono i sepolcri e le testimonianze del glorioso passato della nazione. In Akropolis, alcune statue di questi sepolcri, ma anche figure rappresentate nei preziosi arazzi della cattedrale che raccontano storie della Bibbia e dell’Iliade, diventano nella fantasia del poeta i personaggi animati di una schermaglia poetica tutta basata sulla lotta tra il culto romantico dell’eroismo sublimato dalla morte, e la forza prepotente dell’amore, del piacere terreno. Per questo Wyspiański fa dire al personaggio della Fanciulla del monumento a Sołtyk: «Getta il libro, stringimi / e abbracciami, sorella! / Sii l’amato spirito / con cui stanotte vivo! / Cosa ti viene dagli stenti e dalle lacrime dei molti? E cosa dai supplizi del passato? (…). Getta via il libro, gettalo via / e diverremo, sorella mia, / vive, felici, incorrotte!». E poi ancora a Clio, musa della storia: «Via, libro – tortura e prigione / del pensiero e di ogni passione. / Hai avvelenato i cuori.»
E questo potrebbe essere uno dei motivi per cui un’opera in teoria così lontana dalla nostra sensibilità ci diventa subito familiare, poiché veicola la ribellione, paradossalmente abbatte i monumenti, o per lo meno ne scrolla via la polvere del patriottismo messianico. L’altro motivo è proprio l’idea stessa all’origine del testo, ovvero la «messa in movimento» delle icone immobili che rappresentano le idee e le credenze di un popolo, quello polacco, immerse in idee e credenze di provenienze antiche, come quelle giudaiche della Bibbia e quelle greche del poema omerico. Come rileva Ceccherelli, per questo si potrebbe auspicare addirittura che «poiché il ‘teatro enorme’ di Wyspiański nasce da un’immaginazione quasi cinematografica, che unisce luoghi, persone, cose, tempi in un insieme in movimento con effetti che la Decima Musa, come e più ancora di Melpomene, potrebbe realizzare in modo efficace, chissà che Akropolis, le cui qualità cinematografiche erano già state notate (…), non possa un giorno fornire una sceneggiatura intrigante anche per un film d’animazione, realizzato naturalmente al computer».
Attenzione però alla furia iconoclasta, che oggi come ieri sperimentiamo nel diffondersi della cancel culture, perché Wyspiański non ne è una vittima, al contrario. Quella di Akropolis infatti non è una passione, ma una resurrezione, essendo quello pasquale il rito a cui si riferisce la Grande Notte in cui si svolge il singolare concilio di statue e figure del mito. «Non è, quella di Akropolis, la Pasqua consueta, non riguarda le persone in carne e ossa. Tutto avviene sul piano dell’arte, della cultura: a dover ‘alzarsi dai morti’ (così letteralmente ‘risorgere’ in polacco) è la cultura polacca, ipostatizzata nel Wawel, che deve perdere la sua connotazione di sepolcreto della nazione». Un appello alla resurrezione per le sorti disgraziate di questo paese, perennemente in preda ai drammi della storia ma anche dilaniato da quelli tutti autoctoni della politica.
In bilico tra abissi, rive e seduzioni. Viaggio tra gli scritti di Vachtangov
Dopo gli scritti di Mejerchol’d (Cultura non è star sopra un albero. Mejerchol’d e il teatro dell’avvenire), Fausto Malcovati ci accompagna nella lettura dei brevi, frammentari scritti E. B. Vachtangov, personaggio forse meno popolare negli studi teatrali, ma pur sempre nodale nello sviluppo del teatro russo del primo Novecento. Il sistema e l’eccezione, pubblicato da Cue Press nel 2020, tenta di mettere in ordine e assegnare un percorso ai pochi scritti che di questo autore sono rimasti. Dagli appunti di pedagogia alle lettere, dalle note di diario alle regie. Un percorso accidentato, a tappe, nella vita dedita e minuziosa di un uomo del teatro e per il teatro. Nella lunga e dettagliata introduzione al volume, Malcovati ci avverte delle tematiche centrali del pensiero di Vachtangov, così come della poca organicità e della forte emotività che influisce sui suoi scritti. La biografia di Vachtangov è costantemente accompagnata dalla lotta contro una malattia subdola e invalidante. Numerose sono le lettere inviate dall’ennesima casa di cura, nelle quali l’autore si scusa per l’utilizzo della matita e per la calligrafia poco ordinata.
Molto presto nella lettura emerge il punto nodale della ricerca e dell’esperienza artistica di Vachtangov, ovvero il teatro come pedagogia. Dapprima da allievo, dedito e licenzioso, ammiratore entusiasta del Sistema stanislavskijano; poi da Maestro e da direttore dei numerosi studi che gli vengono affidati in uno stretto giro di anni; quello che emerge dai suoi scritti è un Maestro affezionato e generoso, ma anche severo, puntiglioso, spesso irascibile nell’invocare una disciplina, quella che lui definisce «studieità», che non riguarda soltanto la pratica teatrale ma che deve regolare tutta la vita degli studenti, in uno slancio totale nei confronti dell’arte e del teatro. Così come la narrazione è scandita dalla malattia che incalza e le sempre più rare dimissioni, così anche la psicologia dell’autore oscilla pericolosamente tra slanci di grande entusiasmo e iniziativa a pensieri di sconforto, delusione e angoscia. Tra le preoccupazioni principali di Vachtangov è il tempo che corre, la volontà di lasciare un’eredità il più possibile fertile, di farsi ricordare non solo come maestro ma anche come artista. Per Vachtangov la regia non rappresenta ancora, in questa fase, una disciplina autonoma, ma è a tutti gli effetti un’estensione della funzione pedagogica del maestro. Egli partecipa in prima persona alle rappresentazioni degli Studi, impara con i propri studenti, anche mettendo a rischio la propria autorevolezza e il proprio ruolo di regista. Negli appunti relativi alle regie la riflessione si concentra sull’attore e sul personaggio, lo spazio scenico viene chiamato in causa come correlativo contestuale dell’attore, come estensione della psicologia e dei temi dell’opera, in un’innovazione coraggiosa ma al contempo lontana, almeno nelle intenzioni, dalle sperimentazioni più ardite degli autori a lui contemporanei. L’aspetto pedagogico è preponderante in tutti i capitoli del libro, e va di pari passo con la rivisitazione critica dei maestri dello stesso Vachtangov, Stanislavkij, Suleržickij e Nemirovič-Dančenko, i cui modelli di insegnamento sono condivisi con ammirazione e entusiasmo, ma di cui sono criticati fortemente gli orientamenti registici, in una revisione sempre più forte di quel realismo che anche a Vachtangov appare, ormai, fuori tempo, e che viene rinnegato in favore di un nuovo e più consistente coinvolgimento dello spettatore e di una sua rinnovata consapevolezza nei confronti dello spettacolo, sulla scia di quello che stava teorizzando Mejerchol’d negli stessi anni.
Anche la Rivoluzione assume un volto nuovo negli scritti di Vachtangov. Complice la frammentarietà dei contributi di questo volume, essa giunge nel pensiero dell’autore quasi all’improvviso, con un discreto ritardo; nel momento in cui compare, però, assume un ruolo centrale, dirompente, soprattutto per quanto riguarda la concezione del rapporto tra attore e spettatore. A questo punto, a partire dalla messinscena dell’Erik IV, Vachtangov dichiara la fine dello studio della revivescenza stanislavskijana e inaugura un periodo di ricerca di forme teatrali: «Questo è il primo esperimento. Un esperimento a cui ci hanno spinto i nostri giorni, i giorni della Rivoluzione». La Rivoluzione, infatti, chiede un teatro fatto con il pubblico e per il pubblico, e soprattutto pone nuovi interrogativi, aprendo lo spazio a una riflessione inedita che si impernia sul termine «giustificazione». L’arte, con la Rivoluzione, non basta più a sé stessa; il naturalismo non è più scontato; la scenografia, le tematiche, gli attori non sono più scontati. Vachtangov non avrà mai il tempo di realizzarlo pienamente, ma intuisce perfettamente che a un mondo nuovo ciò che serve è un teatro nuovo, capace di «sentire l’oggi nel domani e il domani nell’oggi».
Collegamenti
Il segno di Ustica. In un volume le testimonianze d’arte e di teatro
Il teatro è uno straordinario strumento di coscienza civile. Nel quarantunesimo anniversario della strage di Ustica, piace perciò segnalare il volume, a cura di Andrea Mochi Sismondi, Il segno di Ustica. L’eccezionale percorso artistico nato dalla battaglia per la verità, pubblicato dalla casa editrice Cue Press (pagine 322, € 29.99). Il volume documenta e mette insieme quanto fatto — grazie all’attività propulsiva dell’associazione Parenti delle Vittime — per non far calare il sipario su Ustica, per non stancarsi di chiedere la verità dei fatti. In questo contesto le azioni artistiche, le performance, il confronto con le verità taciute e i silenzi coatti rappresentano un esempio di resilienza, la dimostrazione — trasformata in racconto e documentazione — di quanto l’agire artistico, il produrre poetico permetta di non abbassare la guardia, di essere vigili e pungoli della coscienza collettiva. Non è cosa da poco.
Memoria Ustica. Quarantun’anni fa la strage. In un libro le interviste agli artisti che non hanno mai smesso di interrogarsi
Gli anni passano, scorrono gli anniversari, ma la voglia di conoscere la verità non viene meno. L’anno scorso la cifra era tonda: quarant’anni dalla strage di Ustica, quest’anno sono quarantuno. Il 27 giugno 1980 cade un Dc-9 dell’Itavia con ottantuno persone a bordo. Non si tratta di «cedimento strutturale» né di esplosione interna: la verità, accertata giudizialmente ma ancora non riconosciuta in modo ufficiale, è che un aereo civile fu abbattuto nel corso di un’azione di guerra tra velivoli di diverse nazioni, alcune alleate dell’Italia. E che sul fatto fu stesa una cortina fumogena di silenzio.
In questi anni lunghi quanto la vita di un uomo maturo, l’Associazione dei parenti delle vittime, guidata da Daria Bonfietti, si è sempre battuta per la verità, per sensibilizzare l’opinione pubblica e per dare una dimensione al dolore. Lo ha fatto con battaglie giudiziarie, ma anche ricorrendo alle testimonianze e alle invenzioni delle arti, con rassegne di teatro, installazioni, concerti, serate dedicate alla poesia nella notte delle stelle cadenti. Caparbiamente ha voluto che intorno a i resti dell’aereo, recuperati dal fondo del mare, sorgesse il Museo per la memoria di Ustica, con l’installazione di Christian Boltanski. Da quando il Museo è attivo, davanti all’edificio, nel Parco della Zucca (via di Saliceto 3/22) si svolge ogni anno una rassegna dedicata alle arti. E anche quest’anno, fino al 10 agosto, si snoderà con spettacoli, concerti, incontri, a partire dall’installazione Battaglia aerea di Petri Paselli oggi, per proseguire con i danzatori Ginevra Panzetti e Enrico Ticconi, e poi con Ottavia Piccolo, Marco Paolini, Enrico Rava e Andrea Pozza, per concludersi con la serata di poesia di San Lorenzo a cura di Anna Amadori e Francesca Mazza. E dato che la memoria ha bisogno continuamente di essere coltivata per non deperire, intanto Andrea Mochi Sismondi, una delle anime, con Fiorenza Menni, di Ateliersi, ha raccolto oltre 50 testimonianze in un bel libro principalmente costituito di interviste, Il segno di Ustica, edizioni Cue Press. Sarà presentato nel Parco della Zucca il 15 luglio, in collaborazione con l’Istituto Parri. «L’incontro con la strage di Ustica è una di quelle esperienza che sono in grado di cambiare la prospettiva attraverso cui guardi il mondo», confessa l’autore nell’introduzione. Con la consapevolezza che lavora su «un fenomeno ancora completamente in corso», nel 2018 inizia il percorso che lo porterà al volume, attraverso «conversazioni con artisti e pensatori intorno alle motivazioni, alle esperienze e alle riflessioni nate dal lavoro sulle opere» presentate negli anni. E così nasce questo libro, che parte con un dialogo con Daria Bonfietti, si sviluppa con una descrizione del Museo, un’intervista a Boltanski, un’analisi con la semiologa Patrizia Violi di come l’attività artistica può ridefinire la percezione della strage, con interventi di Roberto Grandi e Maura Pozzati, e quindi intervista gli artisti che dal 1992 hanno creato spettacoli sulla strage o partecipato alle rassegne o fatto foto come Nino Migliori: da Marco Paolini e Giovanna Marini a Virgilio Sieni e Simona Bertozzi, a organizzatori come Ruggero Sintoni e Cristina Valenti, ai registi della serata di poesia, da Mariangela Gualtieri e Vetrano-Randisi a Paolo Billi.
Il libro sottolinea come l’arte sia un’importante sostituzione dell’esperienza del cordoglio, dato che il luogo della strage, tra i cieli e gli abissi del mare, non si può visitare. E allora, su quell’idea di volo spezzato, di caduta, di violenza, di «insepoltura» è l’immaginario a fornire fili per configurarsi l’inimmaginabile. Sottolinea la necessità di trasformare il dolore e la coscienza individuale in narrazione e consapevolezza collettiva, continuando a denunciare depistaggi e silenzi. Il volume sposa pienamente la prospettiva dell’Associazione parenti di n on puntare sul lutto privato ma sulla dimensione pubblica dell’evento, continuando a denunciare l’incapacità dimostrato dallo Stato di tutelare i propri cittadini. Considerando, infine, come la vicenda di Ustica non comporti solo uno sguardo al passato, ma chieda l’occhio aperto su un presente ancora di false notizie, di verità dimezzate, per un futuro differente.
Il segno degli artisti per Ustica. Andrea Mochi Sismondi ha raccolto decine di interviste a chi ha reso unico il Museo della Memoria
Chi è stato, chi ha abbattuto l’aereo civile in volo da Bologna a Palermo la sera del 27 giugno 1980, non lo sappiamo ancora. Sono trascorsi quarant’un anni, domenica ricorre l’anniversario della strage di Ustica e le domande, non meno dolorose né meno urgenti, si rinnoveranno poi, di sera in sera, lungo il calendario d’iniziative culturali. Coltivare il ricordo per giungere alla verità completa, informare per mantenere viva la consapevolezza di cosa può accadere quando lo Stato infrange il patto democratico di cittadinanza: è quel che Daria Bonfietti, presidente dell’Associazione dei parenti delle vittime, chiama «fare memoria». Nel corso degli anni il suo «fare» ha incontrato e sollecitato il «fare» di centinaia di artisti. È stata una scelta di campo e uno strumento di coinvolgimento tenacemente perseguiti. Un libro, Il segno di Ustica, curato da Andrea Mochi Sismondi, autore, regista e attore, pubblicato da Cue Press, ne restituisce ora la polifonia di voci, e ne configura il futuro. Sono decine di interviste, a registi, cineasti, coreografi, musicisti, poeti, amministratori, scrittori, studiosi, curatori che hanno preceduto e accompagnato la creazione del Museo per la Memoria, che lo hanno abitato con le loro opere, con gli spettacoli ospiti delle rassegne estive, con i reading poetici,con i premi teatrali.
Nel 2006, quando Daria Bonfietti e Andrea Benetti incontrarono Christian Boltanski, l’artista francese aveva già legato il suo nome a visioni indimenticabili dell’assenza, della vita perduta e del perdurare della memoria. Quell’anno il relitto del Dc-9 era giunto a Bologna da Pratica di Mare, dove erano stati assemblati duemila ottocento frammenti recuperati dai fondali marini, e raccolti gli oggetti personali delle ottantuno persone la cui vita era stata interrotta da «un episodio di guerra in tempo di pace», come aveva stabilito la sentenza ordinanza delgiudice Rosario Priore.
L’installazione permanente che Boltanski decise di donare, e che ha trasfigurato il museo del relitto in una veronica di profondo lirismo, rappresenta un culmine. Ma tutt’attorno si raccoglie una moltitudine di testimonianze d’arte, quante mai un evento storico ne ha suscitate dal secondo dopoguerra a oggi. Un percorso unico, che le trecentoventi pagine de Il segno di Ustica ricostruiscono, con le parole di Franck Krawczyk, Nino Migliori, Marco Paolini, Giovanna Marini, Virgilio Sieni, Mariangela Gualtieri e Cesare Ronconi, Marco Risi, Pippo Pollina, Andrea Purgatori, Flavio Favelli, Michele Serra, Enzo Vetrano e Stefano Randisi, Motus, Niva Lorenzini, Pietro Floridia… Le interviste raccolte da Andrea Mochi Sismondi – che in un capitolo, intervistato a sua volta, evoca lo spettacolo De facto , ideato con Fiorenza Menni a partire dal testo della sentenza – mettono a fuoco l’avvicinarsi, il motivarsi e il confrontarsi degli artisti con l’indicibile della strage. Vi sono elementi ricorrenti, nel loro «fare», a iniziare da una sorta di scarto emozionale, di lato e verso l’alto – e verso l’altro. Gli autori danno vita a lavori originali che mutano la traiettoria dei loro itinerari; il linguaggio di una sentenza diventa drammaturgia; un dolore privato si trasforma in battaglia civile. È una diastole e sistole, come il ritmo luminoso delle ottantuno lampade che nel Museo acquistano e perdono di intensità, come il battito di un cuore, dentro e fuori le pareti di un memoriale, nel corpo della città e della nazione.