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19 Ottobre 2023

La massa come ornamento [II parte]

Gabriele Perretta «segnonline»

Per la prima volta pubblicato integralmente in Italia, in una coloratissima e decoratissima edizione, la Cue Press di Imola ci fa leggere: Siegfried Kracauer, La massa come ornamento, pref. di E. Morreale e tr. it. di M.G.A. Pappalardo, C. Groff, F. Maione, S. Parisi, 2023; testo dedicato ad Adorno e uscito per la prima volta a Francoforte nel 1963. In quest’opera, divenuta ormai un classico del saggismo novecentesco, S. Kracauer offre al lettore una chiara e interessante interpretazione delle tendenze sociologiche e morali che portarono all’affermarsi della critica del moderno. In particolare, come lo stesso Adorno osserva, nel corso degli anni Venti, assai prima di Jaspers e Heidegger, Kracauer lascia intravedere un progetto esistenzialista, che per un verso capitalizza sulle frequentazioni di Kierkegaard, per altri aspetti si sviluppa grazie all’innesto di queste suggestioni sulla riflessione marxista. Ciò non deve stupire se si considera che, riferendosi proprio a quel decennio, G. Lukács parlava di una «Kierkergardizzazione del giovane Marx». Se nella valutazione di Kracauer si adotta una prospettiva genealogica, ci si rende conto di come le sue scelte critiche originino da un bilancio quasi trentennale delle contemporanee vicende biografiche.

La potenza iconica della parola di S. Kracauer – l’autore di La massa come ornamento – non si è affatto affievolita. Quando l’immagine compare dietro alle parole che scorrono nella metropoli berlinese, è tutto un fiorire di significati eccezionalmente forti e prorompenti. E di certo l’effetto si è ripetuto sugli scaffali delle librerie, grazie a questa nuova edizione, quando il magnum opus della casa editrice Cue Press lo ha editato. Per Siegfried Kracauer la società non è un semplice vincolo di individui, e non è neppure un qualcosa di metafisico, essa, piuttosto ci introduce ai termini di sociation (associazione) e forms (forme) ed è quindi composta dalle persone e dalle loro interazioni; e pensando al termine interazione condiviso da Simmel egli allude alla reciprocità delle relazioni umane osservate in La Massa come ornamento. Per S.K. la società consiste nell’interazione delle persone. La descrizione delle forme di questa interazione (o azione reciproca) è il compito della sociologia formale; il metodo è astrarre le forme di società. Esso, come direbbe Simmel, segue la strada di una grammatica, che isola le forme pure di linguaggio dal contesto per mezzo del quale queste forme, nonostante tutto, prendono vita. I gruppi sociali che presentano enormi differenze di scopo e significato generale possono, tuttavia, mostrare casuali forme di approccio, tramite l’interazione dei loro singoli membri. Scopriamo superiorità e subordinazione, competizione, divisione del lavoro, formazione di partiti, rappresentazione, intima solidarietà unita a diffidenza verso l’esterno; innumerevoli sono gli aspetti simili nello stato, nella comunità religiosa, in una banda di cospiratori, nell’associazione economica, nella scuola d’arte, nella famiglia. Per quanto diversi siano gli interessi che portano alla creazione di queste associazioni, le forme in cui gli interessi vengono realizzati possono tuttavia essere identiche.

Da tali interazioni umane, S.K. affermava, noi dovremmo estrarre quegli elementi che sono comuni a diverse situazioni e avvenimenti, come la competizione e subordinazione. I suoi scritti raccolti ne La massa come ornamento hanno la forma di saggi sulle varie conformazioni sociali o i loro aspetti. Molto spesso egli esamina il profilo di un rapporto in gruppi di diverse misure. Il pensiero sociologico-visivo di S.K. è di genere riflessivo, con frequenti riferimenti ad esempi che illustrano le sue affermazioni. In effetti, il suo caso fu insolito e unico, una stella solitaria nel firmamento della critica moderna, e certamente vale la pena di leggerlo per i molti e diversi modi in cui egli ha considerato la vita sociale e gli aspetti nuovi che ha messo in risalto. Nell’introduzione dell’aprile ’22 ai Saggi di Sociologia Critica scrive: ‘Il mondo dell’uomo socializzato che la sociologia cerca di comprendere secondo il suo principio costitutivo appartiene ad una sfera che potrebbe essere definita in un senso particolare come sfera della realtà, cui in ogni caso la realtà accessibile alle scienze naturali è subordinata. […] Definendo provvisoriamente la sfera della realtà come sfera della trascendenza e la sfera in cui si muove la sociologia in quanto scienza come sfera dell’immanenza, risulterà che la sociologia sarà costretta al tentativo paradossale – e di impossibile realizzazione – di passare dalla sfera dell’immanente a quella del trascendente, dal vuoto spazio del pensiero puro allo spazio pieno della realtà sovrastato da un senso altamente trascendente; in questo passaggio non sacrificherebbe il principio di scienza che la costituisce. In altre parole la sociologia – e non solo la sociologia – tende ad impadronirsi per mezzo di un materiale categoriale valido esclusivamente nel campo dell’immanenza di una zona che non può venir costituita direttamente da queste categorie; essa deve perciò maturare risultati che non ricoprono adeguatamente la sfera della realtà’ (Prefazione a Sociologia come scienza in Saggi Critici (1971), De Donato, Bari, 1974, pp. 4-5). K. era stato uno dei primi a cogliere l’importanza della sociologia simmeliana, pur disapprovandone, in chiave fenomenologica, lo psicologismo. La sociologia di Simmel con la sua attitudine per le indagini al microscopio, gli sembrava un’ottima via di accesso alla realtà. 

K. coglieva esattamente l’elemento innovativo dello sguardo simmeliano, l’aderire alle cose senza dissolverle nella totalità, e anche la specifica inquietudine della sua posizione filosofica. Le ricerche di K. sul mondo degli impiegati e dei piccolo-borghesi berlinesi, centrate in chiave politico-esistenziale sull’alienazione metropolitana, avevano ripreso la via d’accesso simmeliana, ma radicalizzandola. In realtà K., che rimarrà fino alla fine un nomade, tra filosofia e sociologia, tra marxismo e fenomenologia, non si libererà mai dell’impronta di Simmel. Ciò appare non solo nei suoi saggi descrittivi (che restano un esempio insuperabile di sociologia dell’attualità) e nel suo grande affresco su Offenbach e la Parigi del Secondo Impero, ma anche nei suoi romanzi – che costituiscono il corrispettivo letterario di quelle indagini – e soprattutto nella sua opera incompiuta di filosofia della storia, Prima delle cose ultime, una celebrazione dell’avventura storiografica come liberazione dagli ultimi concetti di metafisica della storia, come ricerca negli spazi interstiziali e discontinui delle vicende storiche, tra realtà effettuale e virtuale, in una dimensione affrancata sia dall’empirismo sia dall’idealismo. Eppure, Simmel avrebbe potuto sottoscrive le parole di K.: ‘Unitamente alla mia critica del concetto di storicità, per un’adeguata valutazione dei modi di pensiero che sono tipici di uno spazio intermedio, si può usare con profitto la mia argomentazione concernente la struttura omogenea dell’universo intellettuale. Per sintetizzare le conclusioni di questa argomentazione, le verità filosofiche non coprono pienamente i casi particolari che sono logicamente sussumibili sotto di esse. Nonostante la loro elevata generalità, hanno un raggio limitato. Pertanto il particolare significato e la dignità che esse conseguono al proprio livello, non necessariamente sminuiscono il significato e la dignità di molte visioni o giudizi meno generali’ (edizione americana: 1969; Prima delle cose ultime, Marietti, Genova, 1985, p. 168).

La manipolazione delle immagini, la loro elaborazione grafica è ciò che caratterizza la produzione artistica del «fotografico kracaureriano», nella prima parte de La massa come ornamento, quella ambientata con l’occhio nella città (i cui spazi architettonici asettici si contrappongono al barocco carico di storia). Lo dice chiaramente a un intimo amico che gli mostra le sue fotografie: «Mi sta dicendo che devo elaborare di più l’immagine?», «Esatto. Potrebbe diventare un quadro». Il viaggio del doppio kracauereriano verso la città moderna è allora un percorso a ritroso verso la riscoperta di uno sguardo diretto, ‘innocente’ (riscoperta che metaforicamente avviene anche grazie all’incontro con la letteratura e la sociologia), di un’immagine ancora capace di essere ‘indice’ e non simulacro. Come già nel primo articolo su Simmel della raccolta, anche nel saggio La Massa come Ornamento la denuncia di K. è chiara: la proliferazione delle immagini e degli strumenti per produrle, non costituisce un incremento di conoscenza del mondo ma, paradossalmente, ne impedisce la visione conducendo alla cecità, come accade, letteralmente, al personaggio di Ginster. Il primo romanzo di Kracauer, Ginster, che l’autore definisce un’autobiografia anonima, mette in scena un giovane architetto, un alter ego di Kracauer stesso, disgustato dalle implicazioni commerciali dell’architettura e dalle cellule abitative seriali che l’architettura produce per la pianificazione urbanistica della Germania di Weimar. Traumatizzato dagli effetti devastanti della guerra sul fronte interno, Ginster non crede alla costellazione dell’interiorità, residuo dell’idealismo, e cerca invece negli artefatti e nelle superfici degli oggetti uno stimolo verso una sintesi di estetica e progettualità politica. Nella sua ricerca di una solidarietà organica ma non naturale e la diffidenza verso lo Stato di Weimar, si possono individuare interessanti analogie con il pensiero e la prassi di quella che nei nostri ultimi anni è stata spacciata per biopolitica. Un sapere territoriale da assemblare grazie all’apporto di materiali grezzi, ovvero frammenti di testo irriflessi: questo è quanto cerca Kracauer nella fotografia utilizzata letteralmente come apparecchio sostitutivo della visione. Egli dimostra pertanto di poter convivere con il carattere «geneticamente sfuggente» degli indizi raccolti e, allo stesso tempo, non disdegna la possibilità di un uso simpatetico dell’immagine, come quella che Barthes riannoda all’ipotesi del punctum. E queste affinità contribuirebbero a far coincidere Ginster, che Kracauer qualifica come biografia anonima, con una raccolta di «biografemi».

Scrive brillantemente Barthes: ‘La Fotografia […] mi permette di accedere a un infra-sapere; mi fornisce una collezione di oggetti parziali e può sollecitare in me un certo qual feticismo: infatti vi è un ‘io’ che ama il sapere, che prova nei suoi confronti come un gusto amoroso. Nello stesso modo, io amo certi aspetti biografici che, nella vita di uno scrittore, mi affascinano al pari di certe fotografie; ho chiamato questi aspetti ‘biografemi’; la Fotografia ha con la Storia lo stesso rapporto che il biografema ha con la biografia.’ (Roland Barthes, La camera chiara, Einaudi, Torino 2003, p. 12). Il biografema di Barthes è la facoltà di pensare del Raum-Bild nella sua essenza biografico-relazionale e, come tale, giustifica anche l’apparente vuoto del protagonista nella costruzione, solo esteriormente realistica, del romanzo Ginster. Inoltre, le implicazioni fanatiche dell’immagine, dichiarate da Barthes, accentuano la connotazione iconica di questa trasposizione, cui Kracauer non è immune, visto che sia le fotografie degne del punctum sia i personaggi come Ginster possono essere considerati alla stregua di oggetti confessionali.

Di che cosa si tratta? Sostanzialmente di oggetti di culto, predisposizioni di uno stretto sentimento maniaco ed artistico fra presenza e assenza. Sfera pubblica ed esperienza, di O. Negt ed A. Kluge, che uscì in Germania nel 1972, parlava di industria della coscienza e di una possibile attualizzazione de La Massa come ornamento. Se partiamo dai punti più recenti della crisi della sfera pubblica – ormai da più parti riaffermata e riconosciuta, proposta, analizzata, prodotta – dobbiamo rilevare che essa non è cosa nuova. Se il pensiero della critica dell’alienazione si presenta anche come un momento della storia della ragione moderna, fin dall’inizio esso ne condivide alcuni caratteri e, quando quella ragione mostra la sua crisi, questa stessa attraversa anche la critica dell’economia politica. A che cosa serve allora, nella vita quotidiana, la voce sociologia attribuibile a Talete? Serve a pensare, come direbbe S. Kracauer. Ora, pensare è un’attività a cui ci dedichiamo con una certa frequenza. Tanto vale a questo punto, farlo con precisione, con rigore, sgombrando il campo dai luoghi comuni che ripetiamo. D’altra parte, l’approfondimento dell’esperienza soggettiva delle «masse come presa della parola» o come ornamento, la ricerca intorno a una figura non astratta di soggetto, centro dell’attività fantastica oltre che reale, nesso dei bisogni e dei desideri, da dove proviene se non dalla domanda e dal realismo di Das Ornament Der Masse. Oggi Ken Loach è molto efficace nel mostrare come l’ideologia «dominante dell’imprenditore di se stesso» sia profondamente penetrata nella massa come ornamento ed è coerente – a maggior riprova del suo ‘verismo’ – ad assumere in questo il punto di vista del ‘realismo sociale fuori dall’arte’. «La tecnica consapevolmente funzionale» dice Ernst Bloch, in Spirito dell’Utopia, «porta tuttavia, in determinate condizioni, alla significativa liberazione dell’Arte, sia dagli eccessi di stile e della retorica del passato, sia dalla nuda forma funzionale». In altri termini, la dimensione prettamente tecnologica degli oggetti cinematografici e di uso o fruizione quotidiana può essere letta in termini ambivalenti ma derivanti dalla stessa radice, l’uno squalificante dell’altro: si tratterebbe di una vera lotta tra le masse e gli ornamenti, tra esistenze e pericoli simulacrali. Da una parte c’è il pericolo dell’uniformità, dell’omologazione generale, quindi della perdita dell’individualità, ma dall’altra la possibilità che questo processo riveli l’immagine-cinema nella sua verità politica, come nel caso di Loach, permette all’Arte di essere nuovamente Arte, liberandola dalla schiavitù dell’utilizzabilità. Ogni zona o aspetto della società umana possiede una serie di qualità e di complicazioni che sono ad essa peculiari e possono trovarsi in altre aree solo in modo sporadico e marginale. I gruppi costituiscono un dato così fondamentale per l’immagine contemporanea che numerosi studiosi hanno definito la loro espressione emergente come la fotografia de La Massa Come Ornamento. Anche se altri preferiscono porre in evidenza quell’aspetto dell’immagine che si riferisce al comportamento sociale come basilare per la sua definizione, è ancora possibile aderire al punto di vista di S. Kracauer, secondo il quale l’idea di gruppo è Das Ornament der Masse (1963). Combutte informali di salariati in una fabbrica, in una situazione di agitazione operaia o di fruizione conflittuale, possono dare origine ad un potere non ufficiale, col quale tanto la classe media quanto quella sottoproletaria devono venire a patti. Molti degli sforzi dell’osservazione simmeliana, in un modo o nell’altro, mirano a spiegare i motivi per cui si verificano tutti questi fenomeni. Il solo gruppo, che non è un sottogruppo, è la società stessa. Una società costituisce il gruppo e la massa come ornamento più vasto possibile e proprio per questa ragione, può essere piuttosto sfumato, impreciso o addirittura ornamentale. Società della massa, o massa in società è un concetto molto più chiaro se riesce a confrontarsi con una collettività i cui confini sono facilmente visibili come avviene per certe tribù. Georg Simmel abbordò questa questione, quando studiava il problema di ciò che chiamò ‘incrocio di circoli sociali’, cioè il sottoporsi e l’intrecciarsi dei gruppi visti dalla posizione dell’individuo, nel quale tutti questi circoli vengono ad incontrarsi.

Il comportamento sociale è un espressione opportunamente non ben definita, perché include sia il livello animale della specie umana, sia quel livello che sembra distinguerla dalle altre società animali: la cultura. A livello della cultura, è forse più adeguato parlare di azione sociale. Quella di Max Weber è divenuta la definizione modello: l’azione sociale “ è quasi atteggiamento o comportamento (verhalten) per quanto l’agente o gli agenti attribuiscono ad essi un significato (sinn) soggettivo”. Dallo studio della fotografia, passando a brillanti analisi sociologiche del rapporto tra pubblico e affermazione del grande schermo, fino ai profili densi e pluriespressivi di artisti e pensatori come Benjamin, Kafka o Simmel, la nuova edizione de La massa come ornamento di Kracauer (acutamente curata da Emiliano Morreale e per la prima volta pubblicata integralmente in Italia presso una brillante casa editrice come la Cue Press di Imola) raccoglie tutte le perle saggistiche di un maestro degli studi culturali del ‘900. L’interesse del singolare pensatore che come Adorno, Benjamin, Bloch pratica la scrittura letteraria, il saggio scientifico breve, l’invettiva, il pamphlet, la critica epistemica e il corsivo empirico, si concentra sul comportamento sociologico dei gruppi e delle classi sociali emergenti, in particolare la tendenza a definire i prodromi del «loisir» che nel corso del ‘900, nella prossima età del consumer e del prosumer, modificheranno gli statuti sociali delle moltitudini, disaggregandoli e frantumandoli in una collettività di individui.

Sigfried Kracauer (1889-1966), è certamente uno degli studiosi tedeschi afferenti alle discipline filosofico-sociologiche e storico-mediologiche più noti e bistrattati in Europa. La sua biografia intellettuale e culturale, così sorprendentemente densa di sviluppi repentini e audaci, la sua produzione letteraria e scientifica, fortemente contrassegnata da aperture coraggiose (espansioni, spaziature e rivoluzioni paradigmatiche) e slanci innovativi, il dispiegarsi del suo pensiero, vicino ai francofortesi ma nel contempo marcatamente eterodosso, nel quadro di una serie di questioni pluriproblematiche e pluridisciplinari, che ne hanno connotato tanto il vissuto umano e politico quanto la cifra teorico-metodologica più profonda, hanno alimentato gli interessi di ricercatori afferenti a campi disciplinari piuttosto variegati tra letterature, arti visive e cinema, non sempre tra loro convergenti. Il piccolo laboratorio storiografico, che si è tratteggiato intorno allo studioso tedesco, sebbene venga costantemente arricchendosi e sempre più estesamente articolandosi, non è stato sinora sottoposto ad alcuna organica “rassegna critica”, se non a quella animata da alcuni miei studi espositivi! Rispetto ad Adorno, è possibile delineare quanto al tempo dell’uscita di Prismi (1982), ebbi a dire relativamente alla storia della costruzione di Città senza confine (1984), mostra caratterizzata da una densa dimensione antropologica della tecnica mediale in progress e da un groviglio di storiografia iconico-letteraria! Non è questa la sede per analizzare i termini che hanno connotato la relazione stretta fra Kracauer e il Medialismo, perché evidentemente né un solo saggio e neppure un solo obiettivo semiotico vi potrebbero fare fronte. Doveroso e inderogabile, tuttavia, è sollevarne l’urgenza, mentre assolutamente fattibile sembra una preliminare operazione di alcuni indirizzi di lavoro, da assumere quali punti di partenza per successivi e maggiormente «mirati approcci mediali».

La linea critico-mediale Kafka-Simmel-Benjamin qui individuata, che conduce al Kracauer giornalista, biografo, storico delle origini della fotografia e del dispositivo cinematografico, merita di essere analizzata e meglio definita, poiché proprio da essa è il caso di partire per svolgere alcune riflessioni dal valore più ampio, e per introdurre un costrutto concettuale su cui ha inteso fare leva Monreale e intendiamo fare leva noi del bisogno di ‘atractio electiva’, di ‘rédemption et utopie’! Come dice Michael Löwy, l’affinità effettiva non si sviluppa nel vuoto o nel pieno della pura spiritualità, essa è favorita (o sfavorita) da condizioni storico-sociali di riflessione sulla comunicazione. Se l’analogia e la parentela in quanto tale dipendono unicamente dal contenuto spirituale delle strutture significative in questione, il loro entrare in rapporto alla fotografia e al cinema o alla condizione mediale, quindi la sua interazione dipendono da circostanze socio-economiche, politiche e culturali precise. La lettura goethiana (intendo riferita alle Affinità Elettive) di Kracauer, ovvero la celebre tesi che chiude la visione de La Massa come Ornamento con la dialettica tra favola e verità, ha rappresentato effettivamente un punto di discussione che molti studiosi hanno inteso interrogare per far luce sulla matrice semiotica kracaueriana. Se la relazione Kracauer-Bloch-Benjamin ha costruito una direttrice essenziale in questo asse disciplinare, (plurimediale) meno importante risulta un secondo ambito di interessi, che ha inquadrato la discussione nel perimetro delle istanze iconiche e delle “strutturalità fotografiche.

Non c’è dubbio che il nodo di questo libro di S. Kracauer, La Massa come ornamento (1963), sia rappresentato dalla parola «massa» e dalla definizione di «ornamento», termini che si sono andati ad inserire, in modo imprevedibile e con esiti poco ipotizzabili tra due categorie della critica novecentesca. Ci si potrà chiedere se qui ‘massa’ e ‘ornamento’ siano proprio quel versus cui ci hanno abituati i saggi di sociologia industriale; ci si potrà affidare alla metafora di una collisione cosmica, immaginando due astri via via deviati dalle loro orbite, sino al catastrofico crash finale in cui siamo calati adesso. Resta comunque significativo, che Simmel e Kracauer, esploratori di ambiguità, vengano contrapposti in un tempo per eccellenza ambiguo, anzi rassegnato al proliferare di soluzioni che precedono i problemi. Appare opportuna la determinazione di parametri spaziali e temporali: nella lingua di tutti i giorni, si qualifica come concreto ciò che si può vedere e toccare e astratto ciò che esiste solo nel nostro pensiero. Nella vita quotidiana, si ritiene che ciò che è concreto sia l’individuo umano, il suo lavoro e così via, mentre la società e il lavoro sociale sono considerate astrazioni. Dunque, in questo senso, le persone sono per natura esseri sociali, ed è assurdo tentare di spiegarlo partendo da individui unici, dato che questi non possono che esistere in società. Nessuno può sfuggire al vissuto della propria società, vale a dire alla riflessione politica. Non partecipare a questa domanda, significa accettare la società così com’è, come se fosse perfetta e definitiva e, dunque, contribuire a che non evolva affatto; e questa è una presa di posizione. Così la sociologia dimostra che ci sono questi fondamentali a cui tutti hanno il dovere di rispondere, o addirittura a cui condizionatamente o incondizionatamente rispondono.

Andiamo oltre: è sufficiente scegliere una cosa piuttosto che un’altra per essere liberi? Si è visto che scegliere senza avere coscienza della propria libertà, o della propria massificazione non può costituire un libero vivere. La questione della massa si presenta sempre in rapporto a l’ostacolo dell’ornamento. Per esempio, una cecità metropolitana diminuisce e alimenta le mie facoltà di ribellione; voglio conquistarmi, ritrovarmi, per raggiungere il mio scopo. La ricerca della libertà dall’ornamento appare, allora, come un processo infinito di visualizzazione e di liberazione. Questo vale per un individuo, per una massa, per un artista, per l’umanità intera: l’emancipazione dalla massa e soprattutto dal farsi metropolitano di un ornamento, come nelle foto dei migranti storici e in quelle dei deportati, economici, giuridici, sociali, politici eccetera… danno ogni volta agli uomini la possibilità di superare le costrizioni, a condizione di seguire alcune regole (scientifiche, sociali, morali) alle quali si decide o no di sottomettersi. Adolf Loos, un appreso costruttore austriaco tra i padri dell’Architettura moderna, guidò per tutta la vita una battaglia contro l’ornato come forma di decorazione inutile. Togliere l’ornamento da qualsiasi cosa, che sia un vestito, un mobile, una casa o una forchetta. Probabilmente, l’origine di questo pensiero nasce da un viaggio negli Stati Uniti, in particolare a Chicago, dove avrà la possibilità di conoscere le architetture di Sullivan, il vero precursore delle strutture in acciaio. Nel 1910 venne pubblicato il suo dissacrante libro contro la Secessione, dal titolo ‘Ornamento e Delitto’. In questo piccolo saggio Loos chiariva le cause per le quali qualsiasi tipo di addobbo non fosse altro che l’uso di un mancato apprestamento culturale. A questa architettura, Loos preferisce la sobrietà dei volumi basici ma adeguati, per degli spazi meditati e soppesati. Nel suo scritto afferma che ‘l’evoluzione della civiltà è sinonimo dell’abolizione dell’ornamento nell’oggetto d’uso’. A differenza di Loos e di Kracauer, Bloch usa la ‘profondità ornamentale delle creazioni umane’ (non solo opere figurative, ma soprattutto architetture, oggetti di design…) per seguirne in profondità le radici fino ai punti vitali della cultura, delle progettazioni del mondo e dell’esistenza. Bloch traccia una significativa ontologia dell’ornamento. Si inserisce nel dibattito novecentesco sull’argomento con una posizione tutt’altro che manichea o semplicistica e senza nulla concedere a luoghi comuni, o a concezioni abbonate. Le sue argomentazioni, assegnate ad un arco temporale dal 1914 al 1968, sono ben strutturate, organiche e coerenti, fin oltre quello che ci si potrebbe attendere. Bloch prende le distanze dai due principali indirizzi che dominano il XX secolo con alterne vicende: il Funzionalismo, più connesso e unitario (Gropius e il Bauhaus, van der Rohe, Adolf Loos, spesso citato), e l’architettura organica, più articolata ed eterogenea, cui vengono ricondotti tanto il Liberty quanto il Razionalismo di Wright e altri (che, a partire dagli anni ’30-’40, vogliono integrare artificiale e naturale, in piena continuità), o gli arredi realizzati su calco dell’anatomia in chiave ergonomica (Carlo Lodoli, protofunzionalismo settecentesco). Sulla scorta della ‘lavabilità’ (così Bloch definisce in ‘Spirito dell’utopia’ il criterio che sembra ispirare scelta di materiali e forme nel Funzionalismo) viene mortificata ogni differenziazione, ogni peculiarità, capace di dare un senso e un significato all’opera e al mondo di cui fa parte. L’appendice, nel suo sfruttamento artistico, ma in fondo in fondo anche sociale, è la perdita di orientamento nella fruizione (insieme estetica e funzionale) dell’opera (e qui qualcosa potrebbe avere a che fare con S. Kracauer). Bloch non usa mai il termine ‘globalizzazione’, e forse neanche quello di modernità massificata abbracciata dall’ornamento, ma non disdegna di denunciare l’individuazione delle condizioni e delle implicazioni espansive del capitale. Secondo Bloch occorre dimostrare, criticare ed annullare il decorativismo epidermico e illusorio (sulla bugia come pericolo nell’arte insiste a più riprese), pretestuoso, senza alcun radicamento. È soprattutto per questo, che la decorazione si differenzia dall’ornamento, essendo la prima un riporto fittizio e la seconda coessenziale dell’espressione. Non esita a individuare la decorazione (nel senso su esposto, altro dall’ornamento) nel kitsch, nonché in ogni piacere facile, ‘culinario’, di consumo, che una certa arte o un certo design pretestuosamente diffondono, sull’onda della produzione industriale, nonché di uno sbrigativo e malinteso senso estetico. 

Il punto essenziale della psicologia di Kracauer era il carattere intenzionale della coscienza. Intenzione è da prendersi qui nel suo significato più vasto, che abbraccia non solo l’intenzione di fare, ma tutti i possibili rapporti in cui la mente può trovarsi con i propri oggetti. Noi, oggi, siamo soliti parlare di intenzione solo in senso pratico e, in tal caso, l’oggetto dell’intenzione è uno scopo, qualcosa che si vuole fare, qualcosa dentro cui si vuole agire. Ma questo non è altro che uno dei termini scolastici di intentio, a cui Kracauer, e prima di lui Georg Simmel, si richiama. Per i critici cinematografici della Frankfurt Zeitung degli anni ’20 del ’900, l’intentio poteva essere, non meno che pratica, conoscitiva. E, del resto, anche noi, quando usiamo il verbo intendere, possiamo usarlo nel senso di voler fare una passeggiata per i grandi magazzini, costituire un gruppo di pressione, ma anche nel senso di voler dire o, in genere, di capire qualche cosa e di fare, di questa cosa, l’oggetto della nostra considerazione o costruzione. I significati dei nostri discorsi dipendono da tutte queste complesse intenzioni, come appare in inglese anche dalla connessione tra meaning, significato, e to mean, intendere o avere intenzione. L’intenzionalità partecipativa del mondo moderno, questo peculiare rapporto che la mente ha con i propri oggetti, permette a S. Kracauer di correggere le deviazioni naturalistiche nel modo di concepire il funzionamento della mente nel sociale. L’oggetto non è un contenuto della mente, o un’affezione del soggetto, uno stato del suo animo, una modificazione della sua psiche; ma neanche il soggetto della folla è una specie di supporto o attaccapanni a cui si appendono, nel corso dell’esperienza metropolitana, le rappresentazioni. Esso acquista, piuttosto, il carattere di un atto, di un riferirsi a, di un muoversi verso. Nel linguaggio del ‘giornalista culturale’, S. Kracauer si potrebbe, sia pure inadeguatamente, indicarlo con la metafora di un vettore. Le annose discussioni tra realisti e idealisti, almeno sotto l’aspetto sociologico, da questo punto di vista perdono il loro interesse. La fenomenologia della metropoli, di Simmel, è, piuttosto, un’attività che mira ad enucleare, dal magma della coscienza vissuta, l’oggetto della sua differenza; e – anche se a certe sue applicazioni si può rimproverare di aver scambiato per un oggetto puro, che dovrebbe presentarsi allo stesso modo a tutti, una costruzione del singolo in cui molto rimane di arbitrario – è innegabile che, per indicare le condizioni con cui si può pensare un oggetto puro della mente, la fenomenologia delle masse sociali abbia messo le mani su concetti fondamentali. Del resto, che dall’insegnamento di Simmel scaturisca naturalmente una teoria «dell’oggetto-massa» come soggettività protagonista o come ornamento, lo si vede anche dalla carriera di un altro intellettuale molto vicino: Walter Benjamin di Parigi Capitale. Anche i valori delle masse moderne, dei gruppi sociali, secondo Kracauer, possono essere studiati nella loro oggettività, e per questo la teoria dell’oggetto si accosta alla riflessione sociologica dei valori, professata da Simmel. Kracauer stesso, inoltre, non si limita a teorizzare le condizioni a cui il pensiero sociologico può cogliere, grazie a una intuizione eidetica, gli eide, o le essenze del mondo: ma soprattutto, nell’ultimo periodo della sua vita, quando riprende nel 1963 gli scritti di La Massa come Ornamento, sostiene il dubbio di come siano fatte, in realtà queste essenze. Kracauer tentò, insomma, di entrare nel merito di una nuova metafisica dell’architettura metropolitana moderna (struttura e infrastruttura: umana ed oggettuale) e nel flusso vitale-pubblico che si espande sul territorio della città. Al cinema, e alla fotografia, non resta altro che tornare a quell’originario e perduto rapporto con il mondo che le immagini digitali hanno messo in forte discussione: spingersi fino al limite nel registrare la realtà fisica (quello che, secondo Kracauer, è il compito del fotografo). Tornare a farsi occhio prima che racconto. Senza inutili storie. Bisogna soltanto puntare, mettere a fuoco e sparare (vedi il mio recente: Il sensore che non vede. Sulla perdita dell’immediatezza percettiva, Paginauno, Milano, 2023).

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MG
12 Ottobre 2023

È l’imolese Cue Press la casa editrice del Premio Nobel per la Letteratura

Lorenzo Benassi Roversi, «il Nuovo Diario Messaggero»

Dalla scorsa settimana, Jon Fosse è entrato nel discorso pubblico del nostro Paese e, a giudicare da quanto si parla di lui e delle sue opere, sembra sia entrato anche nel novero degli autori che fanno parte dell’immaginario collettivo della grande letteratura contemporanea. Non che si trattasse di un Carneade qualunque, ma da quando gli è stato attribuito il Nobel – «per le opere teatrali e la prosa innovativa che danno voce all’indicibile» – ci siamo accorti di questo drammaturgo norvegese dai testi difficili e dalla fisionomia nordica. In realtà, a Imola, già da prima c’era chi credeva alla forza della sua scrittura, e non solo a parole. «È dal 2018 che abbiamo iniziato a investire sulle opere di Jon Fosse, pubblicando i suoi libri» spiega Mattia Visani, attore e regista, formatosi al Teatro Stabile di Torino, e nel 2012 fondatore di Cue Press, casa editrice imolese, specializzata in arti e spettacolo.

«Il conferimento del Premio Nobel a Fosse è stata una grande soddisfazione anche per noi. Abbiamo festeggiato e poi subito ci siamo essi al lavoro per soddisfare il carico di ordinativi che la notizia ha generato». Cue Press, infatti, detiene l’esclusiva di tre volumi, che raccolgono cinque di quelle opere, rivelatrici dell’indicibile, per le quali è stato conferito il Nobel a Jon Fosse: Teatro, che raccoglie i primi lavori dell’autore, Caldo, la storia di due uomini accumunati dal ricordo di una donna misteriosa e Saggi gnostici, nelle cui pagine si riflette il pensiero dell’autore sulla vita e sull’arte. Spiega Visani: «Si tratta di opere intense, profonde. Non sono testi facili, ma per il lettore che si lascia affascinare sono una vera sfida che speriamo possa coinvolgere più persone possibili».

I numeri raccontano molto dell’effetto mediatico del Nobel: «Se prima vendevamo una o due copie l’anno ai lettori più attenti e agli specialisti, solo nella prima giornata, dopo la notizia del Nobel, abbiamo ricevuto richieste per oltre tremila copie. Senza precedenti» racconta l’editore, che però non crede che il Nobel farà di Fosse un autore di massa nel nostro Paese. «È piuttosto l’occasione per allargare la platea di lettori italiani» spiega. Cue Press d’altronde nasce per rispondere alle esigenze di un pubblico attento, interessato al teatro e al cinema, e a questa scelta risponde anche l’attenzione dedicata a Fosse fin dai tempi in cui in Italia era ignoto ai più. «Tenevamo a proporre al nostro pubblico un’esperienza originale. Ora il sogno è quello di portare Fosse a Imola, sarebbe un successo culturale per la città e per il territorio». Intanto, l’esclusiva delle opere di Fosse è una grande opportunità per Cue Press, che si muove in un mercato di nicchia ed è in crescita: «Da poco abbiamo assunto la seconda dipendente». A rinforzare l’organico della casa editrice, ai due dipendenti e all’amministratore si aggiungono varie collaborazioni stabili: «Nasciamo dal rapporto che ebbi con Ubulibri, casa editrice milanese dedicata alle arti e allo spettacolo e diretta da Franco Quadri. Da quell’esperienza intravidi una possibilità e decisi di fondare Cue Press. La fedeltà alla missione che ci siamo dati all’inizio è parte dell’identità che sentiamo nostra».

La vita culturale di una città come Milano sembra più adatta a favorire la crescita nel difficile ramo dell’editoria, ma «Cue Press fa parte del territorio. Qui abbiamo trovato competenze e sensibilità. Il digitale poi ci aiuta a superare le distanze» spiega Visani, originario di Casalfiumanese.
Da Samuel Beckett a Vittorio Gassman fino a Stanislavskij, si allarga molto oltre quello di Fosse il novero dei grandi nomi editi da Cue Press, premiata negli scorsi anni come startup culturale dal bando di Regione Emilia-Romagna dedicato alle imprese innovative. Spiega Visani: «Si è trattato di un’occasione importante di consolidamento e di un riconoscimento che ci ha incoraggiato ma l’obiettivo di Cue Press è quello di stare sul mercato, vendere libri, affermandoci sempre di più nel segmento che abbiamo scelto e fidelizzando un pubblico via via più ampio».

Strade maestre rau
12 Ottobre 2023

Strade maestre: D’Elia e Maifredi tra i grandi registi del contemporaneo

Vincenzo Sardelli, «Krapp's Last Post»

Le vie del teatro come la via della seta. La ricerca dell’arte e la riflessione sull’arte, sulle tracce dei maestri che hanno fatto grande il teatro contemporaneo. È una piacevole scoperta Strade maestre di Corrado d’Elia e Sergio Maifredi. Fresco di stampa, il libro (Cue Press, Imola 2023, pp. 224, € 24,99) è un itinerario nella vita, nell’arte e nella filosofia di alcuni grandi registi europei viventi. D’Elia, fondatore di Teatri Possibili, incontra Maifredi, fondatore di Teatro Pubblico Ligure. Insieme battono il Vecchio Continente per confrontarsi con giganti del calibro di Peter Stein, Eugenio Barba, Stefan Kaegi, Milo Rau, Thomas Ostermeier, Antonio Latella, Krzysztof Warlikowski, Lev Dodin e Ariane Mnouchkine.
Un’ossessione guida il percorso: il concetto di Maestro (scritto con la M maiuscola), partendo dalla sensazione che i giovani teatranti non riconoscano più il prestigio e l’autorevolezza di un magister. Le domande istituiscono delle conversazioni che, intrecciate in una sorta di puzzle, definiscono lo stato di salute del teatro europeo. A leggere il libro, pare di entrare nel «nobile castello» del Limbo, dove Dante e Virgilio dissertano con Omero, Lucano, Orazio e Ovidio «parlando cose che ‘l tacere è bello». Qui, però, nessuna reticenza. I confronti sono diretti, immediati e spesso spiazzanti; vertono sull’arte e sugli intrecci con la vita; sul metodo registico e sulla relazione con lo spazio scenico; sul rapporto con pubblico e istituzioni; sul concetto di teatro ideale. Ma il canovaccio si dissolve, si deforma sulla poetica di ogni artista, modificato dalle diverse risposte.
Ciò che interessa in questo itinerario ricco di belle foto (di Ruggiero Dibenedetto) e note biografiche, è anche il primo ricordo di vita vissuta e di vita teatrale degli artisti interpellati. Essi sono interrogati sull’evoluzione della loro arte, sul rapporto con la società e con la politica, sul legame con la lingua, la scrittura e l’identità. Le biografie intersecano la grande storia: ad esempio la guerra, cui sono legati i primi ricordi di Stein, di Barba e di Mnouchkine; oppure la Cortina di Ferro, che riecheggia nei racconti di Ostermeier o Warlikowski. E che dire del russo Dodin, irraggiungibile dopo lo scoppio della guerra in Ucraina, che pure ha il coraggio di denunciare senza mezzi termini su una rivista russa la barbarie aggressiva di Putin e un «ventunesimo secolo più orribile del ventesimo»?
Strade maestre tocca i grandi temi esistenziali, dalla morte alla fede, al lockdown. Gli incontri sono avvenuti proprio in epoca Covid. Ne avvertiamo quel soffio grigio, eppure ricco di opportunità.
Le parole degli artisti sono un’antologia di riflessioni mai banali. Domande e risposte sembrano compenetrarsi, e non sembra casuale la scelta dei caratteri grafici quasi indistinguibili per le une e le altre, senza l’uso di corsivi o neretti. Queste pagine ben scritte oscillano tra cronaca e letteratura. Colpisce la descrizione dei luoghi, succinta e sognante: Roma «luminosa e allegra come una giovane sposa»; Losanna, distesa con dolcezza lungo il lago Lemano; Berlino, città-stato sterminata, vecchia conoscenza archetipica del nostro immaginario, «metropoli poliedrica, permissiva e multietnica».
Strade maestre è uno scrigno di pensieri acutissimi. Non mancano le staffilate. Ecco Peter Stein che boccia l’architettura del teatro all’italiana («per me la morte del teatro»), che biasima lo streaming e il dilagare in sala delle immagini, che stigmatizza i monologhi e la performing art, che deplora i CdA politicizzati, o certi registi che usano un pene di plastica laddove il testo richiederebbe solo di sguainare una spada. Fino alla bordata di definire associazioni a delinquere i Teatri Stabili. Per converso, Latella magnifica l’identità liquida democratica e multiculturale di Berlino e i copiosi finanziamenti di cui godono i teatri tedeschi (22 milioni all’anno per un teatro medio). Intanto, mentre postula l’inscindibilità tra vita, lavoro e arte, Latella magnifica la scena off italiana e la capacità di registi come Castellucci di creare un nuovo codice espressivo. E chissà che non pensi proprio a Stein quando sentenzia che «i registi tedeschi che amano il teatro dittatoriale prima o poi vengono a lavorare in Italia».
Strade maestre è un viaggio. Non meno della storia, la strada è maestra di vita. Come Diogene con la lanterna, d’Elia e Maifredi peregrinano tra città, artisti e teatri. Mentre cercano l’arte e la riflessione sull’arte, mentre scandagliano la poetica e il metodo dei grandi maestri, di fatto si mettono in cerca dell’uomo. Per affinare lo sguardo, occorre uscire dal recinto. Perché nessuna arte, più del teatro, avviene tra le persone: è incarnata dalle persone, vive tra le persone, è realizzata per regalare sogni, dubbi, pensieri, alternative alle persone.

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Agitprop
10 Ottobre 2023

La danza e l’agit-prop. I teatri non-teatrali nella cultura tedesca del primo Novecento

Barbara Berardi, «Theatron 2.0»

I primi decenni del Novecento hanno visto nascere il desiderio, da parte dei cosiddetti padri fondatori del teatro e della danza, di attuare una vera e propria «ri-teatralizzazione» attraverso rivoluzioni stilistiche e sperimentazioni nel campo dell’arte scenica. Nel libro intitolato La danza e l’agitprop: I teatri non-teatrali nella cultura tedesca del primo Novecento, pubblicato da Cue Press nel 2015, Eugenia Casini Ropa si sofferma sulla rivoluzione culturale avvenuta in quegli anni in Germania. Studiosa del teatro e della danza del Novecento, ha pubblicato numerosi saggi e volumi di stampo socio-politico sul teatro tedesco e sulla storia della danza moderna e contemporanea. Inoltre, è curatrice della collana editoriale I libri dell’Icosaedro e delle riviste Teatro e Storia e Danza e Ricerca. Casini Ropa sceglie come soggetti privilegiati di indagine due fenomeni – «i teatri non-teatrali» – che in quegli anni rivelarono in modo più radicale le proprie esigenze di rifondazione. La «nuova danza» tedesca, nata dalla rivalutazione pedagogica del corpo umano, basata sul rapporto di interdipendenza e simultaneità tra anima, corpo, disciplina e natura; e l’agitprop, teatro rivoluzionario operaio di agitazione e propaganda nato dall’ideologia socialista. Dopo un contesto artistico iniziale, lo studio continua concentrandosi su come le realtà e gli artisti che si dedicarono alla scoperta e allo studio della pedagogia, del rito, dello sport, della religione, dell’associazionismo e della politica contribuirono a scardinare gli antichi schemi del linguaggio artistico per creare un nuovo teatro del movimento espressivo.

Il volume si apre esaminando un concetto alla base del cambiamento di pensiero di quegli anni: la Körperseele (fusione perfetta tra anima e corpo). Questa visione innovativa portò diversi studiosi a rivoluzionare il lavoro con il corpo degli attori e dei danzatori, trasformandolo in una ricerca di una nuova armonia non solo fisica, ma anche morale e spirituale. Tra i protagonisti citati, ci sono pionieri di questa nuova era per la Körperkultur (cultura fisica), tra cui François Delsarte, Madeleine G. e Mary Wigman, tra le più innovative danzatrici della loro generazione, e il confronto tra la ginnastica euritmica di Émile Jaques-Dalcroze e il metodo di Rudolf von Laban, considerato il padre della danza libera, narrato in seguito all’esperienza della scuola-colonia di Monte Verità.

La seconda parte si concentra sul teatro proletario in Germania, esaminando i suoi sviluppi tra gli anni Venti e Trenta e il conseguente rafforzamento di un sentimento collettivo di consapevolezza e lotta di classe. L’agit-prop, nato dalla collaborazione tra attori-operai e scrittori rivoluzionari, metteva in scena rappresentazioni con un forte contenuto ideologico e propagandistico, finalizzate a risvegliare una nuova e consapevole coscienza di classe tra il proletariato. Erwin Piscator, Béla Balázas, Friedrich Wolf e altri intellettuali engagé si fecero portavoce di un allontanamento drastico dalla forma, dai temi e dal naturalismo del teatro borghese, per dare vita a una nuova tipologia di «teatro-comunicazione».

Alla conclusione dei vari contesti storici indagati, segue un ultimo capitolo dedicato alle testimonianze iconografiche. Eugenia Casini Ropa conclude il volume con una ricca raccolta di immagini: danzatrici con tuniche in pose che richiamano i fregi e le statue dell’antica Grecia, allievi della scuola labaniana, esempi di esercizi di ritmica nell’Istituto di Hellerau di Dalcroze (fotografie che mostrano il lavoro di ristrutturazione effettuato in collaborazione con Adolphe Appia), e foto dei gruppi agitprop, ritratti espliciti dello spirito di lotta che li animava. Un’enciclopedia di fotografie che facilita la comprensione degli studi rivoluzionari di quegli anni e delle peculiarità che caratterizzano le diverse tipologie di ricerca artistica.

«Che cosa resta di tutto questo e che cosa può ancora oggi, a un secolo di distanza, risuonare in qualche modo dentro il lettore? Qualcosa di attuale compare, almeno ai miei occhi, guardando più a fondo. Qualcosa allora sognato, sperato, perseguito nel pensiero e nella pratica, sperimentato in prima persona come modo di vita sia individuale sia sociale, portato con decisione alle estreme conseguenze.
E questa qualità del vissuto è già in sé un primo, forse semi-cosciente motivo di attrazione ai nostri giorni: la lezione esplicitata della ormai tanto difficile capacità di credere fino in fondo in un’idea – che non sia il denaro e il successo – e di tradurla in azione costante nella vita e per la vita. Compare qualcosa, dicevo, che si sintetizzava allora in due concetti in problematica dialettica: emancipazione dell’‘individuo’ e costruzione del ‘collettivo’ o del ’coro’, a seconda delle parti in causa, e che oggi, in mutate condizioni, potremmo tradurre in: ridefinizione della persona e costituzione della comunità. […] La danza, il teatro, l’arte in generale, si propongono ancora oggi come allora, ma con forza e voce purtroppo assai affievolita – almeno nel nostro Paese – da un clima culturale sfavorevole, come possibili, creativi strumenti di formazione personale e di relazione e aggregazione sociale. Occorre scoprire e diffondere – e in questo nuovo inizio di secolo molto già si lavora sperimentando – i modi più efficaci per fare ancora dell’arte un laboratorio sperimentale utile alla crescita delle persone e della cultura sociale. E poiché non si può prescindere dalla storia per orientarsi al futuro, le immagini un po’ sbiadite e fuori moda di questo volume acquistano probabilmente nuova brillantezza e le storie di uomini e donne che hanno creduto e lottato fino in fondo, qualunque si sia poi rivelato l’esito delle loro lotte, possono ancora mettere in moto il pensiero e risvegliare in chi legge l’eco di una necessità di partecipazione mai del tutto sopita».

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Strade maestre barba
8 Ottobre 2023

Post Teatro

Anna Bandettini, «la Repubblica»

Letture di resistenza

«Non ricordo quasi niente della mia infanzia. La mia memoria comincia con la morte di mio padre. Prima di quell’agonia che ho vissuto come un rito di passaggio e una nuova consapevolezza della condizione umana, ho rari ricordi, tutti di guerra». Sono parole del regista Eugenio Barba, grande «maestro» e rivoluzionario del teatro della seconda metà del Novecento, dal libro Strade maestre di Corrado D’Elia e Sergio Maifredi. Nella newsletter di oggi, infatti, parlo di libri. Non soltanto di letture piacevoli per le vacanze estive, ma di resoconti e racconti su cui vale la pena riflettere per il loro valore di «resistenza» al conformismo dilagante, o perché hanno un loro pensiero originale, o semplicemente perché ci stimolano a farcene uno proprio.

La lezione dei «maestri»

È stato una bella sorpresa la lettura di Strade maestre, il libro di Corrado D’Elia e Sergio Maifredi (Cue Press, € 24.99) che consiglio vivamente. Intanto è bella l’idea da cui nasce: interrogare i più grandi registi della scena contemporanea, «maestri» come Eugenio Barba, appunto, Lev Dodin, Arianne Mnouchkine, Peter Stein, e nuovi maestri come Warlikowski, Ostermeier, Latella, Stefan Kaegi, Milo Rau. Una bella scelta. I due autori li hanno incontrati, non per intervistarli come «giornalisti», ma per capire dalla loro vita e dal loro lavoro, dagli inizi, dalle domande che li hanno accompagnati nel corso degli anni, dalle relazioni che hanno costruito, il senso del fare teatro. Ne escono una serie di autobiografie umane e artistiche molto interessanti.
C’è Peter Stein che parla della cultura in modo profondo (leggete la risposta in cui parla della regia), c’è Milo Rau che precisa la sua idea di «nuovo teatro popolare», Arianne Mnouchkine che ricorda l’importanza di avere «maestri», Antonio Latella che confessa come il teatro lo ha fatto ritrovare. Sono parole spesso importanti, quelle dei «maestri», pensieri che sono radici da cui ripartire se si vuole capire il teatro. Ma non è un libro solo per teatranti o per chi frequenta il teatro, perché racconta come il teatro non sia solo una macchina per produrre, per vendere, per mostrare spettacoli, ma un luogo che congiunge tutte queste cose, che ha a che fare con la vita delle persone , con la società che c’è intorno.
Il teatro come macchina per comunicare, che talvolta ci appare disordinato e confuso, ma che attraverso le personalità di grandi artisti che riempiono le sue strade, ci appare una «strada maestra».

Fosse libro
7 Ottobre 2023

Jon Fosse, il Nobel alla Letteratura e la piccola casa editrice di Imola: «Sommersi di richieste, tremila libri in poche ore»

Simona Cantelmi, «Corriere di Bologna»

La notizia del Nobel per la Letteratura allo scrittore norvegese Jon Fosse ha sconvolto la routine di una piccola ma prestigiosa casa editrice di Imola. La Cue Press, che pubblica testi di teatro e cinema, è la casa editrice italiana che ha pubblicato alcuni testi teatrali di Fosse e in queste ultime ore è stata travolta da migliaia di richieste come spiega il fondatore della casa editrice, Mattia Visani.

Immagino che queste siano ore calde.

Sì, abbiamo ricevuto più di tremila richieste dei suoi testi in poche ore, ne siamo molto felici. Di Jon Fosse abbiamo pubblicato una raccolta di tre testi teatrali (E non ci separeremo mai, Qualcuno verrà e Il nome), un testo singolo (Caldo) e il testo teorico Saggi gnostici. E non è l’unico Nobel del nostro catalogo: abbiamo anche Samuel Beckett.

Cosa avete in programma con Jon Fosse?

Vogliamo portarlo a Bologna e a Imola, cominceremo a breve a dialogare con i suoi agenti. Poi speriamo che tutto ciò sia da traino alle vendite delle altre pubblicazioni.

Qual è stato l’iter di pubblicazione dei suoi testi?

Jon Fosse è prima di tutto un drammaturgo, uno scrittore per la scena e nel mondo del teatro è già conosciuto da vent’anni. Ma nell’ambito della drammaturgia italiana e straniera ha una vita molto particolare, nel senso che non è che andasse a ruba, ma noi ci abbiamo sempre creduto perché è un grande autore. Lo abbiamo pubblicato prima di Elisabetta Sgarbi (direttrice de La nave di Teseo, l’altra casa editrice italiana di Fosse, [N.d.R]), per esempio, è un dato di fatto. Conoscevo la sua produzione e sono andato a cercarlo, dialogando poi col suo agente norvegese.

Ci racconti della sua casa editrice.

Cue Press è nata dieci anni fa, da una costola di Ubu Libri. Quando uscì il mio libro Franco Quadri di Ubu Libri morì e decidemmo di aprire una casa editrice digitale. Vedete, in quel periodo le case editrici digitali erano di moda e una grande promessa. Ma negli anni molte sono nate e poi morte, mentre noi siamo ancora qua. Poi oggi ovviamente abbiamo in primis la produzione del cartaceo. In un anno facciamo circa ottanta uscite, ma ci stiamo proiettando verso le cento.

Progetti futuri?

In tema di Nobel, stiamo completando un grande lavoro di pubblicazione dei testi Samuel Beckett, come ad esempio un volume che raccoglie gli appunti di regia, i testi riveduti sulla base della sua esperienza registica. A fine mese usciranno i suoi Testi brevi. E stiamo trattando anche la prima mondiale del quaderno di regia di Happy Days. Per la prima volta in Italia potremo inaugurare un vero e proprio settore di studi beckettiani. Poi a breve uscirà il grande Scene madri di Bernardo Bertolucci e Enzo Ungari. Insomma, tanti progetti sia teatrali sia cinematografici.

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6 Ottobre 2023

Fosse, il Nobel venuto dai fiordi

Stefano Gallerani, «Il Mattino»

Come spesso accade, anche stavolta i telefoni delle librerie impazziranno e le rotatorie delle case editrici faranno gli straordinari per rimpinguare la non straordinaria presenza editoriale nel nostro paese di Jon Fosse (classe 1959), fresco vincitore del centosedicesimo premio Nobel per la letteratura. Fortuna che – dimostrando buon fiuto – da qualche anno a questa parte La Nave di Teseo abbia cominciato a pubblicare brani significativi dell’opera in prosa di un autore che il pubblico italiano conosce più come drammaturgo che come narratore: nel 2019 è toccato alla novella Mattino e sera mentre due anni più tardi è stata la volta di L’altro nome, che raccoglieva i primi due capitoli della Settologia romanzesca di cui martedì prossimo usciranno, sotto l’intestazione rimbaudiana di Io è un altro, le parti da tre a cinque (come le altre tradotte da Margherita Podestà Heir). Nel 2009 era stata invece Fandango a stampare per noi Melancholia, struggente dittico monologante che ha come protagonista il pittore ottocentesco Lars Hertvig. Quattro testi, insomma, che, al netto delle pubblicazioni teatrali (per Titivillus, Cue Press e i tipi di Editoria e Spettacolo) e della raccolta teorica di Saggi gnostici, rappresentano un buon viatico per un artista che vanta, in originale, oltre cinquanta titoli tra drammi, romanzi e poesie, e di cui l’Accademia svedese ha riconosciuto – così nella motivazione – la capacità di «dare voce all’indicibile».

Nella loro estrema concisione, i savi di Stoccolma hanno efficacemente colto un punto che solo all’apparenza si risolve in un facile ossimoro. Già, perché se c’è una qualità che salta all’occhio sin dal primo incontro con la scrittura di Fosse è che il suo campo d’elezione è quel lembo di realtà in cui la riconoscibilità (di luoghi, situazioni e dinamiche) non ha altro scopo che velare, ma non del tutto, quella dimensione spirituale che difficilmente trova spazio nell’equivoco realista. Il quotidiano diventa, in questo modo, assoluto, così come i personaggi finiscono per rappresentare nient’altro che lo specchio di un unico «sé». Non a caso, tra i nomi che ora si tirano in ballo per rendere più potabile questo neolaureato dallo stile asciutto e vagamente sperimentale (se così si intende qualsiasi cosa esca appena fuori dal seminato della grammatica più convenzionale), quello in pole position è senz’altro Samuel Beckett (altro Nobel conteso tra pagina e palcoscenico). Pure, per quanto nobile, l’ascendenza con l’irlandese rischia di diventare equivoca, se non limitativa, tanto ingombra il giudizio – e il pregiudizio – che grava sull’autore di Murphy e Aspettando Godot. Ben più interessante è, invece, capire quali siano i punti di distanza e quelli di contatto tra Fosse e il connazionale Ibsen, che con il primo condivide il primato di essere il drammaturgo norvegese più rappresentato al mondo. Di sicuro, ad accomunarli è lo stigma ibseniano per antonomasia: quegli «spettri» attraverso cui le ombre del passato si manifestano nell’esistenza per conferirle una prospettiva e una profondità inedite.

Distante appare, invece, la dinamica del conflitto, laddove la spietatezza di Ibsen – e per essa, in grado superiore, l’odio – è un detonatore assente (o quantomeno depotenziato) dalle pagine di Fosse. Non a caso – è stato lui stesso a confessarlo in più di un’occasione – i suoi personaggi cercano né più né meno che nell’amore una ragione per vivere e sopravvivere. Di che tipo di amore si tratti, poi, è tutt’altra e ben più complessa ragione. Una ragione, anzi, che Jon Fosse rimette in quasi tutta la sua interezza nelle mani del lettore, interlocutore imprescindibile di figure che, su carta, non hanno mai – o quasi – nome. Per Fosse, infatti, il nome costringe l’essere umano in un ruolo sociale, spogliandolo della sua umanità. Esemplare in tal senso, tra i molti, il dramma Io sono il vento (allestito in Italia nel 2013 per la regia di Alessandro Greco), i cui personaggi, abbandonati su una nave in balia del mare sono, semplicemente, «l’uno» e «l’altro»: figure speculari che agiscono su un piano che, anche temporalmente, ha poco a che fare con la sequenza cronologica di passato e presente. Di loro si sa poco, né si conosce esattamente il legame che li costringe in quell’isolamento forzato. Se «l’uno» sia il padre de «l’altro», se siano solo amici (così come potevano esserlo i Vladimiro e Estragone beckettiani) o se tra di loro esista un rapporto di sangue – ma, anche, se addirittura siano contemporanei – non è dato sapere. Pure, nell’astratto furore immaginativo di Fosse, ogni loro parola e ogni loro frase hanno un’esatta, per quanto enigmatica, luminosità. Sta qui, probabilmente, la misura «universale» di Fosse – il quarto scrittore del suo paese a ricevere il più prestigioso premio letterario del mondo dopo Bjørnstierne Bjørnson (1903), Knut Hamsun (1920) e Sigrid Undset (1928). Sta in quest’apertura di senso la forza di una scrittura che, come sempre la grande letteratura, coinvolge chi legge in un agire di segno uguale e contrario a quello di chi scrive. Una forza, insomma, che vale un Nobel.

Jon fosse
6 Ottobre 2023

Jon Fosse, il Nobel che racconta l’indicibile

Carmelo Claudio Pistillo, «Libero»

Dopo Bjørnstjerne Bjørnson 1903, che insieme a Henrik Ibsen ha contribuito alla nascita della drammaturgia norvegese, Knut Hamsun, premiato nel 1920 e Sigrid Undset, nel 1928, la Norvegia si porta a casa il quarto premio Nobel della Letteratura. A godere di questo privilegio è Jon Fosse, scrittore, poeta e drammaturgo nato nel 1959, amante di autori di assoluto rigore e inimitabile complessità, come un sovvertitore del linguaggio teatrale che risponde al nome di Samuel Beckett, il percussivo e narrativamente implacabile Thomas Bernhard o l’oscurissimo Georg Trakl, legato incestuosamente alla sorella. Già da questi nomi, che racchiudono alcune sue predilezioni letterarie, non certamente di metodo, si può dedurre la precisione con cui l’Accademia Svedese ha inteso motivare l’assegnazione del premio a questo scrittore prolifico e appartato: «Per le sue opere teatrali e di prosa innovative che danno voce all’indicibile». Poco conosciuto ma assolutamente in evidenza per i suoi libri pubblicati in Italia e tradotti in quaranta lingue, nella sua residenza nel Grotten, datagli in affido dal re di Norvegia per i suoi meriti letterari, il poliedrico scrittore sta vivendo una crescente e inaspettata popolarità. In un’intervista rilasciata al Corriere nel 2022 dichiarava non senza qualche imbarazzo la sua incredulità rispetto all’ipotesi del conferimento del premio Nobel. Ecco le sue parole: «Non so se sono un vero candidato, comunque è un onore che molte persone pensino che io lo meriti, o almeno che pensino che l’Accademia svedese pensi che io meriti un Premio Nobel. Invece il pensiero di essere premiato è terrorizzante». Raggiunto al telefono in queste ore, dopo essere già stato nominato cavaliere dell’Ordre national du Mèrite in Francia nel 2007, con questo felice annuncio Fosse sembra essere entrato con sobrietà ed eleganza nell’abito del vincitore: «Sono così felice e sorpreso. Non me lo aspettavo davvero».
Nessuno se lo aspettava, anche se il suo nome echeggiava con sicurezza negli ambienti più più vicini all’Accademia svedese.

La reazione a Godot

Ma chi è Jon Fosse, considerato il «Samuel Beckett del XXI secolo» per le sue qualità drammaturgiche riconosciutegli dopo il suo debutto come autore teatrale di Qualcuno arriverà, scritto come reazione ad Aspettando Godot. Come i grandi letterati, anche il nuovo premio Nobel non si accontenta della descrizione della realtà senza che in questa aleggi il respiro di un altro ipotetico universo. La letteratura è uno strumento d’indagine sul senso ultimo delle cose. Di aiuto, in questa sua ricognizione, ha un ruolo fondamentale il silenzio da cui cerca di estrarre parole insperate ma degne di entrare e caratterizzare la pagina scritta. La sua prosa non attinge alla dimensione più autobiografica se non in termini di suggestioni, ma si nutre d’immaginazione e non di fantasia. Dichiarò nel 2022: «Non scrivo mai per parlare di me ma per liberarmene, allontanarmi. Da questo punto di vista, la scrittura somiglia al bere. Ecco perché forse non ho mai scritto così tanto come dopo avere smesso con l’alcol. La letteratura può essere una forma di sopravvivenza, per me è stata di sicuro un modo per vivere». Una tecnica sapiente, la sua, dove al ritmo studiato nella poesia unisce la coerenza lungo tutta la trama assorbite dal teatro. Sono più d’una le traduzioni italiane delle sue opere spesso dominate dal paesaggio nordico. Diverse le case editrici che in questi ultimi anni hanno fiutato con lungimiranza il valore dello scrittore: Fandango con Melancholia (2009) e Insonni (2011) entrambi tradotti da C. Falcinella, Cuepress con Saggi gnostici (2018) e Caldo (2018) curati da uno dei maggiori esperti della letteratura nordica come Franco Perelli, ma prima ancora, a mettere le mani su questo autore, è stata Editoria e Spettacolo con Teatro (2006), per la cura di Rodolfo Di Gianmarco. Con protagonista il tormentato Lars Hertevig, fra i maggiori pittori norvegesi, è utile ricordare un gioiello come Melancholia, che si avvicina, almeno nella trama, al miglior Bernhard. Il pittore, infatti, viene colto nell’ultimo giorno di vita prima del suicidio avvenuto per ragioni amorose o forse, per motivi più profondi come l’incapacità di vivere, tema tipicamente bernhardiano.

La vis polemica

Per la Nave di Teseo sono inoltre disponibili sia Mattino e sera (2019) che L’altro nomeSettologia vol. 1-2 (2021), entrambi tradotti da Margherita Podestà. Mentre Mattino e sera racconta i termini della vita attraverso la nascita di un figlio e l’ultimo giorno di un vecchio nella ripetizione di gesti sempre definitivi, L’altro nome è la singolare storia di due uomini con lo stesso nome, Asle, una doppia versione dello stesso uomo. Il dieci ottobre sempre la casa editrice guidata da Elisabetta Sgarbi pubblicherà Io è un altro Settologia III-IV volume, un romanzo-mondo dal titolo rimbaudiano, che vuole essere un riflessione poetica sull’amore, sull’arte e sull’amicizia. Il nuovo Nobel non manca, come accade spesso in questi casi, di vis polemica. Giusto, secondo lui, il premio conferito a Luigi Pirandello ma non quello a Dario Fo, un non scrittore. Così come ritiene ingiusto aver onorato un autore come Bob Dylan. Non è meno tenero con il teatro contemporaneo, a suo avviso troppo legato ai classici e poco incline alle novità. Sicuro, comunque, di una sua ripresa nel solco della contemporaneità.

Oslo, Norway 20161012. Portrait of author Jon Fosse. The picture is taken in the State honorary housing for deserving artists, "Grotten", in Oslo. Photo: Ole Berg Rusten / NTB scanpix
6 Ottobre 2023

Jon Fosse. Triste, solitario e Nobel

Anna Bandettini, «la Repubblica»

Ha fama di scontroso, solitario, depresso, ex alcolista, di isolato tra i fiordi e le nebbie della sua Norvegia, ma con le sue parole ha scaldato di emozioni, pensieri, profondità migliaia di spettatori nel mondo, Jon Fosse: una delle voci più innovative della scena internazionale e ora, a 64 anni, Premio Nobel della Letteratura 2023. Poeta, saggista, scrittore (il suo monumentale Settologia, romanzo oversize è per il «New York Times» uno dei più grandi capolavori) e soprattutto grande autore di teatro, Fosse è stato tradotto in più di 40 paesi, con schiere di fan e i suoi testi rappresentati nelle sale dei cinque continenti, dalla Cina agli Usa. Tanto che il suo Nobel (vale 11 milioni di corone svedesi, circa 1 milione di euro) è un po’ anche una festa per il teatro, il segno della vitalità di un’arte, la scrittura drammatica, solitamente considerata elitaria, inutile o futile; e invece decisiva e addirittura primaria, visto che il premio a Fosse segue quello di altri grandi drammaturghi, George Bernard Shaw (1925), Pirandello (1934), Eugene O’Neill (1936), Beckett (1969), Dario Fo (1997), Elfriede Jelinek (2004), Harold Pinter (2005), Peter Handke (2019).

Quel che è certo è che con il riconoscimento al «nuovo Ibsen» come è stato chiamato – con la motivazione che «le sue opere teatrali e di prosa innovative danno voce all’indicibile» – l’Accademia svedese di Stoccolma ha visto giusto e colto nel segno, anche nel segno dei tempi. Perché parliamo di un gigante che ha fotografato le inquietudini e fluidità del mondo contemporaneo e ha attraversato, specie col teatro, le strade più buie dell’animo umano con personaggi che spesso non hanno nome, hanno un linguaggio secco e senza fronzoli, dialoghi apparentemente minimali, ma che scavano nelle angosce e nel fondo delle nostre relazioni e della nostra vita. Storie come Melancholia, Insonni (editi da Fandango), e soprattutto gli amari testi di teatro, Qualcuno arriverrà, Inverno, il bellissimo Io sono il vento, Caldo. «Faccio il possibile per scrivere ciò che non si può dire, come dicevano Wittgenstein e Derrida», aveva dichiarato in una intervista a Repubblica nel 2016, in occasione del debutto mondiale nella rassegna ’Quartieri dell’arte’ di Viterbo della sua commedia Det er Ales (Lei è Alice).

Nato a Haugesund, sulla costa occidentale della Norvegia, un viso nordico, severo, fisico massiccio, laureato in letteratura comparata e in filosofia, Fosse ha cominciato a scrivere a 12 anni. «Ho avuto una infanzia felice, mi piaceva il pallone, con l’adolescenza tutto è cambiato. Ho cominciato a sentirmi estraneo, salvo che nello scrivere. E ancora oggi la scrittura è il rifugio» ha detto. All’esordio nel 1983 con il romanzo Red, Black, seguono, tra i più celebri, Melancholia e Insonni, una favola moderna sulla disillusione di due piccoli protagonisti, fino al capolavoro Settologia, un romanzo di migliaia di pagine, sette parti, scritto nel 2019. Da noi martedì uscirà Io è un altro, i volumi III-V nella traduzione di Margherita Podestà Heir, con La nave di Teseo che ha già pubblicato (oltre al romanzo Mattino e sera) i volumi I e II sotto il titolo di L’altro nome: una storia fiume di due uomini che hanno lo stesso nome (forse sono lo stesso uomo) lungo un non-tempo, come spesso è nell’opera di Fosse, dove «passato e presente si muovono in un solo attimo, come fossero più vicini all’eternità», e sono parole sue. Nonostante abbia smesso di scrivere testi drammatici, come autore di teatro Fosse è stato forse perfino più prolifico e amato. Dal successo, nel 1999, di Qualcuno sta per venire, molte commedie sono tradotte, messe in scena (anche se più spesso da piccole compagnie) e pubblicate, dal volume Teatro (Editoria & Spettacolo, 2006), che raccoglie sei testi (tra cui Sogno d’autunno, Inverno), al bellissimo Io sono il vento (Titivillus). In italiano sono apparsi anche Saggi gnostici (a cura di Franco Perelli, Cue Press, 2018).

Sposato con figli, Fosse vive in prevalenza nella residenza di Grotten, a Oslo, concessagli dal Re per i meriti letterari e da lì si dice conduca una vita quasi claustrale, scossa dall’alcolismo da cui si è dichiarato guarito e dall’ansia cronica in parte risolta con l’avvicinamento alla fede cattolica.

La notizia del Nobel l’ha ricevuta in auto, come successe a Dario Fo; lui guidando nei pressi di Bergen, sulla costa occidentale della Norvegia. «Negli ultimi dieci anni mi sono preparato con cautela al fatto che ciò potesse accadere. Ma credetemi, non mi aspettavo di ricevere il premio oggi, anche se avevo una chance». Vederlo dal vivo in Italia sarà difficile, ma in questa stagione sarà in scena con lo Stabile di Torino La ragazza sul divano con la regia di Valerio Binasco, un’altra vicenda di personaggi irrisolti: qui una donna, alla ricerca di una qualche ragione per vivere. Quale? «Semplice: l’amore», aveva risposto in passato Fosse. Crediamogli.

9 Marzo 2021

Teatro da leggere

Giulia Alonzo, «Exibart»

Il teatro non è solo da vedere. Nel corso di questo anno di chiusura di teatri e centri culturali, abbiamo avuto l’opportunità di riscoprire la lettura della scena, attraverso le parole dei grandi autori teatrali classici. In Italia però non è così facile andare in libreria e chiedere drammaturgie, sopratutto se si è incuriositi da […]
1 Marzo 2021

Imparò dalla farsa. Ma poi Totò costruì un gene...

Andrea Bisicchia, «lo Spettacoliere»

Goffredo Fofi è uno dei maggiori studiosi di Totò (1896- 1967). Ne ha vissuto il mito, non solo quello dell’interprete, ma anche quello del poeta e dello scrittore, perché, come tutti i geni, anche Totò scelse di scrivere i testi che recitava durante gli avanspettacoli e che nascevano dal contatto diretto con la vita di […]
11 Febbraio 2021

The Global City di Instabili Vaganti, S. M. Friger...

Maria Dolores Pesce, «Dramma»

Trasformare un’esperienza esistenziale direttamente in drammaturgia impone, a mio avviso, un complesso processo di trasfigurazione e straniamento grazie al quale la vita in scena, tanto più se si tratta di esperienze vissute e personali, non sia semplice documento o meglio documentazione ma diventi analisi e giudizio, scoperta e comunicazione nei modi dell’arte e della estetica, […]
1 Febbraio 2021

Toh, ecco Mejerchol’d che butta in vaudeville tr...

Andrea Bisicchia, «lo Spettacoliere»

Esistono, in Italia, due volumi fondamentali per conoscere la concezione teatrale di Mejerchol’d: La rivoluzione d’ottobre, a cura di Giovanni Cirino, Editori Riuniti, 1962, e L’ottobre teatrale 1918/19, Feltrinelli, 1977, a cura di Fausto Malcovati, entrambi attenti a ricostruire una storia che non è solo quella del regista, ma anche quella di come si muoveva […]
25 Gennaio 2021

Le maschere di Totò: Fofi racconta il principe de...

Rodolfo Di Giammarco, «la Repubblica»

Il comico italiano più popolare del ’900, Antonio de Curtis in arte Totò, cittadino romano per 45 dei suoi 69 anni, residente dal 1922 in poi coi genitori accanto a Termini e in Prati, e poi in cinque abitazioni tutte dislocate nel quartiere Parioli, trionfò man mano sulle scene dello Jovinelli, della Sala Umberto, del […]
25 Gennaio 2021

Il mistero del processo creativo, lato oscuro di o...

Andrea Bisicchia, «lo Spettacoliere»

Negli anni Ottanta furono pubblicati parecchi libri su Stanislavskij, tra i quali ritengo importante Stanislavskij, il lavoro dell’attore sul personaggio (Laterza, 1988), sempre a cura di Malcovati, con una introduzione di Giorgio Strehler e una serie di scritti in appendice, alquanto illuminanti, che anticipano alcune teorie raccolte da Toporkov nel volume, edito da Cue Press, […]
21 Gennaio 2021

Musil drammaturgo: in libreria le nuove traduzioni

Flavia Foradini, «Il Sole 24 Ore»

È tenace non solo in Italia l’idea che Robert Musil sia un autore ascrivibile prettamente al settore della prosa. Il suo folgorante debutto nel 1906 con I turbamenti del giovane Törless, i suoi racconti e le sue novelle, e soprattutto L’uomo senza qualità hanno creato un cono d’ombra che ha oscurato la sua produzione teatrale, […]
20 Gennaio 2021

Stelle & Stars

Stefano Rizzo, «Pulp Libri»

Ci sono scrittori e critici, storici e studiosi che posseggono capacità di sintesi e approfondimento, intelligenza d’indagine e ricchezza di prospettive. Goffredo Fofi è uno di questi, e da sempre faccio tesoro dei suoi consigli e delle sue opinioni. Sono innumerevoli i libri, saggi, romanzi, fumetti e film che negli anni il suo lavoro di […]
19 Gennaio 2021

Il teatro di Totò, 1932-1946

Sergio Roca, «Liminateatri»

Su Totò ci sono decine di libri (e di studi) che cercano di ricostruire l’immagine del grande comico napoletano sia dal punto di vista professionale che da quello umano e personale. Il volume Il teatro di Totò, 1932-46 di Goffredo Fofi nella collana «I saggi del teatro» per Cue Press, invece, si focalizza sui testi […]
12 Gennaio 2021

Gli sposi di David Lescot

Massimo Bertoldi, «Il Cristallo»

Gli sposi del titolo della commedia di David Lescot sono Nicolae Ceausescu e Elena Pitrescu, ossia l’ex presidente della Repubblica Socialista di Romania, in carica dal 1967 al 1989, e la moglie, la vera eminenza grigia del regime. Nel testo del drammaturgo francese – anche qualificato regista e musicista legato al prestigioso Théâtre de la […]
4 Gennaio 2021

Una vita per il teatro del critico De Monticelli...

Andrea Bisicchia, «lo Spettacoliere»

La ristampa di un libro come L’Attore, di Roberto De Monticelli (1919-1987), da parte di Cue Press, è uno stimolo, molto allettante, per ritornare a parlare di una figura controversa, ma necessaria, per fare teatro. Il libro uscì nel 1988, con prefazione di Odoardo Bertani, presso Garzanti. O oggi esce, aggiornato, con l’introduzione del figlio […]
1 Gennaio 2021

Robert Musil, l’ingegnere del teatro

Fabrizio Sebastian Caleffi, «Hystrio», XXXIV-1

Della Kakania fa parte la Padania e Musil è dunque conterraneo di Gadda: due ingegneri con più genio che ingegno, per loro e nostra fortuna. Quand’ero regista pischello all’esordio, dopo aver debuttato come autore precoce, avevo già in mente di mettere in scena Vinzenz e l’amica degli uomini importanti. L’eroticissima Escort per uomini importanti, come […]
28 Dicembre 2020

C’era una volta il dramma. Poi si frantumò in u...

Andrea Bisicchia, «lo Spettacoliere»

Negli anni Sessanta, in molti ci siamo formati su una serie di testi saggistici, diventati veri e propri punti di riferimento per integrare la nostra formazione di stampo storicistico. Si tratta di: Teoria del dramma moderno di Peter Szondi (1962), Scritti teatrali di Bertolt Brecht (1962), Morte della tragedia di George Steiner (1965), ai quali […]
27 Dicembre 2020

Chi è di scena? Totò

Enrico Fiore, «Corriere del Mezzogiorno»

Antonio De Curtis, in un immaginario dialogo con la maschera Totò, le fa dire: «‘Vedrai che il pubblico alla fine ci vorrà bene, perché gli faremo patire un sacco di piacere’. Disse proprio il verbo patire, quel buffone, ignorantissimo di filosofia come tutte le maschere, ma armatissimo di esperienze preziose, cioè a dire ricco di […]
20 Dicembre 2020

Aspettare Godot come vuole Beckett: i suoi Quadern...

Brunella Torresin, «la Repubblica»

Nata alla fine del 2012 per iniziativa di Mattia Visani, attore, critico e ultimo autore della Ubulibri di Franco Quadri, la Cue Press è una casa editrice digital first, che ha fatto cioè dell’innovazione digitale il suo punto di forza, interamente dedicata alle arti dello spettacolo: cinema, teatro, danza, performance. Ha sede a Imola, è […]
20 Dicembre 2020

Il teatro di carta: da Totò a Ronconi a Peter Bro...

Rodolfo di Giammarco, «la Repubblica»

C’è un teatro che si rappresenta a qualunque ora, che acquista la parola tra le mura di casa, che dà libero ingresso ai suoi testi nelle librerie, e che permette di regalare cultura in questi giorni di festa. E’ il teatro di carta, fatto di volumi da sfogliare, e di voci da immaginare leggendo una […]
17 Dicembre 2020

In tournée tra gli scaffali

Sara Chiappori, «Tutto Milano»

Certo, a teatro bisognerebbe prima di tutto andarci. Non si può, lo sappiamo, ma prima di morire di streaming potremmo per esempio tornare a leggerlo. E magari regalarlo a Natale in forma di libro. Fin troppo facile pensare a Shakespeare, che andrebbe compulsato dalla prima tragedia all’ultima commedia. Bisognerebbe finire ogni sera e aprire ogni […]
14 Dicembre 2020

Moderne estetiche neobarocche. E la scena, un non...

Andrea Bisicchia, «lo Spettacoliere»

Esiste ormai un canone, per il nuovo teatro, che non appartiene soltanto al teatro performativo, ma anche al teatro di tradizione, ed è basato sul diverso rapporto che si è venuto a instaurare con lo spazio scenico, con gli strumenti tecnologici, impensabili fino a un ventennio fa, con gli stimoli sensoriali che ne sono succeduti, […]
7 Dicembre 2020

Da Socrate a Freud per scoprire il rapporto tra fi...

Andrea Bisicchia, «lo Spettacoliere»

Abbiamo conosciuto, recentemente, lo scrittore franco-uruguaiano Sergio Blanco grazie al Festival Vie, organizzato a Modena da ERT (Emilia Romagna Teatro), dove è stato rappresentato Il bramino di Dusseldorf, e al Festival LAC, diretto da Carmelo Rifici, dove è andato in scena Memento mori. L’editore Cue Press ha pubblicato non solo tre testi del suo Teatro: […]
30 Novembre 2020

Tu es libre di Francesca Garolla

Maria Dolores Pesce, «Dramma»

Leggere un testo e vedere uno spettacolo sono modi diversi, talora molto diversi, di rendersi conto intimamente della realtà che ci circonda, ci penetra e spesso si nasconde nella nostra memoria trasformandosi a volte anche in falsa conoscienza, di rendercene conto dunque per poterlo smascherare questo esserci che siamo, consapevolmente e inconsapevolmente. Qualche volta però, […]
25 Novembre 2020

Teatro

Massimo Bertoldi, «Il Cristallo»

Riflettendo sulla composizione delle novelle e del dramma I fanatici, Robert Musil ne rivelò il principio narrativo: «L’ho chiamato quello dei ‘passi motivati’. Non far accadere nulla (oppure: Non far nulla) che sia interiormente di valore. Ciò significa anche: Non far niente di casuale, niente di meccanico». Questo assunto, che mette i discussione il dominio […]