Logbook

Approfondimenti, interviste, recensioni e cultura: il meglio dell’editoria e delle arti da leggere, guardare e ascoltare.

Moissia
30 Giugno 2023

Alexander Moissi. Una storia mitteleuropea

Mauro Sperandio, «Inside»

Insegnante e critico teatrale, il bolzanino Massimo Bertoldi è autore di un prezioso volume dedicato ad Alexander Moissi, attore di teatro celeberrimo nei primi trent’anni dello scorso secolo e poi sostanzialmente dimenticato. Artista mitteleuropeo e poliglotta, di origini italiane ed albanesi, austriaco e nato a Trieste, dalla cifra originale, molto applaudito e criticato, Moissi trova in Alexander Moissi – Grande attore europeo 1879-1935 (ed. Cue Press, 2023) un’ampia trattazione. Se il volume di Bertoldi susciterà senza dubbio l’interesse degli studiosi del teatro, sorprendentemente incontrerà il favore anche di chi, con vivace curiosità, vorrà seguire il dipanarsi di una vicenda artistica e umana assolutamente originale. Un incontro con l’autore Bertoldi è l’occasione per allettare i nostri lettori.

Come nasce il suo interesse per la figura di Moissi?

Studiando il teatro italiano e tedesco dei primi trent’anni del Novecento ho dedotto l’importanza europea di Alexander Moissi, nato a Trieste nel 1879 e morto a Vienna nel 1935, tanto famoso all’epoca quanto oggi dimenticato o appena citato a livello storiografico. Mi sono chiesto il perché di questo misterioso paradosso. Inoltre mi hanno incuriosito il rapporto con Ferruccio Busoni, che per lui scrive la commedia Arlecchino o le finestre recitata in tedesco nel 1917 a Zurigo, e le esibizioni di Moissi al Teatro Verdi di Bolzano nel 1934, dove incanta la platea proponendo in italiano i suoi cavalli di battaglia Amleto, Spettri e Il cadavere vivente.

Come descriverebbe la sua personalità?

Moissi aveva una personalità molto marcata e bifronte: da un lato era anima inquieta, pensierosa e decadente; dall’altro lato era dinamico e passionale, esattamente come i personaggi teatrali a lui più cari.

Quali caratteristiche invece delineavano la sua recitazione?

L’elemento magnetico è la sua voce, assai originale per via di un difetto poi diventato stile recitativo «alla Moissi»: declamava con un’impostazione melodica, tenorile, quasi cantata e con una pronuncia della lingua tedesca storpiata da cadenze dialettali veneto-triestine che rendevano le parole musicali e cantilenate. Questa dizione fu croce e delizia. A Berlino inizialmente incantò, mentre nel periodo dell’Espressionismo postbellico fu considerata stucchevole. A Vienna, dove si manteneva viva la tradizione del «ben recitato», Moissi diventò una star.

La sua popolarità gli valse l’occasione per incontri con personalità di spicco dello scorso secolo. C’è tra questi un incontro di particolare rilevanza?

Sicuramente primeggia il viennese Max Reinhardt, maestro di regia del Novecento, che in un rapporto ventennale impiegò l’attore triestino in spettacoli fondamentali, mettendone a fuoco le potenzialità espressive in un confronto con testi assai variegati, dalla tragedia greca alla Commedia dell’arte, da Shakespeare a Shaw, da Ibsen a Tolstoj, fino ai classici del repertorio tedesco quali Goethe e Schiller. Lo stesso Reinhardt creò il contatto di Moissi con Hugo von Hofmannsthal. Nacque un rapporto assai proficuo, tanto che lo scrittore compose per l’attore il dramma La torre e soprattutto il fortunato Jedermann, lo spettacolo-evento del Festival di Salisburgo del 1920, con Moissi nel ruolo del titolo replicato per più edizioni. Singolare è anche il contatto con Luigi Pirandello, del quale Moissi aveva recitato a Berlino in tedesco Il piacere dell’onestà ed Enrico IV. L’incontro avvenne a Castiglioncello nell’estate 1934; riguardava Non si sa come, commedia in fase di stesura. Pirandello modellò un personaggio sulle caratteristiche espressive di Moissi, il quale però morì poco prima dell’inizio delle prove.

A cosa deve Moissi la sua immeritata impopolarità?

Come successo ad altri attori a lui contemporanei, la sua memoria è stata sepolta dalle macerie della Seconda guerra mondiale. In più per Moissi subentra un discorso di appartenenza, di identità culturale secondo visioni marcatamente nazionalistiche che di fatto hanno provocato il suo lungo oblio storico. È germanico perché ha recitato a lungo a Berlino e combattuto sul fronte Occidentale? È austriaco, considerando la nascita nella Trieste asburgica e i lunghi e trionfali trascorsi a Vienna? È italiano per via della madre toscana e per gli ultimi due anni della sua carriera vissuti sui palcoscenici nazionali? È albanese, per il sangue paterno? Risponde Bertolt Brecht: «Io credo che non si possa considerare Moissi solo un attore tedesco. Ancora non si è capito perché è stato per tutti noi così importante e già diverse nazioni litigano per appropriarsene». Così si spiega il sottotitolo «Grande attore europeo 1879-1935» dato a questo mio libro edito dall’imolese Cue Press.

Cosa farà scoprire ai lettori il suo lavoro?

Il libro offre al lettore l’incrocio di più percorsi tematici, a partire dalla figura dell’attore e alla dibattuta e non facile mutevolezza in rapporto alla nascente figura del regista. Così il percorso artistico di Moissi, declinato anche nelle sue lunghe tournées europee e mondiali, comprese le esibizioni a New York, diventa un confronto con le varie realtà teatrali in riferimento alle attese del pubblico e alle valutazioni della critica militante. Altro nodo cruciale sono le scosse telluriche provocate dalla Grande guerra nella cultura teatrale europea: si anima una tensione creativa tra la conservazione di una tradizione attoriale e, di contro, la volontà di cambiamento, moderato o radicali. Moissi oscilla tra queste due visioni.

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Ronconi
26 Giugno 2023

Quando Luca Ronconi si cimentò con il teatro di andamento favolistico

Andrea Bisicchia, «Libertà Sicilia»

È possibile andare in cerca della felicità, come fanno i due protagonisti di L’uccellino azzurro (1909) di Maurice Maeterlinck, edito da Cue Press, recuperando la traduzione di Luca Ronconi, pubblicata da Emme Edizioni nel lontano 1979, quando il regista la portò in scena in una persino eccessiva produzione dell’ATER? Oggi è possibile rileggerla con Prefazione di Luca Scarlini e con la riproposta della introduzione dello stesso Ronconi.

Alberto Arbasino, in occasione del debutto (1979), scrisse: «Forse è stato lo spettacolo più bello della mia vita e, certamente, uno dei più strepitosi dell’Art Nouveau». Non tutti i critici, però, furono d’accordo con Arbasino. Roberto De Monticelli sulle pagine del «Corriere» sottolineò una certa «monotonia», dovuta anche alla durata dello spettacolo di oltre quattro ore. In verità, Ronconi volle cimentarsi con la favola, cercando una nuova strada nel Teatro per i Ragazzi; una favola che egli destinava anche a un pubblico adulto. Non solo per le qualità simboliche del testo che, come tali, avrebbero dovuto raggiungere tutti, ma perché si trattò di uno spettacolo tipicamente ronconiano, che cercò di andare oltre il valore mitico ed esortativo del fiabesco, per puntare direttamente alla forza dell’irrazionale, oltre che dell’inconscio.

In quegli anni fu pubblicato da Feltrinelli Il libro incantato di Bettelheim (1976), uno studio sulla fiaba e l’inconscio che Ronconi aveva letto, avendo intuito che la fiaba comunica su due livelli: quello della coscienza e quello dell’inconscio. Così il viaggio iniziatico che i due figli del boscaiolo, Tytyl e Mytyl, compiono attraverso i misteri della Notte, della Morte, della Natura, del Tempo – accompagnati dalle essenze che sono più vicine al loro mondo quotidiano: il Fuoco, l’Acqua, il Pane, lo Zucchero – diventa un viaggio nel proprio mondo interiore. Ai due viaggiatori sarà concesso di incontrare la Fata, a cui riveleranno i loro pensieri, mentre la Luce sarà la loro guida nel territorio dei ricordi, dove intravedono le figure del nonno e della nonna, che sembrano addormentati, ma che riprendono vita quando i due nipoti si avvicinano. Arriveranno, nel frattempo, nel Palazzo della Notte, dove incontreranno il Sonno e la Morte. Quando fanno tappa nella Foresta, viene loro ricordato quanto male l’uomo abbia compiuto nei suoi confronti. Solo verso la fine giungeranno nel Giardino della Felicità, dove le Grandi Felicità si mostrano in tutta la loro seduzione, ma non sono le sole, perché esistono le Piccole Felicità, le Felicità Domestiche, la Felicità di star bene in salute e, infine, la felicità dell’Amore Materno.

È chiaro che il viaggio di Tytyl e Mytyl è un viaggio onirico, ed ecco la difficoltà di portare in scena il mondo dei sogni. Come non pensare a Il sogno di Strindberg, che lo stesso Ronconi metterà in scena alcuni anni dopo? Nell’Uccellino azzurro, la storia riguarda il mondo dell’infanzia; solo che questo mondo non può non coinvolgere i grandi, ovvero i genitori, i docenti, gli psicologi. Per questo motivo, Ronconi eviterà di costruire uno spettacolo didattico, puntando su un viaggio di conoscenza che non vuol essere, certo, un viaggio edificante.

Lo spettacolo, come ricorda lo stesso regista, fu concepito utilizzando la tecnica tradizionale del teatro, con fondali dipinti, e con molteplici trasformazioni e cambiamenti a vista, avendo come fine la maniera più semplice per realizzare, su un palcoscenico, il sogno di tutti: quello di cercare la felicità col ricorso all’infanzia, perché grazie ad essa può accadere, come sostiene Luca Scarlini, che si possa escludere la violenza, perché con l’infanzia al potere si viene a creare un antidoto alle idee forsennate delle nazioni che, in quegli anni, si preparavano alla corsa agli armamenti e al primo conflitto mondiale. A Milano, lo spettacolo fu programmato al Teatro Nazionale (1980). Fortemente voluto da Giordano Rota, tra i tanti protagonisti ricordiamo Franco Branciaroli, Regina Bianchi, Mauro Avogadro, Marisa Fabbri, Fabio Grossi e Piero Di Iorio. La Stagione 1979/80 dell’ERT fu molto felice. Ricordiamo, oltre L’uccellino azzurro, Il Gabbiano, con la regia di Lavia; Come le foglie, regia Giancarlo Sepe; Edipo tiranno, regia Benno Besson, con uno straordinario Vittorio Franceschi; Antonio Ligabue, regia Memè Perlini. Quando il teatro non si perdeva in chiacchiere o in fatue teorizzazioni.

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19 Giugno 2023

Caryl Churchill, Top Girls

Massimo Bertoldi, «Il Cristallo On Line»

«Maestra dei dialoghi sospesi, carichi di ambiguità, di sorprese, di sensi segreti»: in questo modo Luca Scarlini definisce la scrittura di Caryl Churchill, riferendosi in particolar modo a Top Girls, uno dei testi della consacrazione – assieme a Settimo cielo e L’amore del cuore – della drammaturga londinese, nota anche per i radiodrammi di stampo marcatamente antiborghese. Ora Top Girls è stato rieditato da Cue Press per la traduzione dall’inglese di Margaret Rose, adattata per l’allestimento di Fondazione Teatro Due con la regia di Monica Nappo. La commedia, scritta nel 1982 (si legge in una nota della compagnia parmense): «Affronta in modo strutturale e teatrale molti temi diversi, fra cui l’ineludibilità del confronto con il modello maschile nell’esercizio del potere e le sue contraddizioni».

Le protagoniste di questo testo provocatorio e ironico sono cinque figure femminili del passato. Provengono da diversi contesti e periodi storici e sono raccolte, in una metaforica e immaginaria cena, intorno a Marlene, manager moderna che festeggia l’inaugurazione di un’agenzia di collocamento per donne. Attorno al tavolo di un ristorante, di sabato sera, si accomodano: la papessa Giovanna, attiva dall’854 all’856; Dull Gret, dipinta da Peter Brugel il Vecchio; la poetessa e concubina dell’imperatore giapponese e poi monaca buddista dal XIII secolo Lady Nijo; Isabel Bird, scrittrice ed esploratrice tra Ottocento e Novecento; e Griselda, moglie obbediente raccontata da Boccaccio e Chaucer. Le donne si confidano segreti, si raccontano sacrifici e conquiste ottenute all’ombra di una società severamente patriarcale e allineabili, in una declinazione contemporanea riconoscibile nel thatcherismo degli anni Ottanta, con le lotte e le sfide affrontate dalla stessa Marlene per conquistare una posizione di vertice. Si sviluppa il gioco delle sfasature spazio-temporali, che imprime continuità alla logica del potere connessa ai meccanismi del successo come si consuma in questa situazione conviviale oppure nell’ufficio dell’agenzia di collocamento. Significativo è un colloquio tra Marlene e la giovane Janine, alla quale mancano i requisiti professionali per poter lavorare nel mondo della pubblicità; il sogno le si sgretola con violenza tagliente.

A completare lo sviluppo di questa commedia tutta al femminile entrano in scena ragazzine inquiete, donne arriviste, madri frustrate pronte a esplodere, tutte disegnate dalla penna di Churchill con fine realistico-umoristico, oscillante tra caricatura irriverente e satira amara lungo l’asse di un linguaggio fluido e dinamico che anima il problema di base di Top Girls: gli effetti dell’accettazione quasi riflessa dei modelli maschili nella carriera – con connessa smania di potere – del resto così facilmente riscontrabili in esempi che anche oggi animano la scena politica nazionale e internazionale.

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Moissi
15 Giugno 2023

Alexander Moissi, grande attore europeo

«Il Teatro di Radio 3 — Rai Radio 3»

Alexander Moissi. Grande attore europeo 1879 – 1935 di Massimo Bertoldi, Cue Press: una monografia dedicata al grande attore italo-austriaco vissuto a cavallo tra Ottocento e Novecento.

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7. medea material by heiner muller, moscow 1989, taganka theatre, eurykleia sofroniadou, thodoros polyzonis, akis sakellariou (photos martin cohen)
5 Giugno 2023

Il teatro, in attesa della propria resurrezione, dovrà tornare a Dionysos, come vita, ribellione, istinto, creatività ed erotismo

Andrea Bisicchia, «lo Spettacoliere»

Per capire l’idea di teatro di Theodoros Terzopoulos, almeno in Italia, occorre partire da un suo spettacolo, visto al Teatro delle Passioni di Modena nel 2017. Si trattava di ENCORE (Ancora), ovvero della tenacia nel chiedere qualcosa, come dire: «Ti prego, ancora». Una specie di supplica, la stessa che faceva vibrare i corpi dei due attori, Sophia Hiel e Antonis Myriagkos, che, sul palcoscenico, si rincorrevano, si scontravano, si annusavano, ai limiti di una fisicità che puntava soprattutto su un’attrazione erotica.

In quella messinscena si intravedeva già il concetto di energia creativa, che il regista greco ha cercato di teorizzare nel volume edito da Cue Press, Il ritorno di Dionysos, da intendere come ritorno all’energia del corpo, quella delle origini, del mito, prima della sua strutturazione in pensiero, con l’arrivo di Eschilo, Sofocle ed Euripide. Si trattava di un’energia che veniva declinata in pure e semplici azioni che, però, rispecchiavano le condizioni religiose, sociali e culturali delle origini, quando il corpo conteneva, in sé, tutte le forze istintuali ed energetiche. Dionysos era l’eroe del mito, ben diverso dall’eroe tragico; era il dio della ribellione, della danza, dell’eros inteso non solo come attrazione sessuale, ma come vita; ed ancora, del potere, della sregolatezza. Al contrario, l’eroe tragico è quello che pensa, ragiona, che si oppone, si ribella, ma che soccombe, come direbbe Emanuele Severino, al destino della necessità. La sua sconfitta è pari a quella dell’artista, il cui compito consiste nell’andare contro ogni forma di potere, non più quello degli dei, ma quello degli uomini, quindi di chi detiene le idee e costruisce gli ideologismi, quelli che si sono espressi attraverso il materialismo, il liberalismo economico, la globalizzazione, la tecnologia, e che hanno invaso il nostro Olimpo, privo però di divinità. Compito dell’artista, pertanto, non è quello di schierarsi, come avviene puntualmente oggi, perché chi si schiera perde il potere di andare contro il sistema e sente di smarrire la propria libertà. Terzopoulos rivendica, in teatro, la libertà dell’attore, la cui autenticità dovrà coincidere con l’autenticità del teatro stesso, che, proprio negli ultimi decenni, ha perso il contatto con le origini, ovvero con Dionysos, il suo tenace rappresentante, il dio che permette all’attore di «agire» (actor vuol dire proprio questo), di liberare la propria energia vitale ed erotica – eros inteso come vita – e, quindi, la propria creatività.

Il teatro, oggi, ha bisogno di risorgere, così come risorse Dionysos, quando il suo corpo venne smembrato, come accadde ad Adone in Siria, a Osiride in Egitto, ad Attis in Frigia e a Cristo in Palestina. C’è chi sostiene che il teatro di ieri sia morto; solo che, per rinascere, ha bisogno del suo fondatore, ovvero di Dionysos, che invita l’attore a ricercare il corpo archetipico, represso dall’inconsistenza del teatro contemporaneo, e a liberare i propri istinti, con la capacità di reagire alle restrizioni imposte dalla quotidianità e riconquistare una fondata energia. Sempre, però, attraverso l’uso accurato del corpo e delle sue conseguenti azioni, da concepire come un’esperienza da vivere in maniera attiva. Terzopoulos indica all’attore il modo con cui potrà essere portatore di energia, invitandolo a coltivare la voce, la respirazione, il rapporto col tempo e col senso da dare alle cose, a raccogliere i residui nascosti dei riti dionisiaci; e, infine, gli ricorda la salvaguardia del ruolo che non può essere solo di tipo estetico, ma che dovrà essere di tipo rituale prima ed esistenziale dopo. Recentemente abbiamo visto, con la regia di Terzopoulos, Aspettando Godot, con Paolo Musio, Stefano Randisi ed Enzo Vetrano. Anche in questo spettacolo il regista ha voluto esemplificare il suo «metodo», costruito sul corpo, inteso come luogo in cui si consuma il nostro tragico quotidiano.

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1 Giugno 2023

Heiner Müller, Teatro

Paola Quadrelli, «Allegoria 87», XXXV-87

Molto presente sui palcoscenici italiani sin dagli anni Ottanta, l’opera teatrale di Heiner Müller è invece ormai scomparsa dagli scaffali delle librerie: non si può dunque che apprezzare la pubblicazione del presente volume, che offre al lettore italiano un’ampia messe di sue pièces, comprensiva di alcuni testi canonici della drammaturgia mülleriana: Filottete, L’Orazio, Mauser, Hamletmaschine, L’incarico, Quartetto e Riva Degradata Materiale Medea. Per tutti i testi la curatrice propone una traduzione autonoma, come si evince dal mutato titolo di drammi quali Der Auftrag, tradotto con L’incarico – più sobrio rispetto al solenne e tradizionale La missione – e di Verkommenes Ufer, tradotto con Riva degradata, anziché «abbandonata».

I risultati di questa nuova impresa traduttoria appaiono, nel complesso, diseguali e spesso discutibili; la stessa «riva degradata» nel titolo sopracitato si rivela problematica, giacché tale aggettivo non si attaglia a un paesaggio naturale. Forse più opportuna sarebbe stata la scelta dell’aggettivo «desolata», che avrebbe anche reso trasparente il riferimento al Wasteland eliotiano, suggerito in un’intervista dallo stesso Müller. Ciononostante la versione di Verkommenes Ufer risulta senz’altro più precisa di quella a suo tempo approntata da Saverio Vertone (Ubulibri, 1991). Non soddisfacente è invece la traduzione di Philoktet, che, oltre ad annoverare qualche errore, si rivela molto meno perspicua, compatta ed efficace della versione di Peter Kammerer e Graziella Galvani (Il melangolo, 2003). Né si capisce se la presente traduzione sia pensata per una recita a teatro o piuttosto per un lavoro di studio; la frequenza con cui singoli vocaboli vengono tradotti con un doppio termine (ad esempio: Mann con «uomo, maschio», der Schrecken con «lo spavento, l’orrore») fa infatti pensare che la traduzione sia rivolta a un lettore che intenda riflettere sulla polisemia dei termini mülleriani piuttosto che a uno spettatore che ha bisogno di un testo dotato di una certa fluidità.

I testi di Müller mantengono peraltro intatta la loro forza e pur nella loro diversità rivelano un ordito comune di temi e motivi: il tradimento, il conflitto tra l’individuo e la società, la violenza e il suo eccesso, la strumentalizzazione del singolo, ridotto a «valore d’uso», la liberazione della donna dai vincoli patriarcali, il disagio della civiltà occidentale e la sua vocazione tecnocratica e colonizzatrice. Nel teatro di Müller, uno scrittore fortemente materialista, discepolo di Marx e Nietzsche, il corpo si erge a veicolo di rivolta e serbatoio di utopia: ecco dunque la barbara Medea, con le sue mani «consunte, trafitte e spellate», l’accecato Edipo, il ferino Filottete con il suo piede putrescente, Galloudec che muore di cancrena, la coppia Merteuil/Valmont in Quartetto, che, a dispetto della decadenza fisica, è scossa da un erotismo indomito e crudele. Come in molto teatro d’avanguardia del secondo Novecento, non mancano anche nei drammi di Müller pupazzi e marionette, simulacri dell’uomo che del corpo umano mimano i movimenti. Potente e incisivo si rivela in tal senso il brevissimo Dramma notturno, estrema e scarnificata riflessione di ascendenza beckettiana sulla corporeità e sul dolore, in cui compare sulla scena un essere umano, o forse un pupazzo, privo di bocca. Questo essere dalla natura indefinita non riesce a impadronirsi di una bicicletta che attraversa la scena e si sottopone a uno smontaggio degli arti, sino a venire accecato da due spuntoni: «Urla. La bocca nasce con l’urlo». La chiusura sembra tratteggiare una cupa e sconcertante Genesi laica, in cui la capacità espressiva che connota l’uomo nasce dal dolore e della percezione della corporeità ferita.

Il volume si segnala infine per l’apparato di note e l’ampio saggio conclusivo della curatrice, Rendere la realtà impossibile: Heiner Müller alle prese col nostro tempo, che offre un confronto con la drammaturgia mülleriana di taglio filosofico-politico, partecipe e fortemente personale.

Bunuel
1 Giugno 2023

Luis Buñuel su Luis Buñuel

Gigi Giacobbe, «Teatro Contemporaneo e Cinema», XIV-45

Ho amato il Cinema di Buñuel sin da ragazzo, al tempo in cui in un Cineforum della mia città vidi in accoppiata Un chien andalou e L’Âge d’or, sceneggiati assieme a Salvador Dalì. Del primo ho chiara l’immagine di un uomo che seziona l’occhio di una ragazza, del secondo ricordo che iniziava con un documentario sulle abitudini d’uno scorpione. Debbo confessare che rimasi molto impressionato dalle immagini in bianco e nero dei due film, al punto che cercai di documentarmi (non così facilmente come oggi con internet e Wikipedia) sulla figura del regista spagnolo (naturalizzato messicano) e sul movimento surrealista che aveva animato i due film. Andai poi alla ricerca dei film realizzati in Messico, non mancando di vedere i film proposti più avanti come Viridiana, L’angelo sterminatore, Simon del deserto fino a Quell’oscuro oggetto del desiderio del 1977, che chiude la filmografia di Buñuel, condensata in ben 31 film girati. In una mia classifica personale dei registi più amati, Buñuel occupava il primo posto, cui seguivano: Ingmar Bergman, Federico Fellini, Francois Truffaut e Bernardo Bertolucci. Classifica rimasta immutata anche dopo la scomparsa di Buñuel a Città del Messico nel 1983 e i tanti registi americani, tedeschi, russi ecc. comparsi negli anni.

Adesso ho davanti a me il libro che definirei, oltre che prezioso, anche esaustivo sulla figura di Buñuel, edito da Cue Press, titolato Luis Buñuel su Luis Buñuel, un vero e proprio testamento artistico ad opera di due studiosi e critici cinematografici scomparsi da alcuni anni: il messicano Tomàs Pèrez Turrent e lo spagnolo Josè de la Colina, che tra non poche difficoltà sono riusciti a portare a compimento un’opera iniziata alla fine del 1974 e finita nel 1981, architettata a guisa che i 31 film ci vengono mostrati attraverso le puntute domande dei due critici e le risposte chiare e precise di Buñuel, che rendono oltremodo vive e vivaci le pellicole realizzate. Fu Buñuel a suggerire a Dalì di fare un film insieme dopo aver sognato, il primo di tagliare un occhio a qualcuno, il secondo d’aver la mano piena di formiche; in sei giorni scrissero il copione di Un chien andalou, realizzato con 25 mila pesetas che gli aveva dato la madre di Buñuel, diventati poi solo la metà perché spesi per cabaret e cene con gli amici a Parigi.

Nella sua prefazione, Goffredo Fofi scrive che se ci fosse stato un Premio Nobel per il Cinema, Buñuel sarebbe stato il primo ad aggiudicarselo, unitamente al Premio Oscar. Perché per lui Buñuel è uno dei più grandi registi della storia del Cinema, uno dei più originali e innovativi artisti del Novecento. Confessando più avanti che il suo film preferito, quello che lo ha sconvolto di più dopo I figli della violenza, resta Nazarin, nei quali Buñuel esprime idee da grande sociologo, filosofo e moralista. Il libro descrive pure, sotto forma d’intervista, gli anni della formazione di Buñuel, che vanno dalla nascita a Calenda (Spagna) nel 1900, sino a quando si trasferisce a Parigi nel 1928; e si conclude con l’elenco completo della filmografia (locandine e sinossi comprese), e in chiusura l’indice dei nomi. È sconosciuto l’autore della bella foto di copertina, che ritrae Buñuel in giacca e camicia scura, volto semi sorridente, con sigaretta accesa tra le dita, riconoscibile per la palpebra dell’occhio destro più calata rispetto al sinistro.

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23 Maggio 2023

Paolo Grassi: cento anni di palcoscenico

Isabella Gavazzi, «Drammaturgia»

Il centenario della nascita di Paolo Grassi (1919-1981) è stata l’occasione per organizzare nel marzo 2019 un convegno a lui dedicato presso l’Università di Milano, dal quale sono tratti gli otto contributi che troviamo in questo volume, curato da Isabella Gavazzi.

Figura emblematica per la politica e la cultura (sia teatrale che televisiva) del Novecento, Grassi rivive attraverso gli occhi e le parole di intellettuali e critici che hanno lavorato con lui, in un volume a beneficio di studenti e ricercatori delle nuove generazioni ma anche degli studiosi più colti. Il desiderio è quello di «Fornire un ritratto a tutto tondo che ne abbracci la figura professionale, gli aspetti caratteriali e la personalità, il tutto inserito in un contesto che oggi viene classificato già come storia: scelte professionali, problemi di natura politica sorti durante il percorso lavorativo, il concetto stesso di ‘fare cultura’» (p. 19).

I primi due contributi della curatrice permettono di presentare Paolo Grassi sia come «addetto ai lavori» sia come uomo, attraverso l’intervista a Carlo Fontana – che è stato suo allievo – e il breve excursus sulla sua poliedrica biografia. Noto impresario teatrale, direttore, giornalista e dirigente pubblico, figura fondamentale per la storia del teatro novecentesco milanese e non solo, Grassi si avvicina in giovane età al teatro. La conoscenza con Giorgio Strehler, Franco Parenti, Renato Guttuso e Salvatore Quasimodo fu per lui fonte di ricchezza culturale e di crescita. Il suo impegno politico di militante socialista si concretizza nel voler riportare Milano agli antichi splendori, con «opere d’arte al di sopra di ogni contenuto» (p. 23), attraverso un instancabile e continuo lavoro che lo porta ai vertici della cultura italiana.

Leonardo Spinelli approfondisce il contesto culturale e sociale nel quale Grassi inizia a lavorare nel Dopoguerra. Conosciuto in particolar modo per la fondazione del Piccolo Teatro di Milano (con l’amico Strehler), Grassi riunisce in sé la figura di sovrintendente e operatore culturale, essendo riuscito a superare «Quella dicotomia tra capocomici e artisti, che operano sulla scena, e organizzatori-burocrati, che al teatro guardano dall’esterno, pur essendo responsabili di grandi decisioni e soprattutto erogatori delle sovvenzioni» (p. 41).

Mariagabriella Cambiaghi ricorda come l’apertura del Piccolo Teatro sia associata al forte desiderio di portare la cultura ai cittadini, ispirato all’ideologia gramsciana. Il rapporto tra Grassi e Strehler, la «coppia dei consoli» (p. 41), viene ripercorso attraverso i principali eventi storici e culturali dell’epoca, fino alle dimissioni di Strehler dall’incarico di direttore artistico nel 1968. Alberto Bentoglio tratta di questo periodo, che dura fino al 1972, in cui Grassi continua a dirigere il teatro, lavorando contemporaneamente alla sua produzione artistica. Se precedentemente i cartelloni delle stagioni erano ricchi di teatro di regia, i cinque anni di direzione in solitudine sono contraddistinti da una diminuzione del numero di opere rappresentate – a favore della qualità – e da una costante ricerca di «opere adeguate alla nuova e complessa realtà del momento e ispirate all’attualità, per scuotere il pubblico e attirare la sua attenzione» (p. 54) (come Visita alla prova de L’isola purpurea di Bulgakov. Con interventi e ipotesi finale di Giuliano Scabia o Off limits di Arthur Adamov).

La direzione di Grassi, che sopravvive ai moti del ’68 e del ’69, si conclude cinque anni dopo per il sopraggiunto incarico come sovrintendente del Teatro alla Scala, descritto da Mattia Palma come un momento importante per la sua vita, rappresentando l’«esempio per le stimolanti – ma anche logoranti – lotte esterne e interne, politiche e artistiche che […] ha dovuto affrontare» (p. 65). Grassi, con la direzione musicale di Claudio Abbado e del direttore artistico Massimo Bogiankino, porta con sé alla Scala la sua idea di teatro impegnato popolare, pensando «la sovrintendenza della Scala come una missione culturale per il Paese» (p. 66), dove si ricerca un teatro «di stagione», attraverso una programmazione triennale degli spettacoli, dove il fine ultimo è unire il teatro popolare – sempre di concezione gramsciana – a quello d’élite.

Irene Piazzoni presenta la figura di Grassi come intellettuale-funzionario della Rai, subito dopo aver lasciato la Scala nel 1977. In qualità di presidente della Rai – con Giuseppe Glisent come amministratore delegato – lotta con l’incombente arrivo della tv privata, mentre progetta la nascita del terzo canale Rai e la creazione di materiali e sceneggiati originali da proporre al pubblico italiano, poiché «l’obiettivo era […] di trovare un equilibrio tra amusement e cultura, tra superficiale e veloce consumo e approfondimento» (p. 85).

Il volume si conclude con l’intervento di Valentina Garavaglia, dedicato al Grassi editore e critico teatrale. Dagli esordi nelle prime redazioni milanesi ai contributi su «Corrente», fino agli scritti politici per il giornale «Avanti», si confronta «quotidianamente con la situazione teatrale del Paese, svelandone le tensioni culturali e sociali, con un’attenzione particolare alle categorie ‘deboli’, nell’ottica dell’appartenenza a un socialismo umanitario» (p. 96). Con le numerose collane di cui diventa direttore a partire dagli anni Quaranta – da «Collezione Teatro» a «Teatro Moderno», da «Il teatro nel tempo» fino al «Teatro» edito da Einaudi – Grassi vuole che l’editoria partecipi alla realizzazione di un’identità culturale non solo italiana, ma anche europea.

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Marivaux 1
19 Maggio 2023

Marivaux, Teatro III

Massimo Bertoldi, «Il Cristallo On Line»

La pubblicazione di Teatro III di Marivaux, che segue i primi due volumi editati nel 2021 e 2022, risponde ad un ambizioso e prezioso progetto di Cue Press finalizzato alla divulgazione del repertorio, conosciuto in Italia solo attraverso poche e irreperibili traduzioni, di questo grande commediografo francese molto legato al Théâtre Italien di Parigi, dove nel Settecento si esibivano le compagnie dei Comici dell’Arte e dai quali apprese lezioni stilistiche e tematiche.

Il volume in questione è diviso in due blocchi testuali. Il primo occupa tre opere scritte per gli attori della Comédie Italienne guidata da Luigi Riccoboni e catalogate come pièces d’été, ossia rappresentate, anche se con poco successo, durante i mesi estivi. Lo stratagemma riuscito (1733), Il quiproquo (1734) e La gioia imprevista (1738) condividono la modalità compositiva incentrata sull’esplicazione dei meccanismi della finzione per meglio indirizzare la concentrazione dello spettatore verso le peculiarità dei personaggi, animando, in questo modo, una sorta di autorappresentazione, come spiega nei dettagli Monica Pavesio nell’Introduzione.

Nello Stratagemma riuscito si anima l’intreccio comico della doppia infedeltà praticata dalla Contessa e dalla Marchesa e, nella sfera dei servi, da Lisetta, fidanzata di Arlecchino, che accetta il corteggiamento di Frontino. All’epoca conobbe solo tre rappresentazioni Il quiproquo, commedia ricca di equivoci, travestimenti e di scambi di persone tra due sorelle anche loro coinvolte nelle dinamiche dei corteggiamenti, prima caotici e ambigui, poi a lieto fine.

Il protagonista della Gioia imprevista è un giovane provinciale arrivato a Parigi con il servo Pasquino per comperare una carica nobiliare e per cercare moglie, poi trovata nella bella Costanza, dopo tante complicazioni provocate tra l’altro dal padre che, mascherato, intende controllare di nascosto il figlio.
Spetta a Paola Ranzini la meticolosa ricostruzione della fortuna e interpretazione scenica dal Settecento ad oggi di queste tre commedie che risultano assai controverse in sede critica e alle quali mancava la versione italiana, ora offerta dalla traduzione di Pavesio.

La seconda parte di Teatro III contiene il cosiddetto trittico delle Isole, ovvero i «mondi alla rovescia, isolotti di pensieri, spazi di immaginazione, fantasie politiche» di Marivaux, secondo quanto si legge nella luminosa introduzione di Stephane Kerber. Nell’ Isola degli schiavi (1725) domina il tema dell’uguaglianza sociale come vissuta da Arlecchino e dal padrone Ificrate, sbarcati su un’isola dove tutto è lecito, compreso il rovesciamento dei ruoli tra uomo e donna; il fondamento della ragione informa di sé L’isola della ragione (1727), in cui otto viaggiatori europei entrano in contatto con un’altra civiltà per esibire dimostrazioni di ragioni e bontà.

Queste Isole sono semplici divertimenti con elementi carnevaleschi oppure trasmettono messaggi e istanze politiche? «Sono certamente l’uno e l’altro. E molto altro ancora», risponde in merito Kerber, ricordando l’educazione morale e sentimentale soprattutto presente tra le pieghe narrative dell’ Isola degli schiavi. Non solo: nella celebre edizione del 1994 Giorgio Strehler, cui spetta il merito di aver diffuso con successo la commedia in Italia, aveva creato un gioco finemente allusivo per fantasticare, pur con piglio storico-filologico, «il suo primo allestimento da parte di una compagnia di comici italiani attivi a Parigi», ricorda Paola Ranzini nelle pagine dedicate alla ricostruzione storico-artistica dei tanti allestimenti che si sono susseguiti fino ad oggi, compresi quelli dell’ Isola della ragione, opera meno fortunata, e della Colonia, inedita per l’Italia fino alla recente messinscena curata da Beppe Navelli a Firenze per il Teatro della Toscana nel novembre-dicembre 2022.

La stessa regia, che aveva allestito nel 2015 Il trionfo del dio denaro, si sofferma sui contenuti della commedia, ripercorrendone la trama e soffermandosi sullo sfortunato debutto del 1729 cui seguì, come raccontano le cronache dell’epoca, un Divertissement in cui «si cantano i vantaggi che l’amore offre alle donne rispetto agli uomini per ricompensarle del rifiuto di associarle al governo». Composto da Charles-François Pannard e accompagnato dalla musica di Jean-Joseph Mouter, il testo e lo spartito chiudono questa corposa e fondamentale raccolta marivaudiana, che restituisce al drammaturgo francese tutta la sua grandezza creativa, alla quale manca ancora adeguata visibilità sui palcoscenici italiani.

Difatti si contano sulle dita di una mano i testi allestiti: oltre a quelli citati, si ricordano le tre rappresentazioni del Gioco dell’amore e del caso, per le regie di Massimo Castri nel 1993 (cui compete anche La disputa nel 1992), di Antonio Syxty nel 2001 e di Giuseppe Manfridi nel 2012; degli Amanti sinceri, dell’ Assemblea degli amori e I sinceri (regia di Claudio Beccari, 1997) e del Principe travestito a cura di Cristina Pezzoli nel 1997.

Infine ha il sapore della scommessa pionieristica la rappresentazione da parte di Marco Bernardi nel 1988 di Arlecchino educato dall’amore di cui è protagonista un Arlecchino non più maschera scanzonata ma figura galante e scaltra, mossa da ragionamenti di matrice illuministica nel rapporto con la Fata, di cui è innamorato.

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