Logbook

Approfondimenti, interviste, recensioni e cultura: il meglio dell’editoria e delle arti da leggere, guardare e ascoltare.

Marivaux 1
19 Maggio 2023

Marivaux, Teatro III

Massimo Bertoldi, «Il Cristallo On Line»

La pubblicazione di Teatro III di Marivaux, che segue i primi due volumi editati nel 2021 e 2022, risponde ad un ambizioso e prezioso progetto di Cue Press finalizzato alla divulgazione del repertorio, conosciuto in Italia solo attraverso poche e irreperibili traduzioni, di questo grande commediografo francese molto legato al Théâtre Italien di Parigi, dove nel Settecento si esibivano le compagnie dei Comici dell’Arte e dai quali apprese lezioni stilistiche e tematiche.

Il volume in questione è diviso in due blocchi testuali. Il primo occupa tre opere scritte per gli attori della Comédie Italienne guidata da Luigi Riccoboni e catalogate come pièces d’été, ossia rappresentate, anche se con poco successo, durante i mesi estivi. Lo stratagemma riuscito (1733), Il quiproquo (1734) e La gioia imprevista (1738) condividono la modalità compositiva incentrata sull’esplicazione dei meccanismi della finzione per meglio indirizzare la concentrazione dello spettatore verso le peculiarità dei personaggi, animando, in questo modo, una sorta di autorappresentazione, come spiega nei dettagli Monica Pavesio nell’Introduzione.

Nello Stratagemma riuscito si anima l’intreccio comico della doppia infedeltà praticata dalla Contessa e dalla Marchesa e, nella sfera dei servi, da Lisetta, fidanzata di Arlecchino, che accetta il corteggiamento di Frontino. All’epoca conobbe solo tre rappresentazioni Il quiproquo, commedia ricca di equivoci, travestimenti e di scambi di persone tra due sorelle anche loro coinvolte nelle dinamiche dei corteggiamenti, prima caotici e ambigui, poi a lieto fine.

Il protagonista della Gioia imprevista è un giovane provinciale arrivato a Parigi con il servo Pasquino per comperare una carica nobiliare e per cercare moglie, poi trovata nella bella Costanza, dopo tante complicazioni provocate tra l’altro dal padre che, mascherato, intende controllare di nascosto il figlio.
Spetta a Paola Ranzini la meticolosa ricostruzione della fortuna e interpretazione scenica dal Settecento ad oggi di queste tre commedie che risultano assai controverse in sede critica e alle quali mancava la versione italiana, ora offerta dalla traduzione di Pavesio.

La seconda parte di Teatro III contiene il cosiddetto trittico delle Isole, ovvero i «mondi alla rovescia, isolotti di pensieri, spazi di immaginazione, fantasie politiche» di Marivaux, secondo quanto si legge nella luminosa introduzione di Stephane Kerber. Nell’ Isola degli schiavi (1725) domina il tema dell’uguaglianza sociale come vissuta da Arlecchino e dal padrone Ificrate, sbarcati su un’isola dove tutto è lecito, compreso il rovesciamento dei ruoli tra uomo e donna; il fondamento della ragione informa di sé L’isola della ragione (1727), in cui otto viaggiatori europei entrano in contatto con un’altra civiltà per esibire dimostrazioni di ragioni e bontà.

Queste Isole sono semplici divertimenti con elementi carnevaleschi oppure trasmettono messaggi e istanze politiche? «Sono certamente l’uno e l’altro. E molto altro ancora», risponde in merito Kerber, ricordando l’educazione morale e sentimentale soprattutto presente tra le pieghe narrative dell’ Isola degli schiavi. Non solo: nella celebre edizione del 1994 Giorgio Strehler, cui spetta il merito di aver diffuso con successo la commedia in Italia, aveva creato un gioco finemente allusivo per fantasticare, pur con piglio storico-filologico, «il suo primo allestimento da parte di una compagnia di comici italiani attivi a Parigi», ricorda Paola Ranzini nelle pagine dedicate alla ricostruzione storico-artistica dei tanti allestimenti che si sono susseguiti fino ad oggi, compresi quelli dell’ Isola della ragione, opera meno fortunata, e della Colonia, inedita per l’Italia fino alla recente messinscena curata da Beppe Navelli a Firenze per il Teatro della Toscana nel novembre-dicembre 2022.

La stessa regia, che aveva allestito nel 2015 Il trionfo del dio denaro, si sofferma sui contenuti della commedia, ripercorrendone la trama e soffermandosi sullo sfortunato debutto del 1729 cui seguì, come raccontano le cronache dell’epoca, un Divertissement in cui «si cantano i vantaggi che l’amore offre alle donne rispetto agli uomini per ricompensarle del rifiuto di associarle al governo». Composto da Charles-François Pannard e accompagnato dalla musica di Jean-Joseph Mouter, il testo e lo spartito chiudono questa corposa e fondamentale raccolta marivaudiana, che restituisce al drammaturgo francese tutta la sua grandezza creativa, alla quale manca ancora adeguata visibilità sui palcoscenici italiani.

Difatti si contano sulle dita di una mano i testi allestiti: oltre a quelli citati, si ricordano le tre rappresentazioni del Gioco dell’amore e del caso, per le regie di Massimo Castri nel 1993 (cui compete anche La disputa nel 1992), di Antonio Syxty nel 2001 e di Giuseppe Manfridi nel 2012; degli Amanti sinceri, dell’ Assemblea degli amori e I sinceri (regia di Claudio Beccari, 1997) e del Principe travestito a cura di Cristina Pezzoli nel 1997.

Infine ha il sapore della scommessa pionieristica la rappresentazione da parte di Marco Bernardi nel 1988 di Arlecchino educato dall’amore di cui è protagonista un Arlecchino non più maschera scanzonata ma figura galante e scaltra, mossa da ragionamenti di matrice illuministica nel rapporto con la Fata, di cui è innamorato.

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Moissia
14 Maggio 2023

Alexander Moissi, la star dimenticata applaudita a Bolzano

Fabio Zamboni, «Alto Adige»

Per mamma e papà – rispettivamente italiana e albanese – era Aleksandër Moisiu. Per gli italiani – era nato a Trieste nel 1879 – era Alessandro Moissi. Per il mondo del teatro – che era quello austriaco e germanico – era Alexander Moissi. Di queste tre versioni, Massimo Bertoldi, storico del teatro bolzanino e critico teatrale dell’Alto Adige, ha scelto la terza, Alexander Moissi, perché la vita teatrale di questo personaggio curioso, legata soprattutto a Vienna e a Berlino, fu per l’appunto tedesca e perché il nome meglio si adatta alla dimensione mitteleuropea del personaggio, alla sua storia e alla temperie culturale in cui crebbe e divenne famoso. Famoso e dimenticato. E infatti Bertoldi gli dedica un volume, costruito in cinque anni di ricerche e pubblicato non a caso da Cue Press, editore superspecializzato nel settore del teatro.

La carriera

Ma chi era Moissi, e che cosa ha spinto l’autore di questa preziosa biografia a ricostruirne vita, morte e miracoli (teatrali)? Figlio di un facoltoso commerciante albanese, il protagonista di questa storia si era ritrovato a crescere in una famiglia impoverita da una disgrazia: la flotta mercantile che consentiva al padre Costantino lauti guadagni venne distrutta da una tempesta. Questo costrinse Alessandro a cercare fortuna in un altro angolo dell’impero Austro-ungarico, di cui faceva parte anche la natia Trieste. Decimo e ultimo di dieci fratelli, sbarcò a Vienna sulle orme di una sorella, inseguendo da subito una carriera artistica.

Voce tenorile di notevole qualità, entrò al Conservatorio di Vienna, ammesso da una commissione di cui faceva parte l’illustre Ferruccio Busoni, ma ben presto ne fu espulso per totale disimpegno nello studio. Giovane disoccupato, passando davanti al Burgtheater lesse un avviso che annunciava la ricerca di comparse. Fu la sua fortuna: dopo un paio di «comparsate» e alcune apparizioni nel coro popolare di un’opera lirica, sul palco lo notò Josef Kainz, superstar del teatro viennese, e fu lui ad avviarlo alla formazione e alla carriera di attore. Carriera che, ci ricorda Bertoldi nel volume, iniziò con due anni di gavetta al Neues Deutsches Theater di Praga, segnalandosi soprattutto per il ruolo da protagonista nel Cyrano. Fu il primo atto di una carriera straordinaria, osannata e contrastata, esaltata da tanti critici ma anche ricca di critiche negative: Moissi usava la voce come uno strumento musicale, e non aveva mai perso il suo accento da italiano. Ma aveva un fascino misterioso, un carisma che gli permise di diventare un attore alla Mastroianni, di quelli che non recitano il personaggio ma se stessi, capaci di trasferire sulla propria personale essenza – e di viverla intensamente – le caratteristiche del ruolo da interpretare. Che non è più interpretato ma vissuto fino in fondo.

Ed ecco la grande occasione: Max Reinhardt, regista e celebre direttore del Deutsches Theater di Berlino, lo chiama nella sua compagnia: è il 1903 e il pubblico berlinese, affamato di novità e di contemporaneità, lontanissimo dal paludato tradizionalismo dei viennesi, lo adotta subito e lo consacra star nei ruoli principali dei Bassifondi di Gorkij e nell’Elektra di Hoffmanstahl. Moissi si confronta con altri grandi autori come Schiller e Shakespeare e Ibsen e affronta con Reinhardt fitte tournée a Vienna, Mosca e Parigi. Scoppia la Prima Guerra mondiale e l’attore, trentaseienne, per dimostrare la sua gratitudine verso la nazione che lo aveva adottato e lanciato, si arruola e va a combattere sul fronte francese; l’aereo da ricognizione su cui vola viene intercettato dagli inglesi, Moissi viene catturato e chiuso in un campo di prigionia, dove si ammala di tubercolosi.

Due anni dopo lo liberano e lui, nella nuova Germania repubblicana, matura idee rivoluzionarie: si innamora del socialismo e della rivoluzione bolscevica e riprende a lavorare in teatro tornando a fare base a Vienna con frequenti tour in Russia, dove diventa un idolo anche grazie alla sua fama di socialista. Si muove con disinvoltura fra la moderna Berlino e la nostalgica Vienna, collezionando recensioni contrastanti per l’originalità estrema delle sue interpretazioni. Poi finalmente calca un palco italiano, ospite della sua Trieste nel maggio del 1918. Ed è solo l’inizio di una frequentazione italiana, che ricorre più volte e lo porta a diventare amico di artisti come Eleonora Duse. Le tournée con importanti compagnie viennesi e berlinesi si allargano a Parigi e agli Stati Uniti, fino a quando le nuove avanguardie e la voglia di modernità della cultura berlinese non oscurano la fama di Moissi, che si era cimentato nel frattempo anche nel cinema. In quello muto, che certo non valorizzava la dote principale dell’attore triestino: la sua voce.

Dunque una carriera non lunghissima ma molto intensa, segnata da incontri storici come quello con Pirandello, che per lui scrisse un testo, Franz Kafka, che ne esaltò le doti nei suoi Diari, e Benito Mussolini, che lo applaudì più volte. Il Duce gli promise la cittadinanza italiana, che ottenne solamente in punto di morte. Consumato dalle conseguenze di quella tubercolosi che lo aveva aggredito in guerra, morì a Vienna il 22 aprile del 1935, e dopo i solenni funerali viennesi fu seppellito – per sua espressa volontà – nel piccolo cimitero svizzero di Morcote, sul lago di Lugano, dove si rifugiava spesso negli ultimi anni di vita. Sulla lapide l’essenziale: Alessandro Moissi 1879-1935. Di questo grande attore, dimenticato in fretta e ingiustamente dalla storiografia del teatro, restavano fino ad oggi poche tracce, disperse nelle biblioteche e nelle emeroteche della Mitteleuropa.

Il libro

Bene dunque ha fatto Massimo Bertoldi – già autore di vari saggi sul teatro rinascimentale e contemporaneo, di Lungo la via del Brennero (2007) e del volume sui settant’anni di storia del Teatro Stabile di Bolzano (2021) – a ricostruirne vita e opere, con un lavoro certosino che lo ha portato a riesumare recensioni e documenti rintracciati in varie biblioteche, partendo dalla Tessman di Bolzano: «Ho iniziato da Bolzano, scoprendo che per esplorare quelle di Vienna, Berlino e altre città tedesche dove c’erano tracce di Moissi, oggi non serve viaggiare. Le biblioteche di mezza Europa sono digitalizzate e dunque è bastato un computer, tanto tempo e tanta passione». Ma come è risalito a Moissi e alla sua storia? E perché proprio lui? «Mi sono imbattuto in Moissi scrivendo la storia del vecchio Teatro Verdi di Bolzano e scoprendo che l’attore triestino era andato in scena nella nostra città dal 21 al 23 dicembre del 1934 con Il cadavere vivente, Spettri e Amleto, i suoi cavalli di battaglia. E scoprendo inoltre che c’era un legame con un altro grande artista che ha legato il suo nome a Bolzano: Ferruccio Busoni, che faceva parte della commissione del Conservatorio di Vienna e anche di quella del Burgtheater che ammise Moissi, avviandone la carriera». Insomma, da due piccoli spunti è nata una grande storia. Che esce in libreria in questi giorni e che verrà presentata ufficialmente a Bolzano nel prossimo autunno.

Paolo puppa logbook
6 Aprile 2023

Un mondo sull’orlo del disfacimento nei monologhi di Puppa

Stefano Adami, «Il Tirreno»

Paolo Puppa è professore emerito di Storia dello spettacolo all’Università Ca Foscari di Venezia e studioso di storia del teatro. Nel tempo si è aperto le strade di narratore, autore teatrale e attore. Questo libro vuole essere una sorta di sintesi di questo lungo lavoro. In queste pagine vediamo affollarsi il palpitante, disfunzionale brulicare umano: il viaggiatore di merci che tenta di vendere qualcosa, le apparentemente «buone» famiglie che finiscono per trattare con estremo cinismo i propri appartenenti, il giovane pensionato che è l’opposto della placida benevolenza. I monologhi di Puppa materializzano individui che sembrano già portare dentro di sé la fine del mondo e dell’umanità. È un’intensa prova narrativa che fa immaginare la soddisfazione che deve aver provato chi questi monologhi ha avuto la fortuna di vederli sulla scena, incarnati dall’autore stesso. Ma tutti i testi funzionano molto bene anche nella silenziosa lettura individuale.

Balazs phantom murnau
3 Aprile 2023

Balázs, il teorico del dramma moderno, del teatro operaio, delle lotte di classe, e dell’Agit Prop, ripreso da Dario Fo

Andrea Bisicchia, «lo Spettacoliere»

Béla Balázs è uno scrittore, saggista, drammaturgo, teorico ungherese, noto in particolare per la sua collaborazione con Béla Bartok, per il quale compose il libretto d’opera Il castello del Principe Barbablu, attingendo al repertorio delle tradizioni popolari, di origine fiabesca, della sua nazione. Ebbe una vita abbastanza complessa: fu combattente dell’Armata Rossa, membro del Direttorio degli scrittori, oltre che suo dirigente, insieme a Lukács; autore di testi come Il dramma moderno, La genesi della tragedia borghese da Lessing a Ibsen e Il dramma moderno dal Naturalismo a Hofmannsthal, tradotti in Italia e sui quali molti di noi hanno studiato, negli anni Settanta. Certamente Luckács e Balázs ebbero modo di influenzarsi a vicenda. Di quest’ultimo, Cue Press ha pubblicato Scritti di teatro, con prefazione di Eugenia Casini Ropa.

Balázs distingue il dramma dalla tragedia, sostenendo che l’irrazionale non possa avere più posto nel teatro moderno, avendo rinunziato alla dimensione divina e a qualsiasi forma di assolutezza. Perché ogni conflitto, a suo avviso, appartiene alla «vita sperimentata», in particolare quello che ha afflitto la vita della borghesia, che, durante il suo tramonto a fine Ottocento, aveva smarrito sia i valori sia gli ideali assoluti. Lo stesso discorso vale per il tema della follia, trattato molto frequentemente da autori come Ibsen e Strindberg, le cui conseguenze erano frutto delle convenzioni e degli scontri sociali, oltre che di sentimenti ammalati che non avevano nulla a che fare con la tragedia. Insomma, nel dramma moderno, non si trovano più né Aiace, né Eracle, dato che i loro conflitti erano da addebitare all’intenso rapporto con la dimensione religiosa, quella degli dei per intenderci.

A dire il vero, a Balázs non interessava soltanto il significato sociale del teatro, bensì anche quello politico, che si poteva mettere in evidenza proprio attraverso la struttura scenica. Tanto che, per avvalorare la sua tesi, egli distinse la scena mistica – che ha una sua particolare visione del mondo – dalla scena sociale – sempre alla ricerca di soluzioni drammatiche attraverso l’uso della ragione – e la scena politica, che eredita da Piscator, altro compagno di strada, e arricchisce con la creazione del Teatro Operaio. Siamo negli anni Trenta, durante i quali Balázs visse anche l’esperienza della Repubblica di Weimar, dove agivano cinquecento gruppi teatrali che portavano sui palcoscenici di periferia le loro riflessioni sul mondo del lavoro e delle disuguaglianze, creando nuove forme d’arte con l’utilizzo di ballate popolari. A scapito di opere come Oplà, noi viviamo di Toller, o Tamburi nella notte di Brecht, o ancora Il professor Bernhardi di Schnitzler, che riteneva drammi di conversazione, a «tendenza» che non avevano «nessun principio», testo quest’ultimo che, al contrario, abbiamo trovato esemplare nella messinscena di Ronconi, sicuramente una delle più riuscite e applaudite.

La tipologia del Teatro Operaio evidenzia, secondo Balázs, un’ «evoluzione alla rovescia», nel senso che prima di tutto esiste il pubblico, poi viene il teatro e, infine, la letteratura, con i suoi testi scritti secondo le regole. Come dire che la storia del teatro è la storia del suo pubblico, tanto che il Teatro Operaio potrà vantare un pubblico omogeneo, non certo immersivo, come lo si intende oggi. Per questo motivo, Balázs teneva molto a distinguerlo dal dramma borghese, che andava in cerca del consenso di un pubblico non certo sofferente dal punto di vista economico, nel quale i protagonisti entravano in scena come delle vere e proprie vittime, «sull’orlo della rovina e della perdizione».

Nel Teatro Operaio si portano in scena lotte contro la disoccupazione, per salari decenti, ma soprattutto contro le ingiustizie sociali. È il teatro dell’Agit Prop, quello che verrà ripreso nel 1968 da Dario Fo e dai collettivi proletari, con tutte le teorizzazioni che ne seguiranno. Per Balázs, il teatro risulta necessario se riesce a portare in scena la realtà del presente, con le sue contraddizioni, imponendosi come strumento di trasformazione sociale, con l’intento di «cambiare il mondo», come sostiene la curatrice Eugenia Casini Ropa.

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Orsini
1 Aprile 2023

Umberto Orsini, Le memorie di Ivan Karamazov

Antonio Tedesco, «Proscenio»

Può un attore trovare se stesso, la propria storia artistica, e forse umana, in un personaggio che lo ha particolarmente segnato? E nel quale gli pare di specchiarsi, provando al tempo stesso attrazione e repulsione? Un personaggio che si trasforma in un universo da esplorare e del quale non si riesce mai a vedere la fine.

La prima volta che Umberto Orsini incontra Ivan Karamazov è nel 1969. Interpreta il secondo dei tre fratelli (più uno illegittimo) nello sceneggiato realizzato dalla RAI con la regia di Sandro Bolchi e la riduzione di Diego Fabbri, tratto dal grande romanzo di Fёdor Dostoevskij.

Un incontro folgorante per l’attore. Un personaggio che racchiude un mondo e sul quale ha sentito più volte il bisogno di tornare nel corso della sua lunga carriera artistica. Fino a regalargli una sua completa autonomia. La dignità di una (in)compiutezza che neanche lo stesso Dostoevskij gli aveva concesso. Così, dopo varie rielaborazioni avvenute nel tempo, Orsini ha fatto di Ivan una sorta di sintesi e di corollario della propria stessa vicenda umana e teatrale. E insieme a Luca Micheletti ha elaborato questo testo intitolato Le memorie di Ivan Karamazov, un copione teatrale con forti risonanze letterarie, andato in scena lo scorso autunno al Piccolo di Milano, e che ora l’editore Cue Press pubblica (pagg. 63, € 16,99) con una nota dello stesso Orsini e un saggio sull’incontro tra queste due figure (attore e personaggio) di Luca Micheletti, che oltre ad essere coautore del testo è regista della messa in scena. In più un ricco corredo fotografico, che comprende foto di scena, bozzetti di scenografia, foto d’epoca che rimandano all’ambiente umano e sociale in cui la vicenda dei Fratelli Karamazov e Dostoevskij stesso sono maturati.

Nel testo-spettacolo Ivan-Orsini rivive la sua storia in una dimensione metafisica, dove le macerie di un antico tribunale coincidono con quelle della memoria di una coscienza erosa dal dubbio e dal rimorso. Conscio di una colpevolezza morale che nessun giudice potrà mai riconoscergli, ma per la quale egli anela la giusta condanna. La sua necessità di espiare resta insoddisfatta e si trasforma in profonda frustrazione. Come se il suo ruolo gli fosse negato, la sua personalità rimanesse incompiuta. Sospesa, indefinita, privata della sua legittima e sacrosanta condanna. Sulla scena Orsini-Ivan dialoga con il se stesso dello sceneggiato del 1969.

Oltre lo spazio e il tempo, per rendere ancor più lancinante questa mancanza. E arriva ad un terzo livello di identificazione, quello con Il grande inquisitore, protagonista dell’incompiuto poema che nel romanzo Ivan racconta una sera a suo fratello Aljoscia e nel quale i temi della fede e della libertà individuale si rivestono di nuove, per certi versi inedite, risonanze. Le memorie di Ivan si identificano, in definitiva, con quelle di Orsini. E rimandano, forse, a quelle di Dostoevskij stesso, che lo scrittore aveva opportunamente celato nel testo.

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Hirokazu koreeda what we dont understand we make into monsters
1 Aprile 2023

Kore’eda cinema della memoria

Matteo Boscarol, «Alias — Il Manifesto»

Nei più di trent’anni di carriera e specialmente nell’ultimo decennio, dopo cioè la conquista della Palma d’Oro con Un affare di famiglia nel 2018, Hirokazu Kore’eda si è affermato come una delle voci più importanti eseguite nel panorama cinematografico internazionale. Il suo ultimo lavoro, Monster, il primo tratto da un soggetto non suo, sarà con ogni probabilità presentato a Cannes, dove il regista è oramai diventato un habitué.

Non è una sorpresa quindi che la sua produzione cinematografica, che comprende in realtà anche molti lavori per la televisione e piattaforme streaming, sia oggetto di nuova attenzione, anche da parte del mondo dell’editoria italiana, attraverso l’uscita di due volumi.

Con Il cinema di Koreeda Hirokazu. Memoria, assenza, famiglie (edizioni Cue Press, Imola 2022) Claudia Bertolé rivisita e amplia la sua stessa monografia sul regista, uscita circa un decennio fa, anche in risposta all’evoluzione che, in questi ultimi anni, la filmografia del regista ha subito, arricchendosi di esperienze fatte al di fuori del Giappone, come La verità, in Francia, e Le buone stelle – Broker, in Corea del Sud, ma anche dopo il già citato successo e la conseguente visibilità ottenuta dal riconoscimento ricevuto a Cannes.

Bertolé struttura il suo volume, che è impreziosito da una prefazione di Dario Tomasi, in una prima parte formata da capitoli che affrontano alcune delle tematiche ricorrenti nella produzione del regista giapponese: stile documentario, memoria, famiglia, mondo dell’infanzia, personaggi femminili e richiami al cinema classico giapponese; e in una seconda parte, dove vengono analizzati i singoli lavori, compresi quelli seriali.

Com’è noto, Kore’eda comincia la sua esperienza dietro alla macchina da presa nel mondo del documentario televisivo, quando venticinquenne entra nella tv Man Union. Le tecniche documentarie qui sviluppate, come viene ben evidenziato dall’autrice, continueranno ad essere impiegate dal regista durante tutta la sua carriera, da After Life a Distance, da Nobody Knows a Un affare di famiglia.

La memoria è uno dei grandi temi che caratterizza gran parte della produzione di Kore’eda. Come scrive Bertolé: «[Si tratta di] memoria, intesa sia come identità, come ciò che definisce chi siamo e il nostro percorso nella vita, sia come strumento di confronto con il passato e allo stesso tempo supporto per affrontare il dolore dovuto alla perdita di coloro che amiamo».

È questa una tematica che era già presente negli inizi documentaristici del regista. Si pensi ad esempio a Without Memory del 1996; ma, come fa notare l’autrice, la tematica deriva anche all’esperienza personale di Kore’eda, che da bambino ha assistito alla perdita di memoria del nonno, affetto dal morbo di Alzheimer.

L’altro grande tema che innerva la filmografia di Kore’eda è quello della famiglia. In molti dei suoi lavori assistiamo infatti allo sfaldarsi e al ricomporsi del gruppo familiare, tenendo presente che, come fa notare Bertolé, «Le famiglie di Kore’eda sono spesso nuclei allargati ovvero strutture che possono crollare e ricomporsi in altre forme». In lavori quali I Wish, Father and Son, Little Sister, Un affare di famiglia e Nobody Knows «La famiglia è una questione di scelte, è una comunità che si autodetermina, in un contesto sociale vissuto ai margini e del quale si percepisce il disinteresse, di certo non l’inclusione».

In Pensieri dal set (a cura di Francesco Vitucci, Cue Press, Imola 2022), traduzione di un volume originariamente pubblicato la prima volta in Giappone nel 2016, Kore’eda raccoglie invece quasi in forma diaristica le osservazioni e le riflessioni riguardo le varie fasi della sua carriera, dall’esordio nel mondo della televisione al successo internazionale degli ultimi decenni.

È un volume illuminante per varie ragioni, ma soprattutto in quanto offre uno sguardo su tutto ciò che circonda la produzione dei suoi film e su come si sia sviluppata l’avventura della sua carriera cinematografica.

Dalle parole del regista, infatti, si evince come il singolo film sia il prodotto finale, o talvolta la traccia, di un processo e di una trama più vasta e complessa, che comprende partecipazioni a festival internazionali, i rapporti con le case di produzione, i fattori e le contingenze economiche, il dialogo con gli spettatori e le influenze artistiche inaspettate. Per quel che riguarda questo ultimo punto, alcune delle pagine più belle del volume sono quelle in cui il regista rivela l’importanza della televisione per la sua crescita, fin da quando, ragazzino, ogni settimana rimaneva incollato davanti al piccolo schermo a guardare i vari programmi, fra cui specialmente Ultraman e, più tardi i lavori di Shoichiro Sasaki. Kore’eda rimane folgorato dai lavori per la televisione di Sasaki, telefilm o film che ibridavano spesso fiction con elementi del documentario e che usavano attori non professionisti nei ruoli principali. Kore’eda ha tratto evidente ispirazione da Sasaki, un autore praticamente sconosciuto in Occidente, ma la cui produzione è tanto eclettica quanto affascinante, a partire dal capolavoro del 1974 Yume no shima shojo (Dream Island Girl).

Altra figura fondamentale per la carriera di Kore’eda è stato il suo collaboratore e produttore televisivo Yoshihiko Murala che Kore’eda definisce «il mio padre spirituale» e «la persona che mi ha permesso di trasformare la mia passione per la televisione in un lavoro».

Non mancano poi, nel volume, accenni alla situazione cinematografica e politica del suo paese. «Nelle aree rurali del paese non sono rimaste che le multisale, e i cinema di piccole dimensioni che proiettavano film dall’alto valore contenutistico sono pressoché scomparsi».

Questa sua preoccupazione per il destino dell’offerta cinematografica del Giappone va di pari passo con il suo impegno per cambiare l’industria del settore, negli ultimissimi anni martoriata dalla pandemia e da un sistemico emergere di scandali sessuali e di abusi di potere. «La sensazione è che bisogna agire con urgenza se non si intende disperdere la ricchezza e la varietà della cultura cinematografica che abbiamo ereditato dal passato».

August strindberg (1)
31 Marzo 2023

Un romanzo di santi e buffoni. Intervista a Franco Perrelli

Ludovico Cantisani, «Mimesis-Scenari»

Franco Perrelli, professore ordinario, ha insegnato Discipline dello Spettacolo nelle Università di Torino e di Bari. Ha vinto il Premio Pirandello 2009 per la saggistica teatrale ed è stato insignito dello Strindbergspris della Società Strindberg di Stoccolma nel 2014. Fra le sue recenti pubblicazioni si segnalano: Le origini del teatro moderno (2016), Poetiche e teorie del teatro (2018), On Ibsen and Strindberg. The Reversed Telescope (2019), Kaj Munk e i suoi doppi (2020). Ha inoltre curato il volume delle Lettere di Strindberg per Cue Press. Negli ultimi tre anni, Perrelli ha tradotto e curato le edizioni italiane dei romanzi della Trilogia della solitudine di Strindberg, tutti e tre pubblicati dall’editore Carbonio: Solo, La festa del coronamento e Il capro espiatorio, che rimase l’ultimo romanzo di Strindberg.

Come è nato il suo interesse per August Strindberg? Adesso, dopo i suoi lunghi studi sul drammaturgo svedese, quale pensa che sia il ruolo che Strindberg ha giocato nell’evoluzione del teatro e della letteratura occidentale tra Ottocento e Novecento?

L’interesse è nato quand’ero studente. Mi capitò fra le mani, casualmente, in una libreria una vecchia traduzione del dramma Un sogno e restai affascinato dalla forma e dalla filosofia, insieme pessimista, ma quotidiana, straordinariamente umana, immediata. Uno Schopenhauer alla portata dell’esperienza di ognuno, potrei dire; il dolore che si stende sul mondo («Che pena gli uomini!»), l’inevitabilità del male, il mistero di questo squilibrato assetto del mondo, la domanda posta a un Dio insondabile. In seguito, in un’altra libreria, a Edimburgo, dove stavo studiando inglese, m’imbattei in una versione del suo ultimo dramma, il suo testamento spirituale, La grande strada maestra. Rimasi folgorato dall’intensità del monologo finale. Non era tradotto in italiano e decisi di studiare lo svedese e farlo io. Ero già laureato, ma – oltre a studiare privatamente – potei seguire i corsi di un grande germanista, e anche scandinavista, Aloisio Rendi. In seguito, sarei andato ad approfondire la lingua svedese a Lund e a Stoccolma, dove fui subito aiutato dalla Società Strindberg. Insomma, nel 1980 uscì il mio primo Strindberg per i tipi del Formichiere, una casa editrice aperta alle novità, diretta da Stefano Jacini, che era molto interessato a questo autore. Gli anni Ottanta furono del resto, in Italia, anni di un’intensa e straordinaria riscoperta, in editoria e sulle scene, di Strindberg, che si capiva essere chiave nella cultura moderna, ma più che mai attraente in un periodo in cui, dopo il Sessantotto, ci si confrontava ancora con le avanguardie, si aveva il gusto del rinnovamento dei repertori e della riscoperta, anche dell’utopia. Noterò incidentalmente che, non a caso, lo Strindberg di quegli anni è spesso più colorato di socialismo di quanto non fosse opportuno. Comunque la centralità di Strindberg nella cultura occidentale, in assoluto e in poche parole, tra gli altri, l’hanno certificata Kafka («Non lo leggo per leggerlo, ma per stringermi al suo petto») e O’Neill (è «il più moderno dei moderni»).

Da dove nasce la definizione di «Trilogia della solitudine»?

Potrei cavarmela asserendo: nei fatti, vale a dire nei testi. Strindberg lavora in questi romanzi direttamente sul tema della solitudine, che però percorre in fondo gran parte della sua opera: «Sono solo, naufrago, un relitto, gettato su uno scoglio nell’oceano, ci sono attimi in cui mi afferra la vertigine di fronte all’azzurro nulla» (August Strindberg, Leggende).

La definizione di «trilogia della solitudine», in verità, mi è apparsa quasi palpabile durante il periodo dell’isolamento del Covid, quando la maggior parte del lavoro è stato portato avanti. Ognuno, nella propria solitudine, sentiva di dover alleviare in qualche modo quella degli altri. E quale contributo migliore se non offrire opere dove il tema viene approfondito e illuminato comunque da una luce di coraggio? Le edizioni Carbonio – raffinatissime e sensibilissime – hanno subito accompagnato la mia idea di ripubblicare tre romanzi che, a suo tempo, avevo tradotto per un editore che non esiste più. All’epoca, peraltro, i testi avevano subito delle trasformazioni redazionali (sin dal titolo); nel frattempo in Svezia era uscita l’edizione critica, c’erano modifiche da apportare e sempre qualcosa da correggere e migliorare alla luce dell’esperienza. Insomma, un’ottima occasione per un rifacimento consapevole.

Secondo lei, a cosa si deve il fatto che, pur appartenendo alla fase di piena maturità del suo percorso autoriale, questi tre, ultimi romanzi di Strindberg sono meno noti di altri drammi dello stesso periodo?

È un problema che risale addirittura all’epoca di pubblicazione, soprattutto dei due ultimi romanzi del 1906: la critica non li notò particolarmente. Diversi decenni dopo, in pieno Novecento, sono stati reputati quanto di meglio abbia scritto Strindberg e, in assoluto, fra la prosa più notevole della letteratura nordica. Credo che, ai suoi tempi, da Strindberg ci si aspettasse sempre un approccio polemico alla realtà, alla vita, massime nei confronti del sesso e delle donne, ma anche in campo religioso. Solo, La festa del coronamento e Il capro espiatorio hanno un tono più morbido, una considerazione particolarmente sensibile dell’esistenza, un bisogno di consolare e autoconsolarsi. Certo, in filigrana, affiorano il pessimismo e lo gnosticismo strindberghiano, ma bilanciati da una sorta di coraggio di vivere, di fluttuante speranza, di attesa di un esito inusitato e di una qualche risposta al dolore umano.

Nella sua prefazione a Il capro espiatorio lei accenna all’influenza della «formula del romanzo di Balzac», sia pure filtrata in una chiave personale, in un tentativo di «creare una comèdie humaine svedese». L’attenzione al «metodo di Balzac» venne rivendicata dallo stesso Strindberg nel suo epistolario. Quali erano gli altri antecedenti dello Strindberg romanziere?

Fin dal 1879, con la pubblicazione del grande romanzo d’esordio, La Sala rossa, Strindberg fu inteso come un autore sperimentale, «di rottura», e paragonato con quanto di estremo e anche scandaloso si concepisse al tempo, vale a dire: Zola. Credo tuttavia che, oltre a Balzac, soprattutto Dickens abbia lasciato una forte impronta su Strindberg, insieme a Goethe, Hugo e anche Dostoevskij. Nei due ultimi romanzi, poi, si avverte un’atmosfera riscontrabile nella narrativa romantica tedesca.

Al termine della sua prefazione a Il capro espiatorio lei scrive che l’immaginario di Strindberg è attraversato «da quella fine misura d’ironia che muta un cupo piagnisteo in un’onesta testimonianza sull’essere uomini», parole che in una certa misura si potrebbero applicare anche all’esistenzialismo letterario, movimento emerso tre decenni dopo la morte di Strindberg. Dal suo punto di vista, quali sono state le maggiori eredità di Strindberg sugli autori classici del romanzo novecentesco?

Strindberg non solo ha condizionato effettivamente l’esistenzialismo moderno, essendo stato a sua volta suggestionato da Kierkegaard, ma questo influsso è stato anche chiaramente riconosciuto da romanzieri-pensatori di questa corrente. Infatti, Albert Camus l’ha definito «il guardiano e il testimone della rivolta dell’individuo», che «ci aiuta a ricordare e a sostenere quella follia della creazione ch’è l’onore dell’essere umano». A Kafka ho già accennato.

A livello di prosa, quali sono state le maggiori difficoltà nel tradurre i tre romanzi di Strindberg? Il suo svedese quali specificità ha?

L’opera strindberghiana si segnala per una varietà di fasi e di registri, è immersa in atmosfere che spaziano dal romanticismo, al naturalismo, al simbolismo. Ma questi «-ismi», con Strindberg, vanno considerati in termini meramente convenzionali: Strindberg è Strindberg, e le faccio un esempio. Lo si considera storicamente, e in un certo senso giustamente, alle origini dell’espressionismo, ma il suo espressionismo è in fondo il misticismo barocco di Swedenborg, filtrato e rivissuto dalla sua ipersensibilità. Ciò premesso, la lingua di Strindberg presenta forti scompensi e scarti: da un livello decisamente poetico all’innesto di termini connessi alle scienze, alla tecnologia, alla chimica, che talora originano neologismi. Il traduttore, da un lato, deve centrare bene la fase biografica e storico-letteraria in cui l’opera cui si dedica va a collocarsi, ma, da un altro, essere poi pronto all’imprevisto e attento soprattutto al ritmo della frase. Strindberg, infatti, è uno scrittore eminentemente ritmico; più ritmico che logico. Anche ai suoi attori chiedeva soprattutto il senso del ritmo.

Strindberg si autodefiniva «uno scrittore religioso» e ha spesso costellato i suoi drammi e i suoi testi di citazioni e riferimenti biblici. Il capro espiatorio si rifà all’Antico Testamento sin dal titolo, e non sembra accennare a particolari possibilità di redenzione, a differenza di come l’incarnazione narrata dei Vangeli ha rimodulato il tradizionale archetipo dell’agnello sacrificale. Quali riferimenti biblici ha colto nell’ultimo romanzo di Strindberg, e come li ha resi in traduzione? Il passaggio da un orizzonte concettuale «protestante», incarnato nello svedese, a uno «cattolico», qual è quello italiano, ha comportato qualche complessità di traduzione?

La definizione di scrittore religioso deriva in Strindberg direttamente da Kierkegaard e si lega a un’idea severa del rapporto con Dio, rispetto al quale «si ha sempre torto», che rimanda a sua volta alle radici pietistiche dell’infanzia dell’autore svedese. Essere uno «scrittore religioso», per Strindberg, tuttavia, non significa mai essere un autore pio o edificante, bensì incarnare una figura d’indagatore antagonista che chiede a Dio ragione dell’inesplicabile della vita. Non solo nei romanzi della «trilogia della solitudine», ma in tutta l’opera strindberghiana i modelli eroici sono tratti dalle figure bibliche di Giacobbe che lotta con Dio e di Giobbe che interroga sul senso dell’esistenza e del dolore. Il sacrificio di Cristo resta un mistero affascinante e quasi inafferrabile: in fondo (e si legga proprio Il capro espiatorio), il suo esempio è metafora della condizione umana, la sua incarnazione per antonomasia è al livello di tutti gli esseri umani, come la sua offerta di redenzione – ma perché mai c’è stata e perché l’umanità non l’ha riconosciuta fino alla crocifissione e dopo? A tratti, in Strindberg, questo intenso dissidio metafisico ed esistenziale si muta almeno in una speranza di chiarimento nell’aldilà, occasionalmente, in una rassegnata sottomissione, non di rado nel dubbio gnostico sull’esistenza di un nume malvagio. Insomma: un quadro inquieto e fortemente contrastato; una religione come interrogazione vertiginosa e aperta, mai come pacificata pratica devota. Un grande regista nostro contemporaneo, il polacco Jerzy Grotowski, sosteneva che gli dèi in fondo amano proprio coloro che praticano nei loro confronti la blasfemia, perché sono gli uomini che del divino si ricordano con più insistenza e passione. Insomma, la religione è tutto meno che materia tiepida, e anche Strindberg ce lo ricorda. Il traduttore deve tenere presenti queste inquietudini e questi squilibri, immergersi nella dinamica interiore del conflitto che, in uno scrittore, si fa ovviamente lingua. Cattolici? Protestanti? È l’umanità che ha inventato la teologia, Dio si è dedicato e si dedica a tutt’altro. Anche questo c’insegna Strindberg: il divino resta misterioso, attingibile forse solo nell’abbandono di un salto acrobatico. Per questo, i personaggi strindberghiani risultano spesso clowneschi.

Tra le sue precedenti pubblicazioni legate a Strindberg c’è anche la curatela del suo epistolario edito da Cue Press. Tra gli scrittori dell’Ottocento, Strindberg è stato uno dei più espliciti e franchi nel parlare della propria vita interiore, anche nei suoi aspetti maggiormente morbosi e patologici. Le tre vicende raccontate nella «trilogia della solitudine» fino a che punto riflettono esperienze e sensazioni vissute personalmente e biograficamente dallo scrittore svedese?

Strindberg ha teorizzato esplicitamente che l’autobiografia è la prima materia di una letteratura che voglia andare a fondo del cuore umano e, proprio in un passo dell’epistolario (che è, tra l’altro, uno straordinario documento personale e storico), si paragona per questo a una «cavia». Ciò, sin dal principio, ha orientato la critica (penso alla prestigiosa monografia di Martin Lamm) verso una forte identificazione fra vita e opera. In gioventù, ero più vicino alle correnti critiche d’avanguardia che miravano a smontare questo approccio, che, in effetti, può essere riduttivo sul piano estetico per un’opera letteraria. Con gli anni, però, il diavolo si fa frate (mi pare fosse un motto di Hegel), e pur non schiacciandomi mai sulla mera equivalenza opera-vita, non trascuro di evidenziare il nesso autobiografico. Mi pare più corretto: se uno scrittore si costruisce così, perché smontargli del tutto il giocattolo? In ogni caso, è una costruzione che va descritta. Il lavoro di critico, di storico della letteratura, a ben vedere, è il più simile a quello dell’attore: bisogna entrare nella pelle dell’orso (come dicevano in gergo i comici di un tempo) per penetrare il più possibile in personaggi, epoche e atmosfere, spesso remotissime. Ci si riesce? Gli attori (anche se non tutti lo ammettono) sanno bene che la cosa è possibile solo fino a un certo punto, e nessun critico sosterebbe il contrario, ma lo sforzo d’immersione va fatto (ed è pure l’aspetto più affascinante e gratificante del mestiere), anche se non si riesce mai a perdere la propria contemporaneità. Con Strindberg, quindi, cerco di vestirmi con la sua pelle, di ragionare nelle sue categorie e in quelle del suo tempo. Poi so bene che l’arte – autobiografica o meno che sia – è strutture, simboli, idee e lingua, e soprattutto con questo, fuori dalla semplice aneddotica, debbo confrontarmi. Alla fine, cerco di adottare un metodo che potrei definire comprensivo e analitico-comparativo insieme. Vengo da studi filosofici e do molta importanza alle idee dell’autore e del suo tempo; credo che sia necessario (anzi ovvio) essere rigorosi, ma anche che scienza, per la critica, significhi ben altro rispetto a ciò che il termine può evocare in campi differenti e più consoni, e non mi fa orrore, col giusto distacco, l’invito crociano al giudizio personale. È un’ipocrisia della critica scientifica credere che non vada espresso o non lo si esprima mai.

In passato lei ha tradotto Strindberg anche direttamente per il teatro, per una messa in scena di Gabriele Lavia; più di recente è apparso, in un volume collettivo dell’Istituto degli Studi Germanici, il suo testo Appunti di un traduttore di teatro. Per la sua esperienza, quanto cambia il mestiere del traduttore dalla carta alla scena? E quando traduce per il teatro, in che misura instaura un dialogo, oltre che con il testo di partenza, anche con l’attore che fisicamente dovrà recitare le battute?

Ho una discreta esperienza di traduttore per il teatro (un ambiente, tra l’altro, che ho avuto modo di conoscere bene e che confesso di amare per la sua serietà e per le sue debolezze). Anche in questo caso, ammetto di avere avuto un’evoluzione: nelle mie prime versioni, in assoluto, cercavo di perseguire il più impervio degli ideali umani, la fedeltà. Che cosa sia in una traduzione potremmo discuterne per decenni, ma diciamo che, per me, significava una stretta aderenza di termini, ricorrenza di didascalie, al limite anche una certa rigidità formale. Oggi non rinnego nulla di tutto ciò, ma – proprio lavorando recentemente su Ibsen per un Meridiano Mondadori che sto curando – mi ha colpito il richiamo di questo drammaturgo all’assoluta necessità che un testo riviva in un’altra lingua nelle categorie e nella sensibilità per l’appunto della lingua nella quale viene riportato. Svedese, norvegese, danese (le lingue da cui di norma traduco io) sono diversissime strutturalmente dall’italiano, non sono di ascendenza latina, ma oggi tendo ad assecondare più le ragioni del mio idioma che la logica stringente di quello scandinavo. In questo caso, so che esistono biblioteche di filosofia della traduzione e ponderosi trattati scientifici nel merito; li ho pure letti. Poi però, nel lavoro, vince la vita, l’esperienza, il gusto della letteratura, e tradurre (come anche il lavoro critico) resta un’operazione di alto artigianato, con imponderabili margini soggettivi. Ho mai tradotto pensando agli attori? Non so: in genere, tendo a vivere il dialogo drammatico dentro di me. Di norma i registi e gli attori mi chiedono traduzioni «moderne»; io credo di assecondare, ma tanto so che in scena cambierà tutto o quasi. Il teatro sulla pagina e quello vissuto sono intraducibili a vicenda; a un certo punto, lo fa intendere persino Hegel nelle sue lezioni di estetica.

Dopo il completamento della «trilogia della solitudine», ci sono altri scritti di Strindberg inediti in italiano che spera di portare a traduzione?

Sì. Mi piacerebbe affrontare I libri blu, l’immenso zibaldone, dedicato a Swedenborg, della vecchiaia di Strindberg. E magari lasciare un’edizione aggiornata della sua drammaturgia più importante, come in questo momento sto facendo con Ibsen. Ahimè, è però noto il motto: «ars longa, vita brevis»… e, a una certa età, si sbircia più di frequente la clessidra sullo scrittorio.

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30 Marzo 2023

Il Romanzo teatrale di Bulgakov e Elogio del disordine di Louis Jouvet editi da Cue Press

«Il Teatro di Radio 3 — Rai Radio 3»

Due pubblicazioni di Cue Press: Romanzo teatrale di Bulgakov, nel quale il romanziere traccia in modo ironico il profilo di Konstantin Stanislavskij, e Elogio del disordine di Louis Jouvet, con le sue considerazioni sull’arte dell’attore e sul teatro.

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19 Marzo 2023

Potere mediceo e teatro negli studi di Zorzi

Luca Scarlini, «Corriere Fiorentino»

Ludovico Zorzi (1928-1983) dalla natìa Venezia giunse a Firenze negli anni Settanta, dopo una lunga esperienza nelle attività culturali Olivetti, avendo svolto compiti come recensore e introducendo numerosi volumi della prestigiosa collezione di teatro Einaudi, da La Veniexiana, a Ruzante, a Goldoni. Fondatore in Italia della storia dello spettacolo, insieme a Cesare Molinari ed altri studiosi, realizzò mostre importanti in città insieme ad altri: Il luogo teatrale (1975) e La scena del principe (1981), nel quadro del complesso progetto di mostre di quell’anno. Il suo libro maggiore, Il teatro e la città uscì nel 1977 da Einaudi e ora lo ripropone Cue Press. La parte fiorentina di questo volume, complesso e affascinante, (gli altri capitoli sono dedicati a Ferrara e a Venezia) ricostruisce magistralmente la relazione tra il teatro e il potere mediceo. Simbolico è l’occhio che dal corridoio vasariano dà su Borgo San Jacopo, presenza tangibile dello sguardo del principe sulla città, per cui si apriva improvviso un palco all’interno di Santa Felicita. Non meno complesso era il legame tra il Teatro degli Uffizi, di cui non rimane traccia nell’organizzazione del museo, più ufficiale, e dello spazio dei comici dell’arte, dal nome esplicito: di Baldracca, legato al clamoroso andirivieni del porto fluviale, dove i Medici assistevano dietro gelosie a spettacoli salaci di donne discinte e attori intenti a lazzi di ogni tipo. Zorzi ha fondato un percorso di studio complesso, che ha esercitato larga influenza sulle generazioni successive.

7 Novembre 2019

Premio speciale alla Casa Editrice Cue Press

«Corriere Fiorentino»

È Giulia Caminito la vincitrice del XXVIII Premio Fiesole Narrativa Under 40. Il suo romanzo Un giorno verrà edito da Bompiani, ha conquistato la giuria presieduta da Franco Cesati e composta da Caterina Briganti, Francesco Tei, Silvia Gigli, Marcello Mancini, Gloria Manghetti, Fulvio Paloscia e Lorella Romagnoli. Gli altri finalisti erano Serena Patrignanelli con La […]
7 Novembre 2019

Viaggio nel corpo. La commedia erotica nel cinema...

«Stroncature»

Questo libro ha l’indubbio merito di riportare all’attenzione del lettore un testo sepolto, indisponibile anche per un ostinato bibliofilo. Però sarebbe meglio leggerlo cominciando dalla fine. Vediamo di spiegare perché. Che mondo è quello della commedia erotica italiana? È un mondo che, visto con gli occhi di chi lo descrive alla fine degli anni settanta, […]
9 Ottobre 2019

Milo Rau, l’artista che vuole cambiare il mondo

Christian Raimo, «Internazionale»

Alla fine di settembre il regista svizzero Milo Rau ha portato al RomaEuropa festival Orestes in Mosul, il suo ultimo lavoro, parzialmente ambientato in Iraq. Il 1 ottobre al Fit, il Festival internazionale di teatro al Lac di Lugano, ha presentato il suo film del 2017 The Congo tribunal, già proiettato al RomaEuropa festival nel […]
7 Ottobre 2019

Travestimento, solo virtuosismo? Anche ricerca sul...

Andrea Bisicchia, «lo Spettacoliere»

Mentre Galatea Ranzi interpreta il personaggio della Bernhardt in Lezioni di Sarah, regia Ferdinando Ceriani, che prende spunto da L’arte del teatro e, in particolare, da tre lezioni della famosa attrice, Mattia Visani pubblica, per Cue Press, il testo esauritissimo di Laura Mariani: Sarah Bernhardt, Colette e l’arte del travestimento (prima edizione, Il Mulino, 1996). […]
9 Settembre 2019

Il teatro del futuro di Georg Fuchs

Andrea Bisicchia, «Graphie», XXI-88

Il teatro è soprattutto luce. In un momento in cui il teatro italiano si caratterizza per la sua inessenzialità, o meglio, per assenza di necessità, avendo abiurato alla sua funzione, per scimmiottare con le contaminazioni provenienti dalla tecnologia più sofisticata, dalla letteratura, dalla filosofia, forme considerate spurie, leggere II teatro del futuro di Georg Fuchs, […]
9 Settembre 2019

Il teatro del futuro

Massimo Bertoldi, «Il Cristallo»

Non è un capriccio editoriale la pubblicazione de Il teatro del futuro di Georg Fuchs. Nelle pagine di questo scritto teorico si ritrovano tanti rivolti artistici seguiti dalle avanguardie storiche del Novecento in merito alla definizione e funzione aggregativa del luogo teatrale, dell’arte, dell’attore, della funzione del regista. Prima critico d’arte, poi direttore teatrale e drammaturgo, […]
20 Luglio 2019

Mai morti

Massimo Bertoldi, «Il Cristallo»

Circolano testi teatrali che valgono un manuale di storia per il modo in cui articolano la ricostruzione e il racconto il flusso caotico di azioni collettive di matrice ideologica. Se poi l’onda silenziosa del passato bagna le spiagge del nostro presente, l’incontro tra il Teatro e la Storia diventa una visione e uno strumento che […]
27 Maggio 2019

Animali da Bar

Massimo Bertoldi, «Il Cristallo»

«Nasciamo e moriamo. Bene, lei non crede che, forse, bisognerebbe dare un minimo di importanza a quello che succede nel mezzo? E quella roba lì si chiama vita, caro amico. Vita!« L’affermazione è di Colpo di frusta, un uomo così soprannominato per le conseguenze dalle violenze domestiche subite da parte della moglie piuttosto aggressiva; inoltre […]
25 Maggio 2019

Il Teatro di Josep Maria Miró è di casa al Teatr...

Roberto Rinaldi, «Articolo 21»

Il drammaturgo catalano Josep Maria Miró nel volume Teatro edito in Italia da Cue Press, ha pubblicato quattro delle sue opere teatrali, tra le più conosciute, Il principio di Archimede, Nerium Park, Dimentichiamoci di essere turisti, Tempi selvaggi: ed è quest’ultimo titolo ad aver vinto il Premios Max de Las Artes Escénicas (giunto alla ventiduesima […]
27 Aprile 2019

Zombitudine

Massimo Bertoldi, «Il Cristallo»

Dal clima surreale e sospeso del beckettiano En Attendant Godot a un tumultuoso e pauroso En Attendant Zombie: è questo il segno del trapasso proprio della poetica maligna e spiazzante di Zombitudine di Elvira Frosini e Daniele Timpano. Come in Beckett, alla semplicità dello sviluppo narrativo, regolato dal principio secondo il quale tutto o nulla […]
20 Aprile 2019

I teatri di Pasolini, recensione di Paolo Pizzimen...

Paolo Pizzimento, «Oblio», IX-33

Con I teatri di Pasolini, Stefano Casi ripropone l’omonimo volume del 2005, che a sua volta aveva portato a compimento uno studio comparso in Pasolini un’idea di teatro (1990). In questa nuova edizione sono state operate numerose integrazioni, chiarimenti formali e concettuali e aggiornamenti sulle messinscene italiane delle opere di Pasolini, che arrivano ora fino […]
9 Aprile 2019

Teatro d’origine

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Che Angela Demattè sia, da un lato, nata e cresciuta in Trentino e, dall’altro lato, sia anche un’attrice, lo si capisce bene dai testi antologizzati in questo prezioso volume che significativamente porta il titolo di Teatro d’origine, che per l’autrice significa un dialogo con i pilastri della propria identità, dal dialetto ai valori della famiglia […]
7 Aprile 2019

Le Lettere di Strindberg. A nudo il cuore del geni...

Mattia Mantovani, «La Provincia»

August Strindberg ha regalato alla storia della letteratura opere teatrali quali ad esempio Signorina Giulia, Un sogno, Danza di morte e Sonata di spettri, che hanno riscritto e riposizionato i confini e gli ambiti dell’espressione teatrale, tracciando il solco nel quale si sono poi inserite tutte le più importanti avanguardie del Novecento, in particolare l’espressionismo […]
7 Aprile 2019

Itinerario indimenticabile nel teatro italiano fra...

Andrea Bisicchia, «lo Spettacoliere»

Cesare Molinari scrisse L’attrice divina nel 1985, anticipando il volume, più volte annunziato, di Gerardo Guerrieri che, da circa un trentennio, aveva svolto una serie di ricerche attorno all’attrice, culminate in alcuni saggi, in uno spettacolo teatrale: Immagini e tempi di Eleonora Duse, e in una monografia pubblicata nei Quaderni del Piccolo Teatro nel 1962. […]
1 Aprile 2019

Bergman, uno specchio in bianco e nero

Giuseppe Liotta, «Hystrio», XXXII-2

La bella immagine di coperti­na mostra un giovane Berg­man in posa da divo di Hol­lywood, come il fotogramma in bianco e nero di un film di Frank Capra. Lui, che più lonta­no dalla mitologia del cinema americano del dopoguerra non poteva essere, profonda­mente radicato nel suo am­biente nord-europeo e nella cultura scandinava da cui traeva […]
30 Marzo 2019

Zombitudine: dal teatro al libro

DarkSchneider, «Zombie Knowledge Base»

A fine gennaio Zombitudine subisce una trasformazione, sarà disponibile per l’invasione delle librerie nel formato cartaceo e digitale.La casa editrice Cue Press, specializzata nella pubblicazione di testi e saggi teatrali, ha infatti pubblicato il libro Zombitudine di Elvira Frosini e Daniele Timpano. Un uomo e una donna sono rifugiati in un teatro insieme al pubblico. […]
26 Marzo 2019

Caldo

Massimo Bertoldi, «Il Cristallo»

Nel percorso creativo dell’infaticabile Jon Fosse – puntellato di opere diventate fondamentali per la drammaturgia contemporanea, tradotte e rappresentate anche in Italia come Qualcuno arriverà, Sogno d’autunno, La ragazza sul divano – il testo Caldo (Varmt) aggiunge un altro prezioso tassello al processo di scarnificazione del linguaggio e della struttura dei personaggio proprio dell’autore. La […]
8 Marzo 2019

Roland Schimmelpfennig. In un chiaro, gelido matti...

Fabrizio Sinisi, «Doppiozero»

Il nome è molto difficile da pronunciare. E anche da ricordare. Ma bisogna farlo, questo sforzo, giacché Ronald Schimmelpfennig è sicuramente tra i massimi scrittori contemporanei tedeschi e non solo. Generazione 1967, originario di Göttingen e formatosi a Monaco, Schimmelpfennig è tra i drammaturghi viventi più rappresentati al mondo. La sua più importante messinscena italiana […]
16 Febbraio 2019

«Il teatro è un coro del noi», il manifesto di...

Felice Sblendorio, «BonCulture»

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11 Febbraio 2019

L’irrefrenabile Savinio. Non solo musica e pittu...

Andrea Bisicchia, «lo Spettacoliere»

Ad Alessandro Tinterri, che insegna Storia del teatro all’Università di Perugia, dobbiamo un libro fondamentale su Piandello capocomico, edito da Sellerio nel 1987, dove sono elencati, con relative distribuzioni, i cinquanta spettacoli realizzati al Teatro D’Arte, nelle Stagioni 1925-28, dove figurano autori come Massimo Bontempelli con Nostra Dea (22 aprile 1925), Alberto Savinio con La […]
21 Gennaio 2019

Un vigile contro la ʼndrangheta. In Calabria? No...

Andrea Bisicchia, «lo Spettacoliere»

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