Logbook

Approfondimenti, interviste, recensioni e cultura: il meglio dell’editoria e delle arti da leggere, guardare e ascoltare.

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19 Giugno 2023

Caryl Churchill, Top Girls

Massimo Bertoldi, «Il Cristallo On Line»

«Maestra dei dialoghi sospesi, carichi di ambiguità, di sorprese, di sensi segreti»: in questo modo Luca Scarlini definisce la scrittura di Caryl Churchill, riferendosi in particolar modo a Top Girls, uno dei testi della consacrazione – assieme a Settimo cielo e L’amore del cuore – della drammaturga londinese, nota anche per i radiodrammi di stampo marcatamente antiborghese. Ora Top Girls è stato rieditato da Cue Press per la traduzione dall’inglese di Margaret Rose, adattata per l’allestimento di Fondazione Teatro Due con la regia di Monica Nappo. La commedia, scritta nel 1982 (si legge in una nota della compagnia parmense): «Affronta in modo strutturale e teatrale molti temi diversi, fra cui l’ineludibilità del confronto con il modello maschile nell’esercizio del potere e le sue contraddizioni».

Le protagoniste di questo testo provocatorio e ironico sono cinque figure femminili del passato. Provengono da diversi contesti e periodi storici e sono raccolte, in una metaforica e immaginaria cena, intorno a Marlene, manager moderna che festeggia l’inaugurazione di un’agenzia di collocamento per donne. Attorno al tavolo di un ristorante, di sabato sera, si accomodano: la papessa Giovanna, attiva dall’854 all’856; Dull Gret, dipinta da Peter Brugel il Vecchio; la poetessa e concubina dell’imperatore giapponese e poi monaca buddista dal XIII secolo Lady Nijo; Isabel Bird, scrittrice ed esploratrice tra Ottocento e Novecento; e Griselda, moglie obbediente raccontata da Boccaccio e Chaucer. Le donne si confidano segreti, si raccontano sacrifici e conquiste ottenute all’ombra di una società severamente patriarcale e allineabili, in una declinazione contemporanea riconoscibile nel thatcherismo degli anni Ottanta, con le lotte e le sfide affrontate dalla stessa Marlene per conquistare una posizione di vertice. Si sviluppa il gioco delle sfasature spazio-temporali, che imprime continuità alla logica del potere connessa ai meccanismi del successo come si consuma in questa situazione conviviale oppure nell’ufficio dell’agenzia di collocamento. Significativo è un colloquio tra Marlene e la giovane Janine, alla quale mancano i requisiti professionali per poter lavorare nel mondo della pubblicità; il sogno le si sgretola con violenza tagliente.

A completare lo sviluppo di questa commedia tutta al femminile entrano in scena ragazzine inquiete, donne arriviste, madri frustrate pronte a esplodere, tutte disegnate dalla penna di Churchill con fine realistico-umoristico, oscillante tra caricatura irriverente e satira amara lungo l’asse di un linguaggio fluido e dinamico che anima il problema di base di Top Girls: gli effetti dell’accettazione quasi riflessa dei modelli maschili nella carriera – con connessa smania di potere – del resto così facilmente riscontrabili in esempi che anche oggi animano la scena politica nazionale e internazionale.

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Moissi
15 Giugno 2023

Alexander Moissi, grande attore europeo

«Il Teatro di Radio 3 — Rai Radio 3»

Alexander Moissi. Grande attore europeo 1879 – 1935 di Massimo Bertoldi, Cue Press: una monografia dedicata al grande attore italo-austriaco vissuto a cavallo tra Ottocento e Novecento.

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7. medea material by heiner muller, moscow 1989, taganka theatre, eurykleia sofroniadou, thodoros polyzonis, akis sakellariou (photos martin cohen)
5 Giugno 2023

Il teatro, in attesa della propria resurrezione, dovrà tornare a Dionysos, come vita, ribellione, istinto, creatività ed erotismo

Andrea Bisicchia, «lo Spettacoliere»

Per capire l’idea di teatro di Theodoros Terzopoulos, almeno in Italia, occorre partire da un suo spettacolo, visto al Teatro delle Passioni di Modena nel 2017. Si trattava di ENCORE (Ancora), ovvero della tenacia nel chiedere qualcosa, come dire: «Ti prego, ancora». Una specie di supplica, la stessa che faceva vibrare i corpi dei due attori, Sophia Hiel e Antonis Myriagkos, che, sul palcoscenico, si rincorrevano, si scontravano, si annusavano, ai limiti di una fisicità che puntava soprattutto su un’attrazione erotica.

In quella messinscena si intravedeva già il concetto di energia creativa, che il regista greco ha cercato di teorizzare nel volume edito da Cue Press, Il ritorno di Dionysos, da intendere come ritorno all’energia del corpo, quella delle origini, del mito, prima della sua strutturazione in pensiero, con l’arrivo di Eschilo, Sofocle ed Euripide. Si trattava di un’energia che veniva declinata in pure e semplici azioni che, però, rispecchiavano le condizioni religiose, sociali e culturali delle origini, quando il corpo conteneva, in sé, tutte le forze istintuali ed energetiche. Dionysos era l’eroe del mito, ben diverso dall’eroe tragico; era il dio della ribellione, della danza, dell’eros inteso non solo come attrazione sessuale, ma come vita; ed ancora, del potere, della sregolatezza. Al contrario, l’eroe tragico è quello che pensa, ragiona, che si oppone, si ribella, ma che soccombe, come direbbe Emanuele Severino, al destino della necessità. La sua sconfitta è pari a quella dell’artista, il cui compito consiste nell’andare contro ogni forma di potere, non più quello degli dei, ma quello degli uomini, quindi di chi detiene le idee e costruisce gli ideologismi, quelli che si sono espressi attraverso il materialismo, il liberalismo economico, la globalizzazione, la tecnologia, e che hanno invaso il nostro Olimpo, privo però di divinità. Compito dell’artista, pertanto, non è quello di schierarsi, come avviene puntualmente oggi, perché chi si schiera perde il potere di andare contro il sistema e sente di smarrire la propria libertà. Terzopoulos rivendica, in teatro, la libertà dell’attore, la cui autenticità dovrà coincidere con l’autenticità del teatro stesso, che, proprio negli ultimi decenni, ha perso il contatto con le origini, ovvero con Dionysos, il suo tenace rappresentante, il dio che permette all’attore di «agire» (actor vuol dire proprio questo), di liberare la propria energia vitale ed erotica – eros inteso come vita – e, quindi, la propria creatività.

Il teatro, oggi, ha bisogno di risorgere, così come risorse Dionysos, quando il suo corpo venne smembrato, come accadde ad Adone in Siria, a Osiride in Egitto, ad Attis in Frigia e a Cristo in Palestina. C’è chi sostiene che il teatro di ieri sia morto; solo che, per rinascere, ha bisogno del suo fondatore, ovvero di Dionysos, che invita l’attore a ricercare il corpo archetipico, represso dall’inconsistenza del teatro contemporaneo, e a liberare i propri istinti, con la capacità di reagire alle restrizioni imposte dalla quotidianità e riconquistare una fondata energia. Sempre, però, attraverso l’uso accurato del corpo e delle sue conseguenti azioni, da concepire come un’esperienza da vivere in maniera attiva. Terzopoulos indica all’attore il modo con cui potrà essere portatore di energia, invitandolo a coltivare la voce, la respirazione, il rapporto col tempo e col senso da dare alle cose, a raccogliere i residui nascosti dei riti dionisiaci; e, infine, gli ricorda la salvaguardia del ruolo che non può essere solo di tipo estetico, ma che dovrà essere di tipo rituale prima ed esistenziale dopo. Recentemente abbiamo visto, con la regia di Terzopoulos, Aspettando Godot, con Paolo Musio, Stefano Randisi ed Enzo Vetrano. Anche in questo spettacolo il regista ha voluto esemplificare il suo «metodo», costruito sul corpo, inteso come luogo in cui si consuma il nostro tragico quotidiano.

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Bunuel
1 Giugno 2023

Luis Buñuel su Luis Buñuel

Gigi Giacobbe, «Teatro Contemporaneo e Cinema», XIV-45

Ho amato il Cinema di Buñuel sin da ragazzo, al tempo in cui in un Cineforum della mia città vidi in accoppiata Un chien andalou e L’Âge d’or, sceneggiati assieme a Salvador Dalì. Del primo ho chiara l’immagine di un uomo che seziona l’occhio di una ragazza, del secondo ricordo che iniziava con un documentario sulle abitudini d’uno scorpione. Debbo confessare che rimasi molto impressionato dalle immagini in bianco e nero dei due film, al punto che cercai di documentarmi (non così facilmente come oggi con internet e Wikipedia) sulla figura del regista spagnolo (naturalizzato messicano) e sul movimento surrealista che aveva animato i due film. Andai poi alla ricerca dei film realizzati in Messico, non mancando di vedere i film proposti più avanti come Viridiana, L’angelo sterminatore, Simon del deserto fino a Quell’oscuro oggetto del desiderio del 1977, che chiude la filmografia di Buñuel, condensata in ben 31 film girati. In una mia classifica personale dei registi più amati, Buñuel occupava il primo posto, cui seguivano: Ingmar Bergman, Federico Fellini, Francois Truffaut e Bernardo Bertolucci. Classifica rimasta immutata anche dopo la scomparsa di Buñuel a Città del Messico nel 1983 e i tanti registi americani, tedeschi, russi ecc. comparsi negli anni.

Adesso ho davanti a me il libro che definirei, oltre che prezioso, anche esaustivo sulla figura di Buñuel, edito da Cue Press, titolato Luis Buñuel su Luis Buñuel, un vero e proprio testamento artistico ad opera di due studiosi e critici cinematografici scomparsi da alcuni anni: il messicano Tomàs Pèrez Turrent e lo spagnolo Josè de la Colina, che tra non poche difficoltà sono riusciti a portare a compimento un’opera iniziata alla fine del 1974 e finita nel 1981, architettata a guisa che i 31 film ci vengono mostrati attraverso le puntute domande dei due critici e le risposte chiare e precise di Buñuel, che rendono oltremodo vive e vivaci le pellicole realizzate. Fu Buñuel a suggerire a Dalì di fare un film insieme dopo aver sognato, il primo di tagliare un occhio a qualcuno, il secondo d’aver la mano piena di formiche; in sei giorni scrissero il copione di Un chien andalou, realizzato con 25 mila pesetas che gli aveva dato la madre di Buñuel, diventati poi solo la metà perché spesi per cabaret e cene con gli amici a Parigi.

Nella sua prefazione, Goffredo Fofi scrive che se ci fosse stato un Premio Nobel per il Cinema, Buñuel sarebbe stato il primo ad aggiudicarselo, unitamente al Premio Oscar. Perché per lui Buñuel è uno dei più grandi registi della storia del Cinema, uno dei più originali e innovativi artisti del Novecento. Confessando più avanti che il suo film preferito, quello che lo ha sconvolto di più dopo I figli della violenza, resta Nazarin, nei quali Buñuel esprime idee da grande sociologo, filosofo e moralista. Il libro descrive pure, sotto forma d’intervista, gli anni della formazione di Buñuel, che vanno dalla nascita a Calenda (Spagna) nel 1900, sino a quando si trasferisce a Parigi nel 1928; e si conclude con l’elenco completo della filmografia (locandine e sinossi comprese), e in chiusura l’indice dei nomi. È sconosciuto l’autore della bella foto di copertina, che ritrae Buñuel in giacca e camicia scura, volto semi sorridente, con sigaretta accesa tra le dita, riconoscibile per la palpebra dell’occhio destro più calata rispetto al sinistro.

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23 Maggio 2023

Paolo Grassi: cento anni di palcoscenico

Isabella Gavazzi, «Drammaturgia»

Il centenario della nascita di Paolo Grassi (1919-1981) è stata l’occasione per organizzare nel marzo 2019 un convegno a lui dedicato presso l’Università di Milano, dal quale sono tratti gli otto contributi che troviamo in questo volume, curato da Isabella Gavazzi.

Figura emblematica per la politica e la cultura (sia teatrale che televisiva) del Novecento, Grassi rivive attraverso gli occhi e le parole di intellettuali e critici che hanno lavorato con lui, in un volume a beneficio di studenti e ricercatori delle nuove generazioni ma anche degli studiosi più colti. Il desiderio è quello di «Fornire un ritratto a tutto tondo che ne abbracci la figura professionale, gli aspetti caratteriali e la personalità, il tutto inserito in un contesto che oggi viene classificato già come storia: scelte professionali, problemi di natura politica sorti durante il percorso lavorativo, il concetto stesso di ‘fare cultura’» (p. 19).

I primi due contributi della curatrice permettono di presentare Paolo Grassi sia come «addetto ai lavori» sia come uomo, attraverso l’intervista a Carlo Fontana – che è stato suo allievo – e il breve excursus sulla sua poliedrica biografia. Noto impresario teatrale, direttore, giornalista e dirigente pubblico, figura fondamentale per la storia del teatro novecentesco milanese e non solo, Grassi si avvicina in giovane età al teatro. La conoscenza con Giorgio Strehler, Franco Parenti, Renato Guttuso e Salvatore Quasimodo fu per lui fonte di ricchezza culturale e di crescita. Il suo impegno politico di militante socialista si concretizza nel voler riportare Milano agli antichi splendori, con «opere d’arte al di sopra di ogni contenuto» (p. 23), attraverso un instancabile e continuo lavoro che lo porta ai vertici della cultura italiana.

Leonardo Spinelli approfondisce il contesto culturale e sociale nel quale Grassi inizia a lavorare nel Dopoguerra. Conosciuto in particolar modo per la fondazione del Piccolo Teatro di Milano (con l’amico Strehler), Grassi riunisce in sé la figura di sovrintendente e operatore culturale, essendo riuscito a superare «Quella dicotomia tra capocomici e artisti, che operano sulla scena, e organizzatori-burocrati, che al teatro guardano dall’esterno, pur essendo responsabili di grandi decisioni e soprattutto erogatori delle sovvenzioni» (p. 41).

Mariagabriella Cambiaghi ricorda come l’apertura del Piccolo Teatro sia associata al forte desiderio di portare la cultura ai cittadini, ispirato all’ideologia gramsciana. Il rapporto tra Grassi e Strehler, la «coppia dei consoli» (p. 41), viene ripercorso attraverso i principali eventi storici e culturali dell’epoca, fino alle dimissioni di Strehler dall’incarico di direttore artistico nel 1968. Alberto Bentoglio tratta di questo periodo, che dura fino al 1972, in cui Grassi continua a dirigere il teatro, lavorando contemporaneamente alla sua produzione artistica. Se precedentemente i cartelloni delle stagioni erano ricchi di teatro di regia, i cinque anni di direzione in solitudine sono contraddistinti da una diminuzione del numero di opere rappresentate – a favore della qualità – e da una costante ricerca di «opere adeguate alla nuova e complessa realtà del momento e ispirate all’attualità, per scuotere il pubblico e attirare la sua attenzione» (p. 54) (come Visita alla prova de L’isola purpurea di Bulgakov. Con interventi e ipotesi finale di Giuliano Scabia o Off limits di Arthur Adamov).

La direzione di Grassi, che sopravvive ai moti del ’68 e del ’69, si conclude cinque anni dopo per il sopraggiunto incarico come sovrintendente del Teatro alla Scala, descritto da Mattia Palma come un momento importante per la sua vita, rappresentando l’«esempio per le stimolanti – ma anche logoranti – lotte esterne e interne, politiche e artistiche che […] ha dovuto affrontare» (p. 65). Grassi, con la direzione musicale di Claudio Abbado e del direttore artistico Massimo Bogiankino, porta con sé alla Scala la sua idea di teatro impegnato popolare, pensando «la sovrintendenza della Scala come una missione culturale per il Paese» (p. 66), dove si ricerca un teatro «di stagione», attraverso una programmazione triennale degli spettacoli, dove il fine ultimo è unire il teatro popolare – sempre di concezione gramsciana – a quello d’élite.

Irene Piazzoni presenta la figura di Grassi come intellettuale-funzionario della Rai, subito dopo aver lasciato la Scala nel 1977. In qualità di presidente della Rai – con Giuseppe Glisent come amministratore delegato – lotta con l’incombente arrivo della tv privata, mentre progetta la nascita del terzo canale Rai e la creazione di materiali e sceneggiati originali da proporre al pubblico italiano, poiché «l’obiettivo era […] di trovare un equilibrio tra amusement e cultura, tra superficiale e veloce consumo e approfondimento» (p. 85).

Il volume si conclude con l’intervento di Valentina Garavaglia, dedicato al Grassi editore e critico teatrale. Dagli esordi nelle prime redazioni milanesi ai contributi su «Corrente», fino agli scritti politici per il giornale «Avanti», si confronta «quotidianamente con la situazione teatrale del Paese, svelandone le tensioni culturali e sociali, con un’attenzione particolare alle categorie ‘deboli’, nell’ottica dell’appartenenza a un socialismo umanitario» (p. 96). Con le numerose collane di cui diventa direttore a partire dagli anni Quaranta – da «Collezione Teatro» a «Teatro Moderno», da «Il teatro nel tempo» fino al «Teatro» edito da Einaudi – Grassi vuole che l’editoria partecipi alla realizzazione di un’identità culturale non solo italiana, ma anche europea.

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19 Maggio 2023

Marivaux, Teatro III

Massimo Bertoldi, «Il Cristallo On Line»

La pubblicazione di Teatro III di Marivaux, che segue i primi due volumi editati nel 2021 e 2022, risponde ad un ambizioso e prezioso progetto di Cue Press finalizzato alla divulgazione del repertorio, conosciuto in Italia solo attraverso poche e irreperibili traduzioni, di questo grande commediografo francese molto legato al Théâtre Italien di Parigi, dove nel Settecento si esibivano le compagnie dei Comici dell’Arte e dai quali apprese lezioni stilistiche e tematiche.

Il volume in questione è diviso in due blocchi testuali. Il primo occupa tre opere scritte per gli attori della Comédie Italienne guidata da Luigi Riccoboni e catalogate come pièces d’été, ossia rappresentate, anche se con poco successo, durante i mesi estivi. Lo stratagemma riuscito (1733), Il quiproquo (1734) e La gioia imprevista (1738) condividono la modalità compositiva incentrata sull’esplicazione dei meccanismi della finzione per meglio indirizzare la concentrazione dello spettatore verso le peculiarità dei personaggi, animando, in questo modo, una sorta di autorappresentazione, come spiega nei dettagli Monica Pavesio nell’Introduzione.

Nello Stratagemma riuscito si anima l’intreccio comico della doppia infedeltà praticata dalla Contessa e dalla Marchesa e, nella sfera dei servi, da Lisetta, fidanzata di Arlecchino, che accetta il corteggiamento di Frontino. All’epoca conobbe solo tre rappresentazioni Il quiproquo, commedia ricca di equivoci, travestimenti e di scambi di persone tra due sorelle anche loro coinvolte nelle dinamiche dei corteggiamenti, prima caotici e ambigui, poi a lieto fine.

Il protagonista della Gioia imprevista è un giovane provinciale arrivato a Parigi con il servo Pasquino per comperare una carica nobiliare e per cercare moglie, poi trovata nella bella Costanza, dopo tante complicazioni provocate tra l’altro dal padre che, mascherato, intende controllare di nascosto il figlio.
Spetta a Paola Ranzini la meticolosa ricostruzione della fortuna e interpretazione scenica dal Settecento ad oggi di queste tre commedie che risultano assai controverse in sede critica e alle quali mancava la versione italiana, ora offerta dalla traduzione di Pavesio.

La seconda parte di Teatro III contiene il cosiddetto trittico delle Isole, ovvero i «mondi alla rovescia, isolotti di pensieri, spazi di immaginazione, fantasie politiche» di Marivaux, secondo quanto si legge nella luminosa introduzione di Stephane Kerber. Nell’ Isola degli schiavi (1725) domina il tema dell’uguaglianza sociale come vissuta da Arlecchino e dal padrone Ificrate, sbarcati su un’isola dove tutto è lecito, compreso il rovesciamento dei ruoli tra uomo e donna; il fondamento della ragione informa di sé L’isola della ragione (1727), in cui otto viaggiatori europei entrano in contatto con un’altra civiltà per esibire dimostrazioni di ragioni e bontà.

Queste Isole sono semplici divertimenti con elementi carnevaleschi oppure trasmettono messaggi e istanze politiche? «Sono certamente l’uno e l’altro. E molto altro ancora», risponde in merito Kerber, ricordando l’educazione morale e sentimentale soprattutto presente tra le pieghe narrative dell’ Isola degli schiavi. Non solo: nella celebre edizione del 1994 Giorgio Strehler, cui spetta il merito di aver diffuso con successo la commedia in Italia, aveva creato un gioco finemente allusivo per fantasticare, pur con piglio storico-filologico, «il suo primo allestimento da parte di una compagnia di comici italiani attivi a Parigi», ricorda Paola Ranzini nelle pagine dedicate alla ricostruzione storico-artistica dei tanti allestimenti che si sono susseguiti fino ad oggi, compresi quelli dell’ Isola della ragione, opera meno fortunata, e della Colonia, inedita per l’Italia fino alla recente messinscena curata da Beppe Navelli a Firenze per il Teatro della Toscana nel novembre-dicembre 2022.

La stessa regia, che aveva allestito nel 2015 Il trionfo del dio denaro, si sofferma sui contenuti della commedia, ripercorrendone la trama e soffermandosi sullo sfortunato debutto del 1729 cui seguì, come raccontano le cronache dell’epoca, un Divertissement in cui «si cantano i vantaggi che l’amore offre alle donne rispetto agli uomini per ricompensarle del rifiuto di associarle al governo». Composto da Charles-François Pannard e accompagnato dalla musica di Jean-Joseph Mouter, il testo e lo spartito chiudono questa corposa e fondamentale raccolta marivaudiana, che restituisce al drammaturgo francese tutta la sua grandezza creativa, alla quale manca ancora adeguata visibilità sui palcoscenici italiani.

Difatti si contano sulle dita di una mano i testi allestiti: oltre a quelli citati, si ricordano le tre rappresentazioni del Gioco dell’amore e del caso, per le regie di Massimo Castri nel 1993 (cui compete anche La disputa nel 1992), di Antonio Syxty nel 2001 e di Giuseppe Manfridi nel 2012; degli Amanti sinceri, dell’ Assemblea degli amori e I sinceri (regia di Claudio Beccari, 1997) e del Principe travestito a cura di Cristina Pezzoli nel 1997.

Infine ha il sapore della scommessa pionieristica la rappresentazione da parte di Marco Bernardi nel 1988 di Arlecchino educato dall’amore di cui è protagonista un Arlecchino non più maschera scanzonata ma figura galante e scaltra, mossa da ragionamenti di matrice illuministica nel rapporto con la Fata, di cui è innamorato.

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Moissia
14 Maggio 2023

Alexander Moissi, la star dimenticata applaudita a Bolzano

Fabio Zamboni, «Alto Adige»

Per mamma e papà – rispettivamente italiana e albanese – era Aleksandër Moisiu. Per gli italiani – era nato a Trieste nel 1879 – era Alessandro Moissi. Per il mondo del teatro – che era quello austriaco e germanico – era Alexander Moissi. Di queste tre versioni, Massimo Bertoldi, storico del teatro bolzanino e critico teatrale dell’Alto Adige, ha scelto la terza, Alexander Moissi, perché la vita teatrale di questo personaggio curioso, legata soprattutto a Vienna e a Berlino, fu per l’appunto tedesca e perché il nome meglio si adatta alla dimensione mitteleuropea del personaggio, alla sua storia e alla temperie culturale in cui crebbe e divenne famoso. Famoso e dimenticato. E infatti Bertoldi gli dedica un volume, costruito in cinque anni di ricerche e pubblicato non a caso da Cue Press, editore superspecializzato nel settore del teatro.

La carriera

Ma chi era Moissi, e che cosa ha spinto l’autore di questa preziosa biografia a ricostruirne vita, morte e miracoli (teatrali)? Figlio di un facoltoso commerciante albanese, il protagonista di questa storia si era ritrovato a crescere in una famiglia impoverita da una disgrazia: la flotta mercantile che consentiva al padre Costantino lauti guadagni venne distrutta da una tempesta. Questo costrinse Alessandro a cercare fortuna in un altro angolo dell’impero Austro-ungarico, di cui faceva parte anche la natia Trieste. Decimo e ultimo di dieci fratelli, sbarcò a Vienna sulle orme di una sorella, inseguendo da subito una carriera artistica.

Voce tenorile di notevole qualità, entrò al Conservatorio di Vienna, ammesso da una commissione di cui faceva parte l’illustre Ferruccio Busoni, ma ben presto ne fu espulso per totale disimpegno nello studio. Giovane disoccupato, passando davanti al Burgtheater lesse un avviso che annunciava la ricerca di comparse. Fu la sua fortuna: dopo un paio di «comparsate» e alcune apparizioni nel coro popolare di un’opera lirica, sul palco lo notò Josef Kainz, superstar del teatro viennese, e fu lui ad avviarlo alla formazione e alla carriera di attore. Carriera che, ci ricorda Bertoldi nel volume, iniziò con due anni di gavetta al Neues Deutsches Theater di Praga, segnalandosi soprattutto per il ruolo da protagonista nel Cyrano. Fu il primo atto di una carriera straordinaria, osannata e contrastata, esaltata da tanti critici ma anche ricca di critiche negative: Moissi usava la voce come uno strumento musicale, e non aveva mai perso il suo accento da italiano. Ma aveva un fascino misterioso, un carisma che gli permise di diventare un attore alla Mastroianni, di quelli che non recitano il personaggio ma se stessi, capaci di trasferire sulla propria personale essenza – e di viverla intensamente – le caratteristiche del ruolo da interpretare. Che non è più interpretato ma vissuto fino in fondo.

Ed ecco la grande occasione: Max Reinhardt, regista e celebre direttore del Deutsches Theater di Berlino, lo chiama nella sua compagnia: è il 1903 e il pubblico berlinese, affamato di novità e di contemporaneità, lontanissimo dal paludato tradizionalismo dei viennesi, lo adotta subito e lo consacra star nei ruoli principali dei Bassifondi di Gorkij e nell’Elektra di Hoffmanstahl. Moissi si confronta con altri grandi autori come Schiller e Shakespeare e Ibsen e affronta con Reinhardt fitte tournée a Vienna, Mosca e Parigi. Scoppia la Prima Guerra mondiale e l’attore, trentaseienne, per dimostrare la sua gratitudine verso la nazione che lo aveva adottato e lanciato, si arruola e va a combattere sul fronte francese; l’aereo da ricognizione su cui vola viene intercettato dagli inglesi, Moissi viene catturato e chiuso in un campo di prigionia, dove si ammala di tubercolosi.

Due anni dopo lo liberano e lui, nella nuova Germania repubblicana, matura idee rivoluzionarie: si innamora del socialismo e della rivoluzione bolscevica e riprende a lavorare in teatro tornando a fare base a Vienna con frequenti tour in Russia, dove diventa un idolo anche grazie alla sua fama di socialista. Si muove con disinvoltura fra la moderna Berlino e la nostalgica Vienna, collezionando recensioni contrastanti per l’originalità estrema delle sue interpretazioni. Poi finalmente calca un palco italiano, ospite della sua Trieste nel maggio del 1918. Ed è solo l’inizio di una frequentazione italiana, che ricorre più volte e lo porta a diventare amico di artisti come Eleonora Duse. Le tournée con importanti compagnie viennesi e berlinesi si allargano a Parigi e agli Stati Uniti, fino a quando le nuove avanguardie e la voglia di modernità della cultura berlinese non oscurano la fama di Moissi, che si era cimentato nel frattempo anche nel cinema. In quello muto, che certo non valorizzava la dote principale dell’attore triestino: la sua voce.

Dunque una carriera non lunghissima ma molto intensa, segnata da incontri storici come quello con Pirandello, che per lui scrisse un testo, Franz Kafka, che ne esaltò le doti nei suoi Diari, e Benito Mussolini, che lo applaudì più volte. Il Duce gli promise la cittadinanza italiana, che ottenne solamente in punto di morte. Consumato dalle conseguenze di quella tubercolosi che lo aveva aggredito in guerra, morì a Vienna il 22 aprile del 1935, e dopo i solenni funerali viennesi fu seppellito – per sua espressa volontà – nel piccolo cimitero svizzero di Morcote, sul lago di Lugano, dove si rifugiava spesso negli ultimi anni di vita. Sulla lapide l’essenziale: Alessandro Moissi 1879-1935. Di questo grande attore, dimenticato in fretta e ingiustamente dalla storiografia del teatro, restavano fino ad oggi poche tracce, disperse nelle biblioteche e nelle emeroteche della Mitteleuropa.

Il libro

Bene dunque ha fatto Massimo Bertoldi – già autore di vari saggi sul teatro rinascimentale e contemporaneo, di Lungo la via del Brennero (2007) e del volume sui settant’anni di storia del Teatro Stabile di Bolzano (2021) – a ricostruirne vita e opere, con un lavoro certosino che lo ha portato a riesumare recensioni e documenti rintracciati in varie biblioteche, partendo dalla Tessman di Bolzano: «Ho iniziato da Bolzano, scoprendo che per esplorare quelle di Vienna, Berlino e altre città tedesche dove c’erano tracce di Moissi, oggi non serve viaggiare. Le biblioteche di mezza Europa sono digitalizzate e dunque è bastato un computer, tanto tempo e tanta passione». Ma come è risalito a Moissi e alla sua storia? E perché proprio lui? «Mi sono imbattuto in Moissi scrivendo la storia del vecchio Teatro Verdi di Bolzano e scoprendo che l’attore triestino era andato in scena nella nostra città dal 21 al 23 dicembre del 1934 con Il cadavere vivente, Spettri e Amleto, i suoi cavalli di battaglia. E scoprendo inoltre che c’era un legame con un altro grande artista che ha legato il suo nome a Bolzano: Ferruccio Busoni, che faceva parte della commissione del Conservatorio di Vienna e anche di quella del Burgtheater che ammise Moissi, avviandone la carriera». Insomma, da due piccoli spunti è nata una grande storia. Che esce in libreria in questi giorni e che verrà presentata ufficialmente a Bolzano nel prossimo autunno.

Paolo puppa logbook
6 Aprile 2023

Un mondo sull’orlo del disfacimento nei monologhi di Puppa

Stefano Adami, «Il Tirreno»

Paolo Puppa è professore emerito di Storia dello spettacolo all’Università Ca Foscari di Venezia e studioso di storia del teatro. Nel tempo si è aperto le strade di narratore, autore teatrale e attore. Questo libro vuole essere una sorta di sintesi di questo lungo lavoro. In queste pagine vediamo affollarsi il palpitante, disfunzionale brulicare umano: il viaggiatore di merci che tenta di vendere qualcosa, le apparentemente «buone» famiglie che finiscono per trattare con estremo cinismo i propri appartenenti, il giovane pensionato che è l’opposto della placida benevolenza. I monologhi di Puppa materializzano individui che sembrano già portare dentro di sé la fine del mondo e dell’umanità. È un’intensa prova narrativa che fa immaginare la soddisfazione che deve aver provato chi questi monologhi ha avuto la fortuna di vederli sulla scena, incarnati dall’autore stesso. Ma tutti i testi funzionano molto bene anche nella silenziosa lettura individuale.

Balazs phantom murnau
3 Aprile 2023

Balázs, il teorico del dramma moderno, del teatro operaio, delle lotte di classe, e dell’Agit Prop, ripreso da Dario Fo

Andrea Bisicchia, «lo Spettacoliere»

Béla Balázs è uno scrittore, saggista, drammaturgo, teorico ungherese, noto in particolare per la sua collaborazione con Béla Bartok, per il quale compose il libretto d’opera Il castello del Principe Barbablu, attingendo al repertorio delle tradizioni popolari, di origine fiabesca, della sua nazione. Ebbe una vita abbastanza complessa: fu combattente dell’Armata Rossa, membro del Direttorio degli scrittori, oltre che suo dirigente, insieme a Lukács; autore di testi come Il dramma moderno, La genesi della tragedia borghese da Lessing a Ibsen e Il dramma moderno dal Naturalismo a Hofmannsthal, tradotti in Italia e sui quali molti di noi hanno studiato, negli anni Settanta. Certamente Luckács e Balázs ebbero modo di influenzarsi a vicenda. Di quest’ultimo, Cue Press ha pubblicato Scritti di teatro, con prefazione di Eugenia Casini Ropa.

Balázs distingue il dramma dalla tragedia, sostenendo che l’irrazionale non possa avere più posto nel teatro moderno, avendo rinunziato alla dimensione divina e a qualsiasi forma di assolutezza. Perché ogni conflitto, a suo avviso, appartiene alla «vita sperimentata», in particolare quello che ha afflitto la vita della borghesia, che, durante il suo tramonto a fine Ottocento, aveva smarrito sia i valori sia gli ideali assoluti. Lo stesso discorso vale per il tema della follia, trattato molto frequentemente da autori come Ibsen e Strindberg, le cui conseguenze erano frutto delle convenzioni e degli scontri sociali, oltre che di sentimenti ammalati che non avevano nulla a che fare con la tragedia. Insomma, nel dramma moderno, non si trovano più né Aiace, né Eracle, dato che i loro conflitti erano da addebitare all’intenso rapporto con la dimensione religiosa, quella degli dei per intenderci.

A dire il vero, a Balázs non interessava soltanto il significato sociale del teatro, bensì anche quello politico, che si poteva mettere in evidenza proprio attraverso la struttura scenica. Tanto che, per avvalorare la sua tesi, egli distinse la scena mistica – che ha una sua particolare visione del mondo – dalla scena sociale – sempre alla ricerca di soluzioni drammatiche attraverso l’uso della ragione – e la scena politica, che eredita da Piscator, altro compagno di strada, e arricchisce con la creazione del Teatro Operaio. Siamo negli anni Trenta, durante i quali Balázs visse anche l’esperienza della Repubblica di Weimar, dove agivano cinquecento gruppi teatrali che portavano sui palcoscenici di periferia le loro riflessioni sul mondo del lavoro e delle disuguaglianze, creando nuove forme d’arte con l’utilizzo di ballate popolari. A scapito di opere come Oplà, noi viviamo di Toller, o Tamburi nella notte di Brecht, o ancora Il professor Bernhardi di Schnitzler, che riteneva drammi di conversazione, a «tendenza» che non avevano «nessun principio», testo quest’ultimo che, al contrario, abbiamo trovato esemplare nella messinscena di Ronconi, sicuramente una delle più riuscite e applaudite.

La tipologia del Teatro Operaio evidenzia, secondo Balázs, un’ «evoluzione alla rovescia», nel senso che prima di tutto esiste il pubblico, poi viene il teatro e, infine, la letteratura, con i suoi testi scritti secondo le regole. Come dire che la storia del teatro è la storia del suo pubblico, tanto che il Teatro Operaio potrà vantare un pubblico omogeneo, non certo immersivo, come lo si intende oggi. Per questo motivo, Balázs teneva molto a distinguerlo dal dramma borghese, che andava in cerca del consenso di un pubblico non certo sofferente dal punto di vista economico, nel quale i protagonisti entravano in scena come delle vere e proprie vittime, «sull’orlo della rovina e della perdizione».

Nel Teatro Operaio si portano in scena lotte contro la disoccupazione, per salari decenti, ma soprattutto contro le ingiustizie sociali. È il teatro dell’Agit Prop, quello che verrà ripreso nel 1968 da Dario Fo e dai collettivi proletari, con tutte le teorizzazioni che ne seguiranno. Per Balázs, il teatro risulta necessario se riesce a portare in scena la realtà del presente, con le sue contraddizioni, imponendosi come strumento di trasformazione sociale, con l’intento di «cambiare il mondo», come sostiene la curatrice Eugenia Casini Ropa.

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