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Approfondimenti, interviste, recensioni e cultura: il meglio dell’editoria e delle arti da leggere, guardare e ascoltare.

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14 Febbraio 2023

Pensieri dal set di Kore’eda Hirokazu. A cura di Francesco Vitucci

Claudia Bertolé, «Sonatine»

«Non amo parlare delle mie opere e non credo nemmeno di essere particolarmente abile nel farlo. Sebbene abbia creduto invano di poter sfuggire all’invito, alla fine mi sono trovato giocoforza a pubblicare questo volume. Non che sia mia intenzione lamentarmi, anzi, sono molto grato per l’occasione che mi è stata offerta».

Così esordisce Kore’eda Hirokazu nella Pseudo-prefazione, quasi postfazione di questa interessante opera, pubblicata la prima volta in Giappone nel 2016, ora tradotta dal giapponese in italiano da Francesco Vitucci e edita da Cue Press nella collana «Le Teorie». Pensieri dal set si rivela una lettura preziosa perché, nonostante la prudente affermazione d’apertura, nel libro il regista si «svela», raccontando, come egli stesso puntualizza, la regia delle opere dall’interno, e cogliendo allo stesso tempo l’occasione per parlare di cinema contemporaneo.

Kore’eda è un autore che oramai non ha quasi bisogno di presentazioni. I suoi film sono spesso stati inseriti nei programmi di festival cinematografici internazionali di rilievo, ricevendo premi prestigiosi: è il caso, per citarne alcuni, di Father and Son (2013), premio della Giuria al Festival del cinema di Cannes, oppure di Un affare di famiglia, Palma d’Oro al Festival del cinema di Cannes 2018. Anche la distribuzione delle sue opere nelle sale italiane, a partire da Father and Son, fino a Le buone stelle – Broker del 2022, e l’organizzazione di rassegne, hanno contribuito a rendere la sua opera familiare anche alle platee italiane.

Il cineasta, che in Pensieri dal set non manca di sottolineare quanto la televisione sia profondamente impressa nel suo DNA di regista, fin dagli esordi nel mondo del documentario televisivo (ricordiamo ad esempio Lessons from a Calf o However… del 1991), quando ha rivolto la propria attenzione al tema della memoria, all’elaborazione del lutto, alle relazioni familiari anche non convenzionali. Il libro è una sorta di diario autobiografico che raccoglie i ricordi e le osservazioni del regista, da quei primi documentari ai film successivi, con una scansione per periodi: da un primo sguardo alle opere d’esordio, Maborosi e After Life (1995-98), passando dal «periodo giovanile e le sue frustrazioni» (1989-91), fino al «convivere con l’assenza» (2004-09) e agli anni più recenti (2011-16). L’autore offre il proprio punto di vista, ripercorre i momenti antecedenti alle riprese di un film, si sofferma su aspetti anche tecnici dell’arte cinematografica, o sulla direzione degli attori.

Non mancano considerazioni più generali sulle dinamiche dei festival internazionali, sulla regia televisiva e sulle prospettive future del cinema giapponese. Completano la pubblicazione le puntuali note del curatore, nonché appunti e stralci da storyboard originali di alcune sequenze. Un’opera di stimolante approfondimento del pensiero di un regista che, nel corso della carriera, non ha mancato in ogni suo film di proporre riflessioni acute sulle relazioni umane e sul contesto sociale nel quale si esprimono.

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12 Febbraio 2023

La sfida di Achab

Elisabetta Raimondi, «Fata Morgana Web»

Nell’occuparsi di tutti gli aspetti relativi al complicato intreccio di relazioni interne ed esterne al lavoro registico e attoriale, il grande maestro Peter Brook parla di «rappresentazione nascosta» per definire «la rete invisibile di rapporti tra personaggi e temi» che gli attori sviluppano nelle fasi di prove degli spettacoli, creando dentro di sé forme autonome rispetto alla «rappresentazione esterna» che vedono gli spettatori. La citazione si trova nel libro di Laura Mariani L’America di Elio De Capitani, uscito per Cue Press in un’edizione aggiornata ed ampliata dopo quella del 2016, nella quale la storica e docente universitaria di Storia dell’Attore prende in esame l’intera carriera artistica dell’attore e regista milanese, co-direttore del Teatro Elfo-Puccini di Milano insieme a Ferdinando Bruni, soffermandosi in particolare sul suo percorso di esplorazione della società e della drammaturgia americana.

Chiedendosi se il critico e lo storico debbano guardare «non solo allo spettacolo in sé» ma «anche alla cultura che lo produce» ed entrare «nei processi di lavoro degli artisti» invece di «mantenere la distanza», Mariani condivide l’importanza di tale compito con Peter Brook e con il drammaturgo e critico Claudio Meldolesi, «che ricorda ‘i muti e ossessivi dialoghi fra il proprio inconscio e la scatola magica, i dialoghi fra sé e sé’ con cui Tommaso Salvini (considerato il più grande attore italiano dell’Ottocento) si preparava a entrare in scena, che tanto colpirono Stanislavskij». Con il suo libro, tra i cui intrecci di temi, fonti, analisi e perfino genesi multiple degli spettacoli presi in considerazione spiccano le interviste fatte negli anni a Elio De Capitani – molte delle cui «risposte sono simili a momenti del ‘monologo interiore’ di Salvini» – Laura Mariani dimostra a pieno titolo come il teatro raccontato possa essere estremamente appassionante.

Nell’edizione precedente Mariani si fermava a Morte di un commesso viaggiatore di Arthur Miller che De Capitani, interprete del commesso Willy Loman, diresse da solo nel 2016 dopo le co-direzioni con Ferdinando Bruni delle due parti di Angels in America di Tony Kushner (Si avvicina il millennio nel 2007 e Perestroika nel 2009), in cui vestiva i panni del famigerato avvocato Roy Cohn, e di Frost/Nixon (2013) di Peter Morgan, tratto dal famoso duello televisivo tra il giornalista britannico David Frost (Bruni) e l’ex-presidente Richard Nixon (De Capitani). Il volume ora in libreria include il bellissimo e corposo capitolo sull’ultimo capolavoro americano di De Capitani, che ha debuttato l’anno scorso a Milano e Torino. Si tratta di quel Moby Dick alla prova, ora in tournée in Italia fino al 26 di febbraio, che Orson Welles – cui l’autrice dedica un lungo paragrafo – scrisse, diresse e interpretò nel 1955, spinto dal consueto impulso di lanciare a se stesso sfide impossibili, impulso cui anche De Capitani non è affatto estraneo.

Soffermandosi dettagliatamente su tutte le fasi dell’allestimento – comprese le prove fatte quando i teatri erano chiusi al pubblico per il Covid e la nutrita ciurma della baleniera Pequod, nel rispetto quotidiano di regole, tamponi e mascherine, si addestrava sul palco in un’atmosfera tanto concreta quanto surreale – l’autrice evidenzia come questo imponente e strabiliante primo allestimento italiano di Moby Dick – Reharsed fosse quasi inevitabile per De Capitani. L’artista ne ha fatto «Una sorta di preludio grandioso o, viceversa, una summa. Mostra con la potenza dell’epica antica il ‘cuore di tenebra’ degli Stati Uniti, l’altra faccia del suo mito, incarnata dal capitano Achab e da Moby Dick al tempo stesso: oltre l’amore per il lavoro e la spinta capitalistica, lo spirito d’avventura e il vitalismo, il materialismo e la religiosità, fino a trasformare la lotta contro il Male, vero o presunto, in distruzione della natura e di se stessi. (…) L’America che ha sterminato le balene e i bisonti insieme agli Indiani si mostra qui in tutta la sua potenza, affascinante e pericolosa: l’Achab di De Capitani ne è espressione drammatica compiuta, lui e la sua nave, in cui potremmo trovarci anche noi, anzi ci troviamo».

De Capitani, come Orson Welles prima di lui, non interpreta solo Achab, ma anche Padre Mapple, che parla dalla sommità di una scala con la stessa potenza con cui Welles predicava dal pulpito della chiesa nel film di John Huston del 1956. E poi ci sono i due personaggi introdotti da Welles, vuoi per facilitare la messa in scena di ciò che era considerato irrappresentabile, vuoi per segnare la profonda relazione tra Melville e Shakespeare: re Lear e il capocomico di una compagnia di attori che, mentre si sta provando il dramma shakespeariano, decide di cambiare rotta e mettere in scena Moby Dick.

«De Capitani riattiva la riattivazione di Orson Welles, raddoppiando la sfida: conferma che il romanzo pulsa di tale vita da offrirsi a tutti i tipi di teatro, a operazioni tra le più diverse, senza perdere la potenza magnetica del suo nucleo drammatico».

Un nucleo drammatico che, passando dall’Ottocento di Melville al Novecento di Welles al Duemila di De Capitani, ingloba secoli di storia in un intreccio di relazioni in cui tutti gli artisti si rifanno fortemente a Shakespeare, ma dove per Welles pulsa anche il Kurtz di Cuore di tenebra di Joseph Conrad, a cui De Capitani aggiunge il Marlon Brando di Apocalypse Now di Francis Ford Coppola.

Come si è detto, molti sono i temi che l’autrice affronta nel suo libro: ad esempio il rapporto del drammaturgo americano con i contesti da cui sono nati i testi, le successive scelte registiche teatrali e cinematografiche rispetto alle drammaturgie originali; gli apporti dei diversi attori che si accumulano nel tempo nelle interpretazioni di uno stesso personaggio; gli approcci più o meno mimetici che gli attori danno di personaggi realmente esistiti. Ne risulta insomma un’intricata tessitura che inevitabilmente genera dei punti di confronto con cui anche De Capitani e il suo gruppo di «elfi» devono fare i conti, soprattutto considerando la natura di De Capitani, attentissimo a tutto quanto riguarda le scelte registiche e profondamente convinto dell’importanza del «teatro dell’attore».

Parlando del suo lavoro e del suo doppio ruolo, De Capitani, racconta Laura Mariani, usa «L’espressione ‘alto artigianato’: senza sottovalutare l’appartenenza della regia al dominio dell’arte e dell’autorialità, intende così evidenziarne la natura concreta, pratica, processuale, dettagliata, umile oltre che dirigenziale, in connessione con le libertà dell’attore, il lavoro sul testo e la vita dello spettacolo. […] Bisogna essere registi forti, ma sapersi ritrarre sempre, aperti all’attore, alle contraddizioni dell’attore; saper stare in tutto e per tutto in un teatro dell’attore, assieme all’attore. Essere registi-attori aiuta moltissimo, ma quando stai fuori (e quindi dirigi soltanto) rischi di far vincere il regista e la voglia di controllo, di funzionamento, di composizione: forse perché la spinta che occorre per un teatro del ‘qui e ora’ richiede un attore molto, molto particolare, di grande esperienza e apertura, capace di improvvisazione quanto di controllo».

Tra i tanti personaggi americani presi in considerazione ce n’è uno italiano, reale e per giunta vivente, cui Mariani dedica un capitolo, e non solo per l’opinione di Marlon Brando secondo cui «la preparazione di nessun attore può definirsi completa finché non ha fatto un film», ma per l’importanza che la costruzione di quel ruolo cinematografico ha avuto anche nella costruzione successiva di Cohn e Nixon. Si tratta del Silvio Berlusconi degli anni dell’ascesa (dalla progettazione di Milano 2 nei primi anni Settanta alla discesa in campo del ’94) che De Capitani ha interpretato nel 2006 nel film Il caimano di Nanni Moretti. Per il suo Berlusconi l’attore ha cercato quella sintesi, rappresentata dal personaggio, in cui vanno concentrati i plurimi aspetti dell’individuo reale, evitando dunque la pura mimesi esteriore. Scrive Mariani: «I personaggi di Berlusconi, Roy Cohn e Nixon formano una triade nell’esperienza di De Capitani. ‘Li ho studiati come uomini che hanno dentro diverse caratteristiche del vitalismo della destra, inteso non solo come teoria politica, come estensione antropologica del neoliberismo. Incarnano l’idea, che appartiene molto anche ai grandi personaggi shakespeariani, di prendere la vita e graffiarla con il proprio segno, non importa come, anche al di là dell’etica, purché questo segno resti’. Da attore, è arrivato a nutrire ‘una passione quasi malata’ per queste figure, per la sfida teatrale che gli hanno posto: assumere la loro umanità ‘nera’ dall’interno, mantenendo il riferimento a Brecht, alla sua cruda concezione della vita e alle sue efficaci rappresentazioni dei rapporti sociali».

Un altro degli aspetti interessantissimi del libro è l’analisi degli illustri predecessori, teatrali e/o cinematografici, dei vari personaggi interpretati da De Capitani, reali o di finzione che siano. Per Roy Cohn, Mariani cita James Woods in Citizen Cohn, con «una delle migliori interpretazioni» dell’attore americano e soprattutto Al Pacino, alle prese con le stesse scene di De Capitani nella miniserie HBO in sei puntate di Angels in America di Mike Nichols (2003). Pur dovendo fare qualche conto con Al Pacino, De Capitani si concentra sull’uomo di potere di destra «Che percepisce il mondo non come disastro ma come eccitazione […] ‘un carnivoro, uno che considera la storia una giungla’ e il male ‘qualche cosa di spaventosamente vicino alla natura umana’. Per un attore è ‘esaltante’ affrontare un personaggio così, dice De Capitani: ‘Mostrarne l’efferatezza ma al tempo stesso viverlo, riuscire a provare quei sentimenti, riuscire a non farli artificiali ma come cose che ha dentro chiunque’».

De Capitani porta anche «i tratti identitari dell’ebraismo e dell’omosessualità dentro il tema centrale del potere». Perché, come dice l’attore italiano, «il potere è una forma di emancipazione incredibile da ogni tipo di marginalità e dalla sudditanza al destino».

Per quanto riguarda Nixon – sul ricco repertorio di produzioni che lo riguardano, in particolare cinematografiche e televisive, abbiamo qui trattato in cinquant’anni di Watergate – Laura Mariani guarda all’Anthony Hopkins di Gli intrighi del potere di Oliver Stone (1995) e soprattutto al Frank Langella di Frost/Nixon, che l’attore ha interpretato sia a teatro sia nell’omonimo film di Ron Howard (2008), ottenendo una candidatura all’Oscar. Se Mariani vede in Hopkins un personaggio che, per decisione registica, viene relegato al suo essere il perenne «figlio del droghiere, un mastino tarchiato, volgare, incontrollato», lasciando trapelare la sua autorità presidenziale in pochissimi momenti, così non è per Frank Langella al quale De Capitani dichiara di essere debitore, pur non prendendo nulla dalla regia di Howard.

«Prima che un singolo presidente», scrive Mariani, De Capitani vuole incarnare «La Presidenza stessa degli Stati Uniti d’America, cioè un ruolo che comporta recitazione e pose. Dice De Capitani: ‘La cosa bellissima è che fai un personaggio che è un attore e quando fai Nixon, fai un attore che è a disagio, non sa recitare, e l’unica arte che ha è quella della parola, non solo nel senso che è bravo ad usarla: è un avvocato, è un leguleio, è bravo a immergersi nella ragnatela’».

Volendo restituire anche a Nixon tratti della grandezza tragica shakespeariana nella caduta finale, De Capitani dunque «punta sulle capacità seduttive e sulle abilità non solo oratorie di Nixon, contenute in un testo capace di raccontare epicamente la realtà» e che risponde «al bisogno di Bruni e De Capitani di costruire ‘un’archeologia del nostro presente, politico, sociale o nazionale’ attraverso particolari momenti della storia americana».

Nella costruzione di tale archeologia è fondamentale un personaggio di finzione come Willy Loman, vittima del sogno americano ma anche carnefice di sé stesso, «uno dei personaggi più potenti del teatro novecentesco […] fonte preziosa per studiare temi quali la famiglia e il sogno americano, mentre il potere si mostra a rovescio, dalla parte di chi non ce l’ha ma vorrebbe disperatamente il successo». Il Commesso, il cui sottotitolo Inside his head è un’anticipazione degli sdoppiamenti, delle visioni, dei ricordi che si alternano e si mischiano alla realtà nell’ultimo giorno di vita di Willy Loman, è anche «un punto di approdo» per De Capitani, che lo considera «il suo ‘manifesto dal punto di vista recitativo’, perché ha lavorato su più livelli a un grado di complessità mai raggiunto prima», riuscendo a «far transitare il testo dalla carta al palcoscenico, dove Stanislavskij incontra Brecht e la psicologia diventa presenza e azione scenica».

Moltissimi i commessi americani e italiani che Mariani e De Capitani passano in rassegna: dal pioniere Lee J. Cobbs, voluto da Elia Kazan per la prima messinscena del 1949 e interprete anche di una trasposizione TV del 1966; al Fredric March del primo film, diretto nel 1952 da László Benedeck; al Dustin Hoffman del film di Volker Schlöndorff del 1995; all’immenso e compianto Philip Seymour Hoffman in un allestimento teatrale di Mike Nichols nel 2012.

Tra i commessi italiani, oltre a Tino Buazzelli, Enrico Maria Salerno, Eros Pagni, Umberto Orsini, c’è naturalmente Paolo Stoppa, voluto da Luchino Visconti per il primo allestimento italiano del 1951, insieme a Rina Morelli per il ruolo della moglie Linda, che nello spettacolo di De Capitani è interpretata dalla brava attrice e regista Cristina Crippa, altra storica fondatrice dell’Elfo nonché moglie di De Capitani. La coppia Stoppa-Morelli è stata anche interprete della versione televisiva di Sandro Bolchi del 1968, nella quale recitava anche un giovane Umberto Orsini, a sua volta Willy Loman esattamente tre decenni dopo, «molto apprezzato da De Capitani per il suo Biff [il figlio minore di Willy] tormentato e problematico, che anticipa John Malkovich nel film di Schlöndorff».

Tornando circolarmente a Moby Dick alla prova, quasi fosse una sorta di De Capitani alla prova nel crescendo di sfide che l’attore-regista ‘elfo’ pone a sé stesso, concludiamo lasciando di nuovo la parola a Laura Mariani.

«In questa fase della carriera e della vita, alcuni grandi personaggi premono su De Capitani, sembra siano loro a convocarlo come attore oltre che come regista: Achab mette alla prova la sua sapienza e la sua inquietudine di artista, la sua esuberanza fisica e i suoi rovelli politici e intellettuali […] È come se Orson Welles avesse segretamente accompagnato tutto il percorso di Elio De Capitani e della sua ‘ciurma’ con la magia della sua arte e la radicalità della sua pratica della cittadinanza».

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11 Febbraio 2023

Kracauer, teoria del film

Rolando Vitali, «Alias — Il Manifesto»

Allo spettatore smaliziato, avvezzo all’odierno paesaggio multimediale, la tesi secondo cui al medium cinematografico apparterrebbe costitutivamente un rapporto privilegiato con la realtà materiale apparirà, se non ingenua – o tout court scorretta – quanto meno invecchiata. Sono lontani i dibattiti sul realismo e ben poca parte della produzione audiovisiva contemporanea pare rispondere a tale «principio estetico fondamentale», come lo chiama Kracauer. Ma è proprio a partire da questa tesi inattuale che si sviluppa la Teoria del film di Siegfried Kracauer, recentemente riproposta da Cue Press in una nuova edizione corredata da un’importante introduzione di Miriam Bratu Hansen, già curatrice della più recente versione inglese del testo (Teoria del cinema, Cue Press, € 42,99). In effetti, se si dovesse giudicare il cinema a partire dalle grandi produzioni contemporanee, sature di effetti speciali sempre più pervasivi e ormai indistinguibili dalle riprese analogiche, il nesso quasi ontologico istituito da Kracauer tra medium cinematografico e realtà materiale potrebbe apparire del tutto obsoleto.

La sua problematicità era d’altronde già ben presente a Kracauer stesso: ma proprio nel motivare la scelta di un’analisi storico-materiale del mezzo cinematografico incentrata prevalentemente sul cinema delle origini, Kracauer sosteneva che la natura essenziale di un mezzo espressivo andasse determinata a partire dalla sua struttura materiale e non dalle sue possibili declinazioni formali. Per questo la sua «estetica materiale» parte dalla continuità tecnica tra fotografia e cinema, chiedendosi anzitutto cosa li distingua da ogni altro medium.
Che cosa può fare il cinema che nessun’altra arte può fare? La risposta, per Kracauer, risiede nello specifico rapporto che cinema e fotografia intrattengono con il proprio materiale: «Le opere d’arte consumano il materiale grezzo da cui sono tratte, mentre i film, in quanto prodotto della macchina da presa, devono invece mostrarlo».

In altri termini, il cinema non possiede, come le altre arti, il proprio materiale; ma proprio per questo, esso è anche l’unica arte che, in virtù della propria procedura creativa, lo «lascia intatto», permettendo di portarlo come tale a visibilità. Di qui, secondo Kracauer, l’affinità elettiva del cinema e della fotografia con la conoscenza della realtà naturale, ossia del mondo materiale colto nella sua immediatezza. La possibilità di una teoria critica del cinema – capace di distinguere tra opere adeguate e opere inadeguate – viene così fatta derivare direttamente dalla costituzione specifica del mezzo fotografico.
Per Kracauer, quindi, solo il cinema che mira a esprimere esteticamente la natura e la realtà materiale risponde adeguatamente alle qualità uniche e specifiche del proprio mezzo espressivo. Anche questa pretesa critica potrebbe apparire oggi inadeguata e fuori tempo massimo. Leggendo il testo appare però evidente come Kracauer sia ben consapevole non solo della possibilità di un uso diverso – non «realista» – del mezzo cinematografico, ma anche della relazione necessariamente dialettica che sussiste tra intenzione descrittiva e momento costruttivo nella produzione dell’immagine. Che poi la teoria di Kracauer veda nel cinema la possibilità di una redenzione della realtà fisica – come recita il sottotitolo dell’opera – è probabilmente quanto di più lontano dalla nostra disincantata sensibilità contemporanea. Ma è invece proprio a partire da questi elementi di radicale inattualità che dovremmo cogliere il valore analitico e critico del lavoro di Kracauer.
Il suo interesse, in questo come in altri testi, si rivolge non tanto alle opere in quanto beni culturali, quanto a quelle «manifestazioni della superficie» che, «in quanto non rischiarate dalla coscienza, garantiscono un accesso immediato al contenuto profondo dell’esistente». Proprio in questi momenti quotidiani eppure invisibili si mostra infatti tutta la ferocia della repressione sociale sulla vita del particolare qualitativo: per questo, redimerne la visibilità attraverso il cinema può diventare indice di un’emancipazione possibile. Ed è questa attitudine ad un tempo analitica e critica che troppo spesso manca in molte delle analisi estetiche contemporanee e che, forse, dovremmo invece recuperare.

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6 Febbraio 2023

Le visioni spietate. Il Premio Nobel della Letteratura assegnato a Jon Fosse

Luca Scarlini, «La Falena», VI-2

Gli onori non sono mancati a Jon Fosse, assai prima del Premio Nobel gli è stato concesso l’onore di risiedere come artista nazionale nel castello di Grotten dalla corona di Norvegia e nel 2007 il governo francese gli ha assegnato il cavalierato per l’Ordre National du Mérite. Proprio Parigi è stata la città che gli ha tributato i primi riconoscimenti: la casa editrice L’Arche, eccellente per le proposte nel repertorio contemporaneo, ha tradotto quasi tutta la sua produzione, spesso per le cure sapienti di Terje Sinding, che ha lavorato a lungo con l’autore. Risuonava subito, per la critica d’Oltralpe, un evidente legame con il teatro simbolista, e specialmente con il repertorio di Maurice Maeterlinck, scrittore che sembra più rilevante come fonte di meccanismi scenici, rispetto al connazionale Ibsen e a Beckett, che sono diventati centrali nella «vulgata» internazionale.

Fondamentale è stato l’impegno di Claude Régy (scomparso nel 2019) per la diffusione della sua opera. Non per caso aveva firmato un’edizione magistrale de La mort de Tintagiles del maestro fiammingo delle attese e dei silenzi nel 1996 e da lì era passato nel 1999 al lancio di Fosse con una regia magistrale di Qualcuno verrà, testo magnifico, intriso di minacce metafisiche, in cui si narra la presenza inquietante, presso una dimora, di forze oscure che sono in agguato e che stanno per attaccare. Delle produzioni seguenti del regista francese è stata memorabile anche Variazioni di morte (2003), uno dei punti massimi dell’opera dello scrittore norvegese. Sempre Régy ha rivelato al pubblico francese l’altro drammaturgo norvegese di grande rilievo, assai meno noto da noi, Arne Lygre, autore di apocalittiche saghe familiari, tra i Buddenbrook e Festen, di cui ha realizzato Homme sans but nel 2007 (che Jacopo Gassmann ha allestito con il titolo L’uomo senza meta).

L’opera di Fosse nasceva in primo luogo in confronto con il doppio registro della lingua norvegese, scegliendo le suggestioni minimali del nynorsk o neonorvegese, versione essenziale della lingua, praticata in origine nelle aree rurali, ma poi utilizzata da numerosi intellettuali e contrapposta al più complesso idioma bokmål, parlato dalla maggioranza della popolazione. Usare il neonorvegese è una scelta polemica, contro la tradizione recente della cultura canonica.

I primi testi lo dichiarano: l’affermazione dello scrittore nel suo paese arriva con Il nome nel 1995. Una dinamica familiare tesa, intorno alla gravidanza della figlia, induce scontri continui sul nome da dare al nascituro, che è l’innesco per la denotazione di un’intera serie di conflitti. La determinazione di quell’appellativo concerne identità turbate, agitate, che trovano se stesse solo nello scontro.

La sintesi estrema dei percorsi linguistici scelti deriva anche dall’intensa frequentazione giovanile del mondo rock come chitarrista. Fosse suonava in una band e ha sempre ribadito la centralità dell’esperienza musicale per la sua scrittura. Nel mondo di Fosse teatro e narrativa hanno le stesse forme: identico ritmo, non per caso spesso i romanzi trovano la via della scena.

Il maggiore tra i lavori narrativi ad oggi è Melancholia 1 e 2, uscito in Italia da Fandango nel 2009. Si tratta di un monologo disperato e fratturato dalla follia, che porta al centro l’identità dolente di Lars Hertervig, tra i massimi artisti norvegesi all’epoca del Romanticismo, che dopo gli studi a Düsseldorf, divenne preda della follia, e venne rinchiuso in manicomio, terminando la sua esistenza ramingo, vivendo di elemosina. Basti citare l’esordio, nella traduzione di Cristiana Falcinella: «Düsseldorf, pomeriggio, tardo autunno 1853: sono sdraiato sul letto, indosso il mio abito di velluto color malva, il mio bellissimo abito, e non voglio incontrare Hans Gude. Non voglio sentire Hans Gude dire che non riesce a farsi piacere il quadro che sta dipingendo».

La prima parte della produzione, fino a una dichiarata conversione al cattolicesimo nel 2012, spesso è segnata da una visione spietata, quasi nichilista, dell’impossibilità della comunicazione, dello scambio di energie per tramite di parole, come dichiara la tormentosa ricerca ne Il nome, in cui ogni appellativo proposto è specialmente problematico.

In Italia all’inizio Fosse è stato pubblicato da Editoria & Spettacolo, a cura di Rodolfo Di Giammarco, insieme a Titivillus, da Fandango per la narrativa. Ora invece l’edizione è curata da Nave di Teseo per i romanzi (Mattino e sera, agile e assai incisivo, e la complessa Settologia, riassunto di tutte le sue ricerche e enorme opera, di cui sono usciti intanto i due primi capitoli L’altro nome e Io è un altro, esplicita citazione da Rimbaud), in cui sono distillate all’estremo le ossessioni e le tematiche ricorrenti dello scrittore. Esce in questi giorni di novembre 2023 una ristampa necessaria di Melancholia, da molto tempo non più reperibile. Cue Press ha invece pubblicato i maggiori testi teatrali Caldo (nella bella traduzione di Franco Perrelli), un’antologia di Teatro, a cura di Vanda Monaco Westerståhl e gli interessanti Saggi gnostici (sempre a cura di Perrelli), scelta di testi dagli anni Novanta, in cui affronta i nodi principali della sua drammaturgia (differente dalla sua produzione più recente).

In un testo del 1992 dichiara il suo profondo legame con il nynorsk: «Sono uno di quelli che ha sempre scritto in nynorsk che ho imparato alla scuola elementare, media e superiore, con un’istruzione basata su principi tradizionali, e sono contento di aver ricevuto un’educazione tradizionale; la scuola non ha tentato d’insegnarmi a scrivere bene, ma più che altro correttamente, in modo che potessi tenere per me il piacere della scrittura letteraria, ed è stata una buona cosa, giacché andare a scuola non è mai stato e non sarà mai una cosa gradevole per tutti, trattandosi, al contrario, di un impegno che susciterà sempre riluttanza in alcuni studenti, come me, una resistenza che in parte si proietta anche sulle materie che vengono impartite. Per esempio può farmi ancora piacere usare in nynorsk certe parole di norvegese bokmål che gli insegnanti all’epoca segnavano in rosso, e mi fa piacere scrivere periodi lunghi e impossibili e via dicendo, ma, a onor del vero, dovrei pure ricordare che questo piacere è assai diminuito con gli anni».

La scelta dell’idioma e quindi la definizione del nome sono altrettanti elementi principali di una scrittura che scava all’estremo nella psicologia.

L’avventura scenica di Fosse in Italia è stata ricca di appuntamenti, ma con produzioni che talvolta non hanno lasciato il segno. In ogni caso l’autore è ormai tra i contemporanei più rappresentati, forse anche per l’ingannevole semplicità che propone: interni domestici, dialoghi scarni di solito orchestrati per pochi attori. Renzo Martinelli aveva firmato Il nome (1994), Sandro Mabellini Qualcuno arriverà (2001), Barbara Nativi (il magnifico, bergmaniano Sogno d’autunno nel Festival Intercity Oslo, 2001), Beno Mazzone (E la note canta, 2004) e Valter Malosti ha colto uno dei risultati più felici con Inverno, interpretato dal regista insieme a Michela Cescon (2003).

Il Nobel ha onorato un autore che ha saputo trovare una forma sintetica ed evocativa allo stesso tempo, per riportare in epoca postmoderna il discorso sull’anima, punto centrale di una corrente assai forte della produzione nordica dal simbolismo ad oggi, che agisce in dialettica con un’altra visione di realismo estremo, che pure si carica di risonanze simboliste. Non per caso, come scrive Fosse, per lui è stata centrale la visione di Comunione di Lars Norén, straordinario autore svedese, oggi poco frequentato da noi, di cui ha scritto in omaggio (sempre in Saggi gnostici): «In vita mia, ho avuto una grande esperienza teatrale ed è stata, a metà degli anni Ottanta, una cupa sera d’autunno, in una grande sala teatrale semivuota, alcune anime sedute sparse per la sala, alcuni attori sulla scena. E a un certo punto avvenne qualcosa, sulla scena, fra la scena e la sala, non saprei, qualcosa avvenne e ad accadere non era nessun particolare relativo al dramma, né altro che si possa indicare nella regia o nell’interpretazione, bensì il dramma nella sua durata si concentrava in un’esperienza intensa che posso ancora avvertire viva dentro di me. Allora e in seguito ho visto cattivo teatro, ma se una volta sola hai visto buon teatro, ti riscatta da tuto il cattivo in cui t’imbatterai».

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1 Febbraio 2023

Bernard-Marie Koltès, Lettere

Gianni Poli, «Teatro Contemporaneo e Cinema», XIV-44

Dal 1955 al 1989 Koltès ha tenuto una fitta corrispondenza con i famigliari e gli amici: mezzo di comunicazione e soprattutto d’espressione di sentimenti intimi, sinceri, a volte censurati. Inventore d’una mitologia tortuosa in uno stile classicamente sorvegliato, sui temi d’una ricerca esistenziale tormentata, ha scritto lettere (cinquecento trenta invii) di profondo significato umano e culturale. Impressionano la delicatezza, l’umorismo e l’autoironia; la sincerità e il pudore, la lealtà e la riservatezza nei confronti dell’interlocutore ai diversi livelli di relazione. Specialmente con la madre sorgono rapporti nitidi e dolorosi, per senso di inadeguatezza e d’amore sconfinato; con le donne amiche, un’affettuosa partecipazione agli interessi comuni. Il teatrante cercherà la vocazione dell’artista, perseguita con fedeltà e sacrificio, in dedizione assoluta alla propria visione del mondo da esprimere in scena. Esigente con se stesso dall’inizio, pretende l’originalità: «Detesto la mediocrità nell’arte… Farò questo solo se le mie idee saranno realmente ed effettivamente interessanti e nuove».

Dagli anni Sessanta, aspira a frequentare la Scuola del Théâtre National de Strasbourg, per formarsi adeguatamente alla sua arte d’elezione. In ciò aiutato da Hubert Gignoux, che riconosce il talento dell’aspirante regista e drammaturgo e lo mette alla prova proprio in quella Scuola. Cresce d’allora il bisogno di «un atto poetico», testimoniato in una lettera programmatica e appassionata alla già famosa Maria Casarès. Le scelte estetiche appaiono, sempre più chiare in intuizioni e scopi, orientate a una drammaturgia ambiguamente autobiografica, esemplata in Les amertumes e Procès ivre; poi in L’héritage, recitata alla radio da Maria Casarès nel 1972.
La solitudine è accolta come «stato [mio] normale» (p. 174), e i viaggi frequenti sono avventure dello spirito in luoghi poi specchiati nella sua opera. Così riferisce della nuova intenzione al fratello François: «Ho iniziato un lavoro in cui invento un modo di scrivere assolutamente rivoluzionario».

Dopo l’incontro con Patrice Chéreau, nel giugno 1982 discute alla pari con l’autore del film L’uomo che piange (poi L’Homme blessé), ancor prima di assistere alla sua regia di Combat de nègre, allestito a Nanterre. Purtroppo, solo scarse note riflettono sulle pièces maggiori, da La nuit juste avant les forêts (1977) e Combat de nègre et de chiens (1978) a Quai Ouest (1985) e Dans la solitude des champs de coton (1986); né sulle regie decisive di Chéreau, né su Roberto Zucco, allestita postuma.

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30 Gennaio 2023

Sono gli allestimenti trasgressivi a tenere in vita la tragedia

Andrea Bisicchia, «Libertà Sicilia»

Ci siamo occupati, sulle pagine di questo giornale, del Teatro Postdrammatico di Hans-Thies Lehmann, il volume più venduto e più adottato dalle Università italiane, edito da Cue Press, che ora ci propone Tragedia e Teatro drammatico, un saggio complementare al primo e, pertanto, necessario per meglio conoscere che cosa intendesse Lehmann per Teatro Postdrammatico, e in che rapporto si trovasse con la tragedia.

Intanto chiariamo subito che Lehmann intendeva, per postdrammatico, non intendeva uno stile, né un genere, né tantomeno una tipologia di forme affini, bensì una vera e propria estensione teatrale, che scavalcava la composizione mentale degli autori dei testi. Inoltre, riferendosi al teatro che si avviava al terzo millennio, intuì nuove forme di estetica da ricercare nella comunicazione elettronica, nel suono, nell’apporto dei mezzi audiovisivi; insomma, nell’allestimento che corrispondeva, a suo avviso, alla vera scrittura di quello che doveva intendersi come nuovo teatro.

Nel suo libro, Lehmann porta avanti le tesi di Lukács sul Dramma moderno, di Steiner sulla Morte della tragedia, di Von Balthasar sulla Teodrammatica, di Artaud sul Teatro della crudeltà, di Szondi sulla Teoria del dramma moderno. Testi ai quali, da giovani, ci siamo letteralmente abbeverati. Sappiamo bene che, nel secondo Ottocento, il genere tragico subì la trasformazione in genere drammatico, poiché l’uso della Ragione bastava per sconfiggere gli elementi irrazionali che stavano a base della tragedia. Era sufficiente che, in un salotto borghese, si potesse ragionare per risolvere qualsiasi situazione tragica. Lehmann, però, è andato oltre, ha capito e vuol farci capire che oggi la forma drammatica ha perso il suo valore di una volta, perché è stata messa in discussione la scrittura a vantaggio di un teatro performativo che ha permesso la decostruzione dei testi e, persino, la stessa cornice teatrale in cui vengono realizzati. Secondo lui, il modello postdrammatico si esaurì con Eliot, Sartre, Anouilh, Brecht, Camus, Singe. Inoltre, era convinto che, in Occidente, si fosse verificato, a partire da Aristotele, il predominio della cultura scritta, che aveva avuto un rapporto determinante col pensiero, ovvero col Logos.

Nella modernità, il pensiero è diventato sempre più debole, tanto da lasciare il posto a una falsa cultura e a una debolezza intellettuale che ha messo in crisi il genere tragico. Nello stesso tempo c’è anche da dire che, sempre la cultura moderna, ha elaborato una sua filosofia del tragico, che, a partire da Nietzsche, Jaspers, Heidegger e De Unamuno, arriva fino a Bataille e Lacan, tanto che si può parlare di morte della tragedia allo stesso modo in cui si può parlare di resurrezione del tragico. Il teatro ne ha parecchio risentito e ha assunto, su di sé, le forme della conoscenza, riscoprendo il Logos aristotelico solo per quanto riguarda la messinscena, che è diventata la referente essenziale della tragedia, il cui recupero avviene grazie all’imporsi del teatro postdrammatico e all’uso che ne viene fatto durante le realizzazioni sceniche.

Lehmann, per fare capire questa sua teoria, cita una serie di registi e di spettacoli, anche se incompleta, che la dimostrino: si va da Kantor a Jean Fabre, a Romeo Castellucci, a Einar Schleef, a Heiner Muller, a Sarah Kane, tutti attenti a utilizzare la trasgressione, di origine tragica, come metodo compositivo, col ricorso ad un uso spettacolare della violenza, se non addirittura della crudeltà. Avviene, così, una sorta di messa a nudo della tragedia scelta fino a disossarla, ad emanciparla dalla centralità del testo e a radicalizzarla sulla scena, generando la stessa indignazione negli spettatori di oggi, che non è dissimile da quella degli spettatori del Teatro Predrammatico.

C’è da dire che questo tipo di interventi era già stato fatto da Ronconi quando realizzò la sua Orestea e quando, al Teatro Greco di Siracusa, portò in scena, nel rispetto assoluto del testo, Prometeo e Le Baccanti. E ancora non si può non citare il lavoro registico di Livermore e di Carson sull’Orestea e sull’Edipo. Ultima considerazione: la tragedia è «morta», anche perché non ci sono più poeti capaci di scrivere dei testi che sappiano drammatizzare le violenze della storia postmoderna. Il volume è a cura di Milena Massalongo, che è anche autrice della traduzione e di una illuminante presentazione, ed è seguito da una magistrale postfazione di Gerardo Guccini.

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20 Gennaio 2023

Il laboratorio creativo di Beckett nei Quaderni di regia

Nicola Arrigoni, «Sipario»

È forse una delle operazioni editoriali più interessanti degli ultimi anni, senza dubbio un contributo alla conoscenza del drammaturgo novecentesco per eccellenza, Samuel Beckett; è un’occasione per rivedere e ripensare l’autore di Aspettando Godot, Finale di partita e L’ultimo nastro di Krapp, attraverso i quaderni di appunti registici, per la prima volta pubblicati in Italia. È questa la scommessa che la casa editrice ha fatto con sé stessa e con i suoi lettori, nel decimo anno della sua fondazione: offrire al mondo del teatro la pubblicazione dei Quaderni di regia e testi riveduti, di cui sono usciti i volumi sulle pièce Aspettando Godot, nell’edizione critica a cura di James Knowlson e Dougald McMillan, Finale di partita, a cura di Stanley E. Gontarski e L’ultimo nastro di Krapp, a cura di James Knowlson. Tutti i volumi hanno la firma curatoriale italiana di Luca Scarlini, che nella prefazione osserva come la restituzione dei quaderni di appunti legati alla messinscena dei testi e alle loro modifiche offra un’occasione pressoché unica di «entrare nel laboratorio di azioni verbali e gestuali di un autore capitale del secolo scorso, la cui influenza rimane capitale nelle forme più diverse del presente. Lo scrittore qui diventa progressivamente anche regista della sua opera, affrontando con piglio assai personale lo specifico della radio, della televisione».

Ed è questo che promette di fare la collana dei Quaderni di regia e testi riveduti: offrire al lettore, allo spettatore, ai professionisti del teatro una serie di indicazioni concrete del dialogo registico di Samuel Beckett con le sue opere; ma soprattutto dell’evoluzione, parola dopo parola, ripensamento dopo ripensamento di testi che, nella vulgata, sembrano destinati all’immobilità della pubblicazione della parola scritta su pagina. Ed è questo il primo suggestivo effetto che producono questi quaderni: liberarci dalla figura di un Beckett uomo di libro, intransigente nel rispetto della parola scritta; anzi, ci offrono un’immagine lontanissima dal Beckett scrittore e ce lo restituiscono come l’autore teatrale del continuo tornare e ritornare su parole e posture degli attori, movimenti nello spazio, in base alla messinscena e alla produzione, agli attori che di volta in volta dovevano interpretare i suoi testi. Ad esempio, nel volume dedicato ai quaderni registici per Aspettando Godot, scrive James Knowlson nella Prefazione: «Il testo riveduto risultante può essere visto come una nuova versione di Aspettando Godot, più breve, più concisa nella struttura e pensata molto più chiaramente in termini teatrali, oltre che più convincente dal punto di vista estetico».

Come dire che dall’analisi filologica e dall’esito critico che esce dai quaderni si raggiungono nuove convinzioni e nuove versioni dei testi beckettiani che possono rappresentare nuova linfa per future messinscene. Che si tratti di Aspettando Godot, piuttosto che di Finale di partita, gli appunti di Beckett permettono di entrare nel laboratorio creativo dell’autore, di compartecipare ai cambiamenti, ai ripensamenti, alle aggiunte e più volte ai tagli che Beckett fa dei suoi testi, mettendosi in relazione con lo spazio, con gli attori, interrogandosi sul movimento, sull’immagine e sullo sguardo dello spettatore. E osserva sempre Knowlson: «Sia come regista sia come scrittore, Beckett lavorava attraverso suggestioni, piuttosto che affermazioni, creando immagini che si rimandano a vicenda nell’immaginazione. […] I quaderni di regia di Beckett rivelano come stesse sostanzialmente cercando di fare due cose simultaneamente. La prima: rappresentare alcuni degli aspetti fondamentali della sua visione nell’organizzazione, sistemazione e manipolazione delle immagini nello spazio teatrale. La seconda: creare un motivo esteticamente soddisfacente di forme, movimenti e suoni partendo dalla sua manipolazione di queste immagini».

Tutto ciò appare evidente non solo nei quaderni registici di Aspettando Godot, ma in particolar modo in quelli di Finale di partita, che documentano, a dieci anni dalla versione registica al Royal Court Theatre di Londra, sotto la direzione di Roger Blin, come nel 1967 Beckett decise di assumere la regia del testo, portando in scena Finale di partita allo Schiller Theater di Berlino, replicando tale esperienza, più tardi, nel 1980, al Riverside Studios di Londra. Queste due produzioni offrono la possibilità ritornare sul testo e ridefinirne non solo il ritmo verbale, ma anche le geometrie spaziali e visive. E così infatti scrive Stanley E. Gontarski nella Prefazione al volume: «Il teatro (non la scrittura dei testi, ma la messinscena) offriva a Beckett l’opportunità di avere a che fare con la forma (figura, relazione, bilanciamento, ma solo occasionalmente tono) in un modo che il linguaggio da solo non avrebbe mai potuto, nemmeno la poesia. Alla musica e alla poesia delle parole avrebbe potuto aggiungere, o piuttosto affiancare, la disposizione delle forme in uno spazio controllato, incorniciato (da cui l’interesse persistente di Beckett per il proscenio e la televisione, essendo entrambi delimitati da una sorta di cornice)».

I Quaderni di regia mostrano l’attenzione di Beckett alle dinamiche spaziali e relazionali fra i personaggi, dimostrano quanto lo stesso Beckett ebbe modo di osservare: «il medium del dramma non è nelle parole, ma nelle persone che si muovono per il palcoscenico usando le parole». Molto interessante appare anche il lavoro portato avanti da Samuel Beckett su L’ultimo nastro di Krapp, testo scritto nei primi due mesi del 1958, con in mente un attore ben preciso, Patrick Magee. Scrive James Knowlson in apertura della Prefazione al volume: «Era la distinta tonalità incrinata, stanca della vita, ‘rovinata’ della voce di Magee, oltre che al ritmo e all’intonazione irlandese del suo accento, ad attrarre Beckett, che per qualche tempo si riferì a questo spettacolo semplicemente come Monologo per Magee».

È nel 1969 allo Schiller Theater Werkstatt di Berlino che Beckett assume la regia dell’Ultimo nastro di Krapp, e a quell’esperienza si riferiscono i quaderni di regia. Ma il volume si completa anche con l’analisi dei tagli e delle modifiche ai testi tedeschi e francesi. Tutto ciò – come nel caso degli altri due volumi dedicati ad Aspettando Godot e a Finale di partita – permette di avere in mano il testo dell’Ultimo nastro di Krapp nella sua versione finale, riveduta e corretta dal suo autore. In questo senso e con uno sguardo che abbraccia l’intera operazione editoriale, meritoriamente portata avanti da Cue Press, si può godere appieno delle varianti, dei ripensamenti, delle aggiunte che in base alle condizioni legate alle relazioni di sala e teatrali l’autore apporta, mostrando come la sua controllatissima scrittura viva di un respiro corporeo e spaziale assoluto, e regalando al lettore/spettatore la possibilità di spiare i meccanismi creativi delle drammaturgie beckettiane, in una sorta di testimonianza partecipata in presa diretta.

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Beckett
15 Gennaio 2023

Il mio amato Beckett

Antonio Borriello, «La Tófa della Domenica», XVIII-337

L’intera produzione beckettiana è colma di un immenso fascino drammaturgico, di una bellezza della parola che anticipa un orizzonte di profonda suggestione scenica: tutto è incredibilmente consueto… «Non succede niente, nessuno viene, nessuno va, è terribile».

Samuel Beckett, raffinato architetto della parola, lavora su una sola nota, immaginifica ed inesauribile, proiettandola in riverberi di pensieri che racchiudono miriadi di emozioni, di quelle più recondite. La sacralità della parola nelle sue opere è sovrana, sicché assume contestualmente significato e suono: melodiosa fonetica e meravigliosa valenza concettuale.

Per l’ortodosso quacchero Beckett, la parola, ossigeno puro per continuare ad essere, nei suoi drammi è intoccabile. Sarò esagerato, di sicuro lo sono, nel rimandare quei testi al Libro della Sapienza: «Omnia in mensura et numero et pondere disposuisti». Per me, fedele interprete di Beckett, è così.

L’opera del dubliner di Parigi, Maestro riconosciuto dell’Assurdo, è pervasa da una incommensurabile suggestività che salta magistralmente dai romanzi alla poesia, dalle novelle alla drammaturgia, ai saggi.

In Beckett non ci sono confini tra testo drammaturgico e scenico, tra testo narrativo e poetico, tra la sceneggiatura e la saggistica, tra la danza, la radio e il cinema: il suo lavoro è da considerarsi un unicum. Beckett è un autore totale. Ogni suo scritto è possente, di una forza evocativa senza pari. Oggi ancora di più, tanto che di recente sono stati realizzati ben tre film e un romanzo su Beckett: Un Triomphe (regia Emmanuel Courcol, Francia 2020), Dance First (regia James Marsh, Regno Unito 2022), Grazie ragazzi (regia Riccardo Milani, Italia 2022) e, pubblicato da Voland 2022, L’ultimo atto del signor Beckett di Maylis Besserie, in cui la scrittrice immagina gli ultimi giorni di vita di Beckett trascorsi nella casa di riposo di Tiers-Temps a Parigi.

Tante le sue profetiche visioni che si stanno, purtroppo, avverando (solitudine urbana, feti buttati nelle discariche, smarrimento di sé, diffusa incomunicabilità, insoddisfazione e noia, aumento dei senza tetto e dei poveri, catastrofi imminenti, minaccia di un nemico invisibile, di una incombente desertificazione, di una possibile terza guerra mondiale, con attacchi nucleari). Un panorama agghiacciante, ma effettivo. Attualmente Beckett più che mai si presta ad ulteriori studi, quelli volti a raggiungere le più segrete pieghe dell’anima.

Nelle sue opere, pur dominando il bianco che evoca tele di Lucio Fontana o di Piet Mondrian, di Angelo Savelli o di Raimund Girke, come stabilito, d’incanto tutto si muove nella presenza o nell’assenza di un impercettibile gesto dei personaggi che spesso «restano rigorosamente di faccia e immobili dal principio alla fine dell’atto». Ed allora, prendono forma immagini che si sovrappongono e si dissolvono per riapparire ad ogni istante, tra una pausa breve ed una lunga. Tra il Silenzio, l’Urlo ed il Bisbiglio.

Le storie o non storie si rivelano a mano a mano intrise di serenità esistenziale che attraversa una moltitudine di allusioni. Un flusso perenne dove scorrono le nostre storie, nel bene e nel male. Dall’inizio alla fine di ogni pièce è così, ovvero uno scenario perpetuo proiettato all’infinito, in cui si ritorna sempre al punto di partenza. L’inizio è la fine: «Nascere fu la sua morte».

Lungo questo tracciato arrivano all’interprete spunti di alto rilievo su cui riflettere – nello status in cui si trova a fare i conti con sé stesso – che lo conduce a Leopardi… «La terra. Amaro e noia. La vita, altro mai nulla; e fango è il mondo».

Al riguardo, mi piace riferire quanto tempo fa mi disse Dario Fo: «Beckett è un autore gotico che va avanti per follie, come follia è un arco rampante». Sicuramente in questa cornice, un’opera che offre una chiave di lettura integrale e significativa (altissima «summa» beckettiana) è L’Innominabile. Autentica epitome del suo pensiero.

Intanto, nel sepolcreto beckettiano, le disarmanti creature sostano in una perenne penitenza purgatoriale: eppure, malgrado le atroci lacerazioni, si svelano piene di spirito e avide di vivere. Quanta tenerezza in quelle preferite creature che, nonostante il loro tormento, eternamente cantano… Giorni felici. Di più. I sopravvissuti in Beckett parlano senza sosta (a volte pregano), dicono sempre di altri «giorni divini», un po’ come nelle opere di Leopardi o di Pascoli, in cui emerge lo stupore del fanciullino per le piccole cose del quotidiano. Quanta poesia ed esaltazione della Vita e dell’Intelligenza dell’uomo traboccano in quei vecchi, dignitosi e colti clochard. In quelle pagine, battuta dopo battuta, si intravede un barlume di Speranza, nonostante il diffuso senso di vuoto, nonostante la nostra fragilità e tristezza.

In Finale di partita gli anziani Nagg e Nell, dai famosi bidoni della spazzatura, benché mozziconi umani e prossimi alla fine, hanno tanta voglia di rievocare i bei ricordi andati, raccontare barzellette, litigare per un biscotto e di… «scopare»! Mai un rimpianto per la giovinezza, mai una restituzione di un frammento di Tempo. Altrettanto Krapp: «Dopo mezzanotte. Mai sentito tanto silenzio. La Terra potrebbe essere disabitata. (Pausa). Qui termino questo nastro. Scatola… (pausa)… tre, bobina… (pausa)… cinque. Forse i miei anni migliori sono finiti. Quando la felicità era forse ancora possibile. Ma non li rivorrei indietro. Non col fuoco che sento in me ora. No, non li rivorrei indietro».

Allora, anche se disperati, immersi nel «fallimento… non importa», non si può abbandonare la lotta, non si può andare via… «Aspettiamo Godot». Viepiù. Nelle condizioni di day after postatomico, come quelle patite dai protagonisti in Finale di partita, Clov al termine dello spettacolo non va via, non esce dal bunker, rimane «immobile» sulla soglia della porta creando non poche perplessità nello spettatore: abbandonerà Hamm? Al riguardo, non ho dubbi: Clov, sebbene avvolto nell’angoscia di quell’opprimente non-vita al chiuso, da buon servo di scena «resterà» per sempre nella stanza-cranio con Hamm.

Relativamente alla perentoria domanda, non solo del crudele Pozzo, «Chi è Godot?», mi piace citare Antonio Ricci, il povero attacchino comunale di Ladri di biciclette di Vittorio De Sica, per il quale Godot è nientemeno la sua bicicletta, che «rappresenta per lui un provvidenziale strumento di lavoro» (Cesare Zavattini). Dunque, a ciascuno il suo Godot.

La mia passione per Beckett ha origini lontane, sin dai tempi dei miei studi all’Accademia di Belle Arti di Napoli con Franco Mancini e Antonio Capodanno, poi proseguiti con Achille Mango all’Università di Salerno. Un interesse che mi ha spinto ad ampliare le mie ricerche a New York, Los Angeles, Dublino, Berlino. Studi che mi hanno permesso di pubblicare diversi saggi. Ed ancora, incontrare amici e interpreti di Beckett: John Calder, James Knowlson, Jean Martin, Pierre Chabert, Peter Brook, Rick Cluchey, Dario Fo, Alessandro Fersen, Stanley E. Gontarski, Leo De Berardinis, Fiorenzo Fiorentini, Giulia Lazzarini, Shimon Levy, Glauco Mauri, David Kelly, Carlo Quartucci, Marie Rooney, Mario Scaccia. Anno dopo anno aspettavo con gioia l’ultima sua pubblicazione, che diventava di volta in volta più minimale, più asciutta, più ridotta, da paragonarla ad una filiforme e scheletrica scultura, come quella dell’emblematico albero in En attendant Godot del 1961 di Alberto Giacometti, caro amico di Beckett.

Sin dalle prime conoscenze delle coppie Krapp-Magnetofono, Wladimiro-Estragone, Pozzo-Luky, Hamm-Clov, Nagg-Nell e Winnie-Willie, dalle letture di Mercier e Camier, Murphy, Molloy, Malone, Watt e L’Innominabile, sono stato attratto da questi personaggi poiché in loro vedevo me stesso. Quei libri li volevo con me. E, infatti, credo di avere la più copiosa raccolta dei libri di e su Beckett in Italia. Un fondo di notevole valore, con volumi in inglese, francese, italiano, giapponese, ebraico, russo, ungherese, tedesco, dal 1939 a oggi; alcuni autografati dall’autore. A cui si aggiungono interventi introvabili pubblicati su: «La Fiera Letteraria», «Corriere della sera», «La Repubblica», «L’Espresso», sia di grandi della Letteratura, come Salvatore Quasimodo, Ennio Flaiano, Carlo Bo, Giuliano Gramigna, Alberto Arbasino, Edoardo Sanguineti, Giovanni Raboni, Dario Fo, Luciano Codignola, Andrea Camilleri sia di eccezionali attori e registi, come Walter Chiari, Vittorio Gassman, Renato Rascel, Giorgio Strehler.

Ho amato ed amo tanto Beckett come intellettuale e come uomo. Un umile grande genio del Novecento, che poteva essere miliardario: nel 1969 gli venne assegnato il Nobel per la Letteratura (che ammontava a circa un miliardo e seicento milioni di vecchie lire), ma Beckett non si presentò alla premiazione e offrì l’importo in donazione, ai poveri. Tale circostanza si è verificata soltanto altre due volte: nel 1947 con i Quaccheri, nel 1979 con Madre Teresa di Calcutta.

Non mancano altri nobili gesti dell’impegno umano e civile dell’autore di Aspettando Godot: dalla convinta collaborazione con la Croce Rossa in Francia, durante la Seconda guerra mondiale, all’aperta opposizione nel 1967 ai tribunali di Franco che avevano accusato Fernand Arrabal di «insulto alla patria» e di «blasfemia». In quella circostanza, Beckett si schierò energicamente a favore del visionario giovane intellettuale-artista, tra i fondatori del «Mouvement Panique» insieme a Roland Topor e Alejandro Jodorowsky. Nella medesima misura, manifestò nel 1982 la sua solidarietà allo scrittore cecoslovacco Václav Havel perseguitato politico, poi divenuto il primo Presidente della Repubblica Ceca, a cui Beckett dedicò Catastrophe quando era in prigione.

A riprova del suo essere un drammaturgo insensibile al successo e alla notorietà, un altro evento da menzionare è quello relativo alla sua dipartita: il 22 dicembre 1989 si spense, ma il mondo seppe della sua morte dopo tre giorni, a sepoltura avvenuta.

È noto che Beckett era una persona felicemente pigra, di un’inerzia accostabile a quell’otium letterario più che a quell’indolenza ancestrale del suo benamato Belacqua dantesco. Tuttavia, va sottolineato come abbia tradotto, diretto e tutelato le sue opere con irreprensibile rigore euclideo. Seguì con attenzione le riprese di Film, con un impeccabile ed ossequente Buster Keaton, recandosi a New York suo malgrado; temeva che le riprese sarebbero state eccessivamente chiassose, con inutili cocktail party, a cui partecipare con troppe (e indesiderate) interviste da rilasciare. A questo sceglieva la quiete dell’appagante rifugio di campagna a Ussy-sur-Marne.

Nel 1959, a seguito dell’insistenza della moglie Suzanne, si recò a Sorrento: in occasione del Prix Italia, quando lo invitarono a ritirare il Premio per la migliore opera radiofonica Embers (Ceneri, trad. it., nella preziosa pubblicazione: Samuel Beckett, Teatro completo. Drammi, Sceneggiature, Radiodrammi, Pièces televisive, Torino-Parigi, Einaudi-Gallimard, 1994, pp. 219-234). Beckett in quell’occasione visitò fugacemente Capri ed altri luoghi della costiera amalfitana per ritornare subito a Ussy.

Ho sempre difeso quell’indiscussa intransigenza voluta dall’autore e assegnata specificamente al regista, all’attore, allo scenografo, al tecnico delle luci, addirittura al trovarobe. Sono convinto che la fedeltà a quanto «sta scritto nel copione» di eduardiana memoria, incessantemente invocata da Beckett, vada ad ogni costo rispettata, quindi adempiere la scrittura drammaturgica è fondamentale. Pertanto, non ho esitato a contestare gli arbitrari allestimenti di registi e attori del calibro di Peter Brook e Robert Wilson, due giganti dello Spazio e del Tempo scenico.

Ho conosciuto personalmente Brook e conservo ammirazione per le sue regie; cionondimeno desidero ribadire quanto già espresso in altre occasioni in ordine alle messinscene beckettiane concepite in gratuiti adattamenti. Ad esempio, le tre figurine della favolosa pièce Va e vieni sono una sorta di Moire o Parche misteriose e intimamente poetiche; deboli soffi colorati: «viola smorto (Ru), rosso smorto (Vi), giallo smorto (Flo)». Sbuffi leggiadri, che fluttuano, vanno e vengono dalla e nella oscurità più assoluta; presenze femminili alate, silenziose. Femminili e non di natura diversa, come nella messinscena Come and Go di Brook. È vero che i volti di Ru, Vi e Flo sono coperti da cappelli con ampie tese che lasciano intravedere solo la bocca e il mento occultati dalla penombra, un quadro che potrebbe giustificare l’interpretazione di un attore maschio. Ma lo spirito attoriale, la gestualità, la timbrica vocale e soprattutto il rigido testo di Beckett impongono quanto pensato dall’Autore. Sul peso del testo, va aggiunto che nel tempo Beckett ha avuto dei «ripensamenti» su alcune opere. In merito, si vedano le pregevoli pubblicazioni: Samuel Beckett, Quaderni di regia e testi riveduti. Aspettando Godot, edizione critica di James Knowlson e Douglas McMillan, a cura di Luca Scarlini, Cue Press, Imola, 2021; Samuel Beckett, Quaderni di regia e testi riveduti. Finale di Partita, edizione critica di Stanley E. Gontarski, a cura di Luca Scarlini, Cue Press, Imola, 2022; e inoltre Samuel Beckett, Quaderni di regia e testi riveduti. L’ultimo nastro di Krapp, edizione critica di James Knowlson, a cura di Luca Scarlini, Cue Press, Imola, 2022.

E, perciò, ritornando alla peculiare fedeltà del testo, ho valutato negativamente anche la messinscena di Krapp’s Last Tape di Robert Wilson. Una rappresentazione che non ci azzecca nulla con l’opera di Beckett, un testo integralmente stravolto che disattende i contenuti di una delle più coinvolgenti pièces di Beckett. Lo spettacolo, già prima dell’apertura del sipario, preannunciava delle sorprese. Sotto un fascio di luce alla ribalta c’era (non si comprende il perché) uno spropositato plico di fogli sparsi. Al levar della tela, la platea era assalita da accecanti fulmini, fragorosi tuoni e un crescente scroscio di pioggia. L’incomprensibile «aggiunta» era rimarcata da effetti illuminotecnici intermittenti che proseguivano per l’intera performance. La scenografia, priva di fughe, rinviava ad uno spazio-garage, data la sequenza di lucernari rettangolari e una grossa grata-saracinesca. La scena aveva due uscite: una dietro la grata e l’altra indicata da una folgorante luce sulla quinta di destra. Ai lati, grossi banconi coperti da scatole. Al centro vi era una scrivania con sei cassetti, tre a destra e tre a sinistra, rivolti al pubblico (in Beckett «un piccolo tavolo… due cassetti»). La lampada, che avrebbe dovuto illuminare il piano e l’attore, senza posa si accendeva e si spegneva. Il costume di Krapp-Wilson: un ampio pantalone con pieghe regolari. Camicia e giubbotto ordinati, sgargianti calzini rossi vermiglio e pantofole. Il perfetto contrario in Krapp’s Last Tape. Il trucco di Wilson ricordava un giovane Harry Langdon: faccia e mani bianche, capelli lucidi ben pettinati con piega a lato. La postura era attiva ed energica. Altro che «un vecchio sfatto… capelli grigi in disordine», espressamente voluto da Beckett. Le gag di Wilson, a tratti robotizzate, accennavano inaccettabili passi di danza, con sculettamenti in faccia al pubblico. La recitazione, mescolata a miagolii amplificati da potenti esplosioni sonore, si confondevano con il registrato delle bobine. Tantissimi i rumori fuori scena, da un frequente scampanio a pesanti tonfi e sparate di decibel, in particolare quando Krapp-Wilson estraeva e sbucciava la banana, impugnandola a mo’ di pistola verso il pubblico. In quel momento, lo scroscio della pioggia faceva rimpiangere i più duri concerti heavy metal. Una rimbombante mitragliata. La traduzione in italiano, che scorreva sull’arlecchino in alto, era priva delle dettagliate didascalie, nonché delle pause e dei silenzi imposti categoricamente da Beckett. In Wilson risultavano molteplici imperfezioni per quanto concerne i segni di interpunzione. Gravi omissioni. Sull’importanza e rispetto della punteggiatura, dei «sospensivi», del ritmo, dei tempi scenici, delle didascalie e l’amore per la parola, si veda Uomo e galantuomo di Eduardo. Una divertente opera, sorta di vademecum sulla teoria e la pratica teatrale, con evidenti inflessibilità tecnico strumentali, identiche a quelle pretese da Beckett.

Quanto descritto è in contraddizione con il «poema lirico della solitudine», così ritenuto dal noto critico belga Robert Kanters. Con Krapp, Beckett scrive (e mette in scena) un testo di incommensurabile poesia e amore, di sfrenata voglia di vivere, anche se… «la Terra potrebbe essere disabitata». Un monologo straordinario, denso di richiami alla Bibbia, alla Cabala, al Manicheismo, al mistero dei Numeri, composto di pochissime pagine, in cui primeggiano ferree consegne per il regista, l’interprete, lo scenografo, i tecnici delle luci e del suono e il costumista, al quale si raccomanda che Krapp calzi «un paio di stupefacenti stivaletti bianchi, molto sporchi, strettissimi e appuntiti, d’una misura spropositata, almeno 48». Beckett non si tradisce, a lui si ubbidisce.

È vero che sul palcoscenico ci sarà l’attore con il suo corpo e la sua voce, «medium del dramma» forte del suo background esperienziale e quant’altro, ma le parole devono restare quelle dell’autore, del suo testo, preciso come uno spartito musicale, a cui si impone un’incondizionata fedeltà, e va eseguito nella sua interezza.

Sull’argomento, mi sovviene quanto scritto da Deirdre Bair in Samuel Beckett. Una biografia (Garzanti). La studiosa, vicinissima a Beckett, nel suo poderoso saggio afferma che «secondo Beckett, il miglior spettacolo teatrale è quello in cui non vi sono attori o registi, ma soltanto l’opera. Interrogato sul modo di rendere possibile un simile teatro, Beckett ha risposto che l’autore ha il dovere di cercare l’attore migliore, cioè quello che esegue alla perfezione le sue istruzioni e che ha la capacità di annullarsi completamente nell’opera».

Sulla messinscena, Bair ci comunica un’ulteriore e più estrema ricerca voluta da Beckett: «La miglior opera teatrale possibile è quella in cui non ci sono attori, ma soltanto il testo. Sto cercando il modo di scriverne una». Lo farà con Non io, sorta di epistassi della parola, uno dei monologhi più intensi della storia del teatro, in cui il corpo dell’attore sarà ridotto ad una Bocca nel buio. Ebbene, tutto questo non è apparso in Wilson. Un performer prodigioso, artista-sperimentatore tra i più importanti al mondo – ricordo ancora il suo memorabile Einstein on the beach al Gran Teatro La Fenice di Venezia, orchestrata da Philip Glass del 1976 – ma con Beckett, con Krapp’s Last Tape, non ho visto alcuna affinità. Inoltre, nella «fotocopia», distribuita in guisa di programma di sala, l’americano riportava eclatanti inesattezze, ovvero che per Krapp «è il settantesimo compleanno»: errore gravissimo. È il sessantanovesimo. Un numero preciso, specialmente in questa pièce, carica di significati e riferimenti numerici, in cui il settanta non appare, né si ricava da nessuna parte. In proposito, mi permetto di citare un mio studio: Numerical references in «Krapp’s Last Tape», in Samuel Beckett: Endlessnes in the Year 2000. Samuel Beckett: Fin sans fin en l’an 2000, eds. Angela Moorjani and Carola Veit, Amsterdam – New York, Rodopi, 2001.

In generale una riscrittura soggettiva di un testo che dia conto della traduzione, del suono, della cultura e dei gusti dell’interprete può andare bene; penso alla rivisitazione della drammaturgia classica greco-romana, di Shakespeare, Molière e Brecht, ma per le opere beckettiane (come per quelle di Eduardo) il discorso muta. La fedeltà al copione deve concludersi in una sincera consustanziazione scenica. Rammento che Beckett, in alcuni casi, ha chiesto la sospensione di messinscene estranee alla sua originaria stesura. Non a caso Beckett passa alla realizzazione delle sue opere, proprio come i grandi Euripide e Shakespeare, Eduardo e Pinter. Le lunghe didascalie beckettiane, o meglio «le indicazioni di regia, così puntigliosamente descritte», come opportunamente evidenzia Gabriele Frasca in un suo studio Catastrofe: l’albero, la luna e i pantaloni, rientrano nell’impalcatura testuale, sono necessarie nell’insieme del testo drammaturgico e scenico. Vedi quelle maniacali del prediletto Krapp da me interpretato, con l’affettuoso imprimatur dello stesso Beckett. Una messinscena vissuta con immedesimazione alla Konstantin Sergeevič Stanislavskij: io dovevo essere Krapp. I suoi pensieri, gesti, memorie e azioni, divenire i miei. Insomma, vivere una forte empatia con il personaggio, come sosteneva Antonin Artaud: «Sentire, vivere, pensare realmente, questo dev’essere lo scopo del vero attore».

Così è stato per le mie altre messinscene di: Aspettando Godot, Cosa dove, Non io, Dondolo, Giorni felici, Commedia, Testi per nulla, Improvviso dell’Ohio, Passi, Assunzione e Respiro.

Una volta il sublime Carmelo Bene ha detto: «Per interpretare Shakespeare, bisogna essere Shakespeare: io sono Shakespeare».

In tal senso, ogni attore-regista dovrebbe dimostrare affinità con l’autore, per approvare obiettivi e valori, segnatamente nell’amore, nell’amicizia, nell’attesa di un mondo migliore e, perché no? nella politica. In questa ottica, attraverso un attento approccio filologico drammaturgico, ho inteso L’ultimo nastro di Krapp, vivendolo in simbiosi, per poi trasferirlo in scena, col trasportare le analisi in termini speculari nel segno di un confronto tout court con il corpo, il gesto e la parola, lo spazio scenico e gli oggetti. Nel tempo, in Beckett ho privilegiato la parola, il testo drammaturgico e il suo concepimento, per poi accedere e superare il Silenzio ed immettermi in quella collocazione ipnotica esteriore, di Moving-Static, con un’esaltante agitazione dei sentimenti.

Per la traduzione delle opere di Beckett in Italia, grazie a scrupolosi studiosi, tra cui Gabriele Frasca, Giancarlo Alfano, Franca Cavagnoli, Andrea Cortellessa, Massimo Bocchiola, Leonardo Marcello Pignataro, Luca Scarlini, Rosanna Sebellin e Laura Santini, emergono novità relative ad alcune storiche traduzioni. Secondo Rosanna Sebellin: «L’ipotesi di ricerca è se sia necessario o meno procedere a una ritraduzione dei drammi beckettiani in Italia, considerato che di per sé le traduzioni attualmente in commercio, per lo meno quelle ad opera di Carlo Fruttero, non sono né obsolete da un punto di vista linguistico né superate da un punto di vista pragmatico o lessicale. Le considerazioni che spingono a considerare legittima la necessità di ritradurre vanno ricercate in altri ambiti, soprattutto di carattere filologico, di ricostruzione testuale ed editoriale».

Tanto è stato scritto su Beckett. Nessuno dei più grandi pensatori si è sottratto. Impossibile elencarli tutti, pertanto, anche se risale al 1992, si veda il mio: Samuel Beckett, L’ultimo nastro di Krapp: dalla pagina alla messinscena, Edizioni Scientifiche Italiane, in cui vi è un copioso e ragionato apparato bibliografico di oltre duemila voci di prima mano.

Pur consapevole che sovente operatori dello spettacolo ritengono Beckett un autore difficile da interpretare, per quanto mi riguarda, in particolare sotto il profilo scenico-recitativo, posso dire che Beckett non si interpreta, si gusta per quello che è, curando con diligenza le tassative disposizioni presenti nel testo. Peraltro, in tutte le sue opere, le geometriche ed inviolabili didascalie abbondano di puntualizzazioni afferenti allo spazio-tempo, alla durata delle pause, alla scena e alle sue dimensioni, all’impianto luci e alla densità da impegnare, nonché di dati analitici riferiti al costume, al trucco, agli oggetti, alla postura, alle entrate e alle uscite di scena, agli innumerevoli e rilevanti gesti, seppur infinitesimali da osservare, come ad esempio il battito o meno di ciglia di Winnie, Krapp o di Og/Oc ed altri. Solo con questi imprescindibili presupposti nasce e vive una messinscena del mio amatissimo Samuel Beckett.

Cavell stanley foto autore 2
15 Gennaio 2023

Sul «per ora e per sempre»

Simona Busni, «Fata Morgana Web»

«Tre metamorfosi io vi nomino dello spirito: come lo spirito diventa cammello, come il cammello leone, e infine il leone fanciullo. Molte cose pesanti vi sono per lo spirito, lo spirito forte e paziente nel quale abita la venerazione: la sua forza anela verso le cose pesanti, più difficili a portare. […] Crearsi la libertà e un no sacro anche verso il dovere: per questo, fratelli, è necessario il leone. […] Perché il leone rapace deve anche diventare un fanciullo? Innocenza è il fanciullo e oblio, un nuovo inizio, un giuoco, una ruota ruotante da sola, un primo moto, un sacro dire di sì» (Friedrich W. Nietzsche).

Che la ricerca della felicità sia un «diritto inalienabile» – insieme alla vita e alla libertà – ce lo insegna il testo della Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti d’America. Che esso possa riguardare altresì il cinema e la commedia ce lo insegna un filosofo, Stanley Cavell, colui che ha, di fatto, incontestabilmente trasformato la filosofia in un qualcosa di americano, e lo ha fatto (anche) attraverso i film. Uso il verbo «insegnare» al presente, nonostante il libro in questione, Pursuits of Happiness. The Hollywood Comedy of Remarriage, risalga al 1981, per due motivi: il primo è l’occorrenza legata alla pubblicazione di una nuova edizione italiana dell’opera, curata da Piergiorgio Donatelli (Cue Press 2022); il secondo concerne il valore etico inestimabile della sua eredità teorica negli studi sul cinema, il quale merita, oggi più che mai, a quattro anni dalla scomparsa dell’autore, di essere ancora pienamente riscoperto e riaffermato.

Curioso constatare che, in italiano, c’è sempre di mezzo un «ri-» quando si parla di Cavell, a partire dall’eccentrico neologismo «rimatrimonio», ormai normalizzato dal lessico specialistico, che il suo inventore, Emiliano Morreale, ripristina con fierezza in questa (ri)traduzione, definita nella nota, maggiormente «anfibia rispetto a quella realizzata per Einaudi nel 1999 perché ispirata talvolta ‘[…] a criteri di scioltezza per non perdere del tutto il contatto con lo stile di Cavell’, più spesso attenta alla lettera del testo» (Morreale 2022, p. 21). Al di là degli aspetti più tecnici – seppure evidentemente imprescindibili, essendo Cavell un filosofo del linguaggio ordinario che «parla al filosofo il linguaggio del cinema e al cinefilo il linguaggio della filosofia» (ibidem) – tutto ciò che richiama il senso della «ripetizione» ha nel pensiero cavelliano un valore molto preciso, che dalle altezze teoretiche prefigurate dalle visioni di autori come Platone, Kierkeegard, Nietzsche e Freud (tra gli altri), si innesta nell’impianto retorico dei generi cinematografici, creando un ibrido critico portentoso, estremamente dinamico e versatile. Ecco, allora, qual è un’altra cosa che continua a insegnarci Cavell: a riconoscere un certo tipo di commedia quando la vediamo al cinema.

«Il film […] pone una questione riguardante la convalida del matrimonio, la realtà del suo legame, nel modo in cui tale questione è posta nel genere della commedia del rimatrimonio. La sua risposta partecipa (o contribuisce con la sua particolare tonalità) alla risposta che tale struttura fornisce: che la validità del matrimonio esige la disponibilità [willingness] alla ripetizione, la disponibilità al rimatrimonio. L’obiettivo della conclusione è far tornare i due a un particolare momento della loro passata vita comune. Non è richiesta una nuova risoluzione, ma soltanto la ripresa di un’azione che è stata, per così dire, interrotta; non si deve ricominciare da capo, ma ricominciare un’altra volta, trovando il filo e riprendendolo» (Cavell 2022, p. 133).

Sette film soltanto, accuratamente selezionati tra le cosiddette screwball comedy degli anni Trenta e Quaranta – perché l’atto critico, sostiene Cavell, è sempre arrogante. Di generazione in rigenerazione, queste commedie incorporano nell’impasto ontologico del cinema classico sostanze drammatiche di matrice shakespeariana, addizionate al succo che il filosofo estrae direttamente dalla riflessione sullo scetticismo (e dalle Ricerche filosofiche di Wittgenstein). Dietro ai sofisticati rimatrimoni tra Katherine Hepburn e Cary Grant, tra Barbara Stanwyck e Peter Fonda, tra Claudette Colbert e Clarke Gable – senza dimenticare gli incroci trasversali con James Stewart, Spencer Tracy, Irene Dunne e Rosalind Russel – magistralmente orchestrati dal genio di registi come Howard Hawks, George Cukor, Preston Sturges, Frank Capra e Leo McCarey, si spalanca un ventaglio di questioni enormi riguardanti l’identità, l’uguaglianza, il limite e la trasgressione, l’educazione, la separatezza, il dubbio, il rischio dell’elusione reciproca, il narcisismo, il peso delle scelte, il ruolo dei figli, la condivisione del tempo, l’avventura, l’importanza della conversazione, l’uso delle parole in relazione al contesto, la redenzione del quotidiano, le prime volte, la battaglia dei sessi.

Accadde una notte, certo, ma Cavell ci assicura che può accadere ancora. Forse per il lettore contemporaneo potrebbe essere stimolante accogliere una nuova sfida critica e tentare di rispondere al quesito che si pone lo stesso autore nell’introduzione di Alla ricerca della felicità in merito all’ipotetico esaurimento del genere. Vale a dire, è possibile girare al giorno d’oggi altre commedie del rimatrimonio in un contesto storico-culturale-produttivo completamente diverso? A seguire, Cavell segnala alcuni titoli più «recenti» di film che iniziano con un divorzio e poi riflettono sul matrimonio: Una donna tutta sola (An Unmarried Woman, P. Mazursky, 1978), E ora: punto e a capo (Starting Over, A. J. Pakula, 1979) e Kramer contro Kramer (Kramer vs. Kramer, R. Benton, 1980). Certo, le premesse sono altre; molti passaggi topici non sussistono, ma il critico motivato (e arrogante!) può giocare a ridefinire la categoria, motivando eventuali divergenze e introducendo nuove proprietà.

Cavell si ferma qui, anche se in alcuni saggi, scritti tra la fine degli anni Novanta e i primi anni Duemila (tra cui, Cavell 1999 e 2005), timidamente ci riprova e abbozza una nuova lista di film eredi: Stregata dalla luna (Moonstruck, N. Jewison, 1987), Tootsie (id., S. Pollack, 1982), Insonnia d’amore (Sleepless in Seattle, N. Ephron, 1992), Ragazze a Beverly Hills (Clueless, A. Heckerling, 1996), Ricomincio da capo (Groundhog Day, H. Ramis, 1992), Joe contro il vulcano (Joe vs. the Volcano, J. P. Shanley, 1990), Mr. Crocodile Dundee (Crocodile Dundee, P. Faiman, 1986), Una donna in carriera (Working Girl, M. Nichols, 1988), Qualcuno da amare (Untamed Heart, T. Bill, 1993), Innocenza infranta (Inventing the Abbots, P. O’Connor, 1997), Quattro matrimoni e un funerale (Four Weddings and a Funeral, M. Newell, 1994), Il matrimonio del mio migliore amico (My Best Friend’s Wedding, J. P. Hogan, 1997), Tutti dicono I love you (Everyone Says I Love You, W. Allen, 1996), La Fortuna di Cookie (Cookie’s Fortune, R. Altman, 1999) Qualcosa è cambiato (As Good As It Gets, J. L. Brooks, 1997).

A questo primo blocco, Cavell aggiunge un trittico di film tutti interpretati dall’attore John Cusack, la cui sensibilità fisica si imporrebbe nella contemporaneità cinematografica, ricalcando in qualche maniera la tipologia attoriale classica dello star-system hollywoodiano alla Cary Grant: Sacco a pelo a tre piazze (The Sure Thing, R. Reiner, 1985), Non per soldi… ma per amore (Say Anything, C. Crowe, 1989) e L’ultimo contratto (Grosse Point Blank, G. Armitage, 1997). Senza approfondire l’argomento, Cavell sottolinea il fatto che esistono almeno due differenze eclatanti tra le coppie delle commedie del rimatrimonio e quelle delle «nuove commedie»: prima di tutto, le nuove coppie (tranne in qualche caso) sono più giovani, meno sofisticate; secondo, persiste l’impressione che vi sia un’incapacità di immaginare e desiderare il futuro da parte di questi giovani protagonisti.

Non è questa la sede appropriata per un’indagine sulle nuove commedie, ma chi scrive ha la netta impressione che il modello di Cavell non abbia mai realmente esaurito la sua carica ermeneutica e che al cinema i rimatrimoni continuino a essere celebrati. Si prenda un film recentissimo come Ticket to Paradise (O. Parker, 2022) con George Clooney e Julia Roberts, attrice già presente in almeno tre pellicole della sopracitata lista, a cui se ne può aggiungere un’altra, a impianto incontestabilmente rimatrimoniale, come Se scappi ti sposo (Runaway Bride, G. Marshall, 1999). Gli ex coniugi, David e Georgia Cotton, si ritrovano insieme in occasione del matrimonio «a sorpresa» della loro unica figlia Lily nello scenario esotico dell’isola di Bali; un mondo verde in piena regola, per citare una delle strutture più note della commedia cavelliana (mutuata da Anatomia della critica di Northrop Frye), la quale prevede un passaggio obbligato da parte della coppia protagonista attraverso un luogo diverso, per certi versi magico, ameno, un paradiso perduto in cui diventa possibile conquistare una prospettiva rinnovata sulle cose (il più delle volte, si tratta del Connecticut).

David e Georgia non si sopportano, fanno fatica perfino a stare seduti vicini, ma decidono comunque di allearsi per sabotare le nozze della figlia, mettendo in pratica l’infallibile tattica del «cavallo di Troia». Non vogliono che lei commetta il loro stesso errore. In cosa consista realmente quell’errore i due non sono in grado di spiegarlo, così come non riescono a sostenere una conversazione senza litigare, rivangando vecchie questioni irrisolte. Perché non si sono mai capiti e ognuno ha nutrito le proprie convinzioni con la grammatica assurda di un linguaggio privato. Alla fine del film scatta il miracolo: di fronte al «per ora e per sempre» pronunciato dalla coppia giovane, anche gli adulti finalmente si riconoscono e accettano di dare la loro benedizione. Pertanto, decidono di ri-scommettere sulla loro unione, concedendosi quell’agognato nuovo inizio che riavvolge il tempo intorno alla nudità assordante dell’unica risposta che conta davvero: sì. Sì alle domande poste con il giusto tempismo, al presente che non smette mai di accadere, alla realtà dell’altro/a e dei suoi pensieri più reconditi, a un atteggiamento comune da abitare, al sogno di una vita possibile.

Se Julia Roberts sia o meno l’erede di Katherine Hepburn o se queste nuove commedie possano lontanamente reggere il confronto con i testi filmici analizzati in Alla ricerca della felicità, non sta a noi stabilirlo. Limitiamoci a incorporare la verità della grande lezione promossa dalla filosofia del cinema di Cavell, una verità che suona quasi come una benedizione. Tutto, prima o poi, ritorna: i miti, i generi, i racconti, le star, i vecchi amori, le (seconde) possibilità. Ma, soprattutto, ritornano le parole. Sta a noi essere in grado di riconoscere ciò che abbiamo davanti agli occhi.

Riferimenti Bibliografici

S. Cavell, “The Good of Film”, in Cavell on Film, a cura di W. Rothman, State University of New York Press Cavell, New York 2005.
Id., Les comédies du remariage: une histoire du lien conjugal, in “Esprit”, n. 252, 1999.
N. Frye, Anatomia della critica, Einaudi, Torino 2000.

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