Logbook

Approfondimenti, interviste, recensioni e cultura: il meglio dell’editoria e delle arti da leggere, guardare e ascoltare.

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18 Marzo 2023

Stanley Gontarski, Tennessee Williams

Massimo Bertoldi, «Il Cristallo On Line»

Mancava in Italia un saggio monografico dedicato a Tennessee Williams, fondamentale autore noto per commedie accompagnate da allestimenti importanti come Lo zoo di vetro, Un tram che si chiama desiderio, Improvvisamente l’estate scorsa e La rosa tatuata. Colma la lacuna Cue Press, con la pubblicazione di un volume molto interessante a appassionante, Tennessee Williams. Modernismo in t-shirt e rinnovamenti del teatro, compilato da Stanley E. Gontarski, apprezzato scrittore, drammaturgo, direttore teatrale e regista.

L’obiettivo della ricerca è dichiarato con esplicita chiarezza: «Estende[re] la rivalutazione di Tennessee Williams per contrastare l’opinione diffusa secondo cui il suo lavoro sarebbe caduto in un precipitoso declino negli anni Sessanta, quando il naturalismo cui era associato, non sempre per scelta sua, fu sostituito da innovazioni e sperimentazioni più europee, meta-teatrali, e quando la cultura vide una ricalibratura dinamica del desiderio sessuale e dei suoi costumi».

A guidare le interpretazioni testuali secondo i codici linguistici del teatro e a spareggiare le sorti storiche del repertorio dello scrittore americano interviene la contestualizzazione socio-culturale della ricezione di personaggi disegnati senza filtri e finzioni, immortalati nelle loro pulsioni erotiche e passioni, nelle paure e i desideri, con i loro incubi e i loro limiti anche fisici (Laura dello Zoo di vetro è zoppa). Soprattutto si proiettano nel perimetro di sé stessi prima di relazionarsi alla realtà, insidiosa e complicata.

Perciò i temi trattati, che spesso hanno attivato la censura, risultano trattati in modo autentico e con feroce realismo: l’alcolismo, il sesso e l’omosessualità, la perversione e i disagi mentali non sono accessori letterari descrittivi, assurgono invece a filtri narrativi attraverso un linguaggio privo di mediazioni, vitale, violento e palpitante, che si sostanzia in una vetrina di personaggi genuinamente perdenti, solitari e controversi, senza presente e senza futuro ma sostenuti da autentica vitalità.

Nel momento in cui queste figure diventarono soggetti cinematografici o teatrali, provocarono scalpore, lasciarono un segno indelebile nel perbenismo e nella morale dominante. È il caso dello scandalo prodotto da Marlon Brando nel 1947, quando interpretò la parte di Stanley Kowalsky in Un tram chiamato desiderio, indossando una maglietta a maniche corte aderente e sudata e recitando anche a torso nudo. Si rovesciava l’idea di esibizione del corpo, di norma scenica, declinata al femminile, e si affermava la mascolinità come espressione di erotismo e di oggetto di desiderio. Si infrangeva un tabù e si dimostravano le potenzialità del teatro e del cinema di procedere in quella direzione e a questo, nell’ombra silenziosa della lezione di Williams, lo spettacolo degli anni Sessanta e Settanta aggiunse la contestazione.

In parallelo inizia la seconda fase creativa del drammaturgo americano. Al realismo subentra un percorso sperimentale (The two-character play, Clothes for a summer hotel) che lo avvicina a Beckett, come pare alludere e indicare il titolo di una commedia dell’epoca, Slapstick tragedy.

Forse condizionata dall’immagine dell’uomo Williams – dichiaratamente omosessuale e vittima di frequenti crisi depressive sedate con abuso di alcol e barbiturici – oppure perché autore di una pungente rappresentazione della società (americana), il suo declino è rapido e inesorabile, mentre in Europa una maggiore considerazione è riscontrabile a partire dagli anni Ottanta, dopo la sua morte nel 1983 a New York.

È l’esatto contrario dell’andamento americano. In merito, Gontarski analizza anche i contributi italiani, ricordando le regie di Elio De Capitani e Antonio Latella.

Da questa biografia di agile nella lettura, impreziosita da un accurato apparato iconografico e da una ricca e aggiornata bibliografia, emerge il profilo a tutto tondo di un grande drammaturgo, inquieto e geniale, che seppe stravolgere il linguaggio teatrale del secondo Novecento, al quale molti percorsi di avanguardia e di ricerca gli sono consapevolmente o inconsciamente debitori.

Sotto forma di postilla, piace, infine, ricordare la messinscena pionieristica dello Zoo di vetro da parte di Fantasio Piccoli, fondatore e direttore del Teatro Stabile di Bolzano, nella stagione 1959-1960, con la partecipazione di Armida Gavazzeni, Giaco Giachetti, Lucia Romanoni e Alberto Terrani.

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Giulia emma innocenti malini
6 Marzo 2023

Ridurre la distanza. Breve storia del teatro sociale in Italia

Francesca Lupo, «Theatron 2.0»

«Le pratiche di teatro sociale sembrano anche svolgere una funzione di mediazione politica, in particolare nelle relazioni tra le istituzioni e gli individui e i piccoli gruppi, con specifico riferimento a soggetti marginali e fragili. Una funzione che nutre il capitale sociale e riduce la distanza e la possibile conflittualità, generando occasioni di contatto e di allineamento tra le diverse parti».

Difficile essere più eloquenti di Giulia Innocenti Malini, professoressa di teatro sociale presso l’Università di Pavia e l’Università Cattolica del Sacro Cuore, autrice del volume Breve storia del teatro sociale in Italia, edito da Cue Press nel 2021. Come difficile è il compito che si prefissa, ovvero tirare le fila di una forma teatrale il cui percorso si delinea tortuoso fin dalla sua stessa nomenclatura. Il teatro non è sociale per definizione? E cosa si intende quando lo si pone in contrapposizione ad una spettacolarità da cartellone? Innocenti Malini, nella premessa al libro, accenna alla sua ampia esperienza sul campo (che condivide nel corso di alta formazione per operatori di teatro sociale e di comunità sempre alla Cattolica) che comunque, dice, non le è bastata per configurare un metodo che possa soddisfare tutte le sfaccettature di questa particolare spettacolarità. Dà avvio ad una ricerca che si pone l’obiettivo di essere «prima di tutto, performativa».

«Insomma, interpretare il teatro sociale ci mette di fronte a tutte le complessità metodologiche dello studio del fatto teatrale contemporaneo, a cui si aggiunge la specifica complessità di studiare una pratica performativa teatrale che intende perseguire risultati artistici ed estetici, e anche realizzare intenzionalmente obiettivi di ordine sociale, rimandando con questo termine, ‘sociale’, a obiettivi volta a volta educativi, di cura, inclusione, formazione, terapia, sviluppo, protesta, riqualificazione ambientale e molti altri».

Il teatro sociale rivendica una letteratura che possa narrare di sé negli stessi manuali di storia del teatro che passano sotto le mani e lo sguardo di menti in formazione, perché effettivamente è dal teatro che potremmo definire «estetico, prettamente artistico» che prende i natali; anzi, probabilmente da uno scarto che lo stesso teatro d’arte ad un certo punto non riesce più a colmare nei confronti di un pubblico che rivendica la sua identità di cittadino. Dalla fine degli anni Cinquanta, da Grotowski a Barba, passando dal Living Theatre, si è cercato di colmare quello scarto, in tutti i modi possibili, ricreando una scena che da principio abbandonasse l’edificio stesso atto alla rappresentazione, per crearne altri di palcoscenici, per le strade, nelle piazze (non inventando niente di nuovo, ma al contrario recuperando tradizioni molto antiche), ed un pubblico che fosse invitato a circondare la scena, se non pure a condividerla con gli attori.

«Questo processo di fuoriuscita dal teatro subisce una forte, decisiva accelerazione sotto la spinta degli eventi sociopolitici del Sessantotto, spostandosi decisamente dal piano del rivoluzionamento tecnico-linguistico dello spettacolo a quello della messa in discussione globale della forma teatro in se stessa» (Marco De Marinis, Il nuovo teatro. Bompiani, 2000). In questo percorso carsico, il teatro sociale indossa diverse forme: dall’animazione teatrale allo psicodramma, dal teatro dell’oppresso fino a recuperare la dimensione della festa.

Ma andando incontro al fisiologico raffreddamento degli animi dopo i moti sessantottini, l’attività di molti operatori non si arrenderà, anzi popolerà altri luoghi ancora più urgenti, come carceri, ospedali, scuole, piccole comunità di quartiere, divenendo sempre più capillare. Utile alleato sarà l’università, che, attraverso i suoi insegnanti, che spesso si ritrovano loro stessi ad essere attivi nel campo, produrrà una letteratura e dirigerà gli sguardi verso una performatività differente. L’analisi di Innocenti Malini prova a condurre il lettore sino ai giorni nostri, illustrando esempi degni di nota, come il TiPiCi, a cui lei stessa è associata: «Una giovane rete che raccoglie più di sessanta realtà associative artistiche, sociali e di ricerca milanesi che condividono la necessità di riflettere sul rapporto tra arti e pratiche performative e sviluppo partecipato dei contesti sociali, per poi progettare congiuntamente processi performativi che possano aiutare gli abitanti a fronteggiare la complessità dei problemi di vita in modo integrato, sistemico (multisettoriale e interdisciplinare) e comunitario».

Il teatro sociale è quella forma ibrida in cui, nonostante la sua, alle volte, mancata istituzionalizzazione, chiunque si imbatte nella propria vita. È diventata involontariamente una narrazione scontata, si ha un’idea che esista, come nei contesti di reclusione, nelle scuole. Eppure «gode» dello stigma di cui la cultura tutta è vittima, argomenti lontani dalla formazione di un individuo perché non ritenuti all’altezza delle stesse attenzioni dedicate al corpus dantesco od alla Ginestra leopardiana. Nella futile diatriba per conferirgli un titolo più «sociale» o più «estetico», il teatro sociale fa, agisce e grazie alla ricognizione di Innocenti Malini ripercorriamo anche la stessa storia del nostro paese.

Dalla più celebre, come può essere l’esperienza di animazione teatrale che Giuliano Scabia condusse nell’ospedale psichiatrico di Trieste, nel 1973 diretto da Franco Basaglia, abbattendo i confini manicomiali, ponendo in relazione gli internati con i propri concittadini; a H2Otello, rivisitazione del testo shakespeariano che il Teatro Metropopolare di Livia Gionfrida rappresenta con i detenuti della Casa Circondariale la Dogaia a Prato nel 2014, ponendo l’accento sul femminicidio di cui si macchia il protagonista, la questione su cui interrogarsi. Numerosi sono i nobili esempi nel Settentrione, diversamente nel Meridione, ma nel quale spiccano percorsi particolari. Uno di questi, meno celebre di altri, è guidato da Claudio Collovà nell’Istituto Penale per Minorenni Malaspina di Palermo, «nato come percorso di ordine artistico, anche provocatoriamente, contro un utilizzo terapeutico del teatro che la compagnia non condivideva, per affermare un teatro d’arte possibile anche in questi contesti di forte disagio».

Relazioni, comunità, comunicazione: queste le tre parole chiave che esperienze simili riescono ad introdurre in contesti in cui tutt’ora difficilmente è possibile trovargli un margine di discussione, o addirittura ragion d’essere, a causa di un’altra parola, la differenza, che l’essere umano ha spesso sottolineato, convertito in mattoni per costruire imponenti muri tra malato e familiare, tra bambino e adulto, tra sfollato e cittadino, tra spettatore e autore, o semplicemente tra «te» e «me».

Innocenti Malini conclude così il suo libro, attraverso le parole di Sisto Dalla Palma nella Scena dei mutamenti (Vita E Pensiero, 2001): «Non si tratta di scardinare i confini tra le varie aree del teatro secondo un assioma che nessuno è in grado di formulare. Tutta l’esperienza più recente del teatro dimostra che gli esiti più significativi si sono avuti quando si sono realizzati non solo genericamente scambi e integrazioni tra linguaggi, ma incontri tra persone, ognuna portatrice di specifiche esperienze, ma tutte insieme capaci di rappresentare, in una porzione di spazio pur limitato, il grande teatro del mondo. La scena teatrale si pone oggi al centro di una complessità sociale, a volte drammatica, non per evocarla o subirla in modo confuso, ma per assumerla e trasformarla nella prospettiva di autentici atti di libertà e di impegno civile».

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Luigi stefano
6 Marzo 2023

Anche Stefano, primogenito di Luigi Pirandello, fu drammaturgo e pittore

Andrea Bisicchia, «Libertà Sicilia»

Figlio primogenito di Luigi, Stefano Pirandello (1895-1972), visse gran parte del suo tempo all’ombra del padre; non solo perché affascinato dal teatro, ma perché si sentì «necessario» al proprio genitore, per l’enorme mole di lavoro che svolgeva dopo i successi internazionali delle sue commedie.

Stefano fu l’ideatore, insieme a Orio Vergani, del Teatro D’Arte, che rimase aperto, pur tra tante difficoltà, per ben tre anni, dal 1925 al 1928, con una sua Compagnia. Dietro la miriade di impegni c’era anche quello per la madre, Maria Antonietta Portolano, (1871-1959) che, per disturbi psichici, era stata ricoverata nel 1919 presso Villa Giuseppina, dove rimarrà fino alla morte. La vita di Stefano, pertanto, fu contrassegnata da due «doveri», benché quello nei confronti del padre lo impegnasse intellettualmente.

L’amore per il teatro si trasformò, per Stefano, in amore per la scrittura, tanto che scrisse ben 17 testi che Sarah Zappulla Muscarà pubblicò, nel 2004, con Bompiani, in un cofanetto di tre volumi. Instancabile ricercatrice, Sara, insieme al marito Enzo e grazie all’Istituto di Storia del Teatro Siciliano, è diventata una divulgatrice delle opere di tanti autori siciliani che, senza di lei, sarebbero stati dimenticati.

A cura sua e di Enzo è stato pubblicato di Stefano Pirandello Un padre ci vuole in due edizioni e in due volumi separati, editi da Cue Press; il primo in italiano, il secondo in inglese, col titolo All you need is a father, con traduzioni di Enza De Francisci e Susan Bassnett, a cui dobbiamo anche le Note.

Sempre grazie all’interessamento di Sarah Zappulla Muscarà, Un padre ci vuole è stato tradotto in francese, greco, serbo, spagnolo, arabo, in attesa delle traduzioni in ceco e austriaco. C’è da dire, però, che, non sempre all’interesse scientifico corrisponda un interesse di rappresentazione. Anzi, a questo proposito, il testo che ebbe una messinscena nel gennaio del 1936, con la Compagnia Tofano-Maltagliati-Cervi e la partecipazione di Giuseppe Porelli, fu più volte rimaneggiato, fino all’edizione del 1960, che è quella pubblicata. Alla prima, al Teatro Alfieri di Torino, fu presente Luigi Pirandello.

C’è ancora da dire che nel 1953 capitò a Stefano l’occasione che lo avrebbe potuto imporre come autore teatrale, grazie alla messinscena al Piccolo Teatro di Sacrilegio umano, con la regia di Giorgio Strehler, che fu un vero insuccesso, forse anche per la poca cura del grande regista.

Un padre ci vuole risente molto della dedizione di Stefano nei confronti del padre, ma, a dire il vero, mostra una sua autonomia e ben si inserisce in quella drammaturgia che sceglie come protagonista la figura paterna, soprattutto nel secondo Ottocento, sia nella letteratura nordica sia in quella russa. Basterebbe ricordare Il padre o La signorina Giulia di Strindberg, con i famosi stivali del padre tenuti a lucido dal servo Jan, o ancora Hedda Gabler di Ibsen, con le due pistole donategli dal padre come segno di potere, che lei utilizza in maniera irrazionale. Il padre si presenta come una figura complessa nella drammaturgia di fine secolo; da lui dipendono l’educazione e i fabbisogni familiari, e non sempre lo si trova adatto, anche perché in molti casi ha pensato solo a se stesso.

Vorrei ricordare, inoltre, che anche il teatro russo ci ha lasciati dei drammi ben orchestrati su questo argomento, vedi Padri e figli o Pane altrui di Turgenev, o la figura del padre nei Fratelli Karamazov. E infine, come dimenticare la figura complessa del Padre nei Sei personaggi.

Stefano Pirandello ha una sua visione della figura paterna. Il suo protagonista, Oreste, intende essere il tutore del padre sessantenne e vorrebbe interessarsi a lui con ogni mezzo, anche perché, in occasione della tragedia che colpì la famiglia – dovuta a un incidente che causò la morte della madre e dei fratelli, travolti a causa di un passaggio a livello forse incustodito – il padre aveva deciso di suicidarsi e lui era riuscito a salvarlo. La commedia è costruita sul tema del rimorso e delle ferite dell’anima che coinvolgono gli esseri umani, tanto che c’è bisogno della comprensione dell’altro per poterle emarginare. Oreste, a suo modo, vive drammaticamente il bisogno del padre di aggrapparsi alla vita; magari grazie a un nuovo matrimonio, con una donna molto più giovane. Solo che prevede altre crisi paterne e fa di tutto per essere la sua ombra, così come Stefano aveva fatto di tutto per essere l’ombra del padre Luigi.

Lear elio de capitani
4 Marzo 2023

L’America di Elio De Capitani

Maria Dolores Pesce, «Dramma.it»

L’interesse, o meglio la sensibilità, che da molto tempo contraddistingue gli studi di Laura Mariani nei confronti dell’attorialità, torna ad incontrare e ad intersecarsi con l’attività ormai ultratrentennale di uno degli attori che, meglio di tanti altri, ha saputo interpretare non soltanto i singoli e innumerevoli personaggi che ha incarnato, quanto il «Teatro» tout court, visto come espressione artistica ma ancor più come una rete in cui si può impigliare il mondo e la storia, e attraverso la quale essi si possono riportare almeno un po’ sulla riva della vita, singolarmente o collettivamente intesa. Ne nasce questo volume che non vuole essere una semplice ristampa, ampliata, riveduta o corretta fin che si vuole, ma che diventa un ulteriore completamento di un’analisi che però forse non ambisce ad essere completata. Lo sguardo di Mariani infatti era aperto – ed è una sua qualità indubbia, e tale rimane e desidera rimanere – aperto al futuro ma anche al presente della nostra, analoga o diversa che sia, percezione di quella vita e di quella storia scenica. Un bel volume che ripercorre le tappe di una lunga carriera in maniera essenziale, soffermandosi però con maggiore intensità, come già suggerisce il titolo, sul rapporto che è stato ed è illuminante per Elio De Capitani: quello con la letteratura americana, non solo teatrale. Dal fondamentale Angels in America all’Ahab dell’ultimo Moby Dick alla prova. Un testo interessante per contenuto, per scrittura densa e significativa, e, non ultimo, per ampio e suggestivo apparato iconografico.

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@guillemclua
3 Marzo 2023

Guillem Clua, Teatro

«Queerographies»

Uno Stato immaginario scomparso a causa dei cambiamenti climatici, una misteriosa epidemia globale, un giudice che nasconde la propria omosessualità: pur trattando gli argomenti più disparati, il lavoro di Clua riesce ad affrontare in maniera originale ed eclettica il tema della diversità e della complessità del mondo contemporaneo. Il volume raccoglie il meglio della produzione del drammaturgo catalano; sei testi capaci di restituire, dalla scena alla pagina, un’umanità sempre viva e dalle mille sfaccettature.

Guillem Clua è considerato uno dei drammaturghi più innovatori ed eclettici nel panorama catalano e spagnolo. Grazie alla sua duplice formazione di autore teatrale e di creatore di programmi e di fiction seriali, il suo repertorio comprende opere politiche e commedie musicali, drammi epici e spettacoli di teatro-danza. I suoi lavori sono stati tradotti in molte lingue e hanno ricevuto numerosi riconoscimenti, tra cui spicca il Premio Nacional de Literatura Dramática 2020 per il testo Giustizia.

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Bobwilson
1 Marzo 2023

Bob Wilson e l’Italia: l’omaggio di Giacobbe

Sergio Di Giacomo, «Moleskine Rotocalco»

Durante la presentazione del libro del critico e storico del teatro Gigi Giacobbe Bob Wilson in Italia abbiamo percepito una grande passione, quella passione per il grande teatro che anima il nostro critico teatrale, tra le firme di «Moleskine» e per decenni collaboratore delle pagine culturali del «Giornale di Sicilia». Attualmente collabora anche a «Sipario» e »Teatro Contemporaneo e Cinema». Ha pubblicato: Senza sipario, Che cos’è il teatro?, Il Teatro a Messina e Taormina negli anni ‘70 (intervista a Rocco Familiari).

«Il teatro è la summa di tutte le arti» dice Bob Wilson, maestro del teatro contemporaneo, che Giacobbe ha iniziato ad amare dopo uno spettacolo al teatro V. Emanuele. Scoccata magicamente la scintilla, Giacobbe ha seguito passo passo, nei massimi teatri italiani e soprattutto al Festival di Spoleto (dove chi scrive ha potuto seguire Lecture on nothing di Cage, diretto da Wilson), ogni spettacolo del geniale regista americano, campione dello spettacolo contaminato, integrato, visuale, poliedrico, capace di creare una «struttura nel tempo» in cui tutti gli elementi visivi creano una cornice che gli attori «devono riempire».

Il libro di Giacobbe è un autentico omaggio all’arte straordinaria, fantasmagorica e geniale di Wilson, un vademecum per gli studiosi, i critici, gli appassionati, per gli studenti, i giornalisti, i critici, che possono trovare interviste, note critiche, elenco degli spettacoli e una ricca biografia. E ancora, ricordi, recensioni, resoconti di oltre un trentennio di attività, che si intrecciano con testimonianze di personalità quali Eco, Bonito Oliva, Cirio, Tomasello, Andò. Uno sguardo appassionato e dettagliato, di chi crede nel teatro autentico senza barriere, senza schemi e senza limiti.

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Cover quaderni godot
1 Marzo 2023

Quaderni scritti a penna di un futuro Premio Nobel: Samuel Beckett

Andrea Porcheddu, «Gli Stati Generali»

Ma insomma Samuel Beckett si può toccare o no? Si sa: il burbero premio Nobel scriveva testi teatrali che erano delle partiture, misurate al secondo. Tra didascalie, parole e pause vi è una tensione continua e il dettato beckettiano è stato a lungo ritenuto – e ancora lo è – per l’appunto, intoccabile. Complice anche la ferrea tutela dei doverosi diritti d’autore: Beckett o lo si fa à-la-Beckett, senza toccare una virgola, o non si fa.

A parte il fatto che qui da noi lo recitiamo in italiano, ossia in una lingua altra (e già questo è un poderoso modificar l’originale, per quanto filologica sia la traduzione), è chiaro che, tanto per far un paragone, se affrontiamo Verdi o Puccini, non ci viene in testa di prendersi licenze, ossia modificare, tagliare, riscrivere, sfumare. Per quel che mi riguarda appartengo a questa scuola: con il repertorio classico bisogna fare i conti, per quel che è, senza stare tanto a riscrivere. Ma il teatro, nato nel politeismo greco, suggerisce sempre la molteplicità, lo sguardo aperto, l’alternarsi e il convivere di possibili: e, come nella vita, è meglio il pluralismo, accogliere possibilità diverse, mettersi in discussione, ascoltare, essere smentiti nelle proprie certezze (non è poi che i monoteismi abbiano fatto bene alla salute o allo spirito…).

Di fatto, la ricerca, in teatro come in musica, è cresciuta anche violentando i cosiddetti classici, che proprio in quanto tali si prestano ad ogni misfatto; uscendone peraltro spesso vincitori loro, i classici, ‘ché ne hanno da dire rispetto alle visioni e alle letture e ai riadattamenti, magari in salsa «contemporanea», di tanti volenterosi registi-autori o registe-autrici.

La questione beckettiana, però, è tornata fuori in occasione dell’allestimento di Aspettando Godot, ovvero la summa dell’irlandese, ad opera del maestro greco Theodoros Terzopolous, che, con i suoi straordinari interpreti, ha giocato assai liberamente con l’originale. Intanto perché ha attinto alla traduzione greca, ben diversa da quella canonica italiana (dunque traduzione della traduzione); e, come nel suo stile, ha dato di forbici di gran lena. Cosa che ha comportato una levata di scudi di parte della critica e del pubblico, indignati, entrambi, di tale e tanto ardire, sorta di lesa maestà beckettiana intenzionale e dolosa.

Altri, più comprensivi, hanno apprezzato l’esito scenico, magari cogliendo anche lo slancio di Terzopoulos di fare dell’Aspettando Godot una tragedia classica, invocando un’interpretazione attorale conseguente: non solo e non più un dramma dell’incomunicabilità degli anni Cinquanta, ma una vera tragedia eterna sul destino dell’umanità. E l’esito, almeno a mio parere, è quanto di più beckettiano abbia visto in molti anni, per tensione, suggestione e poeticità. Dunque ha fatto bene o ha fatto male il regista ad affrontar così di petto Samuel Beckett? Per far chiarezza, è bene tornare a consultare le fonti. E qui arriva in prezioso aiuto l’instancabile lavoro di Mattia Visani e della sua Cue Press, casa editrice emiliano-romagnola specializzata in teatro, cinema e arti (ho il piacere di aver pubblicato qualche cosa con questa giovane e gagliarda casa editrice).

Insomma, nel giro di pochissimo tempo, Cue ha mandato in libreria tre volumoni che raccolgono, in versione italiana, i diari di lavoro del genio dublinese. Non solo Aspettando Godot, ma anche Finale di Partita e L’ultimo nastro di Krapp (ed è in arrivo un altro libro dedicato ai Drammi brevi). Edizioni critiche dei quaderni di regia, opere di grande bellezza e nitore che svelano proprio il processo creativo beckettiano. Sono libri esaltanti, minuziosi nel ricostruire, battuta dopo battuta, il farsi vita del teatro, testimoniato dalla copia riprodotta dei quaderni originali, prontamente tradotti. C’è la grafia minimale di Beckett, i suoi schizzi, il piano luci, gli appunti, i cambiamenti.

Ecco il fatto: Beckett ovviamente non si considerava un «classico» e bellamente procedeva, stesura dopo stesura, a migliorare e adattare il proprio lavoro, lasciando poi alla regia una certa libertà. Ad aprire il volume dedicato a Godot arriva subito un chiarimento, grazie al curatore dell’edizione originale inglese, James Knowlson: «Nel teatro niente si può etichettare come definitivo. Un’opera o un ruolo sono costantemente aperti alla reinterpretazione […]. Le produzioni di Beckett delle proprie opere illustrano questo chiaramente, allo stesso modo delle produzioni dirette da qualsiasi altro regista. Pensare che Beckett credesse che lui, o chiunque altro, potesse ‘rendere fisse’ le sue opere è un luogo comune sbagliato: del resto, più volte chiarì che altre produzioni avrebbero avuto una ‘musica’ differente dalla sua, e così accettò differenti sistemazioni del palco. Nelle poche occasioni in cui mosse obiezioni a certe proposte registiche era perché pensava che fossero stati fatti cambiamenti a elementi base che avrebbero alterato radicalmente le opere» (pag. 7).

E aggiunge Luca Scarlini, ottimo curatore della versione italiana, presentando l’opera: «Samuel Beckett in tutta la sua esistenza torna continuamente ai suoi testi, li rivisita, aggiunge, toglie. […] è possibile entrare nel laboratorio di azioni verbali e gestuali di un autore capitale del secolo scorso, la cui influenza rimane capillare nelle forme più diverse del presente […]. Le produzioni di Berlino allo Schiller Theater, quelle con il San Quintino Theatre Workshop, sono altrettante tappe di una conoscenza della forma-scena, che egli mette assai fortemente in discussione» (pag. 9).

A sfogliare i libri si è quasi colti da una vertigine. Quanto è bello vedere quelle pagine vergate a mano, quegli schemi, quegli improvvisi guizzi di genio che scaturiscono da un metodico e certosino lavorio di limatura. Aspetti che emergono chiari anche in Finale di partita, con l’edizione critica a cura di Stanley E. Gontarski; e in L’ultimo nastro di Krapp, con l’edizione critica ancora di Knowlson (anche questi volumi vantano l’edizione italiana a cura di Scarlini).

Libri, dunque, ma con la peculiarità straordinaria di trascinare il lettore nella fucina, nella fabbrica di un artigiano a lavoro: non genio e sregolatezza, ma metodo e rigore cui si assiste, pagina dopo pagina, con commossa partecipazione. Nel 1952 Beckett scriveva quei suoi appunti su Aspettando Godot; meno di venti anni dopo sarà premio Nobel.

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28 Febbraio 2023

Pino Tierno. Il teatro nell’esistenza umana

Giancarlo Mancini, «Pulp Libri»

Molti hanno riflettuto sulla natura effimera dell’evento teatrale, il suo accadere qui e ora, cosa che rende difficile, se non impossibile, la sua trasmissione al di là del ricordo soggettivo. Spesso sono state proprio quelle che vengono chiamate le «prime», ovvero le occasioni nelle quali un testo ha debuttato sulla scena, ad offrire un concentrato emotivo che va ben oltre quello che accade sulla scena, abbracciando anche lo spettatore.

Prime tempestose di Pino Tierno, traduttore e saggista di opere di teatro classico e contemporaneo, offre una carrellata di alcune di queste serate «notevoli» per il teatro di tutti i tempi. Ne è venuto fuori un libro utile, anche e soprattutto per il lettore non addetto ai lavori, poiché scritto con una rimarchevole chiarezza. Si sarebbe potuto definirlo un «libro per le scuole» se qui il teatro non fosse ancora relegato ad «attività extra-pomeridiana», ovvero ad un utile passatempo posto al termine delle cose importanti.

Tornando al tema del libro, il primo nodo da chiarire prima di tutti, visto che ci si pone spericolatamente davanti a tremila anni di storia (almeno) è: come sono state scelte queste prime dal contenuto brontianamente (nel senso delle sorelle Brontë) tempestoso? Tierno risponde, nella premessa: per il loro «carattere innovatore o pionieristico». Insomma, si ha a che fare con testi, o spettacoli, in grado di portare avanti una visione tanto originale e dirompente da stravolgere il modo di stare sul palcoscenico o la sua funzione stessa. Questo punto di vista problematizza anche, per forza di cose, il discorso sulla ricezione. Non poche sono state infatti quelle opere che, nonostante abbiano in pieno corrisposto ai criteri sopra descritti, siano state avversate dal pubblico o, in altri casi, siano financo passate inosservate.

Il racconto di queste prime, corredato anche da un brano del testo, tradotto sempre da Tierno, inizia con la Medea di Euripide, andata in scena in una data imprecisata del 431 a. C., in occasione delle consuete festività greche intitolate a Dioniso, il Dio dell’ebbrezza e dell’uscita di sé. Due concetti divenuti poi intrinseci all’arte teatrale. La storia della donna che uccide i propri figli per punire il marito Giasone, fuggito con Glauce (sua promessa sposa) è anche, scrive Tierno, la rappresentazione di una figura che «esemplifica, attraverso il dolore e la violenza, una nuova immagine di donna, anticonformista, indomita e consapevole». Dall’antica Grecia si passa poi attraverso la Roma imperiale, l’Inghilterra elisabettiana, la corte del Re Sole, snocciolando le storie di prime come Macbeth, Tartufo, e poi La locandiera di Goldoni, Il Gabbiano di Cechov e così via.

Fondamentale per il teatro così come lo conosciamo oggi, è la prima di Hernani di Victor Hugo, avvenuta il 25 febbraio 1830, al Théâtre François di Parigi. Il dramma dell’autore dei Miserabili, ambientato nella Spagna del sedicesimo secolo, il siglo de oro dei giganti Calderon de la Barca e Lope de Vega, mette in scena la storia della passione travolgente di Donna Sol, una ragazza ambita da molti potenti ma innamorata di un nobile esiliato, Ernani. Quella sera di febbraio, a Parigi, non va però in scena solo un testo, pur importante, ma una vera e propria «battaglia», termine che oggi fa sorridere, ma che all’epoca (siamo in pieno Romanticismo) pare consono per descrivere lo scontro fra chi difende la tradizione impersonata dalla rigida osservanza dei dettami aristotelici e da chi, come Hugo, vuole far prevalere l’emozione al rispetto delle regole classiciste. Fra il pubblico, a parteggiare per Hugo, ci sono anche giovani studenti come Théophile Gautier, Gérard de Nerval, Hector Berlioz.

E se Hernani è stato la chiave di volta del teatro moderno, Sei personaggi in cerca d’autore di Pirandello lo è stato per tutto il teatro novecentesco, alla costante ricerca del modo per poter tornare ad essere al centro della società. La prima di questo testo avviene il 9 maggio 1921 al teatro Valle di Roma. Recentemente, la genesi di questo testo drammaturgico cruciale per tutto il secolo scorso è stata ricostruita nel film di Roberto Andò, La stranezza, dove si mostra il turbine di polemiche, le zuffe verificatesi quella notte al Valle, a parte quel grido di «Manicomio!» urlato da qualcuno in platea e diventato poi oggetto di varie ricostruzioni. Tierno non ricostruisce però lo sconcerto che quella sera lo spettacolo provoca fra i critici – alcuni anche molto importanti – e tratta solo molto velocemente delle circostanze per cui, poi, il testo fu riconosciuto come un punto di riferimento imprescindibile per chiunque volesse scardinare i meccanismi della tradizione.

Il percorso termina nel 2012, con Sul concetto di volto nel figlio di Dio della Societas Raffaello Sanzio, con le roventi polemiche che coinvolgono anche la curia milanese. L’ultima, ma solo perché la più vicina, fra le tante prime raccontate.

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27 Febbraio 2023

Nel 1960, L’«Orestiade», tradotta da Pasolini, per Vittorio Gassman, fu una prima tempestosa

Andrea Bisicchia, «Libertà Sicilia»

Cercare una catalogazione nella quale includere il libro di Pino Tierno pubblicato da Cue Press potrebbe sembrare difficile, non potendolo inserire in un «genere», poiché non appartiene né alla saggistica né alla storiografia teatrale da intendere in senso tradizionale. Anche se, al suo interno, si può trovare l’una e l’altra, lo si potrebbe inserire in una collana di «Guide», come ha fatto l’editore, ma si tratta di una «Guida» molto oculata e ricca di indagini, di tipo erudito.

L’autore ha scelto venticinque esemplari che sono diventati veri e propri classici del teatro mondiale per raccontare al lettore cosa sia avvenuto dopo il loro debutto, benché non di tutti si posseggano dei documenti che possano attestare l’esito del pubblico e dei critici del tempo; mentre risultano numerosi, per quanto riguarda gli spettacoli, a cominciare dal Settecento o dall’Ottocento.

I testi scelti sono organizzati dall’autore in maniera tale che il lettore possa, per prima cosa, conoscere la sinossi, a cui fa seguire un’indagine di tipo saggistico che si conclude col riferimento alle «tempeste» avvenute la sera della «Prima», tempeste che divennero, nel caso di Ernani (1830), una vera e propria «battaglia» tra chi sosteneva il classicismo e chi parteggiava per il romanticismo, di cui la tragedia di Hugo era un fulgido rappresentante. Il piano di lavoro ha previsto anche la presenza di pagine antologiche a corredo dei venticinque testi analizzati.

Pino Tierno parte dalla Medea di Euripide, che, certamente, non fu accettata dal pubblico ateniese per diversi motivi, tra i quali quello di accettare una straniera o, addirittura, una maga che aveva poco a che fare con la cultura occidentale; in particolare con quella di Corinto, la città che l’aveva ospitata ma che l’aveva separata dal marito, avendola costui ripudiata per sposare la figlia di Creonte, con le conseguenze note a tutti.

Segue la Lisistrata di Aristofane, anch’essa contestata per la scelta controcorrente fatta da una donna che decide e che fa decidere tutte le donne della comunità di non concedere il proprio corpo ai mariti finché non metteranno fine alla guerra tra Sparta e Atene.

Seguiranno altre prime contestate, come I Menecmi di Plauto, La Locandiera, Il Misantropo, ecc.

Se arriviamo ai secoli più vicini a noi, come non ricordare l’altra «battaglia», quella combattuta al Teatro Valle di Roma in occasione della «Prima» dei Sei personaggi, su cui si abbatté una vera tempesta di fischi, di urla come «manicomio, manicomio!», con l’autore costretto a fuggire, insieme alla figlia, che ne rimase turbata per lungo tempo. Qualcosa di simile era accaduto con Risveglio di Primavera di Wedekind, che osò portare in scena le pulsioni sessuali di una giovane generazione, con tragiche conseguenze.

Tra le «Prime Tempestose», come non ricordare i due testi che hanno rivoluzionato il teatro del secondo Novecento: La cantatrice calva di Ionesco (1950) e Aspettando Godot di Beckett (1953), entrambi apostrofati con accuse un po’ simili: assenza di una trama, mancanza di nessi logici, accumulo di frasi strampalate. I due teatri dove avvennero i debutti, il Théâtre de la Huchette e il Théâtre de Babylone, pur se dovettero sopportare fischi, abbandoni da parte degli spettatori e lettere di protesta, attuarono una vera e propria resistenza nei confronti dei due autori, ai quali il successo fu riconosciuto qualche anno dopo.

Altre «Tempeste» si abbatterono sul Living, quando portò a Milano Paradise Now, lo spettacolo più contestato e più censurato della Compagnia americana, al quale parecchi di noi hanno partecipato, rimanendo ultimi testimoni di quella «Prima» carica di fischi, urla, invasione dello spazio scenico, con alcuni critici a loro volta contestati da giovani spettatori e accusati di passatismo.

Il «teatro che divide» continua con Jesus Christ Superstar, di cui si possono leggere tutte le accuse e le proteste raccolte da Pino Tierno, che continua lo stesso lavoro di ricerca con Morte accidentale di un anarchico di Dario Fo, lo spettacolo che ha subito quaranta processi per diffamazione, più volte censurato per motivi di ordine pubblico, ma che sarà tradotto in cinquanta lingue.

E, per finire, come non ricordare Sul concetto di volto nel Figlio di Dio, della Societas Raffaello Sanzio, spettacolo contestatissimo in tutto il mondo e, in particolare, a Milano, al Franco Parenti, quando tutte le sere un gruppo di suore, affiancato da altri religiosi, in un angolo della strada, recitavano insieme preghiere per assolvere il pubblico dal peccato di aver partecipato a qualcosa di sacrilego.

17 Gennaio 2019

Necessità e utopie degli Stracci della memoria

Viviana Raciti, «Teatro e Critica»

«Ricucire i resti delle nostre differenti memorie (individuali, storiche, antropologiche) e ripararne i traumi nell’unità di uno spettacolo-rito». Una proposta deflagrante, utopica, forse la diremmo provocatoriamente fuori moda, oggi, e perciò più che mai necessaria. È questo il senso di Stracci della Memoria, progetto internazionale pluridecennale di ricerca e formazione nelle arti performative a cura […]
13 Gennaio 2019

Stracci della memoria

Valentina De Simone, «la Repubblica»

C’è un respiro profondo nelle pagine di Stracci della memoria, il volume edito da Cue Press nel quale Anna Dora Dorno e Nicola Pianzola, fondatori di Instabili Vaganti, attraversano la genesi e lo sviluppo, composito, frammentario, fervido, dell’omonimo progetto internazionale di ricerca e di formazione nelle arti performative da loro ideato, e che dal 2006 […]
10 Gennaio 2019

Martinelli, drammaturgo tra testo e scena nel libr...

Franco Acquaviva, «Pac – Magazine di Arte e Cultura»

In che modo l’atto dello scrivere si innesta nella disciplina di un gruppo teatrale? Sappiamo quanto l’autore sia sempre una sorta di terzo incomodo alle prove. Un caso esemplare è quello raccontato in Romanzo teatrale di Bulgakov, che ci consente di entrare in pieno nell’universo frustrante (per l’autore), ma non meno sconcertante per gli attori […]
8 Gennaio 2019

Teatro d’origine di Angela Demattè

Marcello Isidori, «Dramma»

I testi di Angela Demattè raccolti in questa elegante pubblicazione a cura di Cue Press sono effettivamente, come da titolo, legati tra loro dalla tematica dell’origine. In genere si potrebbe parlare di ispirazioni autobiografiche dell’autrice, ma il termine origine non è soltanto questo, è molto di più. Origine è la terra da cui veniamo, la […]
24 Dicembre 2018

Uno spettacolo senza spettacolo. Cioè performance...

Andrea Bisicchia, «lo Spettacoliere»

Consiglio a tutti gli amanti del teatro, della danza, della musica, di leggere il volume di Richard Schechner: Introduzione ai Performance Studies, edito da Cue Press, trattandosi di un viaggio, ricco di mappe, annotazioni, interventi di studiosi, bibliografia comparata, che permette di addentrarci in un argomento di cui, in maniera impropria, si è fatto un […]
10 Dicembre 2018

Anna Barsotti, Eduardo De Filippo o della comunica...

Simona Scattina, «Arabeschi»

Anna Barsotti con Eduardo De Filippo o della comunicazione difficile (Cue Press, 2018) torna ad occuparsi di uno degli autori-attori più emblematici della drammaturgia italiana del Novecento. Non nuova al teatro di Eduardo (ricordiamo Introduzione a Eduardo, per Laterza, 1992; Eduardo drammaturgo, per i tipi Bulzoni, 1995; la cura per Einaudi dell’edizione della Cantata dei […]
6 Dicembre 2018

Eleonora Duse torna sulla scena

Roberto De Monticelli, «Corriere della Sera»

Improvvisamente ritorna all’attenzione del pubblico, sui giornali e alla televisione, l’immagine di Eleonora Duse. Perché? Non ricorre in questi giorni alcun anniversario, nessuna particolare occasione celebrativa è prevista. Che succede? Da quale soprassalto della memoria collettiva scaturisce una volta di più questo fantasma inquietante? Per iniziativa dell’Ente Festival di Asolo una mostra sulla ‘divina’ si […]
27 Novembre 2018

Stracci della memoria

Vincenzo Carboni, «Persinsala»

Il libro, di fatto, è la raccolta dei diari di lavoro, di dodici anni di ricerca, intorno al tema della memoria. Questa è intesa dagli autori come una borsa, ma una borsa bucata, simile a quel vaso forato a cui Lucrezio nel De Rerum natura paragona l’essere umano. I ricordi sono la prima cosa che […]
4 Novembre 2018

E con la Rivoluzione d’Ottobre, Mejerchol’d ri...

Andrea Bisicchia, «lo Spettacoliere»

Il 25 Ottobre 1918 la rivoluzione russa non fu solo un evento politico o ideologico, bensì anche culturale. I teatri imperiali cedettero il posto a quelli statali, le scene decorative a quelle fatte di nulla, la recitazione declamatoria a quella naturalista, il testo all’autonomia della messinscena. Ciò che accadde, in quella data famosa, diventerà il […]
31 Ottobre 2018

Anna Barsotti, Eduardo De Filippo o della comunica...

Giovanni Antonucci, «Teatro contemporaneo e cinema»

Anna Barsotti, ordinario di Discipline dello Spettacolo all’Università di Pisa, ha dedicato a Eduardo De Filippo una parte importante della sua attività, sia come autrice di alcune importanti monografie che come curatrice di una fortunata edizione della Cantata dei giorni dispari e della Cantata dei giorni pari. Ora ripubblica uno dei suoi saggi più significativi, […]
21 Ottobre 2018

L’ossessione di Eduardo nel creare i suoi person...

Andrea Bisicchia, «lo Spettacoliere»

Anna Barsotti, da vent’anni, lavora al teatro di Eduardo. Ha curato, per Einaudi, la nuova edizione della Cantata dei giorni dispari (1995) e della Cantata dei giorni pari (1998), precedute da una monografia: Eduardo drammaturgo (1988). Il testo Eduardo De Filippo o della comunicazione difficile era stato pubblicato da Laterza nel 1992, col titolo: Introduzione […]
12 Ottobre 2018

Il mondo nel corpo dell’attore

Ilaria Angelone, «Hystrio», XXXI-3

Anna Dora Dorno e Nicola Pianzola, registi e performer, rivelano la dote preziosa di saper raccontare le pratiche del proprio lavoro e il loro senso. Stracci della memoria è un progetto internazionale di ricerca e formazione nelle arti performative nato insieme alla compagnia Instabili Vaganti nel 2006, «trasfigurando in modo creativo la precarietà» di un […]
1 Ottobre 2018

Strindberg femminista? Beh, non la pensava certo c...

Andrea Bisicchia, «lo Spettacoliere»

Nel 1986, Franco Perrelli, uno dei più accreditati studiosi di Strindberg, oltre che traduttore, pubblicò, per l’editore Olschki di Firenze: Sul dramma moderno e il teatro moderno, dove figuravano alcuni saggi dell’autore svedese: Omicidio psichico, Prefazione alla Signorina Giulia, Sul dramma moderno e il teatro moderno che dava il titolo al volume citato, il Memorandum […]
25 Settembre 2018

Dal tragico al dramma borghese. E infine il postdr...

Andrea Bisicchia, «lo Spettacoliere»

Il teatro postdrammatico di Hans-Thies Lehmann, fu pubblicato nel 1999; in Italia arriva oggi con un ritardo impensabile, grazie a Mattia Visani, editore di Cue Press e alla traduzione di Sonia Antinori. Il ritardo non ha intaccato per nulla il lavoro di Lehmann che è la diretta prosecuzione di quello di Peter Szondi, autore di […]
20 Giugno 2018

Vita di Hans-Thies Lehmann che inventò il teatro...

Andrea Bisicchia, «Libero»

Mentre si celebra il cinquantesimo anniversario del Sessantotto con pubblicazioni teoriche, mostre, dibattiti, il teatro lo ricorda come uno dei momenti più rivoluzionari del secondo Novecento, quando a un’idea ormai formalizzante dei teatri stabili, si contrappose quella di un teatro alternativo che riguardava, non più il testo, bensì la lingua scenica. La crisi fu tale […]
1 Aprile 2018

John Ford e la tragedia crudele

Laura Bevione, «Hystrio», XXXI-2

Nel 2003 Luca Ronconi ne offrì una doppia messa in scena: l’una con un cast misto, l’altra – filologicamente fedele e scenicamente assai efficace – con interpreti soltanto maschili. Peccato che fosse puttana è un dramma complesso e feroce, moralmente spregiudicato eppure percorso da un’indiscutibile ansia di rinnovamento radicale della società. Che è quella inglese […]
1 Gennaio 2018

Dal mito all’istinto, un discorso sul metodo

Roberto Rizzente, «Hystrio», XXXI-1

Non ha bisogno di presentazioni, Theodoros Terzopoulos. Ospite, da qualche anno, al Vie Festival modenese, si distingue per l’originalità delle messinscene e la ferocia animalesca degli attori, entro i limiti di una geometria precisa, quasi wilsoniana, conciliando i poli della ragione e dell’istinto. Di quell’universo misterico, Il ritorno di Dionysos svela i retroscena. Perché non […]
1 Gennaio 2018

L’esplosione di graffi teatrali di fine Novecent...

Doriana Legge, «L’Indice», XXXV-1

ll libro di Hans-Thies Lehmann, a leggerlo come non avesse già la maggiore età, ci parla di una serie di urgenze che il teatro, nel finire del XX secolo, ha esibito sullo sfondo di un paesaggio in rovina. È per lo più un testo che si interroga sull’approccio semiotico dello spettacolo e si concentra sulla […]
10 Dicembre 2017

Le 2 (3, 4…) Americhe di De Capitani

Laura Zangarini, «Corriere della Sera»

«Fino agli anni Settanta le contraddizioni della società americana non erano le nostre, dagli anni Ottanta e con la globalizzazione non possiamo che rispecchiarci in essa per decifrare questo nostro complesso presente». A parlare è Elio De Capitani, attore e regista che con Ferdinando Bruni guida la tribù dell’Elfo di Milano, sul cui palco porta […]
1 Dicembre 2017

Il teatro postdrammatico

Alfio Petrini, «LiminaTeatri»

La prima edizione del libro risale al 1999. La progettazione a dieci anni prima. Con la traduzione di Sonia Antinori e la postfazione di Gerardo Guccini, la casa editrice Cue Press ha compiuto un’opera meritoria, pubblicando il saggio di Hans-Thies Lehmann Il teatro postdrammatico (Bologna, 2017). In una breve antologia di osservazioni e dialoghi figurano […]
23 Ottobre 2017

Il teatro postdrammatico di Lehmann. Un paesaggio...

Doriana Legge, «Teatro e Critica»

Vent’anni fa parlare di postdrammatico suggeriva il riferimento a una categoria fluida in cui riconoscere alcune pratiche già attive nella cultura teatrale, dare voce a qualcosa di cui già si percepiva la forma, in maniera forse ancora poco cosciente per chi quella scena la viveva. L’edizione italiana del libro di Hans-Thies Lehmann (con la traduzione […]