Logbook

Approfondimenti, interviste, recensioni e cultura: il meglio dell’editoria e delle arti da leggere, guardare e ascoltare.

Koreeda2
11 Gennaio 2023

Claudia Bertolé, Il cinema di Kore’eda Hirokazu. Memoria, assenza, famiglie

Giacomo Calorio, «Sonatine»

Della folta schiera di registi giapponesi emersi negli ultimi decenni – schiera delle cui dimensioni ci si può fare un’idea su queste pagine – al momento Kore’eda Hirokazu è l’unico a essersi guadagnato un posto stabile nella nicchia della distribuzione italiana. Il merito di questo piccolo miracolo non va solo ai caratteri universalmente declinabili del suo cinema, tali da incontrare gli interessi di platee lontane e più vaste di quelle di solito attratte dalle cinematografie cult e dal Giappone «di per sé», né soltanto alla presenza costante dei suoi film nei programmi dei principali festival europei, che più di una volta li hanno insigniti di premi prestigiosi. Il merito va anche, se non soprattutto, all’intraprendenza di giovani case di distribuzione locali come Tucker Film e Double Line che, proseguendo la strada tracciata da BIM con Father and Son, primo film di Kore’eda a essere distribuito nel nostro paese, hanno evitato che si trattasse di un caso isolato, portando tutta l’opera successiva del cineasta giapponese nelle nostre sale e nei nostri salotti, e rendendo così i suoi film, poco alla volta, familiari anche ai non addetti ai lavori. Quanto basta per rendere non solo più che giustificata, ma anche assai utile e gradita, se non doverosa, la presenza di una monografia italiana dedicata al regista.

Il cinema di Koreeda Hirokazu – Memoria, assenza, famiglie di Claudia Bertolé è la riedizione, rivista e aggiornata, di una precedente monografia che l’autrice aveva già dedicato al regista giapponese: Splendidi riflessi di ciò che manca, edito nel 2013 dal «Foglio». Va tuttavia considerato che, nei dieci anni intercorsi da tale edizione, la filmografia di Kore’eda si è arricchita di sei nuovi film, tutti usciti in Italia, laddove all’epoca della precedente versione del libro solo il già citato Father and Son aveva goduto di una distribuzione nostrana. Non solo: in questo arco di tempo, l’eclettismo (di superficie, per lo meno) dell’opera di Koreeda si è arricchito, da un lato, di un ulteriore genere prima d’allora rimasto inesplorato dal regista, ovvero il dramma giudiziario del Terzo omicidio (‘ché, va ricordato, la filmografia del regista non si compone solo di drammi familiari, ma comprende anche documentari, un film in costume, un film fantastico e un dramma «metafisico»); dall’altro, di due titoli realizzati all’estero: Le verità, girato in Francia, e Le buone stelle – Broker, girato in Corea del Sud; infine, di una Palma d’Oro al festival di Cannes (andata a Affari di famiglia) che ne ha confermato, rinnovandolo, lo status di grande autore internazionale. Si tratta di sviluppi importanti che esigevano senz’altro un’edizione aggiornata che ne rendesse conto e li collocasse al contempo nel contesto di una produzione, avviatasi molti anni addietro, coerente tanto sul piano tematico quanto su quello stilistico.

La struttura del libro è in buona parte simile a quella della monografia edita dal «Foglio»: a una parte in cui Bertolé sviscera quelli che lei individua come i tratti fondamentali del cinema del regista dedicando a ognuno di essi un capitolo, ne segue un’altra in cui l’autrice si concentra invece sui singoli film. Completano il libro una prefazione a firma di Dario Tomasi, assente nella prima edizione, un’introduzione dal taglio più personale in cui la stessa Bertolé rende conto del suo amore ormai più che ventennale per il cinema del regista, e infine gli utili apparati finali quali una sintetica biografia, la filmografia completa del regista e la bibliografia. A corredo del tutto, una piccola galleria iconografica posta alla fine di ciascun capitolo. Per quanto concerne gli approfondimenti della prima parte, tutti aggiornati in questa nuova edizione, così da includere anche i nuovi lavori del regista, sono rispettivamente dedicati ai seguenti argomenti: lo sguardo documentario del regista (sguardo, va ribadito, presente anche nelle opere di fiction), il tema della memoria, strettamente legato a quello dell’assenza (il cui contraltare è la presenza dell’ambiente circostante, umano o naturale che sia), quello della famiglia (o meglio «delle famiglie»), le figure femminili del cinema di Kore’eda e infine il rapporto stilistico, oltre che tematico, con il cinema di Ozu, l’autore del cinema classico che, insieme a Naruse, più spesso viene chiamato in causa quando si parla del cineasta oggetto del libro. Ciascuno di questi temi viene poi declinato sui singoli film nella seconda parte del libro in cui Bertolé analizza punto per punto l’intera produzione del regista, compresi i documentari televisivi e la serie Going My Home.

Una monografia agile ma completa, quindi, la cui utilità si snoda su due fronti: da una parte, essa servirà al lettore che voglia approfondire e meglio comprendere l’ormai nutrito numero di opere viste e reperibili in Italia attraverso l’attenta analisi critica dell’autrice e la contestualizzazione dei film dell’autore nell’ambito più esteso del cinema e della cultura giapponesi; dall’altro, gli consentirà di ampliare e completare la sua conoscenza della filmografia complessiva del regista, qualora essa sia limitata alle sole opere uscite in Italia, colmando i buchi costituiti dai primi importantissimi lavori mai distribuiti nel nostro paese. Il testo di Bertolé, infine, può essere utilizzato anche in maniera simbiotica e complementare rispetto all’altra preziosa uscita recente che Cue Press ha dedicato al regista, ovvero Pensieri dal set, il saggio al contempo teorico e autobiografico firmato dallo stesso Kore’eda (nella traduzione italiana di Francesco Vitucci) in cui il cineasta guarda al proprio cinema. Se Pensieri dal set ci offre la preziosa opportunità di godere di un punto di vista interno e personale sulla produzione di Koreeda, ugualmente prezioso è il punto di vista esterno e analitico di una studiosa che da anni si dedica ai lavori del regista.

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Amarcord
6 Gennaio 2023

Il meglio e il peggio del cinema anni Settanta racconta l’Italia

Giovanni Scipioni, «Il Domani»

Quando Fellini raccontava con successo la sua infanzia in Amarcord, al cinema si faceva la fila per vedere i giochi erotici di Emmanuelle. Nello stesso periodo Gian Maria Volonté svelava agli spettatori come intraprendere L’indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto mentre l’avventuriero Franco Nero, Cipolla Colt, incastrava i cattivi colpevoli senza versare una lacrima. L’alto e il basso. Il meglio e il peggio del cinema italiano degli anni Settanta.

Tanta diversità ma un comune pensiero audace: trasgressione, libertà, fancazzismo e lotte politiche. Oggi c’è il timore ma anche la speranza di rivivere quegli anni, di passeggiare nello stesso giardino occulto. Dalla politica alla cultura, all’economia, all’educazione. Da quando si usavano i gettoni per telefonare a quando è sufficiente roteare un dito per avere un teatro di comunicazioni.

Paragoni come sempre inadeguati anche perché appare contraddittoria e complessa ancora oggi un’analisi compiuta degli anni Settanta. Favolosi per alcuni, cupi per altri, formativi per alcuni, deleteri per altri. Un perfetto binario emozionale, quasi una sorta di schizofrenia sociale e individuale che il cinema ha saputo raccontare.

Epoca confusa

L’anno inizia con un ritiro, quello dei Beatles. Let it be. E così sarà per tutto il decennio. Terrorismo, bombe e stragi fasciste, brigate rosse, rapimento Moro, scandali politici, radio e TV libere che in poco tempo vengono bullizzate. Sono gli anni in cui Fabrizio De André sostiene di essere di «un’altra razza, son bombarolo». Lucio Battisti ha «un sottile dispiacere nel seguir con gli occhi un airone», mentre Franco Battiato spera che ritorni presto l’era del cinghiale bianco.

In questo quadro confuso e contraddittorio dove, dipinto dalla canzone popolare, cuore e mente fanno allegramente baruffa, il cinema italiano, già arricchito dai successi degli anni Sessanta, continua ad avere un grande seguito di pubblico. Continua a essere il maggiore divertimento degli italiani e la sala buia resta uno dei luoghi più felici per conoscere storie e persone.

Si andava a vedere Amici miei e C’eravamo tanto amati, ma anche La liceale e La moglie vergine staccavano tanti biglietti, per la gioia di produttori, in alcuni casi improvvisati. Tutti successi. Un pubblico in gran parte binario, chi sceglieva Amarcord non cedeva alle lusinghe di Emmanuelle, anche se non mancavano le dovute eccezioni.

Facile dire che il paese (almeno al cinema) era diviso in due. Per dirla con le parole di Renato Palazzi, gli italiani e quei film (Il peggio degli anni Settanta in 120 film, edizioni Cue Press) erano esotici, erotici e psicotici. Palazzi demolisce con efficacia e competenza il cinema trash, quello del buco della serratura, che risulta «un po’ peccaminoso e un po’ parrocchiale».

I film melensi

Accanto all’erotismo da meriggio bianco, prende il sopravvento il filone dei buoni sentimenti. In realtà si tratta di fuorvianti romanticherie, veri e propri sdilinquimenti da pianura paludosa. I veri sentimenti non sono di casa. Come nel caso del melenso Il venditore di palloncini che ha aperto non una porta ma un portone gigantesco per tutte le telenovelas che seguiranno. La scena del padre che piange sul letto del figlio malato è così falsa e male interpretata che sembra una parodia. La sceneggiatura poi un prodigio della natura. «Figlio mio… figlio mio» (e giù lacrime finte) dice il padre abbracciandolo. Il medico interviene, manda via i suoi assistenti e si rivolge al bambino: «Ricordi che cosa mi hai promesso?» Risposta immediata: «Sì, che faccio il bravo». Interviene la suora: «E che ubbidisci a suor Maria». Immediato il colpo di scena. Il bambino si rivolge al padre e indica la suora: «È lei suor Maria».

Uno scorcio di sceneggiatura che sembra uscito involontariamente dalla comicità della TV delle ragazze o in quella lunatica di Valerio Lundini.

Eppure in questo film c’erano attori bravi e importanti come Adolfo Celi, Silvano Tranquilli, Lina Volonghi, Marina Malfatti. Fuori dal cinema si sparava e si contestava, dentro ci si commuoveva con un bambino che muore e va in paradiso salendo come un palloncino. Il basso.

Realismo felliniano

Il realismo magico di Fellini è un perfetto contrappeso, l’altro binario sociale. C’è l’atto nobile di raccontare una storia, tante storie. In Amarcord s’immagina la vita che si svolge nell’anti borgo di Rimini negli anni Trenta. C’è l’anarchico padre operaio sempre in lite affettuosa con la moglie Pupella Maggio, lo zio Lazzo, fascista all’acqua di rose che vive alle spalle dei parenti, e lo zio Ciccio Ingrassia, ricoverato in manicomio, che si arrampica su un albero e comincia a gridare di volere una donna. Ne ha diritto, del resto.

Nella scena del pranzo di famiglia, indicativa della società degli anni Trenta ma anche del decennio Settanta, suonano alla porta mentre tutti sono intorno a un tavolo per mangiare. Il padre: «Chi è a quest’ora?». La moglie stizzosa: «Che ne so io». Tina, che aiuta in casa, va ad aprire, poi rientra e senza farsi sentire dai commensali avverte il padre di una visita. Il padre si alza e va fuori stanza.

Nel frattempo tutti mangiano, ridono e si divertono – oggi diremmo cazzeggiano – visto che il padre, curatore dell’ordine parentale, si è momentaneamente assentato. Poco dopo rientra fischiettando. Si mette a sedere e beve, con apparente tranquillità, un bicchiere di vino. «Buono questo sangiovese», dice. Poi con falsa calma si rivolge al figlio. Si apre un teatrino padre-figlio che fa dire, ricordando Emily Dickinson, come molta follia sia divina saggezza.

«Di’ un po’, dove sei stato ieri sera?».
«Io? Al cinema babbo, al Fulgor».
«Cosa facevano?».
«C’erano gli indiani e gli americani volevano entrare nel territorio dei comanche ma gli indiani tiravano le frecce…».

Improvvisamente il padre si alza per picchiare il figlio, che fugge fuori casa. L’aveva combinata grossa. Poi si rivolge alla moglie: «Mi devi dire di chi è figlio questo pezzo di merda. Domani viene a lavorare con me». Il film si svolge negli anni Trenta ma racconta una società patriarcale, la stessa degli anni Settanta, messa a dura prova da durissime contestazioni. L’alto.

Raccontare il paese

Il successo e il seguito dei film brutti si spiega anche con il tentativo di raccontare la vita reale degli abitanti degli anni Settanta. Toccano corde e sentimenti comuni. Dopo l’avvento dei Beatles c’era stato in tutto il mondo, e anche in Italia, l’esplosione della musica. Con il desiderio di farla, di partecipare attivamente. Nascono numerosi complessi (allora si chiamavano così) e quasi tutti i giovani protestano, partecipano ai collettivi, entrano nella lotta armata e suonano chitarre e batterie. Si vuole diventare cantanti.

Il film Lady Barbara, che vede come protagonista un cantante famoso di quegli anni, Renato dei Profeti, racconta di un attore di fotoromanzi che vuole diventare un cantante di successo e ci riuscirà con l’aiuto di una ragazza inglese, Barbara appunto. Anche nel cinema basso s’indica la strada da seguire o semplicemente si riflette una situazione già esistente. Ecco il punto d’incontro tra cinema basso e quello alto. Raccontano il paese. Ognuno a modo suo.

Un po’ come la supercazzola di Tognazzi in Amici Miei: «Blinda la supercazzola prematura con doppio scappellamento a destra». Una divertente invenzione linguistica per prendere in giro quelli che parlavano male, dai ragionamenti volutamente contorti e ingarbugliati. Un esercito in quegli anni. C’è anche il tentativo di migliorarsi, come fa Gigi Proietti durante una pubblicità televisiva in Febbre da cavallo: «Non prendete fischi per fiaschi solo questo è un fischio maschio senza raschio… un vischio maschio senza rischio… fischio raschio senza maschio [ecc.]».

Parole tortuose per raccontare un decennio cupo, favoloso, contraddittorio e confuso. L’inaudito. C’è somiglianza.

Guardenti renzo foto autore
26 Dicembre 2022

Dalle pitture vascolari alla fotografia digitale, l’importanza dell’iconografia

Andrea Bisicchia, «Libertà Sicilia»

L’iconografia è stata, sempre, una fonte per riguardare le arti del passato e lo è stata, in particolare, per il teatro, dato che ad essa sono spesso ricorsi gli storici per ricostruire, insieme ai testi, le particolarità sceniche che hanno caratterizzato le messinscene del tempo. Pertanto, la documentazione figurativa, costituita da pitture vascolari, illustrazioni e immagini pittoriche, è stata determinante per meglio conoscere le tragedie antiche, la Commedia dell’Arte, le interpretazioni degli attori, con i loro costumi d’epoca, finalizzate a meglio conoscere il rapporto esistente tra dimensione visiva, dimensione spaziale e dimensione teatrale.

In un volume pubblicato da Cue Press, In forma di quadro. Note di iconografia teatrale, di Renzo Guardenti, non solo avvertiamo la passione dell’autore per l’argomento trattato, ma anche il suo modo di intendere la ricerca scientifica su alcuni periodi storici del nostro teatro, a cominciare dai primi Italiens che operavano a Parigi, ovvero dai nostri Comici dell’Arte, per arrivare al Settecento e all’Ottocento, con riferimenti a Talma, Marrocchesi e Sarah Bernhardt, attori dei quali Guardenti ha percorso la storia utilizzando non solo gli studi a essi dedicati, ma anche i materiali fotografici rinvenuti, per meglio inquadrare alcuni modelli dell’attorialità italiana ed europea.

Il volume contiene anche un saggio sulla iconografia viscontiana, applicato ai suoi spettacoli, a cominciare da A porte chiuse di Sartre del 1945, con Rina Morelli, Paolo Stoppa, Vivi Gioi, un saggio che va considerato anche come una riflessione sul modo di mettere in scena da parte di Visconti. Lo studio di Guardenti, che insegna Storia del teatro presso l’Università di Firenze, aiuta a capire meglio in che modo avvenga il processo compositivo, cosa determina l’arte della visione e in che cosa consista la traslazione tra visione esteriore e visione interiore. Gli apparati metodologici utilizzati dall’autore fanno riferimento agli studi ormai classici di Kernodle, Panofsky, Warburg, Zorzi, Ragghianti, tutti attenti a ricercare i significati intrinseci e simbolici di un’opera d’arte, oltre che quelli della sua doppia natura. Ma ciò che interessa maggiormente all’autore è capire il rapporto esistente tra immagine e pratica scenica, tra linguaggio figurativo e linguaggio rappresentativo, tra teatralità della pittura e la sua correlazione con la resa scenica.

Secondo Guardenti, la memoria di uno spettacolo tende a depositarsi e a sedimentarsi nelle arti figurative – con particolare riferimento a spettacoli dei secoli scorsi – fino a creare un vero e proprio processo di «traduzione» e di «trasmutazione» che offre delle tracce o delle indicazioni per meglio comprendere e, magari, approfondire un evento spettacolare, del quale ci sono rimaste delle immagini visive che a loro volta si possono scomporre, ingigantire, grazie ai recenti mezzi tecnologici. Ciò permette, attraverso i dettagli, di capire il significato di un’azione o di un’interpretazione.

In simili casi, lo storico procede nella sua indagine, utilizzando il metodo dell’assemblaggio o dell’analisi del frammento, per ricostruirne una forma di archetipo e restituire al mosaico ricomposto una specie di unità. Del resto, il frammento è stato oggetto di teorie estetiche che lo hanno reso un «segno» autonomo, il cui risultato è percepibile nella «contemplazione dell’istante». Il frammento possiede una sua fissità, ma, come sosteneva Benjamin, è nell’immobilità che s’insinua la dialettica. Tutto questo è ancora percepibile nella fissità delle immagini che riguardano, per esempio, attori e spettacoli della Commedia dell’Arte, ripetutamente studiata da Guardenti, oppure attori e attrici tra Settecento e Ottocento, che, grazie al materiale iconografico, mostrano delle posture utili per conoscere le loro pratiche interpretative.

Questo lavoro rende più moderna la coscienza storiografica, applicata alla voga figurativa e ai riscontri in contesti diversi, come quelli che si trovano nei castelli, nei palazzi signorili e, in forma ridotta, persino nelle porcellane.

Come non fare riferimento a Tiepolo, alla qualità teatrale della sua pittura e ai suoi ben noti Pulcinella?

Il volume è diviso in due parti, una teorica (pp. 145) e una figurativa (pp. 120), a dimostrazione di come certe tesi sostenute dall’autore siano fondamentali per capire il rapporto esistente tra teatro e iconografia.

Puppapolo
20 Dicembre 2022

Finzione & morale

Andrea Ottieri, «succedeoggi»

Storico del teatro tra i più prestigiosi in Italia, Paolo Puppa da tempo è anche – come dire? – un performer che mette in scena la sua perizia critica. Si può sostenere a buona ragione, anzi, che abbia inventato un nuovo genere di derivazione saggistica, ma di fatto pienamente teatrale, poiché Puppa i suoi «testi» (fiction scenica con un solido aggancio alla critica delle idee) li mette in scena in prima persona, esponendosi come attore. O performer, appunto, come è meglio affermare.

La casa editrice Cue Press ora raccoglie una serie di questi testi, che sono «monologhi, dialoghi interrotti, frammenti ‘apocalittici’», sotto il titolo La fine del mondo: una vita in serie (86 pagine, € 19.99). E si tratta di testi sostanzialmente di due tipi.

Da un lato, ci sono fantasie rabbiose nelle quali l’Io narrante sottolinea i caratteri di una società che ha smarrito senso (compreso quello della misura). Come in Tatuaggi, per esempio, dove la voce immagina di attrarre giovani provinanti non per abusare di loro ma per distruggere i loro telefonini, cancellandone – per qualche tempo almeno – la loro dipendenza dal dio selfie. E, del resto, è pur vero che proprio questa pervasività dello schermo, della dimensione virtuale, è ciò che ci ha condotto «alla fine del mondo», impedendoci di riconoscere l’unicità delle nostre esperienze: tutto affoga in una serialità coatta priva di qualsivoglia accensione.

Ed ecco, allora, che nel «diario» che, chiudendolo, dà titolo al volume, Paolo Puppa accatasta esperienze autentiche ancorché minimali (una passeggiata al mercato, la visione di uno spettacolo, una serata davanti alla TV, ecc.) per cercare lì dentro lo scampo al vuoto nel quale tutti quanti siamo precipitati. Confondendo il vero dal contraffatto, e per ciò stesso incapaci di cogliere il senso della metafora: tutto è squadernato su una galleria di schermi dove le immagini rimandano solo a se stesse. E invece l’Io narrante de La fine del mondo: una vita in serie vorrebbe distinguere, vorrebbe non perdersi, vorrebbe annotare quel che c’era e non c’è più. Perché solo nel dar vita alla finzione (vissuta come tale, il teatro, insomma) c’è spazio per la realtà, in questo nostro mondo.

Dall’altro lato, invece, ci sono testi peculiari di una mente critica: creatività di «secondo livello», applicata, come si dice in gergo. Nel senso che Puppa immagina sequel o spin off di grandi classici, da Sei personaggi in cerca d’autore di Luigi Pirandello rivisto con gli occhi del Ragazzo, a un delizioso apologo sul Mercante di Venezia di Shakespeare, nel quale Lorenzo, giovane sposo di Jessica, la figlia di Shylock, rivela i difetti della ragazza che, invece, da fidanzata «sembrava innamorata come una fanciulla, pura, una bambina, quasi. Una ragazzina inesperta di tutto». Si tratta di giochi interni ai classici, illazioni tramite le quali lo studioso duetta ora con Pirandello ora con Shakespeare, trasformando una sua intuizione critica in un gioco scenico. E portando il lettore – anche quello digiuno di Jessica o dei Sei personaggi – in una dimensione fantastica dove tutto pare noto, riconoscibile.

E, in verità, il senso di questa raccolta è proprio nella contrapposizione tra i due «generi» che la compongono: non avrebbe senso lo svago moralista (nel senso alfieriano del termine) che cerca la realtà oltre la serialità, se di fronte, contrapposto, non ci fosse il gioco di chi l’unica realtà possibile la trova nella finzione.

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Lottehe
17 Dicembre 2022

Lotte H. Eisner. Un classico della saggistica cinematografica

Giuseppe Costigliola, «Pulp Libri»

Per gli appassionati e i cultori di cinema e di teatro, l’agguerrita casa editrice Cue Press è una manna dal cielo. Il suo catalogo, tra i più interessanti nel panorama editoriale delle arti dello spettacolo per qualità ed estensione, continua ad arricchirsi di titoli. Di recente uscita è un classico della saggistica cinematografica, fondamentale per chi desideri avvicinarsi alla conoscenza di uno dei più grandi registi di sempre: Friedrich Wilhem Murnau. Si tratta del celebre lavoro di una nota studiosa del cinema novecentesco, Lotte H. Eisner. Costretta a lasciare la Germania nel 1933 in quanto ebrea, stabilitasi a Parigi dove morì nel 1983, Eisner fu caporedattrice di Cinémathèque Française, appassionata ed esperta collezionista della scenografia di Weimar, autrice di altri studi seminali come Lo schermo demoniaco (1952) e di una monografia sul suo grande amico Fritz Lang. Personaggio non poco influente, negli anni Sessanta divenne il simbolo della rinascita del cinema della Germania occidentale per registi come Werner Herzog, Wim Wenders, Margarethe von Trotta e Rainer Werner Fassbinder.

In questo volume dalla lunga gestazione (fu iniziato, apprendiamo dalla prefazione dell’autrice, nel 1957 e dato alle stampe nel 1964) la studiosa berlinese ricostruisce con acume filologico e lucida intelligenza la vita e le opere di Friedrich Wilhelm Plumpe, in arte Murnau. Con esso, l’autrice si propone di «tracciare lo sviluppo dello stile di Murnau», nonché di «dimostrare la spesso intransigente coerenza della sua volontà artistica», e lo fa attraverso la raccolta di testimonianze di artisti, collaboratori e colleghi del regista, soffermandosi sul minuzioso esame del lavoro creativo di capolavori dell’espressionismo tedesco, analizzando film e sceneggiature (alcune delle quali affidatele dal fratello di Murnau, Robert) e ricostruendo, mediante articoli, recensioni e programmi di sala, l’accoglienza delle sue opere, non sempre benevola.

Il libro si compone di quattordici capitoli; nel primo si lascia la parola a Robert Plumpe, che traccia un profilo biografico attraverso i ricordi familiari, in cui rivive vividamente un’epoca remota di grande suggestione. Seguono uno studio particolarmente interessante sul rapporto tra il cineasta e i suoi sceneggiatori (tra i quali il leggendario Carl Mayer), la testimonianza del suo scenografo e arredatore Robert Herlth, una sezione dedicata all’uso delle luci e alla tecnica di ripresa, capitoli che analizzano i singoli film, da quelli prodotti in Germania (tra cui Nosferatu), a quelli realizzati negli Stati Uniti (Aurora, I quattro diavoli e Il nostro pane quotidiano) e l’ultimo (Tabù, opera della maturità), girato in un’isola del Pacifico.

Non manca una parte dedicata ai film smarriti (nove su ventuno produzioni) e ai progetti irrealizzati, una sul periodo hollywoodiano e un capitolo sulla morte di Murnau, avvenuta nel 1931 e circondata da «storie e dettagli inverosimili», qui ricostruita con il piglio realistico dello storico e con trascinante empatia, con i dettagli dell’incidente automobilistico, l’ultimo addio nel funeral saloon cui erano presenti «poche coraggiose persone», tra cui la divina Greta Garbo («donna sola quanto lo fu lui»), il trasporto pieno di intoppi della salma fino a Berlino e la cerimonia funebre, durante la quale il grande antagonista di Murnau, Fritz Lang, tenne un toccante discorso di commemorazione, concedendo l’onore delle armi al geniale collega. È l’unico capitolo in cui Eisner tocca, con garbo estremo, il tema dell’omosessualità di Murnau, che in qualche modo si legò al tragico epilogo della sua vita.

Imperdibile la raccolta di fotografie d’epoca che chiudono il volume, insieme a una necessaria filmografia, che permette di orientarsi nella produzione del grande regista tedesco prematuramente scomparso, la cui opera, è indubbio, «resta intramontabile».

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Molinari cesare foto autore
12 Dicembre 2022

La fortuna di un gesto. I mille volti di Salomè di Cesare Molinari

Chiara Molinari, «Theatron 2.0»

I mille volti di Salomè di Cesare Molinari – professore emerito dell’Università di Firenze, nonché tra i fondatori della disciplina di Storia del Teatro e dello Spettacolo e autore dell’ormai canonica Storia del teatro (Mondadori, 1972) – intende essere, secondo le parole introduttive dello studioso, «in primo luogo un testo di compilazione, cioè di memoria», che tenta di ricostruire la «fortuna» del personaggio di Salomè, inseguendo la sua «danza» attraverso le sue innumerevoli apparizioni nelle arti figurative, nella letteratura, nel teatro e nel cinema nell’arco di due millenni.

Nella vastissima e articolata opera di ricognizione edita da Cue Press nel 2015 – arricchita da un apparato iconografico comprensivo di cento illustrazioni – Molinari evidenzia come la storia della principessa giudea, raccontata primariamente dai Vangeli di Matteo e Marco, possa ridursi a un unico e iconico «gesto»: la richiesta al tetrarca Erode Antipa di ottenere la testa del predicatore Giovanni Battista come premio per la sua danza. La pretesa crudele e spiazzante della ragazza viene però – originariamente – suggerita dalla madre Erodiade, che del re è moglie «incestuosa» e che si è attirata l’odio del profeta proprio per aver violato la legge mosaica.

Secondo un’analisi di tipo attanziale, la fanciulla non riveste dunque il ruolo di protagonista nell’episodio biblico, in quanto la sua azione si delinea come meramente funzionale al progetto di un’iniziativa altrui: è tuttavia proprio la «marginalità» di questa dinamica ad aver reso possibile – a parere di Molinari – l’«estrapolazione» della vicenda dal suo contesto, e dunque la costruzione di un modello autonomo, «forte e ambiguo», che nei secoli ha potuto essere reinterpretato nelle sfumature più contrastanti con il variare, di epoca in epoca, della sensibilità storica e sociale.

L’ambiguità del personaggio appare evidente sin dalla difficoltà che si riscontra nel tentare di identificarlo precisamente nelle prime fonti di cui disponiamo: a partire dai racconti evangelici – fino al racconto di Giuseppe Flavio – Salomè rimane infatti «senza nome», venendo addirittura confusa e sovrapposta alla figura della madre Erodiade, essendo entrambe associate ai «motivi di seduzione e della lussuria», caricati del loro significato di «eterno contrasto e di lotta per il potere». Sarà Flaubert nel suo Herodias (1877) a tentare di sciogliere e giustificare la sovrapposizione tra la figura della madre e quella della figlia, affermando che la donna apparsa ad Erode «era Erodiade quale era stata nella sua gioventù, non un’altra donna che le somigliava, ma una riapparizione della stessa».

La danza, intesa come ostentazione del corpo e dunque come espressione peccaminosa, si configura nei suoi caratteri spiccatamente teatrali sin dalla narrazione di San Giovanni Grisostomo (III-IV secolo d. C.), in quanto eseguita in quello che è definito un «teatro satanico», di fronte a «spettatori corrotti» e in un’atmosfera immersa nell’«ubriachezza e nella vacuità del godimento». La spettacolarità insita nella scena è tuttavia intimamente connessa anche a un altro elemento: l’esibizione della morte violenta e la rappresentazione del macabro, tanto gradita alla civiltà romana quanto lo sarà al mondo ottocentesco.

Quello di Salomè, nelle sue infinite stratificazioni e declinazioni, può – secondo l’autore – definirsi un mito principalmente «moderno», che trova la sua sistemazione definitiva nella tragedia «sperimentale» di Oscar Wilde: una tragedia scritta in francese, formalmente perfetta, e soprattutto un «successo di scandalo», andato in scena per la prima volta a Parigi nel 1896, dopo il divieto di Lord Chamberlain – esteso al Regno Unito – di rappresentare soggetti biblici a teatro, e dopo l’incarcerazione dello scrittore per sodomia.

La Salomè di Wilde si ispira alla dimensione classica della tragicità, e nel suo personaggio è possibile rintracciare «la passione di Fedra come l’intransigenza di Antigone, la furia vendicativa di Medea, la bellezza fatale di Elena come la decisione spietata di Clitemnestra e il rovesciamento dell’appartenenza di Elettra». Al tempo stesso, però, la protagonista si propone come estremamente moderna nella propria «imprendibilità» e ambivalenza, e soprattutto nel riferire «le sue parole e le sue azioni esclusivamente a sé stessa», intenta soltanto ad «esprimere e realizzare il suo desiderio e la sua passione», senza il riferimento a ideali che la trascendano.

In quella che si potrebbe definire una «tragedia dello sguardo», in un triangolo di desideri che «si rincorrono senza potersi incontrare», la fanciulla passa allora dall’essere desiderata (rappresentando l’oggetto al quale sono rivolte le pulsioni del «patrigno» Erode) all’essere «desiderante»: Salomè assume infatti su di sé l’iniziativa erotica, corteggiando apertamente il profeta, che però può amare soltanto «il Figlio dell’Uomo».

Nell’interpretazione di Molinari, l’agire di Salomè nel testo wildiano tende allora a sfumare la linea di confine tra alcune categorie di pensiero tradizionalmente dicotomiche, in primis quella che – in particolare nell’Inghilterra vittoriana – separa la dimensione della «femminilità» da quella della «virilità». La ragazza è infatti pienamente consapevole del proprio potere seduttivo, che viene esplicitato nella danza, tesa a condizionare la volontà del tetrarca Erode nel perseguimento strumentale dei propri fini. Ma è proprio nell’esibirsi artisticamente che Salomè diventa «da puramente fisica anche spirituale. Così come la realizzazione del suo desiderio coincide con la morte dell’amato e la sua stessa morte, che è anche un annullamento».

La Salomè wildiana prosegue poi la propria vita nell’opera di Strauss, andata in scena per la prima volta a Dresda nel 1906, ed è significativo notare come la traduzione tedesca di Hedwig Lachmann (realizzata a partire da quella inglese attribuita a Lord Alfred Douglas) insista fortemente sul motivo della «musica», oltre che su quello dello sguardo. «Se mi avessi guardata, mi avresti amata», dice Salomè nel testo di Wilde, rivolgendosi alla testa mozzata di Giovanni Battista: ma, come ricorda Molinari, è della voce del predicatore – che giunge alle orecchie della giovane come «musica piena di mistero» – che la giovane si innamora dal primo istante.

La voce – così come la stessa testa – simboleggiano un oggetto d’amore non del tutto «carnale», ma connesso sottilmente alla dimensione intellettuale e della spiritualità: è a partire da queste considerazioni che l’autore pone in costellazione molteplici frammenti drammaturgici per restituire l’intricata complessità del personaggio, interpretata di volta in volta come «casta» o come «fatale».

Se nell’opera di Giovanni Testori la protagonista rivendica infatti il proprio diritto all’amore sensuale, «paradossalmente rinnegato da una fede il cui Dio si è fatto carne e sangue», in un poemetto di Mallarmé – recuperato poi da un balletto di Martha Graham nel 1944 – la giovane appare invece «chiusa in una sofferta contemplazione di sé, nel rifiuto di qualsiasi forma di contatto fisico», nella «fierezza» e nell’«orrore» della propria verginità.

Tra le numerosissime rappresentazioni citate dallo studioso, vale forse la pena di ricordare almeno il sontuoso allestimento di Peter Brook dell’opera di Strauss – con la scenografia di Salvador Dalì – (1949), in cui la danza di Salomè si sviluppa in una sostanziale immobilità; o lo spettacolo diretto da Carmelo Bene (1964), in cui la principessa giudea appare grottescamente deformata in una scena fatta di drappi e stracci. O ancora, la Salomè proposta da Al Pacino nel 2006 – ultima di tre versioni teatrali – in cui la protagonista varia di continuo la propria tonalità espressiva nella recitazione, come per riassumere «tutte le emozioni, gli impulsi e le passioni che possono vivere nell’anima di una donna». O il «balletto parlato» della Compagnia Ratavùla portato in scena nel 2003, in cui la giovane è interpretata da un intero gruppo di cinque danzatrici, il cui ballo non si differenzia dal resto dell’azione, e si codifica come «pura espressione di un sentimento agito e continuamente mutevole pur nella sua sostanziale omogeneità».

Cesare Molinari intercetta allora il moltiplicarsi e il mutare dei volti di Salomè, proprio come in quest’ultima danza: è infatti a partire dall’apparentemente irremovibile condanna veterotestamentaria del femminile – «con la donna il male è entrato nel mondo», secondo le parole del Giovanni Battista wildiano – che nei secoli possono emergere anche le infinite potenzialità eversive di questo personaggio, capace di «rovesciare l’ordine naturale delle cose per ottenere, attraverso la seduzione (e quindi la bellezza e la lussuria) il potere e soprattutto il dominio sugli uomini».

«Pure, la fortuna di Salomè trae origine da una storia che ha le dimensioni di un episodio, se non di un gesto. E questo la avvicina – come detto all’inizio – ai grandi personaggi femminili del mito classico: Fedra, Medea o Antigone, le quali tutte si incontrano con molto minore frequenza nelle arti figurative. Fors’anche perché i testi fondanti non ne descrivono l’aspetto né ne sottolineano la bellezza: ricordo solo che Antigone viene chiamata ‘piccola’ (σμικρά) nell’Edipo a Colono e quindi in un testo che non ne racconta il gesto fondativo. Per quanto immediatamente, e ovviamente, condannato sotto il profilo morale, quel gesto (o quell’azione) ha fatto sì che la figura di Salomè potesse diventare un simbolo forte e ambiguo, che comprende anche la constatazione che, certo, esistono donne cattive o capaci di azioni crudeli: Lady Macbeth può certamente essere avvicinata a Riccardo III, ma il catalogo delle bad girls andrebbe forse confrontato non tanto con quello dei bad boys, quanto a quello delle vittime di don Giovanni che solo in Spagna, come è noto, sono già milletrè. E questo simbolo, naturalmente, le diverse epoche, le diverse culture e i diversi autori lo hanno interpretato alla luce della propria sensibilità, più o meno consciamente avvicinando Salomè a Jezabel oppure a Medea, la prima e la più grande paladina della liberazione delle donne, il cui proclama va avvicinato a quello in cui Shylock rivendica l’umanità e la dignità degli Ebrei. Un proclama che, da solo, è capace di riscattare il personaggio negativo».

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Koltes
5 Dicembre 2022

Alla ricerca di Koltès segreto

Nicola Arrigoni, «Sipario»

«Carissimi genitori, è difficile alla mia età fare un complimento carino! Sono ancora così piccolo. Che il mio primo complimento potrebbe stare dieci volte in una pagina. Vi amo tanto e chiedo al Signore che vi dia sempre gioia e felicità. Bernard».

Bernard Marie Koltès ha sette anni e scrive ai genitori il 1 gennaio 1955. È il biglietto con cui si apre il volume Lettere, a cura di Stefano Casi e pubblicato da Cue Press. «In God we trust? Do We. B», solo sei parole scritte a Lisbona nell’aprile 1989, pochi giorni prima di morire. Si ha quasi l’impressione di violare un cassetto chiuso con all’interno carte segrete, ma poi la lettura delle Lettere di Bernard Marie Koltès restituisce un dialogo con l’autore della Solitudine nei campi di cotone che trasforma la vergogna in piacere. Alpha e Omega, una vita raccontata in presa diretta, con i piccoli fatti del quotidiano: lettere che non arrivano, dubbi, amori infranti, paure e speranze, frammenti di quotidiano di un uomo e intellettuale in fuga, inquieto, in cerca di un altrove che è, ovviamente, al di là da venire e spinge al movimento. E allora è quasi con una sorta di impudicizia – a tratti ci si sente un po’ voyeur – che ci si avvicina, si ficcano gli occhi fra le parole e le righe di quelle carte che restituiscono «l’uomo Koltès con tutte le sue omissioni e contraddizioni. [Il punto di forza di questo epistolario] è il fatto di non essere letterario e di non essere stato scritto per i posteri, ma per la reale e concreta esistenza, spesso relativa a questioni spicciole, di comunicare con i suoi interlocutori» scrive Stefano Casi nella prefazione. I fratelli e tutta la sua famiglia, ma soprattutto i genitori, anzi la madre: è lei la destinataria privilegiata a cui si rivolge Bernard con maggiore trepidazione, con immutato amore per oltre trent’anni, ma soprattutto con immutato atteggiamento di confidenza».

La lettura dell’epistolario – meritoriamente pubblicato da Cue Press – restituisce l’uomo, «ci offre gli elementi per farci strada tra i riflessi che mascherano l’uomo, e in definitiva l’autore», continua Casi. «Ce lo mostrano nelle sue fragilità di giovane artista alla ricerca di un posto al sole e di giovane uomo per il quale il mondo è troppo piccolo per la sua infinita sete di vita e di conoscenza».

Le lettere di Koltès sono istantanee di vita. In un tempo in cui il documentare in presa diretta il vivere di tutti giorni è diventato naturale, appaiono a distanza come dei reperti di vita che ancora dicono per la loro freschezza e immediatezza e restituiscono al lettore e all’appassionato di Koltès un dialogo intimo con l’uomo che sta dietro o dento l’autore. Nel leggere le lettere in più punti si ha la sensazione di violare un segreto, di aprire, non visti, un cassetto di un mobile lasciato in soffitta per decenni. E questo senso di vergogna è reso ben chiaro da quanto scrive il fratello François Koltès nella premessa al volume: «Bernard-Marie Koltès non era un uomo pubblico alla stregua di come potrebbero esserlo altri scrittori. Gli importava che solamente di lui si conoscessero le opere. A ogni modo, se oggi ci ha lasciato un’opera in gran parte pubblicata, è altresì vero che ha affidato ai suoi cari delle lettere che non erano destinate alla pubblicazione. Vengono pubblicate oggi, a trent’anni dalla sua scomparsa, perché è parso interessante capportasse lui stesso luce sulla sua opera». E allora è questa la chiave con cui avvicinarsi all’epistolario di Koltès, la possibilità di andar cercando le premesse, il vissuto da cui sono scaturite le opere.

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Samuel beckett boulevard st jacque, paris, 1985
1 Dicembre 2022

Samuel Beckett, Quaderni di regia

Antonio Tedesco, «Proscenio», VII-2

Uno scoop editoriale. Una scelta di pubblicazione raffinata dal punto di vista culturale, ma anche estetico. Preziosi tesori che solo la piccola e media editoria, con logiche di mercato diverse da quelle dei colossi editoriali, ci può a volte riservare. Erano rimasti inediti in Italia i Quaderni di regia di Samuel Beckett, preziosa testimonianza del lavoro «sul campo» che lo scrittore e drammaturgo irlandese fece su alcuni dei suoi testi.
Ora sono disponibili anche da noi, pubblicati dalla valorosa Cue Press, che continua così il suo lavoro di ricerca, recupero e riproposizione di importanti testi di storia e critica dello spettacolo, spesso rimasti fuori commercio o di difficile reperibilità. Questi «quaderni» dove Beckett annotava appunti, revisioni e varianti dei lavori portati in scena, ci pongono di fronte ad una delle grandi questioni del teatro e nello specifico della drammaturgia teatrale, e cioè il confronto-divario tra scrittura letteraria e scrittura scenica. Un confronto, ma a volte un conflitto, che Beckett sentì fortissimo. Dopo una prima fase in cui non nascondeva una certa insoddisfazione per le scelte operate dai registi che portavano in teatro i suoi lavori, fu coinvolto sempre più spesso negli allestimenti in qualità di consulente, finché, nel 1967, lo Schiller Theater di Berlino gli propose di curare direttamente la regia di una sua opera. Beckett scelse Finale di partita, testo al quale, per vari motivi si sentiva particolarmente legato. Si trovò così a impegnarsi in una sorta di corpo a corpo con la sua stessa scrittura, sentendosi in dovere di riplasmarla sulla concretezza degli spazi, degli attori, della lingua utilizzata (si occupò personalmente delle versioni inglesi, francesi e tedesche delle sue opere), così come poi succederà per le successive regie, sempre allo Schiller, quella di Aspettando Godot e L’ultimo nastro di Krapp.

Cimentarsi con la messa in scena fu quindi per Beckett occasione non solo di verificare, ma anche di proseguire, per così dire, «dal vivo» il suo lavoro creativo, apportando, dove necessario, cambiamenti e modifiche, rifinendo e modellando direttamente sul palcoscenico la sua scrittura.

I volumi che si avvalgono della cura critica di James Knowlson, autore della più completa biografia disponibile su Beckett, di Stanley Gontarski, e di Luca Scarlini per quanto riguarda l’edizione italiana, sono curatissimi, ricchi di apparati e di note esplicative, impreziositi dalla ristampa anastatica delle pagine scritte di pugno dall’autore irlandese. Il tutto a comporre una importante testimonianza non solo del lavoro di Beckett, ma più in generale del complesso processo che intercorre tra la scrittura drammaturgica e la sua realizzazione scenica.

Teatro.it tarantino antonio
1 Dicembre 2022

Barabba. In scena l’opera di Tarantino a metà strada tra commedia e tragedia

Andrea Jelardi, «Proscenio», VII-2

Al Nest – Napoli Est Teatro – il 21 e 22 gennaio va in scena Barabba di Antonio Tarantino, esponente della drammaturgia contemporanea. Ombroso e solitario, ma anche poliedrico e innovativo, Tarantino è scomparso a ottantadue anni nel 2020 ed è autore di vari testi teatrali, tutti scritti in età matura dopo una lunga esperienza come artista figurativo.

Nella sala partenopea – allestita con quasi cento posti in una scuola abbandonata – la stagione 2022-2023 è stata denominata Vieni a scoprire i nostri assi, e non è dunque casuale la scelta di Tarantino tra gli autori rappresentati, così come non lo è quella dell’opera, composta nel 2010 ma rimasta inedita fino alla pubblicazione postuma nel 2021 per le edizioni Cue Press e la prefazione di Andrea Porcheddu.

Lo spettacolo, interpretato da Michele Schiano di Cola con allestimenti e luci di Vincent Longuemare, è diretto da Teresa Ludovico, che già in passato ha rappresentato altri rilevanti testi del Maestro come La casa di Ramallah, Namur, Cara Medea e Piccola Antigone. Tutti accomunati da personaggi che – come la stessa regista ha dichiarato – sono «portatori di mitiche ferite, chiedono all’attore di essere incarnati così come si presentano: nudi e crudi, senza nessun giudizio», e dei quali spicca soprattutto «la voce, magari rauca, di quell’umanità che ha paura dell’altro, che si sente continuamente minacciata e che vive di doppiezza».

In Barabba però Tarantino, come nei drammi d’esordio – tra cui il monologo Stabat Mater e i testi della cosiddetta Tetralogia delle Cure – riporta sul palcoscenico un personaggio evangelico, rendendolo protagonista di un’opera quasi integralmente in versi e a metà strada tra commedia e tragedia, facendo emergere con tutta la sua forza l’anima tormentata del protagonista come tramandato dalla tradizione dei quattro vangeli canonici, che lo identificano già dal suo nome come letteralmente «Figlio del Padre» o «Gesù Barabba».

Ebreo detenuto dai Romani a Gerusalemme assieme ad alcuni ribelli e negli stessi giorni della passione di Cristo, Barabba, com’è noto, venne liberato da Ponzio Pilato per volontà del popolo, chiamato a scegliere chi rilasciare tra lui e Gesù di Nazareth, trovandosi così a vivere un dramma personale che diventa poi dramma collettivo e fatto storico.

Nel suo teatro di emozioni e di pathos, fondato sulla forza dirompente della parola e del linguaggio spesso crudo e contemporaneo, Tarantino tratteggia in maniera netta la storia di un uomo solo, che si snoda in uno spazio chiuso ma che al tempo stesso è il riflesso dell’esterno e delle vicissitudini di tutta l’umanità. Barabba, isolato nella sua cella, si trova infatti ad essere involontario testimone della condanna e del martirio di Gesù, anch’egli Figlio del Padre, e si interroga allora alla ricerca di una verità superiore ed evidentemente distante da quella terrena, talvolta ingannevole, che si concretizzerà difatti in forme diverse: nella crocifissione dell’uno e nella salvezza dell’altro. Lo stesso nome, ma due destini opposti.

Barabba si tormenta nel suo meditare rabbioso e incontrollato finché Cristo, pur essendo in procinto di morire sulla croce, impartisce la benedizione urbis et orbis. Comprenderà così solo allora che la verità divina non conosce alcuna contraddizione ed è talmente avulsa dalle miserie terrene da sembrare persino folle, potendo così finalmente raggiungere la fede e la serenità:

«Se lui mi ha assicurato che me la caverò allora vuol dire che ci devo credere perché è venuto qualcuno che mi ha voluto bene. Roba da matti».

1 Aprile 2017

Elio De Capitani, ritratto d’artista

Diego Vincenti, «Hystrio», XXX-2

Dieci anni d’artista. Dieci anni di un Elio De Capitani d’America. È questo il frammento di carriera (e di vita) su cui si sofferma lo sguardo di Laura Mariani, non nuova nel raccontare di grandi attori e delle loro quotidiane sfide. In un approccio che da tempo unisce meticolosità accademica e piacevolezza di lettura. Meno […]
1 Aprile 2017

Sotto il segno della Biomeccanica

Giuseppe Liotta, «Hystrio», XXX-2

Dalla collana I libri bianchi della Ubulibri del 1993 torna oggi in libreria per la Cue Press L’attore biomeccanico che si avvale di una doppia introduzione: la prima, del curatore Fausto Malcovati, ci invita a leggere il volume non dal primo capitolo ma dall’Appendice che, dell’attività pedagogica svolta nello Studio di via Borodinskaja (1913-17), diretto […]
5 Febbraio 2017

De Capitani, l’America e il ritratto d’artista

Anna Bandettini, «la Repubblica»

«La vita di ogni spettacolo si intreccia anche coi fatti di vita e con la quotidianità». Lo scrive a un certo punto Laura Mariani nel libro L’America di Elio De Capitani – edito da Cue Press cui si devono molte interessanti pubblicazioni di teatro ultimamente – il libro che documenta l’esperienza artistica dell’attore e regista, […]
7 Gennaio 2017

August Strindberg. Riflessioni sull’uomo in scen...

Mattia Mantovani, «La Provincia»

Tra i grandi drammaturghi che hanno lasciato davvero un segno indelebile, August Strindberg è stato con ogni probabilità colui che più di ogni altro ha scritto non solo teatro ma anche sul teatro, interrogandosi senza sosta sul significato della messa in scena e sulle modalità in virtù delle quali il teatro può davvero farsi specchio […]
31 Dicembre 2016

«Arriva l’anno della svolta. Noi conquisteremo...

Cesare Sughi, «il Resto del Carlino»

Allinea numeri da navigato imprenditore, senza eccessi di enfasi o di autocompiacimento «Abbiamo già una produzione di 30, 40 titoli all’anno. Ma stiamo già lavorando per salire a 100». Dalla fine del 2012 – primo volume La danza e l’agitprop di Eugenia Casini Ropa – Mattia Visani è alla testa di una casa editrice di […]
17 Dicembre 2016

Il teatro si mette in rete

Antonio Tedesco, «Proscenio», I-6

Ci vuole coraggio, un guizzo di genio e un briciolo di incoscienza. E può succedere che la forma più nobile e antica di comunicazione-rappresentazione si sposi con quella più moderna e avanzata di pubblicazione-diffusione. E che il matrimonio non solo riesca splendidamente, ma apra anche nuove prospettive e spalanchi inediti orizzonti. Si sa che il […]
8 Dicembre 2016

Intervista a Mattia Visani: com’è nata la Cue P...

Cristina Catanese, «Tropismi»

Un giorno di pioggia del marzo 2016, a Imola, ho conosciuto Mattia Visani, il fondatore della casa editrice Cue Press (vincitrice del Premio Hystrio, ventiseiesima edizione, anno 2016) che si occupa di letteratura teatrale, cinematografica… e non solo. Lo ringrazio per questa preziosa intervista. Ciao Mattia, intanto, ti chiederei di raccontarci qualcosa di te, di […]
7 Dicembre 2016

Le dieci migliori startup dell’Emilia-Romagna

Dalle fresatrici dentali alla realtà aumentata passando per la prevenzione dell’ambiente. La Regione Emilia-Romagna premia le migliori startup fra Piacenza e Rimini. Il bando, che rientra nel quadro del Programma operativo regionale Fesr 2014-2020, ha visto partecipare 152 imprese innovative: 30 di queste sono state ritenute ammissibili per il finanziamento, per un totale di 2.743.000 […]
6 Dicembre 2016

Premio Incredibol!

Storico premio del Comune di Bologna

Cue vince Incredibol!, storico premio dedicato all’innovazione creativa. Incredibol!, acronimo di «Innovazione Creativa di Bologna», è un progetto promosso dal Comune di Bologna per sostenere e premiare l’innovazione nel settore creativo e culturale dell’Emilia Romagna. Nato per valorizzare talenti emergenti e realtà innovative, il premio offre supporto economico, formativo e di rete per lo sviluppo […]
24 Agosto 2016

Quella scommessa di Cue Press vinta coi libri di t...

Emanuele Giampaoli, «la Repubblica»

Sono i libri su cui ha studiato una generazione, testi che hanno fatto la storia del Dams, specie quella gloriosa delle origini, che rappresentano la memoria del teatro italiano. Eppure, complice la crisi che ha cancellato tante piccole case editrici, erano praticamente introvabili. A rimetterli in circolo ci ha pensato Mattia Visani, classe 1979, imolese, […]
18 Giugno 2016

Premio Hystrio

Vince il Premio Speciale

Il Premio Hystrio è un prestigioso riconoscimento italiano dedicato al mondo del teatro. Istituito nel 1989, premia artisti e professionisti che si sono distinti in vari ambiti delle arti sceniche, come recitazione, regia e drammaturgia. È considerato un importante punto di riferimento per valorizzare il teatro contemporaneo e promuovere nuove generazioni di artisti. Cue Press […]
18 Maggio 2016

Rosso: Logan e i solipsismi di Rothko

Francesco Bove, «L’Armadillo Furioso»

Rosso è un testo di John Logan, edito da Cue Press, ispirato alla biografia di Mark Rothko, pittore americano, che ottenne una commessa importantissima, alla fine degli anni Cinquanta, per creare dei murali per il Four Season Restaurant. Le pièce sulle vite dei pittori rischiano sempre di enfatizzare la figura dell’artista bohémien tralasciando l’aspetto artistico. […]
1 Aprile 2016

La necessità di domandare

Maddalena Giovannelli, «Hystrio», XXIX-2

Marco Martinelli si è concesso uno spazio di riflessione per porsi, in poche pagine, tutte le domande fondamentali. Cosa significa fare teatro oggi? E quale funzione può conservare l’arte scenica nella nostra società 2.0? Le risposte, quelle possibili, vengono dalla pratica quotidiana con le Albe, dall’esperienza ormai pluriennale con la propria tribù: il palco come […]
1 Aprile 2016

Stanislavskij, una geografia teatrale e umana

Giuseppe Liotta, «Hystrio», XXIX-2

Invertendo l’ordine di uscita dei tre storici volumi curati da Fausto Malcovati per Ubulibri delle regie di Stanislavskij, ma seguendone l’ordine cronologico delle rappresentazioni, viene ripubblicato ora per Cue Press Le mie regie – Il gabbiano, il primo e probabilmente anche il più tormentato spettacolo messo in scena dal grande regista russo di un testo di Čechov. […]
2 Gennaio 2016

Farsi luogo: lo sguardo di Martinelli

Massimo Marino, «Corriere di Bologna»

È un librettino da leggersi tutto d’un fiato, Farsi luogo di Marco Martinelli. Lo pubblica, come ebook ma anche a stampa Cue Press, una giovane casa editrice di Imola specializzata in editoria teatrale, che sta recuperando alcuni saggi ormai introvabili (tra gli altri Brecht regista di Claudio Meldolesi) e molti nuovi testi. Questo di Martinelli […]
1 Gennaio 2016

Pim, quando il successo è essere off

Diego Vincenti, «Hystrio», XXIX-1

La storia di un’anomalia. Di un esperimento in grado di divenire realtà solida, per certi aspetti seminale. Si sa, i compleanni sono il pretesto per fare i conti con sé stessi. Per tracciare bilanci. O forse semplicemente per festeggiarsi. La pubblicazione di Pim Off è un po’ tutto questo, all’interno di un volume ibrido dove, […]
31 Dicembre 2015

Per un teatro vivente

Massimo Marino, «Doppiozero»

Procede per tesi, Marco Martinelli, intrecciando una spirale di 101 argomenti rivolti come riflessioni al lettore con un piglio fortemente discorsivo, quasi dialogico. D’altra parte l’idea di teatro (e di società) che traspare da questo scritto è proprio quella di una relazione costante, che abbandoni ogni narcisismo, ogni esibizionismo cui spinge la società dello spettacolo, […]
16 Dicembre 2015

Cue Press, la ribalta digitale del teatro

Nicola Arrigoni, «Pac – Magazine di Arte e Cultura»

Sta portando avanti una piccola e grande rivoluzione, sta cambiando l’editoria teatrale divisa fra l’urgenza dell’attualità e la possibilità di dare corpo a instant book che leghino pagina scritta e spettacolo, ma anche con un’attenzione alla memoria, che in campo editoriale vuol dire rimettere in circolo libri ormai introvabili. Sembra essere questa in estrema sintesi […]
14 Dicembre 2015

Cue Press, il teatro in ebook e su carta

Anna Bandettini, «la Repubblica»

Le case editrici di spettacolo sono rare ma tenaci. Basterebbe citare la Ubulibri di Franco Quadri che ha resistito indomita fino alla morte del suo fondatore e che ci ha fatto conoscere i migliori testi della drammaturgia contemporanea. Oppure la Casa Usher con il grande lavoro che sta compiendo su Grotowski con tutti gli scritti […]
30 Novembre 2015

Premi Ubu

Segnalazione come Progetto Speciale

Nella cornice del Piccolo Teatro Grassi di Milano, Cue Press è finalista ai Premi Ubu 2015 nella categoria Progetto Speciale, un riconoscimento che celebra l’innovazione e l’eccellenza nel panorama teatrale italiano. I Premi Ubu, istituiti nel 1978, sono considerati tra i più prestigiosi del settore e vengono assegnati a progetti e personalità che si distinguono […]
25 Novembre 2015

La danza degli opposti nelle Strategie fatali

Adriana Malandrino, «Il Messaggero»

Una coppia di attori, autori, registi tra le più promettenti del teatro italiano, Lino Musella (vincitore del Premio Hystrio Anct 2015) e Paolo Mazzarelli, da stasera a domenica, sono al Teatro Sperimentale con il loro nuovo spettacolo, Strategie fatali, prodotto da Marche Teatro. Dopo La società (2012), la coppia torna a lavorare con il teatro […]