Logbook

Approfondimenti, interviste, recensioni e cultura: il meglio dell’editoria e delle arti da leggere, guardare e ascoltare.

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30 Marzo 2023

Il Romanzo teatrale di Bulgakov e Elogio del disordine di Louis Jouvet editi da Cue Press

«Il Teatro di Radio 3 — Rai Radio 3»

Due pubblicazioni di Cue Press: Romanzo teatrale di Bulgakov, nel quale il romanziere traccia in modo ironico il profilo di Konstantin Stanislavskij, e Elogio del disordine di Louis Jouvet, con le sue considerazioni sull’arte dell’attore e sul teatro.

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19 Marzo 2023

Potere mediceo e teatro negli studi di Zorzi

Luca Scarlini, «Corriere Fiorentino»

Ludovico Zorzi (1928-1983) dalla natìa Venezia giunse a Firenze negli anni Settanta, dopo una lunga esperienza nelle attività culturali Olivetti, avendo svolto compiti come recensore e introducendo numerosi volumi della prestigiosa collezione di teatro Einaudi, da La Veniexiana, a Ruzante, a Goldoni. Fondatore in Italia della storia dello spettacolo, insieme a Cesare Molinari ed altri studiosi, realizzò mostre importanti in città insieme ad altri: Il luogo teatrale (1975) e La scena del principe (1981), nel quadro del complesso progetto di mostre di quell’anno. Il suo libro maggiore, Il teatro e la città uscì nel 1977 da Einaudi e ora lo ripropone Cue Press. La parte fiorentina di questo volume, complesso e affascinante, (gli altri capitoli sono dedicati a Ferrara e a Venezia) ricostruisce magistralmente la relazione tra il teatro e il potere mediceo. Simbolico è l’occhio che dal corridoio vasariano dà su Borgo San Jacopo, presenza tangibile dello sguardo del principe sulla città, per cui si apriva improvviso un palco all’interno di Santa Felicita. Non meno complesso era il legame tra il Teatro degli Uffizi, di cui non rimane traccia nell’organizzazione del museo, più ufficiale, e dello spazio dei comici dell’arte, dal nome esplicito: di Baldracca, legato al clamoroso andirivieni del porto fluviale, dove i Medici assistevano dietro gelosie a spettacoli salaci di donne discinte e attori intenti a lazzi di ogni tipo. Zorzi ha fondato un percorso di studio complesso, che ha esercitato larga influenza sulle generazioni successive.

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18 Marzo 2023

Stanley Gontarski, Tennessee Williams

Massimo Bertoldi, «Il Cristallo On Line»

Mancava in Italia un saggio monografico dedicato a Tennessee Williams, fondamentale autore noto per commedie accompagnate da allestimenti importanti come Lo zoo di vetro, Un tram che si chiama desiderio, Improvvisamente l’estate scorsa e La rosa tatuata. Colma la lacuna Cue Press, con la pubblicazione di un volume molto interessante a appassionante, Tennessee Williams. Modernismo in t-shirt e rinnovamenti del teatro, compilato da Stanley E. Gontarski, apprezzato scrittore, drammaturgo, direttore teatrale e regista.

L’obiettivo della ricerca è dichiarato con esplicita chiarezza: «Estende[re] la rivalutazione di Tennessee Williams per contrastare l’opinione diffusa secondo cui il suo lavoro sarebbe caduto in un precipitoso declino negli anni Sessanta, quando il naturalismo cui era associato, non sempre per scelta sua, fu sostituito da innovazioni e sperimentazioni più europee, meta-teatrali, e quando la cultura vide una ricalibratura dinamica del desiderio sessuale e dei suoi costumi».

A guidare le interpretazioni testuali secondo i codici linguistici del teatro e a spareggiare le sorti storiche del repertorio dello scrittore americano interviene la contestualizzazione socio-culturale della ricezione di personaggi disegnati senza filtri e finzioni, immortalati nelle loro pulsioni erotiche e passioni, nelle paure e i desideri, con i loro incubi e i loro limiti anche fisici (Laura dello Zoo di vetro è zoppa). Soprattutto si proiettano nel perimetro di sé stessi prima di relazionarsi alla realtà, insidiosa e complicata.

Perciò i temi trattati, che spesso hanno attivato la censura, risultano trattati in modo autentico e con feroce realismo: l’alcolismo, il sesso e l’omosessualità, la perversione e i disagi mentali non sono accessori letterari descrittivi, assurgono invece a filtri narrativi attraverso un linguaggio privo di mediazioni, vitale, violento e palpitante, che si sostanzia in una vetrina di personaggi genuinamente perdenti, solitari e controversi, senza presente e senza futuro ma sostenuti da autentica vitalità.

Nel momento in cui queste figure diventarono soggetti cinematografici o teatrali, provocarono scalpore, lasciarono un segno indelebile nel perbenismo e nella morale dominante. È il caso dello scandalo prodotto da Marlon Brando nel 1947, quando interpretò la parte di Stanley Kowalsky in Un tram chiamato desiderio, indossando una maglietta a maniche corte aderente e sudata e recitando anche a torso nudo. Si rovesciava l’idea di esibizione del corpo, di norma scenica, declinata al femminile, e si affermava la mascolinità come espressione di erotismo e di oggetto di desiderio. Si infrangeva un tabù e si dimostravano le potenzialità del teatro e del cinema di procedere in quella direzione e a questo, nell’ombra silenziosa della lezione di Williams, lo spettacolo degli anni Sessanta e Settanta aggiunse la contestazione.

In parallelo inizia la seconda fase creativa del drammaturgo americano. Al realismo subentra un percorso sperimentale (The two-character play, Clothes for a summer hotel) che lo avvicina a Beckett, come pare alludere e indicare il titolo di una commedia dell’epoca, Slapstick tragedy.

Forse condizionata dall’immagine dell’uomo Williams – dichiaratamente omosessuale e vittima di frequenti crisi depressive sedate con abuso di alcol e barbiturici – oppure perché autore di una pungente rappresentazione della società (americana), il suo declino è rapido e inesorabile, mentre in Europa una maggiore considerazione è riscontrabile a partire dagli anni Ottanta, dopo la sua morte nel 1983 a New York.

È l’esatto contrario dell’andamento americano. In merito, Gontarski analizza anche i contributi italiani, ricordando le regie di Elio De Capitani e Antonio Latella.

Da questa biografia di agile nella lettura, impreziosita da un accurato apparato iconografico e da una ricca e aggiornata bibliografia, emerge il profilo a tutto tondo di un grande drammaturgo, inquieto e geniale, che seppe stravolgere il linguaggio teatrale del secondo Novecento, al quale molti percorsi di avanguardia e di ricerca gli sono consapevolmente o inconsciamente debitori.

Sotto forma di postilla, piace, infine, ricordare la messinscena pionieristica dello Zoo di vetro da parte di Fantasio Piccoli, fondatore e direttore del Teatro Stabile di Bolzano, nella stagione 1959-1960, con la partecipazione di Armida Gavazzeni, Giaco Giachetti, Lucia Romanoni e Alberto Terrani.

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Giulia Emma Innocenti Malini
6 Marzo 2023

Ridurre la distanza. Breve storia del teatro sociale in Italia

Francesca Lupo, «Theatron 2.0»

«Le pratiche di teatro sociale sembrano anche svolgere una funzione di mediazione politica, in particolare nelle relazioni tra le istituzioni e gli individui e i piccoli gruppi, con specifico riferimento a soggetti marginali e fragili. Una funzione che nutre il capitale sociale e riduce la distanza e la possibile conflittualità, generando occasioni di contatto e di allineamento tra le diverse parti».

Difficile essere più eloquenti di Giulia Innocenti Malini, professoressa di teatro sociale presso l’Università di Pavia e l’Università Cattolica del Sacro Cuore, autrice del volume Breve storia del teatro sociale in Italia, edito da Cue Press nel 2021. Come difficile è il compito che si prefissa, ovvero tirare le fila di una forma teatrale il cui percorso si delinea tortuoso fin dalla sua stessa nomenclatura. Il teatro non è sociale per definizione? E cosa si intende quando lo si pone in contrapposizione ad una spettacolarità da cartellone? Innocenti Malini, nella premessa al libro, accenna alla sua ampia esperienza sul campo (che condivide nel corso di alta formazione per operatori di teatro sociale e di comunità sempre alla Cattolica) che comunque, dice, non le è bastata per configurare un metodo che possa soddisfare tutte le sfaccettature di questa particolare spettacolarità. Dà avvio ad una ricerca che si pone l’obiettivo di essere «prima di tutto, performativa».

«Insomma, interpretare il teatro sociale ci mette di fronte a tutte le complessità metodologiche dello studio del fatto teatrale contemporaneo, a cui si aggiunge la specifica complessità di studiare una pratica performativa teatrale che intende perseguire risultati artistici ed estetici, e anche realizzare intenzionalmente obiettivi di ordine sociale, rimandando con questo termine, ‘sociale’, a obiettivi volta a volta educativi, di cura, inclusione, formazione, terapia, sviluppo, protesta, riqualificazione ambientale e molti altri».

Il teatro sociale rivendica una letteratura che possa narrare di sé negli stessi manuali di storia del teatro che passano sotto le mani e lo sguardo di menti in formazione, perché effettivamente è dal teatro che potremmo definire «estetico, prettamente artistico» che prende i natali; anzi, probabilmente da uno scarto che lo stesso teatro d’arte ad un certo punto non riesce più a colmare nei confronti di un pubblico che rivendica la sua identità di cittadino. Dalla fine degli anni Cinquanta, da Grotowski a Barba, passando dal Living Theatre, si è cercato di colmare quello scarto, in tutti i modi possibili, ricreando una scena che da principio abbandonasse l’edificio stesso atto alla rappresentazione, per crearne altri di palcoscenici, per le strade, nelle piazze (non inventando niente di nuovo, ma al contrario recuperando tradizioni molto antiche), ed un pubblico che fosse invitato a circondare la scena, se non pure a condividerla con gli attori.

«Questo processo di fuoriuscita dal teatro subisce una forte, decisiva accelerazione sotto la spinta degli eventi sociopolitici del Sessantotto, spostandosi decisamente dal piano del rivoluzionamento tecnico-linguistico dello spettacolo a quello della messa in discussione globale della forma teatro in se stessa» (Marco De Marinis, Il nuovo teatro. Bompiani, 2000). In questo percorso carsico, il teatro sociale indossa diverse forme: dall’animazione teatrale allo psicodramma, dal teatro dell’oppresso fino a recuperare la dimensione della festa.

Ma andando incontro al fisiologico raffreddamento degli animi dopo i moti sessantottini, l’attività di molti operatori non si arrenderà, anzi popolerà altri luoghi ancora più urgenti, come carceri, ospedali, scuole, piccole comunità di quartiere, divenendo sempre più capillare. Utile alleato sarà l’università, che, attraverso i suoi insegnanti, che spesso si ritrovano loro stessi ad essere attivi nel campo, produrrà una letteratura e dirigerà gli sguardi verso una performatività differente. L’analisi di Innocenti Malini prova a condurre il lettore sino ai giorni nostri, illustrando esempi degni di nota, come il TiPiCi, a cui lei stessa è associata: «Una giovane rete che raccoglie più di sessanta realtà associative artistiche, sociali e di ricerca milanesi che condividono la necessità di riflettere sul rapporto tra arti e pratiche performative e sviluppo partecipato dei contesti sociali, per poi progettare congiuntamente processi performativi che possano aiutare gli abitanti a fronteggiare la complessità dei problemi di vita in modo integrato, sistemico (multisettoriale e interdisciplinare) e comunitario».

Il teatro sociale è quella forma ibrida in cui, nonostante la sua, alle volte, mancata istituzionalizzazione, chiunque si imbatte nella propria vita. È diventata involontariamente una narrazione scontata, si ha un’idea che esista, come nei contesti di reclusione, nelle scuole. Eppure «gode» dello stigma di cui la cultura tutta è vittima, argomenti lontani dalla formazione di un individuo perché non ritenuti all’altezza delle stesse attenzioni dedicate al corpus dantesco od alla Ginestra leopardiana. Nella futile diatriba per conferirgli un titolo più «sociale» o più «estetico», il teatro sociale fa, agisce e grazie alla ricognizione di Innocenti Malini ripercorriamo anche la stessa storia del nostro paese.

Dalla più celebre, come può essere l’esperienza di animazione teatrale che Giuliano Scabia condusse nell’ospedale psichiatrico di Trieste, nel 1973 diretto da Franco Basaglia, abbattendo i confini manicomiali, ponendo in relazione gli internati con i propri concittadini; a H2Otello, rivisitazione del testo shakespeariano che il Teatro Metropopolare di Livia Gionfrida rappresenta con i detenuti della Casa Circondariale la Dogaia a Prato nel 2014, ponendo l’accento sul femminicidio di cui si macchia il protagonista, la questione su cui interrogarsi. Numerosi sono i nobili esempi nel Settentrione, diversamente nel Meridione, ma nel quale spiccano percorsi particolari. Uno di questi, meno celebre di altri, è guidato da Claudio Collovà nell’Istituto Penale per Minorenni Malaspina di Palermo, «nato come percorso di ordine artistico, anche provocatoriamente, contro un utilizzo terapeutico del teatro che la compagnia non condivideva, per affermare un teatro d’arte possibile anche in questi contesti di forte disagio».

Relazioni, comunità, comunicazione: queste le tre parole chiave che esperienze simili riescono ad introdurre in contesti in cui tutt’ora difficilmente è possibile trovargli un margine di discussione, o addirittura ragion d’essere, a causa di un’altra parola, la differenza, che l’essere umano ha spesso sottolineato, convertito in mattoni per costruire imponenti muri tra malato e familiare, tra bambino e adulto, tra sfollato e cittadino, tra spettatore e autore, o semplicemente tra «te» e «me».

Innocenti Malini conclude così il suo libro, attraverso le parole di Sisto Dalla Palma nella Scena dei mutamenti (Vita E Pensiero, 2001): «Non si tratta di scardinare i confini tra le varie aree del teatro secondo un assioma che nessuno è in grado di formulare. Tutta l’esperienza più recente del teatro dimostra che gli esiti più significativi si sono avuti quando si sono realizzati non solo genericamente scambi e integrazioni tra linguaggi, ma incontri tra persone, ognuna portatrice di specifiche esperienze, ma tutte insieme capaci di rappresentare, in una porzione di spazio pur limitato, il grande teatro del mondo. La scena teatrale si pone oggi al centro di una complessità sociale, a volte drammatica, non per evocarla o subirla in modo confuso, ma per assumerla e trasformarla nella prospettiva di autentici atti di libertà e di impegno civile».

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LUIGI STEFANO
6 Marzo 2023

Anche Stefano, primogenito di Luigi Pirandello, fu drammaturgo e pittore

Andrea Bisicchia, «Libertà Sicilia»

Figlio primogenito di Luigi, Stefano Pirandello (1895-1972), visse gran parte del suo tempo all’ombra del padre; non solo perché affascinato dal teatro, ma perché si sentì «necessario» al proprio genitore, per l’enorme mole di lavoro che svolgeva dopo i successi internazionali delle sue commedie.

Stefano fu l’ideatore, insieme a Orio Vergani, del Teatro D’Arte, che rimase aperto, pur tra tante difficoltà, per ben tre anni, dal 1925 al 1928, con una sua Compagnia. Dietro la miriade di impegni c’era anche quello per la madre, Maria Antonietta Portolano, (1871-1959) che, per disturbi psichici, era stata ricoverata nel 1919 presso Villa Giuseppina, dove rimarrà fino alla morte. La vita di Stefano, pertanto, fu contrassegnata da due «doveri», benché quello nei confronti del padre lo impegnasse intellettualmente.

L’amore per il teatro si trasformò, per Stefano, in amore per la scrittura, tanto che scrisse ben 17 testi che Sarah Zappulla Muscarà pubblicò, nel 2004, con Bompiani, in un cofanetto di tre volumi. Instancabile ricercatrice, Sara, insieme al marito Enzo e grazie all’Istituto di Storia del Teatro Siciliano, è diventata una divulgatrice delle opere di tanti autori siciliani che, senza di lei, sarebbero stati dimenticati.

A cura sua e di Enzo è stato pubblicato di Stefano Pirandello Un padre ci vuole in due edizioni e in due volumi separati, editi da Cue Press; il primo in italiano, il secondo in inglese, col titolo All you need is a father, con traduzioni di Enza De Francisci e Susan Bassnett, a cui dobbiamo anche le Note.

Sempre grazie all’interessamento di Sarah Zappulla Muscarà, Un padre ci vuole è stato tradotto in francese, greco, serbo, spagnolo, arabo, in attesa delle traduzioni in ceco e austriaco. C’è da dire, però, che, non sempre all’interesse scientifico corrisponda un interesse di rappresentazione. Anzi, a questo proposito, il testo che ebbe una messinscena nel gennaio del 1936, con la Compagnia Tofano-Maltagliati-Cervi e la partecipazione di Giuseppe Porelli, fu più volte rimaneggiato, fino all’edizione del 1960, che è quella pubblicata. Alla prima, al Teatro Alfieri di Torino, fu presente Luigi Pirandello.

C’è ancora da dire che nel 1953 capitò a Stefano l’occasione che lo avrebbe potuto imporre come autore teatrale, grazie alla messinscena al Piccolo Teatro di Sacrilegio umano, con la regia di Giorgio Strehler, che fu un vero insuccesso, forse anche per la poca cura del grande regista.

Un padre ci vuole risente molto della dedizione di Stefano nei confronti del padre, ma, a dire il vero, mostra una sua autonomia e ben si inserisce in quella drammaturgia che sceglie come protagonista la figura paterna, soprattutto nel secondo Ottocento, sia nella letteratura nordica sia in quella russa. Basterebbe ricordare Il padre o La signorina Giulia di Strindberg, con i famosi stivali del padre tenuti a lucido dal servo Jan, o ancora Hedda Gabler di Ibsen, con le due pistole donategli dal padre come segno di potere, che lei utilizza in maniera irrazionale. Il padre si presenta come una figura complessa nella drammaturgia di fine secolo; da lui dipendono l’educazione e i fabbisogni familiari, e non sempre lo si trova adatto, anche perché in molti casi ha pensato solo a se stesso.

Vorrei ricordare, inoltre, che anche il teatro russo ci ha lasciati dei drammi ben orchestrati su questo argomento, vedi Padri e figli o Pane altrui di Turgenev, o la figura del padre nei Fratelli Karamazov. E infine, come dimenticare la figura complessa del Padre nei Sei personaggi.

Stefano Pirandello ha una sua visione della figura paterna. Il suo protagonista, Oreste, intende essere il tutore del padre sessantenne e vorrebbe interessarsi a lui con ogni mezzo, anche perché, in occasione della tragedia che colpì la famiglia – dovuta a un incidente che causò la morte della madre e dei fratelli, travolti a causa di un passaggio a livello forse incustodito – il padre aveva deciso di suicidarsi e lui era riuscito a salvarlo. La commedia è costruita sul tema del rimorso e delle ferite dell’anima che coinvolgono gli esseri umani, tanto che c’è bisogno della comprensione dell’altro per poterle emarginare. Oreste, a suo modo, vive drammaticamente il bisogno del padre di aggrapparsi alla vita; magari grazie a un nuovo matrimonio, con una donna molto più giovane. Solo che prevede altre crisi paterne e fa di tutto per essere la sua ombra, così come Stefano aveva fatto di tutto per essere l’ombra del padre Luigi.

Lear Elio De Capitani
4 Marzo 2023

L’America di Elio De Capitani

Maria Dolores Pesce, «Dramma.it»

L’interesse, o meglio la sensibilità, che da molto tempo contraddistingue gli studi di Laura Mariani nei confronti dell’attorialità, torna ad incontrare e ad intersecarsi con l’attività ormai ultratrentennale di uno degli attori che, meglio di tanti altri, ha saputo interpretare non soltanto i singoli e innumerevoli personaggi che ha incarnato, quanto il «Teatro» tout court, visto come espressione artistica ma ancor più come una rete in cui si può impigliare il mondo e la storia, e attraverso la quale essi si possono riportare almeno un po’ sulla riva della vita, singolarmente o collettivamente intesa. Ne nasce questo volume che non vuole essere una semplice ristampa, ampliata, riveduta o corretta fin che si vuole, ma che diventa un ulteriore completamento di un’analisi che però forse non ambisce ad essere completata. Lo sguardo di Mariani infatti era aperto – ed è una sua qualità indubbia, e tale rimane e desidera rimanere – aperto al futuro ma anche al presente della nostra, analoga o diversa che sia, percezione di quella vita e di quella storia scenica. Un bel volume che ripercorre le tappe di una lunga carriera in maniera essenziale, soffermandosi però con maggiore intensità, come già suggerisce il titolo, sul rapporto che è stato ed è illuminante per Elio De Capitani: quello con la letteratura americana, non solo teatrale. Dal fondamentale Angels in America all’Ahab dell’ultimo Moby Dick alla prova. Un testo interessante per contenuto, per scrittura densa e significativa, e, non ultimo, per ampio e suggestivo apparato iconografico.

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@guillemclua
3 Marzo 2023

Guillem Clua, Teatro

«Queerographies»

Uno Stato immaginario scomparso a causa dei cambiamenti climatici, una misteriosa epidemia globale, un giudice che nasconde la propria omosessualità: pur trattando gli argomenti più disparati, il lavoro di Clua riesce ad affrontare in maniera originale ed eclettica il tema della diversità e della complessità del mondo contemporaneo. Il volume raccoglie il meglio della produzione del drammaturgo catalano; sei testi capaci di restituire, dalla scena alla pagina, un’umanità sempre viva e dalle mille sfaccettature.

Guillem Clua è considerato uno dei drammaturghi più innovatori ed eclettici nel panorama catalano e spagnolo. Grazie alla sua duplice formazione di autore teatrale e di creatore di programmi e di fiction seriali, il suo repertorio comprende opere politiche e commedie musicali, drammi epici e spettacoli di teatro-danza. I suoi lavori sono stati tradotti in molte lingue e hanno ricevuto numerosi riconoscimenti, tra cui spicca il Premio Nacional de Literatura Dramática 2020 per il testo Giustizia.

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BobWilson
1 Marzo 2023

Bob Wilson e l’Italia: l’omaggio di Giacobbe

Sergio Di Giacomo, «Moleskine Rotocalco»

Durante la presentazione del libro del critico e storico del teatro Gigi Giacobbe Bob Wilson in Italia abbiamo percepito una grande passione, quella passione per il grande teatro che anima il nostro critico teatrale, tra le firme di «Moleskine» e per decenni collaboratore delle pagine culturali del «Giornale di Sicilia». Attualmente collabora anche a «Sipario» e »Teatro Contemporaneo e Cinema». Ha pubblicato: Senza sipario, Che cos’è il teatro?, Il Teatro a Messina e Taormina negli anni ‘70 (intervista a Rocco Familiari).

«Il teatro è la summa di tutte le arti» dice Bob Wilson, maestro del teatro contemporaneo, che Giacobbe ha iniziato ad amare dopo uno spettacolo al teatro V. Emanuele. Scoccata magicamente la scintilla, Giacobbe ha seguito passo passo, nei massimi teatri italiani e soprattutto al Festival di Spoleto (dove chi scrive ha potuto seguire Lecture on nothing di Cage, diretto da Wilson), ogni spettacolo del geniale regista americano, campione dello spettacolo contaminato, integrato, visuale, poliedrico, capace di creare una «struttura nel tempo» in cui tutti gli elementi visivi creano una cornice che gli attori «devono riempire».

Il libro di Giacobbe è un autentico omaggio all’arte straordinaria, fantasmagorica e geniale di Wilson, un vademecum per gli studiosi, i critici, gli appassionati, per gli studenti, i giornalisti, i critici, che possono trovare interviste, note critiche, elenco degli spettacoli e una ricca biografia. E ancora, ricordi, recensioni, resoconti di oltre un trentennio di attività, che si intrecciano con testimonianze di personalità quali Eco, Bonito Oliva, Cirio, Tomasello, Andò. Uno sguardo appassionato e dettagliato, di chi crede nel teatro autentico senza barriere, senza schemi e senza limiti.

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Cover Quaderni Godot
1 Marzo 2023

Quaderni scritti a penna di un futuro Premio Nobel: Samuel Beckett

Andrea Porcheddu, «Gli Stati Generali»

Ma insomma Samuel Beckett si può toccare o no? Si sa: il burbero premio Nobel scriveva testi teatrali che erano delle partiture, misurate al secondo. Tra didascalie, parole e pause vi è una tensione continua e il dettato beckettiano è stato a lungo ritenuto – e ancora lo è – per l’appunto, intoccabile. Complice anche la ferrea tutela dei doverosi diritti d’autore: Beckett o lo si fa à-la-Beckett, senza toccare una virgola, o non si fa.

A parte il fatto che qui da noi lo recitiamo in italiano, ossia in una lingua altra (e già questo è un poderoso modificar l’originale, per quanto filologica sia la traduzione), è chiaro che, tanto per far un paragone, se affrontiamo Verdi o Puccini, non ci viene in testa di prendersi licenze, ossia modificare, tagliare, riscrivere, sfumare. Per quel che mi riguarda appartengo a questa scuola: con il repertorio classico bisogna fare i conti, per quel che è, senza stare tanto a riscrivere. Ma il teatro, nato nel politeismo greco, suggerisce sempre la molteplicità, lo sguardo aperto, l’alternarsi e il convivere di possibili: e, come nella vita, è meglio il pluralismo, accogliere possibilità diverse, mettersi in discussione, ascoltare, essere smentiti nelle proprie certezze (non è poi che i monoteismi abbiano fatto bene alla salute o allo spirito…).

Di fatto, la ricerca, in teatro come in musica, è cresciuta anche violentando i cosiddetti classici, che proprio in quanto tali si prestano ad ogni misfatto; uscendone peraltro spesso vincitori loro, i classici, ‘ché ne hanno da dire rispetto alle visioni e alle letture e ai riadattamenti, magari in salsa «contemporanea», di tanti volenterosi registi-autori o registe-autrici.

La questione beckettiana, però, è tornata fuori in occasione dell’allestimento di Aspettando Godot, ovvero la summa dell’irlandese, ad opera del maestro greco Theodoros Terzopolous, che, con i suoi straordinari interpreti, ha giocato assai liberamente con l’originale. Intanto perché ha attinto alla traduzione greca, ben diversa da quella canonica italiana (dunque traduzione della traduzione); e, come nel suo stile, ha dato di forbici di gran lena. Cosa che ha comportato una levata di scudi di parte della critica e del pubblico, indignati, entrambi, di tale e tanto ardire, sorta di lesa maestà beckettiana intenzionale e dolosa.

Altri, più comprensivi, hanno apprezzato l’esito scenico, magari cogliendo anche lo slancio di Terzopoulos di fare dell’Aspettando Godot una tragedia classica, invocando un’interpretazione attorale conseguente: non solo e non più un dramma dell’incomunicabilità degli anni Cinquanta, ma una vera tragedia eterna sul destino dell’umanità. E l’esito, almeno a mio parere, è quanto di più beckettiano abbia visto in molti anni, per tensione, suggestione e poeticità. Dunque ha fatto bene o ha fatto male il regista ad affrontar così di petto Samuel Beckett? Per far chiarezza, è bene tornare a consultare le fonti. E qui arriva in prezioso aiuto l’instancabile lavoro di Mattia Visani e della sua Cue Press, casa editrice emiliano-romagnola specializzata in teatro, cinema e arti (ho il piacere di aver pubblicato qualche cosa con questa giovane e gagliarda casa editrice).

Insomma, nel giro di pochissimo tempo, Cue ha mandato in libreria tre volumoni che raccolgono, in versione italiana, i diari di lavoro del genio dublinese. Non solo Aspettando Godot, ma anche Finale di Partita e L’ultimo nastro di Krapp (ed è in arrivo un altro libro dedicato ai Drammi brevi). Edizioni critiche dei quaderni di regia, opere di grande bellezza e nitore che svelano proprio il processo creativo beckettiano. Sono libri esaltanti, minuziosi nel ricostruire, battuta dopo battuta, il farsi vita del teatro, testimoniato dalla copia riprodotta dei quaderni originali, prontamente tradotti. C’è la grafia minimale di Beckett, i suoi schizzi, il piano luci, gli appunti, i cambiamenti.

Ecco il fatto: Beckett ovviamente non si considerava un «classico» e bellamente procedeva, stesura dopo stesura, a migliorare e adattare il proprio lavoro, lasciando poi alla regia una certa libertà. Ad aprire il volume dedicato a Godot arriva subito un chiarimento, grazie al curatore dell’edizione originale inglese, James Knowlson: «Nel teatro niente si può etichettare come definitivo. Un’opera o un ruolo sono costantemente aperti alla reinterpretazione […]. Le produzioni di Beckett delle proprie opere illustrano questo chiaramente, allo stesso modo delle produzioni dirette da qualsiasi altro regista. Pensare che Beckett credesse che lui, o chiunque altro, potesse ‘rendere fisse’ le sue opere è un luogo comune sbagliato: del resto, più volte chiarì che altre produzioni avrebbero avuto una ‘musica’ differente dalla sua, e così accettò differenti sistemazioni del palco. Nelle poche occasioni in cui mosse obiezioni a certe proposte registiche era perché pensava che fossero stati fatti cambiamenti a elementi base che avrebbero alterato radicalmente le opere» (pag. 7).

E aggiunge Luca Scarlini, ottimo curatore della versione italiana, presentando l’opera: «Samuel Beckett in tutta la sua esistenza torna continuamente ai suoi testi, li rivisita, aggiunge, toglie. […] è possibile entrare nel laboratorio di azioni verbali e gestuali di un autore capitale del secolo scorso, la cui influenza rimane capillare nelle forme più diverse del presente […]. Le produzioni di Berlino allo Schiller Theater, quelle con il San Quintino Theatre Workshop, sono altrettante tappe di una conoscenza della forma-scena, che egli mette assai fortemente in discussione» (pag. 9).

A sfogliare i libri si è quasi colti da una vertigine. Quanto è bello vedere quelle pagine vergate a mano, quegli schemi, quegli improvvisi guizzi di genio che scaturiscono da un metodico e certosino lavorio di limatura. Aspetti che emergono chiari anche in Finale di partita, con l’edizione critica a cura di Stanley E. Gontarski; e in L’ultimo nastro di Krapp, con l’edizione critica ancora di Knowlson (anche questi volumi vantano l’edizione italiana a cura di Scarlini).

Libri, dunque, ma con la peculiarità straordinaria di trascinare il lettore nella fucina, nella fabbrica di un artigiano a lavoro: non genio e sregolatezza, ma metodo e rigore cui si assiste, pagina dopo pagina, con commossa partecipazione. Nel 1952 Beckett scriveva quei suoi appunti su Aspettando Godot; meno di venti anni dopo sarà premio Nobel.

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20 Giugno 2018

Vita di Hans-Thies Lehmann che inventò il teatro...

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1 Aprile 2018

John Ford e la tragedia crudele

Laura Bevione, «Hystrio», XXXI-2

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1 Gennaio 2018

Dal mito all’istinto, un discorso sul metodo

Roberto Rizzente, «Hystrio», XXXI-1

Non ha bisogno di presentazioni, Theodoros Terzopoulos. Ospite, da qualche anno, al Vie Festival modenese, si distingue per l’originalità delle messinscene e la ferocia animalesca degli attori, entro i limiti di una geometria precisa, quasi wilsoniana, conciliando i poli della ragione e dell’istinto. Di quell’universo misterico, Il ritorno di Dionysos svela i retroscena. Perché non […]
1 Gennaio 2018

L’esplosione di graffi teatrali di fine Novecent...

Doriana Legge, «L’Indice», XXXV-1

ll libro di Hans-Thies Lehmann, a leggerlo come non avesse già la maggiore età, ci parla di una serie di urgenze che il teatro, nel finire del XX secolo, ha esibito sullo sfondo di un paesaggio in rovina. È per lo più un testo che si interroga sull’approccio semiotico dello spettacolo e si concentra sulla […]
1 Dicembre 2017

Il teatro postdrammatico

Alfio Petrini, «LiminaTeatri»

La prima edizione del libro risale al 1999. La progettazione a dieci anni prima. Con la traduzione di Sonia Antinori e la postfazione di Gerardo Guccini, la casa editrice Cue Press ha compiuto un’opera meritoria, pubblicando il saggio di Hans-Thies Lehmann Il teatro postdrammatico (Bologna, 2017). In una breve antologia di osservazioni e dialoghi figurano […]
23 Ottobre 2017

Il teatro postdrammatico di Lehmann. Un paesaggio...

Doriana Legge, «Teatro e Critica»

Vent’anni fa parlare di postdrammatico suggeriva il riferimento a una categoria fluida in cui riconoscere alcune pratiche già attive nella cultura teatrale, dare voce a qualcosa di cui già si percepiva la forma, in maniera forse ancora poco cosciente per chi quella scena la viveva. L’edizione italiana del libro di Hans-Thies Lehmann (con la traduzione […]
13 Ottobre 2017

Oltre la performance

Francesco Ceraolo, «Fata Morgana»

La pubblicazione in italiano de Il teatro postdrammatico di Hans-Thies Lehmann è un avvenimento di grande rilevanza che la teatrologia italiana non può assolutamente sottovalutare. Si tratta, senza dubbio, del più importante studio sistematico sul teatro contemporaneo post-drammatico (cioè puramente performativo) della seconda metà del Novecento, che ha influenzato una generazione di studiosi e che, […]
1 Ottobre 2017

Hans-Thies Lehmann arriva in Italia

Diego Vincenti, «Hystrio», XXX-4

Alla sua prima edizione in italiano (finalmente), Il teatro postdrammatico di Lehmann è uno di quei pochi saggi che hanno davvero segnato il loro tempo. Un frame. Di una scena in profonda evoluzione a fine millennio. Teorica e pratica. Ma si ferma mai il teatro? Non che sia invecchiato dunque il libro di Lehmann, tre […]
7 Settembre 2017

Il Neorealismo secondo Alberto Farassino

Stefania Parigi, «Fata Morgana»

Il trentacinquesimo Bellaria Film Festival ha ricordato, nel maggio 2017, Alberto Farassino, promuovendo la ripubblicazione di quel prezioso libro-catalogo che nel 1989 accompagnò la retrospettiva Neorealismo. Cinema italiano 1945-1949, curata da Farassino con la collaborazione di Sara Cortellazzo per il Festival Internazionale Cinema Giovani di Torino. Nella copertina dell’edizione originale, in bianco e nero, figura […]
13 Agosto 2017

La Bibbia del teatro che racconta il nostro tempo

Maurizio Porro, «Corriere della Sera»

ll teatro postdrammatico, libro uscito e studiato in tutto il mondo (partendo dal 1999, tre le edizioni tedesche) dell’emerito professor Hans-Thies Lehmann, sta finalmente per comparire in Italia (la traduzione è di Sonia Antinori, uscita e presentazione a Roma a Short Theatre) con Cue Press, casa editrice digitale ideata dall’ex attore Mattia Visani nel 2014, […]
1 Agosto 2017

L’America di Elio De Capitani

Giovanni Azzaroni, «Antropologia e Teatro»

Il saggio di Laura Mariani si dipana in un arco temporale che va dal 1953 al 2015 ripercorrendo analiticamente e criticamente il percorso artistico di Elio De Capitani attraverso la lettura delle sue più recenti messe in scena e interpretazioni che ne hanno segnato significativamente la carriera. Si tratta di un ardito e intelligente tentativo […]
25 Giugno 2017

Racconti del grande attore di Mirella Schino

Giovanni Graziano Manca, «Saltinaria»

Quel periodo della storia del teatro italiano denominato del ‘Grande Attore’ ha inizio con le rappresentazioni della Compagnia Reale Sarda all’Esposizione Internazionale di Parigi del 1855. Le compagnie teatrali, in quella particolare temperie storica, erano solite appoggiarsi ad un attore di grande fama solitamente maschile, non necessariamente protagonista, per attrarre il proprio pubblico. Furono questi «interpreti […]
22 Giugno 2017

Il Neorealismo è la lingua nazionale del nostro c...

Paolo Lughi, «Il Piccolo»

«Il Neorealismo è l’italiano del cinema, la lingua nazionale che forse non sappiamo più parlare, perché ormai la koinè europea o planetaria è più utile o obbligata. Ma è l’unica che si possa ancora studiare a scuola, l’unica che ci consenta di fare bella figura in società e che ci dia un’identità all’estero». Così scriveva […]
1 Giugno 2017

Il corpo-mente di chi recita

Paola Bigatto, «L’Indice», XXXIV-6

«Il teatro raccontato può essere più appassionante di quello visto? Sì, può esserlo, perché il lavoro dell’attore contiene molte più cose di quelle che si vedono». Scrive Laura Mariani nel suo studio sulle interpretazioni di Elio De Capitani in Angels in America, Frost/Nixon, Morte di un commesso viaggiatore (e nel film Il Caimano dove l’attore […]
19 Aprile 2017

Come è cambiato il teatro secondo De Marinis

Pierfrancesco Giannangeli, «il Resto del Carlino»

Un altro titolo non soltanto per gli addetti ai lavori, ma anche per gli appassionati di teatro, è stato appena ripubblicato da Cue Press. La casa editrice imolese, fondata e diretta da Mattia Visani, ha infatti recentemente messo sul mercato Al limite del teatro. Utopie, progetti e aporie nella ricerca teatrale degli anni Sessanta e […]
1 Aprile 2017

1918: lezioni di teatro

Pierfrancesco Giannangeli, «Hystrio», XXX-2

Una splendida e impareggiabile (per capacità di sintesi storica e finezza culturale) introduzione di Fausto Malcovati ci racconta l’anno cruciale della Rivoluzione d’Ottobre (Russia, 1917) soprattutto nei suoi fondamentali risvolti teatrali, contestualizzando le quattordici lezioni di teatro di Mejerchol’d (giugno 1918 – marzo 1919), terminate con quella dal titolo profetico Il teatro del futuro è […]
1 Aprile 2017

Elio De Capitani, ritratto d’artista

Diego Vincenti, «Hystrio», XXX-2

Dieci anni d’artista. Dieci anni di un Elio De Capitani d’America. È questo il frammento di carriera (e di vita) su cui si sofferma lo sguardo di Laura Mariani, non nuova nel raccontare di grandi attori e delle loro quotidiane sfide. In un approccio che da tempo unisce meticolosità accademica e piacevolezza di lettura. Meno […]
1 Aprile 2017

Sotto il segno della Biomeccanica

Giuseppe Liotta, «Hystrio», XXX-2

Dalla collana I libri bianchi della Ubulibri del 1993 torna oggi in libreria per la Cue Press L’attore biomeccanico che si avvale di una doppia introduzione: la prima, del curatore Fausto Malcovati, ci invita a leggere il volume non dal primo capitolo ma dall’Appendice che, dell’attività pedagogica svolta nello Studio di via Borodinskaja (1913-17), diretto […]