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Approfondimenti, interviste, recensioni e cultura: il meglio dell’editoria e delle arti da leggere, guardare e ascoltare.

Cavell stanley foto autore 2
15 Gennaio 2023

Sul «per ora e per sempre»

Simona Busni, «Fata Morgana Web»

«Tre metamorfosi io vi nomino dello spirito: come lo spirito diventa cammello, come il cammello leone, e infine il leone fanciullo. Molte cose pesanti vi sono per lo spirito, lo spirito forte e paziente nel quale abita la venerazione: la sua forza anela verso le cose pesanti, più difficili a portare. […] Crearsi la libertà e un no sacro anche verso il dovere: per questo, fratelli, è necessario il leone. […] Perché il leone rapace deve anche diventare un fanciullo? Innocenza è il fanciullo e oblio, un nuovo inizio, un giuoco, una ruota ruotante da sola, un primo moto, un sacro dire di sì» (Friedrich W. Nietzsche).

Che la ricerca della felicità sia un «diritto inalienabile» – insieme alla vita e alla libertà – ce lo insegna il testo della Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti d’America. Che esso possa riguardare altresì il cinema e la commedia ce lo insegna un filosofo, Stanley Cavell, colui che ha, di fatto, incontestabilmente trasformato la filosofia in un qualcosa di americano, e lo ha fatto (anche) attraverso i film. Uso il verbo «insegnare» al presente, nonostante il libro in questione, Pursuits of Happiness. The Hollywood Comedy of Remarriage, risalga al 1981, per due motivi: il primo è l’occorrenza legata alla pubblicazione di una nuova edizione italiana dell’opera, curata da Piergiorgio Donatelli (Cue Press 2022); il secondo concerne il valore etico inestimabile della sua eredità teorica negli studi sul cinema, il quale merita, oggi più che mai, a quattro anni dalla scomparsa dell’autore, di essere ancora pienamente riscoperto e riaffermato.

Curioso constatare che, in italiano, c’è sempre di mezzo un «ri-» quando si parla di Cavell, a partire dall’eccentrico neologismo «rimatrimonio», ormai normalizzato dal lessico specialistico, che il suo inventore, Emiliano Morreale, ripristina con fierezza in questa (ri)traduzione, definita nella nota, maggiormente «anfibia rispetto a quella realizzata per Einaudi nel 1999 perché ispirata talvolta ‘[…] a criteri di scioltezza per non perdere del tutto il contatto con lo stile di Cavell’, più spesso attenta alla lettera del testo» (Morreale 2022, p. 21). Al di là degli aspetti più tecnici – seppure evidentemente imprescindibili, essendo Cavell un filosofo del linguaggio ordinario che «parla al filosofo il linguaggio del cinema e al cinefilo il linguaggio della filosofia» (ibidem) – tutto ciò che richiama il senso della «ripetizione» ha nel pensiero cavelliano un valore molto preciso, che dalle altezze teoretiche prefigurate dalle visioni di autori come Platone, Kierkeegard, Nietzsche e Freud (tra gli altri), si innesta nell’impianto retorico dei generi cinematografici, creando un ibrido critico portentoso, estremamente dinamico e versatile. Ecco, allora, qual è un’altra cosa che continua a insegnarci Cavell: a riconoscere un certo tipo di commedia quando la vediamo al cinema.

«Il film […] pone una questione riguardante la convalida del matrimonio, la realtà del suo legame, nel modo in cui tale questione è posta nel genere della commedia del rimatrimonio. La sua risposta partecipa (o contribuisce con la sua particolare tonalità) alla risposta che tale struttura fornisce: che la validità del matrimonio esige la disponibilità [willingness] alla ripetizione, la disponibilità al rimatrimonio. L’obiettivo della conclusione è far tornare i due a un particolare momento della loro passata vita comune. Non è richiesta una nuova risoluzione, ma soltanto la ripresa di un’azione che è stata, per così dire, interrotta; non si deve ricominciare da capo, ma ricominciare un’altra volta, trovando il filo e riprendendolo» (Cavell 2022, p. 133).

Sette film soltanto, accuratamente selezionati tra le cosiddette screwball comedy degli anni Trenta e Quaranta – perché l’atto critico, sostiene Cavell, è sempre arrogante. Di generazione in rigenerazione, queste commedie incorporano nell’impasto ontologico del cinema classico sostanze drammatiche di matrice shakespeariana, addizionate al succo che il filosofo estrae direttamente dalla riflessione sullo scetticismo (e dalle Ricerche filosofiche di Wittgenstein). Dietro ai sofisticati rimatrimoni tra Katherine Hepburn e Cary Grant, tra Barbara Stanwyck e Peter Fonda, tra Claudette Colbert e Clarke Gable – senza dimenticare gli incroci trasversali con James Stewart, Spencer Tracy, Irene Dunne e Rosalind Russel – magistralmente orchestrati dal genio di registi come Howard Hawks, George Cukor, Preston Sturges, Frank Capra e Leo McCarey, si spalanca un ventaglio di questioni enormi riguardanti l’identità, l’uguaglianza, il limite e la trasgressione, l’educazione, la separatezza, il dubbio, il rischio dell’elusione reciproca, il narcisismo, il peso delle scelte, il ruolo dei figli, la condivisione del tempo, l’avventura, l’importanza della conversazione, l’uso delle parole in relazione al contesto, la redenzione del quotidiano, le prime volte, la battaglia dei sessi.

Accadde una notte, certo, ma Cavell ci assicura che può accadere ancora. Forse per il lettore contemporaneo potrebbe essere stimolante accogliere una nuova sfida critica e tentare di rispondere al quesito che si pone lo stesso autore nell’introduzione di Alla ricerca della felicità in merito all’ipotetico esaurimento del genere. Vale a dire, è possibile girare al giorno d’oggi altre commedie del rimatrimonio in un contesto storico-culturale-produttivo completamente diverso? A seguire, Cavell segnala alcuni titoli più «recenti» di film che iniziano con un divorzio e poi riflettono sul matrimonio: Una donna tutta sola (An Unmarried Woman, P. Mazursky, 1978), E ora: punto e a capo (Starting Over, A. J. Pakula, 1979) e Kramer contro Kramer (Kramer vs. Kramer, R. Benton, 1980). Certo, le premesse sono altre; molti passaggi topici non sussistono, ma il critico motivato (e arrogante!) può giocare a ridefinire la categoria, motivando eventuali divergenze e introducendo nuove proprietà.

Cavell si ferma qui, anche se in alcuni saggi, scritti tra la fine degli anni Novanta e i primi anni Duemila (tra cui, Cavell 1999 e 2005), timidamente ci riprova e abbozza una nuova lista di film eredi: Stregata dalla luna (Moonstruck, N. Jewison, 1987), Tootsie (id., S. Pollack, 1982), Insonnia d’amore (Sleepless in Seattle, N. Ephron, 1992), Ragazze a Beverly Hills (Clueless, A. Heckerling, 1996), Ricomincio da capo (Groundhog Day, H. Ramis, 1992), Joe contro il vulcano (Joe vs. the Volcano, J. P. Shanley, 1990), Mr. Crocodile Dundee (Crocodile Dundee, P. Faiman, 1986), Una donna in carriera (Working Girl, M. Nichols, 1988), Qualcuno da amare (Untamed Heart, T. Bill, 1993), Innocenza infranta (Inventing the Abbots, P. O’Connor, 1997), Quattro matrimoni e un funerale (Four Weddings and a Funeral, M. Newell, 1994), Il matrimonio del mio migliore amico (My Best Friend’s Wedding, J. P. Hogan, 1997), Tutti dicono I love you (Everyone Says I Love You, W. Allen, 1996), La Fortuna di Cookie (Cookie’s Fortune, R. Altman, 1999) Qualcosa è cambiato (As Good As It Gets, J. L. Brooks, 1997).

A questo primo blocco, Cavell aggiunge un trittico di film tutti interpretati dall’attore John Cusack, la cui sensibilità fisica si imporrebbe nella contemporaneità cinematografica, ricalcando in qualche maniera la tipologia attoriale classica dello star-system hollywoodiano alla Cary Grant: Sacco a pelo a tre piazze (The Sure Thing, R. Reiner, 1985), Non per soldi… ma per amore (Say Anything, C. Crowe, 1989) e L’ultimo contratto (Grosse Point Blank, G. Armitage, 1997). Senza approfondire l’argomento, Cavell sottolinea il fatto che esistono almeno due differenze eclatanti tra le coppie delle commedie del rimatrimonio e quelle delle «nuove commedie»: prima di tutto, le nuove coppie (tranne in qualche caso) sono più giovani, meno sofisticate; secondo, persiste l’impressione che vi sia un’incapacità di immaginare e desiderare il futuro da parte di questi giovani protagonisti.

Non è questa la sede appropriata per un’indagine sulle nuove commedie, ma chi scrive ha la netta impressione che il modello di Cavell non abbia mai realmente esaurito la sua carica ermeneutica e che al cinema i rimatrimoni continuino a essere celebrati. Si prenda un film recentissimo come Ticket to Paradise (O. Parker, 2022) con George Clooney e Julia Roberts, attrice già presente in almeno tre pellicole della sopracitata lista, a cui se ne può aggiungere un’altra, a impianto incontestabilmente rimatrimoniale, come Se scappi ti sposo (Runaway Bride, G. Marshall, 1999). Gli ex coniugi, David e Georgia Cotton, si ritrovano insieme in occasione del matrimonio «a sorpresa» della loro unica figlia Lily nello scenario esotico dell’isola di Bali; un mondo verde in piena regola, per citare una delle strutture più note della commedia cavelliana (mutuata da Anatomia della critica di Northrop Frye), la quale prevede un passaggio obbligato da parte della coppia protagonista attraverso un luogo diverso, per certi versi magico, ameno, un paradiso perduto in cui diventa possibile conquistare una prospettiva rinnovata sulle cose (il più delle volte, si tratta del Connecticut).

David e Georgia non si sopportano, fanno fatica perfino a stare seduti vicini, ma decidono comunque di allearsi per sabotare le nozze della figlia, mettendo in pratica l’infallibile tattica del «cavallo di Troia». Non vogliono che lei commetta il loro stesso errore. In cosa consista realmente quell’errore i due non sono in grado di spiegarlo, così come non riescono a sostenere una conversazione senza litigare, rivangando vecchie questioni irrisolte. Perché non si sono mai capiti e ognuno ha nutrito le proprie convinzioni con la grammatica assurda di un linguaggio privato. Alla fine del film scatta il miracolo: di fronte al «per ora e per sempre» pronunciato dalla coppia giovane, anche gli adulti finalmente si riconoscono e accettano di dare la loro benedizione. Pertanto, decidono di ri-scommettere sulla loro unione, concedendosi quell’agognato nuovo inizio che riavvolge il tempo intorno alla nudità assordante dell’unica risposta che conta davvero: sì. Sì alle domande poste con il giusto tempismo, al presente che non smette mai di accadere, alla realtà dell’altro/a e dei suoi pensieri più reconditi, a un atteggiamento comune da abitare, al sogno di una vita possibile.

Se Julia Roberts sia o meno l’erede di Katherine Hepburn o se queste nuove commedie possano lontanamente reggere il confronto con i testi filmici analizzati in Alla ricerca della felicità, non sta a noi stabilirlo. Limitiamoci a incorporare la verità della grande lezione promossa dalla filosofia del cinema di Cavell, una verità che suona quasi come una benedizione. Tutto, prima o poi, ritorna: i miti, i generi, i racconti, le star, i vecchi amori, le (seconde) possibilità. Ma, soprattutto, ritornano le parole. Sta a noi essere in grado di riconoscere ciò che abbiamo davanti agli occhi.

Riferimenti Bibliografici

S. Cavell, “The Good of Film”, in Cavell on Film, a cura di W. Rothman, State University of New York Press Cavell, New York 2005.
Id., Les comédies du remariage: une histoire du lien conjugal, in “Esprit”, n. 252, 1999.
N. Frye, Anatomia della critica, Einaudi, Torino 2000.

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Koreeda2
11 Gennaio 2023

Claudia Bertolé, Il cinema di Kore’eda Hirokazu. Memoria, assenza, famiglie

Giacomo Calorio, «Sonatine»

Della folta schiera di registi giapponesi emersi negli ultimi decenni – schiera delle cui dimensioni ci si può fare un’idea su queste pagine – al momento Kore’eda Hirokazu è l’unico a essersi guadagnato un posto stabile nella nicchia della distribuzione italiana. Il merito di questo piccolo miracolo non va solo ai caratteri universalmente declinabili del suo cinema, tali da incontrare gli interessi di platee lontane e più vaste di quelle di solito attratte dalle cinematografie cult e dal Giappone «di per sé», né soltanto alla presenza costante dei suoi film nei programmi dei principali festival europei, che più di una volta li hanno insigniti di premi prestigiosi. Il merito va anche, se non soprattutto, all’intraprendenza di giovani case di distribuzione locali come Tucker Film e Double Line che, proseguendo la strada tracciata da BIM con Father and Son, primo film di Kore’eda a essere distribuito nel nostro paese, hanno evitato che si trattasse di un caso isolato, portando tutta l’opera successiva del cineasta giapponese nelle nostre sale e nei nostri salotti, e rendendo così i suoi film, poco alla volta, familiari anche ai non addetti ai lavori. Quanto basta per rendere non solo più che giustificata, ma anche assai utile e gradita, se non doverosa, la presenza di una monografia italiana dedicata al regista.

Il cinema di Koreeda Hirokazu – Memoria, assenza, famiglie di Claudia Bertolé è la riedizione, rivista e aggiornata, di una precedente monografia che l’autrice aveva già dedicato al regista giapponese: Splendidi riflessi di ciò che manca, edito nel 2013 dal «Foglio». Va tuttavia considerato che, nei dieci anni intercorsi da tale edizione, la filmografia di Kore’eda si è arricchita di sei nuovi film, tutti usciti in Italia, laddove all’epoca della precedente versione del libro solo il già citato Father and Son aveva goduto di una distribuzione nostrana. Non solo: in questo arco di tempo, l’eclettismo (di superficie, per lo meno) dell’opera di Koreeda si è arricchito, da un lato, di un ulteriore genere prima d’allora rimasto inesplorato dal regista, ovvero il dramma giudiziario del Terzo omicidio (‘ché, va ricordato, la filmografia del regista non si compone solo di drammi familiari, ma comprende anche documentari, un film in costume, un film fantastico e un dramma «metafisico»); dall’altro, di due titoli realizzati all’estero: Le verità, girato in Francia, e Le buone stelle – Broker, girato in Corea del Sud; infine, di una Palma d’Oro al festival di Cannes (andata a Affari di famiglia) che ne ha confermato, rinnovandolo, lo status di grande autore internazionale. Si tratta di sviluppi importanti che esigevano senz’altro un’edizione aggiornata che ne rendesse conto e li collocasse al contempo nel contesto di una produzione, avviatasi molti anni addietro, coerente tanto sul piano tematico quanto su quello stilistico.

La struttura del libro è in buona parte simile a quella della monografia edita dal «Foglio»: a una parte in cui Bertolé sviscera quelli che lei individua come i tratti fondamentali del cinema del regista dedicando a ognuno di essi un capitolo, ne segue un’altra in cui l’autrice si concentra invece sui singoli film. Completano il libro una prefazione a firma di Dario Tomasi, assente nella prima edizione, un’introduzione dal taglio più personale in cui la stessa Bertolé rende conto del suo amore ormai più che ventennale per il cinema del regista, e infine gli utili apparati finali quali una sintetica biografia, la filmografia completa del regista e la bibliografia. A corredo del tutto, una piccola galleria iconografica posta alla fine di ciascun capitolo. Per quanto concerne gli approfondimenti della prima parte, tutti aggiornati in questa nuova edizione, così da includere anche i nuovi lavori del regista, sono rispettivamente dedicati ai seguenti argomenti: lo sguardo documentario del regista (sguardo, va ribadito, presente anche nelle opere di fiction), il tema della memoria, strettamente legato a quello dell’assenza (il cui contraltare è la presenza dell’ambiente circostante, umano o naturale che sia), quello della famiglia (o meglio «delle famiglie»), le figure femminili del cinema di Kore’eda e infine il rapporto stilistico, oltre che tematico, con il cinema di Ozu, l’autore del cinema classico che, insieme a Naruse, più spesso viene chiamato in causa quando si parla del cineasta oggetto del libro. Ciascuno di questi temi viene poi declinato sui singoli film nella seconda parte del libro in cui Bertolé analizza punto per punto l’intera produzione del regista, compresi i documentari televisivi e la serie Going My Home.

Una monografia agile ma completa, quindi, la cui utilità si snoda su due fronti: da una parte, essa servirà al lettore che voglia approfondire e meglio comprendere l’ormai nutrito numero di opere viste e reperibili in Italia attraverso l’attenta analisi critica dell’autrice e la contestualizzazione dei film dell’autore nell’ambito più esteso del cinema e della cultura giapponesi; dall’altro, gli consentirà di ampliare e completare la sua conoscenza della filmografia complessiva del regista, qualora essa sia limitata alle sole opere uscite in Italia, colmando i buchi costituiti dai primi importantissimi lavori mai distribuiti nel nostro paese. Il testo di Bertolé, infine, può essere utilizzato anche in maniera simbiotica e complementare rispetto all’altra preziosa uscita recente che Cue Press ha dedicato al regista, ovvero Pensieri dal set, il saggio al contempo teorico e autobiografico firmato dallo stesso Kore’eda (nella traduzione italiana di Francesco Vitucci) in cui il cineasta guarda al proprio cinema. Se Pensieri dal set ci offre la preziosa opportunità di godere di un punto di vista interno e personale sulla produzione di Koreeda, ugualmente prezioso è il punto di vista esterno e analitico di una studiosa che da anni si dedica ai lavori del regista.

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Amarcord
6 Gennaio 2023

Il meglio e il peggio del cinema anni Settanta racconta l’Italia

Giovanni Scipioni, «Il Domani»

Quando Fellini raccontava con successo la sua infanzia in Amarcord, al cinema si faceva la fila per vedere i giochi erotici di Emmanuelle. Nello stesso periodo Gian Maria Volonté svelava agli spettatori come intraprendere L’indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto mentre l’avventuriero Franco Nero, Cipolla Colt, incastrava i cattivi colpevoli senza versare una lacrima. L’alto e il basso. Il meglio e il peggio del cinema italiano degli anni Settanta.

Tanta diversità ma un comune pensiero audace: trasgressione, libertà, fancazzismo e lotte politiche. Oggi c’è il timore ma anche la speranza di rivivere quegli anni, di passeggiare nello stesso giardino occulto. Dalla politica alla cultura, all’economia, all’educazione. Da quando si usavano i gettoni per telefonare a quando è sufficiente roteare un dito per avere un teatro di comunicazioni.

Paragoni come sempre inadeguati anche perché appare contraddittoria e complessa ancora oggi un’analisi compiuta degli anni Settanta. Favolosi per alcuni, cupi per altri, formativi per alcuni, deleteri per altri. Un perfetto binario emozionale, quasi una sorta di schizofrenia sociale e individuale che il cinema ha saputo raccontare.

Epoca confusa

L’anno inizia con un ritiro, quello dei Beatles. Let it be. E così sarà per tutto il decennio. Terrorismo, bombe e stragi fasciste, brigate rosse, rapimento Moro, scandali politici, radio e TV libere che in poco tempo vengono bullizzate. Sono gli anni in cui Fabrizio De André sostiene di essere di «un’altra razza, son bombarolo». Lucio Battisti ha «un sottile dispiacere nel seguir con gli occhi un airone», mentre Franco Battiato spera che ritorni presto l’era del cinghiale bianco.

In questo quadro confuso e contraddittorio dove, dipinto dalla canzone popolare, cuore e mente fanno allegramente baruffa, il cinema italiano, già arricchito dai successi degli anni Sessanta, continua ad avere un grande seguito di pubblico. Continua a essere il maggiore divertimento degli italiani e la sala buia resta uno dei luoghi più felici per conoscere storie e persone.

Si andava a vedere Amici miei e C’eravamo tanto amati, ma anche La liceale e La moglie vergine staccavano tanti biglietti, per la gioia di produttori, in alcuni casi improvvisati. Tutti successi. Un pubblico in gran parte binario, chi sceglieva Amarcord non cedeva alle lusinghe di Emmanuelle, anche se non mancavano le dovute eccezioni.

Facile dire che il paese (almeno al cinema) era diviso in due. Per dirla con le parole di Renato Palazzi, gli italiani e quei film (Il peggio degli anni Settanta in 120 film, edizioni Cue Press) erano esotici, erotici e psicotici. Palazzi demolisce con efficacia e competenza il cinema trash, quello del buco della serratura, che risulta «un po’ peccaminoso e un po’ parrocchiale».

I film melensi

Accanto all’erotismo da meriggio bianco, prende il sopravvento il filone dei buoni sentimenti. In realtà si tratta di fuorvianti romanticherie, veri e propri sdilinquimenti da pianura paludosa. I veri sentimenti non sono di casa. Come nel caso del melenso Il venditore di palloncini che ha aperto non una porta ma un portone gigantesco per tutte le telenovelas che seguiranno. La scena del padre che piange sul letto del figlio malato è così falsa e male interpretata che sembra una parodia. La sceneggiatura poi un prodigio della natura. «Figlio mio… figlio mio» (e giù lacrime finte) dice il padre abbracciandolo. Il medico interviene, manda via i suoi assistenti e si rivolge al bambino: «Ricordi che cosa mi hai promesso?» Risposta immediata: «Sì, che faccio il bravo». Interviene la suora: «E che ubbidisci a suor Maria». Immediato il colpo di scena. Il bambino si rivolge al padre e indica la suora: «È lei suor Maria».

Uno scorcio di sceneggiatura che sembra uscito involontariamente dalla comicità della TV delle ragazze o in quella lunatica di Valerio Lundini.

Eppure in questo film c’erano attori bravi e importanti come Adolfo Celi, Silvano Tranquilli, Lina Volonghi, Marina Malfatti. Fuori dal cinema si sparava e si contestava, dentro ci si commuoveva con un bambino che muore e va in paradiso salendo come un palloncino. Il basso.

Realismo felliniano

Il realismo magico di Fellini è un perfetto contrappeso, l’altro binario sociale. C’è l’atto nobile di raccontare una storia, tante storie. In Amarcord s’immagina la vita che si svolge nell’anti borgo di Rimini negli anni Trenta. C’è l’anarchico padre operaio sempre in lite affettuosa con la moglie Pupella Maggio, lo zio Lazzo, fascista all’acqua di rose che vive alle spalle dei parenti, e lo zio Ciccio Ingrassia, ricoverato in manicomio, che si arrampica su un albero e comincia a gridare di volere una donna. Ne ha diritto, del resto.

Nella scena del pranzo di famiglia, indicativa della società degli anni Trenta ma anche del decennio Settanta, suonano alla porta mentre tutti sono intorno a un tavolo per mangiare. Il padre: «Chi è a quest’ora?». La moglie stizzosa: «Che ne so io». Tina, che aiuta in casa, va ad aprire, poi rientra e senza farsi sentire dai commensali avverte il padre di una visita. Il padre si alza e va fuori stanza.

Nel frattempo tutti mangiano, ridono e si divertono – oggi diremmo cazzeggiano – visto che il padre, curatore dell’ordine parentale, si è momentaneamente assentato. Poco dopo rientra fischiettando. Si mette a sedere e beve, con apparente tranquillità, un bicchiere di vino. «Buono questo sangiovese», dice. Poi con falsa calma si rivolge al figlio. Si apre un teatrino padre-figlio che fa dire, ricordando Emily Dickinson, come molta follia sia divina saggezza.

«Di’ un po’, dove sei stato ieri sera?».
«Io? Al cinema babbo, al Fulgor».
«Cosa facevano?».
«C’erano gli indiani e gli americani volevano entrare nel territorio dei comanche ma gli indiani tiravano le frecce…».

Improvvisamente il padre si alza per picchiare il figlio, che fugge fuori casa. L’aveva combinata grossa. Poi si rivolge alla moglie: «Mi devi dire di chi è figlio questo pezzo di merda. Domani viene a lavorare con me». Il film si svolge negli anni Trenta ma racconta una società patriarcale, la stessa degli anni Settanta, messa a dura prova da durissime contestazioni. L’alto.

Raccontare il paese

Il successo e il seguito dei film brutti si spiega anche con il tentativo di raccontare la vita reale degli abitanti degli anni Settanta. Toccano corde e sentimenti comuni. Dopo l’avvento dei Beatles c’era stato in tutto il mondo, e anche in Italia, l’esplosione della musica. Con il desiderio di farla, di partecipare attivamente. Nascono numerosi complessi (allora si chiamavano così) e quasi tutti i giovani protestano, partecipano ai collettivi, entrano nella lotta armata e suonano chitarre e batterie. Si vuole diventare cantanti.

Il film Lady Barbara, che vede come protagonista un cantante famoso di quegli anni, Renato dei Profeti, racconta di un attore di fotoromanzi che vuole diventare un cantante di successo e ci riuscirà con l’aiuto di una ragazza inglese, Barbara appunto. Anche nel cinema basso s’indica la strada da seguire o semplicemente si riflette una situazione già esistente. Ecco il punto d’incontro tra cinema basso e quello alto. Raccontano il paese. Ognuno a modo suo.

Un po’ come la supercazzola di Tognazzi in Amici Miei: «Blinda la supercazzola prematura con doppio scappellamento a destra». Una divertente invenzione linguistica per prendere in giro quelli che parlavano male, dai ragionamenti volutamente contorti e ingarbugliati. Un esercito in quegli anni. C’è anche il tentativo di migliorarsi, come fa Gigi Proietti durante una pubblicità televisiva in Febbre da cavallo: «Non prendete fischi per fiaschi solo questo è un fischio maschio senza raschio… un vischio maschio senza rischio… fischio raschio senza maschio [ecc.]».

Parole tortuose per raccontare un decennio cupo, favoloso, contraddittorio e confuso. L’inaudito. C’è somiglianza.

Guardenti renzo foto autore
26 Dicembre 2022

Dalle pitture vascolari alla fotografia digitale, l’importanza dell’iconografia

Andrea Bisicchia, «Libertà Sicilia»

L’iconografia è stata, sempre, una fonte per riguardare le arti del passato e lo è stata, in particolare, per il teatro, dato che ad essa sono spesso ricorsi gli storici per ricostruire, insieme ai testi, le particolarità sceniche che hanno caratterizzato le messinscene del tempo. Pertanto, la documentazione figurativa, costituita da pitture vascolari, illustrazioni e immagini pittoriche, è stata determinante per meglio conoscere le tragedie antiche, la Commedia dell’Arte, le interpretazioni degli attori, con i loro costumi d’epoca, finalizzate a meglio conoscere il rapporto esistente tra dimensione visiva, dimensione spaziale e dimensione teatrale.

In un volume pubblicato da Cue Press, In forma di quadro. Note di iconografia teatrale, di Renzo Guardenti, non solo avvertiamo la passione dell’autore per l’argomento trattato, ma anche il suo modo di intendere la ricerca scientifica su alcuni periodi storici del nostro teatro, a cominciare dai primi Italiens che operavano a Parigi, ovvero dai nostri Comici dell’Arte, per arrivare al Settecento e all’Ottocento, con riferimenti a Talma, Marrocchesi e Sarah Bernhardt, attori dei quali Guardenti ha percorso la storia utilizzando non solo gli studi a essi dedicati, ma anche i materiali fotografici rinvenuti, per meglio inquadrare alcuni modelli dell’attorialità italiana ed europea.

Il volume contiene anche un saggio sulla iconografia viscontiana, applicato ai suoi spettacoli, a cominciare da A porte chiuse di Sartre del 1945, con Rina Morelli, Paolo Stoppa, Vivi Gioi, un saggio che va considerato anche come una riflessione sul modo di mettere in scena da parte di Visconti. Lo studio di Guardenti, che insegna Storia del teatro presso l’Università di Firenze, aiuta a capire meglio in che modo avvenga il processo compositivo, cosa determina l’arte della visione e in che cosa consista la traslazione tra visione esteriore e visione interiore. Gli apparati metodologici utilizzati dall’autore fanno riferimento agli studi ormai classici di Kernodle, Panofsky, Warburg, Zorzi, Ragghianti, tutti attenti a ricercare i significati intrinseci e simbolici di un’opera d’arte, oltre che quelli della sua doppia natura. Ma ciò che interessa maggiormente all’autore è capire il rapporto esistente tra immagine e pratica scenica, tra linguaggio figurativo e linguaggio rappresentativo, tra teatralità della pittura e la sua correlazione con la resa scenica.

Secondo Guardenti, la memoria di uno spettacolo tende a depositarsi e a sedimentarsi nelle arti figurative – con particolare riferimento a spettacoli dei secoli scorsi – fino a creare un vero e proprio processo di «traduzione» e di «trasmutazione» che offre delle tracce o delle indicazioni per meglio comprendere e, magari, approfondire un evento spettacolare, del quale ci sono rimaste delle immagini visive che a loro volta si possono scomporre, ingigantire, grazie ai recenti mezzi tecnologici. Ciò permette, attraverso i dettagli, di capire il significato di un’azione o di un’interpretazione.

In simili casi, lo storico procede nella sua indagine, utilizzando il metodo dell’assemblaggio o dell’analisi del frammento, per ricostruirne una forma di archetipo e restituire al mosaico ricomposto una specie di unità. Del resto, il frammento è stato oggetto di teorie estetiche che lo hanno reso un «segno» autonomo, il cui risultato è percepibile nella «contemplazione dell’istante». Il frammento possiede una sua fissità, ma, come sosteneva Benjamin, è nell’immobilità che s’insinua la dialettica. Tutto questo è ancora percepibile nella fissità delle immagini che riguardano, per esempio, attori e spettacoli della Commedia dell’Arte, ripetutamente studiata da Guardenti, oppure attori e attrici tra Settecento e Ottocento, che, grazie al materiale iconografico, mostrano delle posture utili per conoscere le loro pratiche interpretative.

Questo lavoro rende più moderna la coscienza storiografica, applicata alla voga figurativa e ai riscontri in contesti diversi, come quelli che si trovano nei castelli, nei palazzi signorili e, in forma ridotta, persino nelle porcellane.

Come non fare riferimento a Tiepolo, alla qualità teatrale della sua pittura e ai suoi ben noti Pulcinella?

Il volume è diviso in due parti, una teorica (pp. 145) e una figurativa (pp. 120), a dimostrazione di come certe tesi sostenute dall’autore siano fondamentali per capire il rapporto esistente tra teatro e iconografia.

Puppapolo
20 Dicembre 2022

Finzione & morale

Andrea Ottieri, «succedeoggi»

Storico del teatro tra i più prestigiosi in Italia, Paolo Puppa da tempo è anche – come dire? – un performer che mette in scena la sua perizia critica. Si può sostenere a buona ragione, anzi, che abbia inventato un nuovo genere di derivazione saggistica, ma di fatto pienamente teatrale, poiché Puppa i suoi «testi» (fiction scenica con un solido aggancio alla critica delle idee) li mette in scena in prima persona, esponendosi come attore. O performer, appunto, come è meglio affermare.

La casa editrice Cue Press ora raccoglie una serie di questi testi, che sono «monologhi, dialoghi interrotti, frammenti ‘apocalittici’», sotto il titolo La fine del mondo: una vita in serie (86 pagine, € 19.99). E si tratta di testi sostanzialmente di due tipi.

Da un lato, ci sono fantasie rabbiose nelle quali l’Io narrante sottolinea i caratteri di una società che ha smarrito senso (compreso quello della misura). Come in Tatuaggi, per esempio, dove la voce immagina di attrarre giovani provinanti non per abusare di loro ma per distruggere i loro telefonini, cancellandone – per qualche tempo almeno – la loro dipendenza dal dio selfie. E, del resto, è pur vero che proprio questa pervasività dello schermo, della dimensione virtuale, è ciò che ci ha condotto «alla fine del mondo», impedendoci di riconoscere l’unicità delle nostre esperienze: tutto affoga in una serialità coatta priva di qualsivoglia accensione.

Ed ecco, allora, che nel «diario» che, chiudendolo, dà titolo al volume, Paolo Puppa accatasta esperienze autentiche ancorché minimali (una passeggiata al mercato, la visione di uno spettacolo, una serata davanti alla TV, ecc.) per cercare lì dentro lo scampo al vuoto nel quale tutti quanti siamo precipitati. Confondendo il vero dal contraffatto, e per ciò stesso incapaci di cogliere il senso della metafora: tutto è squadernato su una galleria di schermi dove le immagini rimandano solo a se stesse. E invece l’Io narrante de La fine del mondo: una vita in serie vorrebbe distinguere, vorrebbe non perdersi, vorrebbe annotare quel che c’era e non c’è più. Perché solo nel dar vita alla finzione (vissuta come tale, il teatro, insomma) c’è spazio per la realtà, in questo nostro mondo.

Dall’altro lato, invece, ci sono testi peculiari di una mente critica: creatività di «secondo livello», applicata, come si dice in gergo. Nel senso che Puppa immagina sequel o spin off di grandi classici, da Sei personaggi in cerca d’autore di Luigi Pirandello rivisto con gli occhi del Ragazzo, a un delizioso apologo sul Mercante di Venezia di Shakespeare, nel quale Lorenzo, giovane sposo di Jessica, la figlia di Shylock, rivela i difetti della ragazza che, invece, da fidanzata «sembrava innamorata come una fanciulla, pura, una bambina, quasi. Una ragazzina inesperta di tutto». Si tratta di giochi interni ai classici, illazioni tramite le quali lo studioso duetta ora con Pirandello ora con Shakespeare, trasformando una sua intuizione critica in un gioco scenico. E portando il lettore – anche quello digiuno di Jessica o dei Sei personaggi – in una dimensione fantastica dove tutto pare noto, riconoscibile.

E, in verità, il senso di questa raccolta è proprio nella contrapposizione tra i due «generi» che la compongono: non avrebbe senso lo svago moralista (nel senso alfieriano del termine) che cerca la realtà oltre la serialità, se di fronte, contrapposto, non ci fosse il gioco di chi l’unica realtà possibile la trova nella finzione.

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Lottehe
17 Dicembre 2022

Lotte H. Eisner. Un classico della saggistica cinematografica

Giuseppe Costigliola, «Pulp Libri»

Per gli appassionati e i cultori di cinema e di teatro, l’agguerrita casa editrice Cue Press è una manna dal cielo. Il suo catalogo, tra i più interessanti nel panorama editoriale delle arti dello spettacolo per qualità ed estensione, continua ad arricchirsi di titoli. Di recente uscita è un classico della saggistica cinematografica, fondamentale per chi desideri avvicinarsi alla conoscenza di uno dei più grandi registi di sempre: Friedrich Wilhem Murnau. Si tratta del celebre lavoro di una nota studiosa del cinema novecentesco, Lotte H. Eisner. Costretta a lasciare la Germania nel 1933 in quanto ebrea, stabilitasi a Parigi dove morì nel 1983, Eisner fu caporedattrice di Cinémathèque Française, appassionata ed esperta collezionista della scenografia di Weimar, autrice di altri studi seminali come Lo schermo demoniaco (1952) e di una monografia sul suo grande amico Fritz Lang. Personaggio non poco influente, negli anni Sessanta divenne il simbolo della rinascita del cinema della Germania occidentale per registi come Werner Herzog, Wim Wenders, Margarethe von Trotta e Rainer Werner Fassbinder.

In questo volume dalla lunga gestazione (fu iniziato, apprendiamo dalla prefazione dell’autrice, nel 1957 e dato alle stampe nel 1964) la studiosa berlinese ricostruisce con acume filologico e lucida intelligenza la vita e le opere di Friedrich Wilhelm Plumpe, in arte Murnau. Con esso, l’autrice si propone di «tracciare lo sviluppo dello stile di Murnau», nonché di «dimostrare la spesso intransigente coerenza della sua volontà artistica», e lo fa attraverso la raccolta di testimonianze di artisti, collaboratori e colleghi del regista, soffermandosi sul minuzioso esame del lavoro creativo di capolavori dell’espressionismo tedesco, analizzando film e sceneggiature (alcune delle quali affidatele dal fratello di Murnau, Robert) e ricostruendo, mediante articoli, recensioni e programmi di sala, l’accoglienza delle sue opere, non sempre benevola.

Il libro si compone di quattordici capitoli; nel primo si lascia la parola a Robert Plumpe, che traccia un profilo biografico attraverso i ricordi familiari, in cui rivive vividamente un’epoca remota di grande suggestione. Seguono uno studio particolarmente interessante sul rapporto tra il cineasta e i suoi sceneggiatori (tra i quali il leggendario Carl Mayer), la testimonianza del suo scenografo e arredatore Robert Herlth, una sezione dedicata all’uso delle luci e alla tecnica di ripresa, capitoli che analizzano i singoli film, da quelli prodotti in Germania (tra cui Nosferatu), a quelli realizzati negli Stati Uniti (Aurora, I quattro diavoli e Il nostro pane quotidiano) e l’ultimo (Tabù, opera della maturità), girato in un’isola del Pacifico.

Non manca una parte dedicata ai film smarriti (nove su ventuno produzioni) e ai progetti irrealizzati, una sul periodo hollywoodiano e un capitolo sulla morte di Murnau, avvenuta nel 1931 e circondata da «storie e dettagli inverosimili», qui ricostruita con il piglio realistico dello storico e con trascinante empatia, con i dettagli dell’incidente automobilistico, l’ultimo addio nel funeral saloon cui erano presenti «poche coraggiose persone», tra cui la divina Greta Garbo («donna sola quanto lo fu lui»), il trasporto pieno di intoppi della salma fino a Berlino e la cerimonia funebre, durante la quale il grande antagonista di Murnau, Fritz Lang, tenne un toccante discorso di commemorazione, concedendo l’onore delle armi al geniale collega. È l’unico capitolo in cui Eisner tocca, con garbo estremo, il tema dell’omosessualità di Murnau, che in qualche modo si legò al tragico epilogo della sua vita.

Imperdibile la raccolta di fotografie d’epoca che chiudono il volume, insieme a una necessaria filmografia, che permette di orientarsi nella produzione del grande regista tedesco prematuramente scomparso, la cui opera, è indubbio, «resta intramontabile».

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Molinari cesare foto autore
12 Dicembre 2022

La fortuna di un gesto. I mille volti di Salomè di Cesare Molinari

Chiara Molinari, «Theatron 2.0»

I mille volti di Salomè di Cesare Molinari – professore emerito dell’Università di Firenze, nonché tra i fondatori della disciplina di Storia del Teatro e dello Spettacolo e autore dell’ormai canonica Storia del teatro (Mondadori, 1972) – intende essere, secondo le parole introduttive dello studioso, «in primo luogo un testo di compilazione, cioè di memoria», che tenta di ricostruire la «fortuna» del personaggio di Salomè, inseguendo la sua «danza» attraverso le sue innumerevoli apparizioni nelle arti figurative, nella letteratura, nel teatro e nel cinema nell’arco di due millenni.

Nella vastissima e articolata opera di ricognizione edita da Cue Press nel 2015 – arricchita da un apparato iconografico comprensivo di cento illustrazioni – Molinari evidenzia come la storia della principessa giudea, raccontata primariamente dai Vangeli di Matteo e Marco, possa ridursi a un unico e iconico «gesto»: la richiesta al tetrarca Erode Antipa di ottenere la testa del predicatore Giovanni Battista come premio per la sua danza. La pretesa crudele e spiazzante della ragazza viene però – originariamente – suggerita dalla madre Erodiade, che del re è moglie «incestuosa» e che si è attirata l’odio del profeta proprio per aver violato la legge mosaica.

Secondo un’analisi di tipo attanziale, la fanciulla non riveste dunque il ruolo di protagonista nell’episodio biblico, in quanto la sua azione si delinea come meramente funzionale al progetto di un’iniziativa altrui: è tuttavia proprio la «marginalità» di questa dinamica ad aver reso possibile – a parere di Molinari – l’«estrapolazione» della vicenda dal suo contesto, e dunque la costruzione di un modello autonomo, «forte e ambiguo», che nei secoli ha potuto essere reinterpretato nelle sfumature più contrastanti con il variare, di epoca in epoca, della sensibilità storica e sociale.

L’ambiguità del personaggio appare evidente sin dalla difficoltà che si riscontra nel tentare di identificarlo precisamente nelle prime fonti di cui disponiamo: a partire dai racconti evangelici – fino al racconto di Giuseppe Flavio – Salomè rimane infatti «senza nome», venendo addirittura confusa e sovrapposta alla figura della madre Erodiade, essendo entrambe associate ai «motivi di seduzione e della lussuria», caricati del loro significato di «eterno contrasto e di lotta per il potere». Sarà Flaubert nel suo Herodias (1877) a tentare di sciogliere e giustificare la sovrapposizione tra la figura della madre e quella della figlia, affermando che la donna apparsa ad Erode «era Erodiade quale era stata nella sua gioventù, non un’altra donna che le somigliava, ma una riapparizione della stessa».

La danza, intesa come ostentazione del corpo e dunque come espressione peccaminosa, si configura nei suoi caratteri spiccatamente teatrali sin dalla narrazione di San Giovanni Grisostomo (III-IV secolo d. C.), in quanto eseguita in quello che è definito un «teatro satanico», di fronte a «spettatori corrotti» e in un’atmosfera immersa nell’«ubriachezza e nella vacuità del godimento». La spettacolarità insita nella scena è tuttavia intimamente connessa anche a un altro elemento: l’esibizione della morte violenta e la rappresentazione del macabro, tanto gradita alla civiltà romana quanto lo sarà al mondo ottocentesco.

Quello di Salomè, nelle sue infinite stratificazioni e declinazioni, può – secondo l’autore – definirsi un mito principalmente «moderno», che trova la sua sistemazione definitiva nella tragedia «sperimentale» di Oscar Wilde: una tragedia scritta in francese, formalmente perfetta, e soprattutto un «successo di scandalo», andato in scena per la prima volta a Parigi nel 1896, dopo il divieto di Lord Chamberlain – esteso al Regno Unito – di rappresentare soggetti biblici a teatro, e dopo l’incarcerazione dello scrittore per sodomia.

La Salomè di Wilde si ispira alla dimensione classica della tragicità, e nel suo personaggio è possibile rintracciare «la passione di Fedra come l’intransigenza di Antigone, la furia vendicativa di Medea, la bellezza fatale di Elena come la decisione spietata di Clitemnestra e il rovesciamento dell’appartenenza di Elettra». Al tempo stesso, però, la protagonista si propone come estremamente moderna nella propria «imprendibilità» e ambivalenza, e soprattutto nel riferire «le sue parole e le sue azioni esclusivamente a sé stessa», intenta soltanto ad «esprimere e realizzare il suo desiderio e la sua passione», senza il riferimento a ideali che la trascendano.

In quella che si potrebbe definire una «tragedia dello sguardo», in un triangolo di desideri che «si rincorrono senza potersi incontrare», la fanciulla passa allora dall’essere desiderata (rappresentando l’oggetto al quale sono rivolte le pulsioni del «patrigno» Erode) all’essere «desiderante»: Salomè assume infatti su di sé l’iniziativa erotica, corteggiando apertamente il profeta, che però può amare soltanto «il Figlio dell’Uomo».

Nell’interpretazione di Molinari, l’agire di Salomè nel testo wildiano tende allora a sfumare la linea di confine tra alcune categorie di pensiero tradizionalmente dicotomiche, in primis quella che – in particolare nell’Inghilterra vittoriana – separa la dimensione della «femminilità» da quella della «virilità». La ragazza è infatti pienamente consapevole del proprio potere seduttivo, che viene esplicitato nella danza, tesa a condizionare la volontà del tetrarca Erode nel perseguimento strumentale dei propri fini. Ma è proprio nell’esibirsi artisticamente che Salomè diventa «da puramente fisica anche spirituale. Così come la realizzazione del suo desiderio coincide con la morte dell’amato e la sua stessa morte, che è anche un annullamento».

La Salomè wildiana prosegue poi la propria vita nell’opera di Strauss, andata in scena per la prima volta a Dresda nel 1906, ed è significativo notare come la traduzione tedesca di Hedwig Lachmann (realizzata a partire da quella inglese attribuita a Lord Alfred Douglas) insista fortemente sul motivo della «musica», oltre che su quello dello sguardo. «Se mi avessi guardata, mi avresti amata», dice Salomè nel testo di Wilde, rivolgendosi alla testa mozzata di Giovanni Battista: ma, come ricorda Molinari, è della voce del predicatore – che giunge alle orecchie della giovane come «musica piena di mistero» – che la giovane si innamora dal primo istante.

La voce – così come la stessa testa – simboleggiano un oggetto d’amore non del tutto «carnale», ma connesso sottilmente alla dimensione intellettuale e della spiritualità: è a partire da queste considerazioni che l’autore pone in costellazione molteplici frammenti drammaturgici per restituire l’intricata complessità del personaggio, interpretata di volta in volta come «casta» o come «fatale».

Se nell’opera di Giovanni Testori la protagonista rivendica infatti il proprio diritto all’amore sensuale, «paradossalmente rinnegato da una fede il cui Dio si è fatto carne e sangue», in un poemetto di Mallarmé – recuperato poi da un balletto di Martha Graham nel 1944 – la giovane appare invece «chiusa in una sofferta contemplazione di sé, nel rifiuto di qualsiasi forma di contatto fisico», nella «fierezza» e nell’«orrore» della propria verginità.

Tra le numerosissime rappresentazioni citate dallo studioso, vale forse la pena di ricordare almeno il sontuoso allestimento di Peter Brook dell’opera di Strauss – con la scenografia di Salvador Dalì – (1949), in cui la danza di Salomè si sviluppa in una sostanziale immobilità; o lo spettacolo diretto da Carmelo Bene (1964), in cui la principessa giudea appare grottescamente deformata in una scena fatta di drappi e stracci. O ancora, la Salomè proposta da Al Pacino nel 2006 – ultima di tre versioni teatrali – in cui la protagonista varia di continuo la propria tonalità espressiva nella recitazione, come per riassumere «tutte le emozioni, gli impulsi e le passioni che possono vivere nell’anima di una donna». O il «balletto parlato» della Compagnia Ratavùla portato in scena nel 2003, in cui la giovane è interpretata da un intero gruppo di cinque danzatrici, il cui ballo non si differenzia dal resto dell’azione, e si codifica come «pura espressione di un sentimento agito e continuamente mutevole pur nella sua sostanziale omogeneità».

Cesare Molinari intercetta allora il moltiplicarsi e il mutare dei volti di Salomè, proprio come in quest’ultima danza: è infatti a partire dall’apparentemente irremovibile condanna veterotestamentaria del femminile – «con la donna il male è entrato nel mondo», secondo le parole del Giovanni Battista wildiano – che nei secoli possono emergere anche le infinite potenzialità eversive di questo personaggio, capace di «rovesciare l’ordine naturale delle cose per ottenere, attraverso la seduzione (e quindi la bellezza e la lussuria) il potere e soprattutto il dominio sugli uomini».

«Pure, la fortuna di Salomè trae origine da una storia che ha le dimensioni di un episodio, se non di un gesto. E questo la avvicina – come detto all’inizio – ai grandi personaggi femminili del mito classico: Fedra, Medea o Antigone, le quali tutte si incontrano con molto minore frequenza nelle arti figurative. Fors’anche perché i testi fondanti non ne descrivono l’aspetto né ne sottolineano la bellezza: ricordo solo che Antigone viene chiamata ‘piccola’ (σμικρά) nell’Edipo a Colono e quindi in un testo che non ne racconta il gesto fondativo. Per quanto immediatamente, e ovviamente, condannato sotto il profilo morale, quel gesto (o quell’azione) ha fatto sì che la figura di Salomè potesse diventare un simbolo forte e ambiguo, che comprende anche la constatazione che, certo, esistono donne cattive o capaci di azioni crudeli: Lady Macbeth può certamente essere avvicinata a Riccardo III, ma il catalogo delle bad girls andrebbe forse confrontato non tanto con quello dei bad boys, quanto a quello delle vittime di don Giovanni che solo in Spagna, come è noto, sono già milletrè. E questo simbolo, naturalmente, le diverse epoche, le diverse culture e i diversi autori lo hanno interpretato alla luce della propria sensibilità, più o meno consciamente avvicinando Salomè a Jezabel oppure a Medea, la prima e la più grande paladina della liberazione delle donne, il cui proclama va avvicinato a quello in cui Shylock rivendica l’umanità e la dignità degli Ebrei. Un proclama che, da solo, è capace di riscattare il personaggio negativo».

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Koltes
5 Dicembre 2022

Alla ricerca di Koltès segreto

Nicola Arrigoni, «Sipario»

«Carissimi genitori, è difficile alla mia età fare un complimento carino! Sono ancora così piccolo. Che il mio primo complimento potrebbe stare dieci volte in una pagina. Vi amo tanto e chiedo al Signore che vi dia sempre gioia e felicità. Bernard».

Bernard Marie Koltès ha sette anni e scrive ai genitori il 1 gennaio 1955. È il biglietto con cui si apre il volume Lettere, a cura di Stefano Casi e pubblicato da Cue Press. «In God we trust? Do We. B», solo sei parole scritte a Lisbona nell’aprile 1989, pochi giorni prima di morire. Si ha quasi l’impressione di violare un cassetto chiuso con all’interno carte segrete, ma poi la lettura delle Lettere di Bernard Marie Koltès restituisce un dialogo con l’autore della Solitudine nei campi di cotone che trasforma la vergogna in piacere. Alpha e Omega, una vita raccontata in presa diretta, con i piccoli fatti del quotidiano: lettere che non arrivano, dubbi, amori infranti, paure e speranze, frammenti di quotidiano di un uomo e intellettuale in fuga, inquieto, in cerca di un altrove che è, ovviamente, al di là da venire e spinge al movimento. E allora è quasi con una sorta di impudicizia – a tratti ci si sente un po’ voyeur – che ci si avvicina, si ficcano gli occhi fra le parole e le righe di quelle carte che restituiscono «l’uomo Koltès con tutte le sue omissioni e contraddizioni. [Il punto di forza di questo epistolario] è il fatto di non essere letterario e di non essere stato scritto per i posteri, ma per la reale e concreta esistenza, spesso relativa a questioni spicciole, di comunicare con i suoi interlocutori» scrive Stefano Casi nella prefazione. I fratelli e tutta la sua famiglia, ma soprattutto i genitori, anzi la madre: è lei la destinataria privilegiata a cui si rivolge Bernard con maggiore trepidazione, con immutato amore per oltre trent’anni, ma soprattutto con immutato atteggiamento di confidenza».

La lettura dell’epistolario – meritoriamente pubblicato da Cue Press – restituisce l’uomo, «ci offre gli elementi per farci strada tra i riflessi che mascherano l’uomo, e in definitiva l’autore», continua Casi. «Ce lo mostrano nelle sue fragilità di giovane artista alla ricerca di un posto al sole e di giovane uomo per il quale il mondo è troppo piccolo per la sua infinita sete di vita e di conoscenza».

Le lettere di Koltès sono istantanee di vita. In un tempo in cui il documentare in presa diretta il vivere di tutti giorni è diventato naturale, appaiono a distanza come dei reperti di vita che ancora dicono per la loro freschezza e immediatezza e restituiscono al lettore e all’appassionato di Koltès un dialogo intimo con l’uomo che sta dietro o dento l’autore. Nel leggere le lettere in più punti si ha la sensazione di violare un segreto, di aprire, non visti, un cassetto di un mobile lasciato in soffitta per decenni. E questo senso di vergogna è reso ben chiaro da quanto scrive il fratello François Koltès nella premessa al volume: «Bernard-Marie Koltès non era un uomo pubblico alla stregua di come potrebbero esserlo altri scrittori. Gli importava che solamente di lui si conoscessero le opere. A ogni modo, se oggi ci ha lasciato un’opera in gran parte pubblicata, è altresì vero che ha affidato ai suoi cari delle lettere che non erano destinate alla pubblicazione. Vengono pubblicate oggi, a trent’anni dalla sua scomparsa, perché è parso interessante capportasse lui stesso luce sulla sua opera». E allora è questa la chiave con cui avvicinarsi all’epistolario di Koltès, la possibilità di andar cercando le premesse, il vissuto da cui sono scaturite le opere.

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Samuel beckett boulevard st jacque, paris, 1985
1 Dicembre 2022

Samuel Beckett, Quaderni di regia

Antonio Tedesco, «Proscenio», VII-2

Uno scoop editoriale. Una scelta di pubblicazione raffinata dal punto di vista culturale, ma anche estetico. Preziosi tesori che solo la piccola e media editoria, con logiche di mercato diverse da quelle dei colossi editoriali, ci può a volte riservare. Erano rimasti inediti in Italia i Quaderni di regia di Samuel Beckett, preziosa testimonianza del lavoro «sul campo» che lo scrittore e drammaturgo irlandese fece su alcuni dei suoi testi.
Ora sono disponibili anche da noi, pubblicati dalla valorosa Cue Press, che continua così il suo lavoro di ricerca, recupero e riproposizione di importanti testi di storia e critica dello spettacolo, spesso rimasti fuori commercio o di difficile reperibilità. Questi «quaderni» dove Beckett annotava appunti, revisioni e varianti dei lavori portati in scena, ci pongono di fronte ad una delle grandi questioni del teatro e nello specifico della drammaturgia teatrale, e cioè il confronto-divario tra scrittura letteraria e scrittura scenica. Un confronto, ma a volte un conflitto, che Beckett sentì fortissimo. Dopo una prima fase in cui non nascondeva una certa insoddisfazione per le scelte operate dai registi che portavano in teatro i suoi lavori, fu coinvolto sempre più spesso negli allestimenti in qualità di consulente, finché, nel 1967, lo Schiller Theater di Berlino gli propose di curare direttamente la regia di una sua opera. Beckett scelse Finale di partita, testo al quale, per vari motivi si sentiva particolarmente legato. Si trovò così a impegnarsi in una sorta di corpo a corpo con la sua stessa scrittura, sentendosi in dovere di riplasmarla sulla concretezza degli spazi, degli attori, della lingua utilizzata (si occupò personalmente delle versioni inglesi, francesi e tedesche delle sue opere), così come poi succederà per le successive regie, sempre allo Schiller, quella di Aspettando Godot e L’ultimo nastro di Krapp.

Cimentarsi con la messa in scena fu quindi per Beckett occasione non solo di verificare, ma anche di proseguire, per così dire, «dal vivo» il suo lavoro creativo, apportando, dove necessario, cambiamenti e modifiche, rifinendo e modellando direttamente sul palcoscenico la sua scrittura.

I volumi che si avvalgono della cura critica di James Knowlson, autore della più completa biografia disponibile su Beckett, di Stanley Gontarski, e di Luca Scarlini per quanto riguarda l’edizione italiana, sono curatissimi, ricchi di apparati e di note esplicative, impreziositi dalla ristampa anastatica delle pagine scritte di pugno dall’autore irlandese. Il tutto a comporre una importante testimonianza non solo del lavoro di Beckett, ma più in generale del complesso processo che intercorre tra la scrittura drammaturgica e la sua realizzazione scenica.

1 Aprile 2016

Stanislavskij, una geografia teatrale e umana

Giuseppe Liotta, «Hystrio», XXIX-2

Invertendo l’ordine di uscita dei tre storici volumi curati da Fausto Malcovati per Ubulibri delle regie di Stanislavskij, ma seguendone l’ordine cronologico delle rappresentazioni, viene ripubblicato ora per Cue Press Le mie regie – Il gabbiano, il primo e probabilmente anche il più tormentato spettacolo messo in scena dal grande regista russo di un testo di Čechov. […]
30 Gennaio 2016

L’editoria teatrale è un dramma

Laura Landolfi, «Pagina99»

In tempi di recessione, se le case editrici non ridono, quelle specializzate in testi teatrali piangono: per la crisi che colpisce il mondo del libro, e più ancora per la convinzione diffusa che il teatro scritto sia una nicchia per pochi. A lanciare l’allarme è una sigla, Minimum fax, che non fa parte del settore, […]
2 Gennaio 2016

Farsi luogo: lo sguardo di Martinelli

Massimo Marino, «Corriere di Bologna»

È un librettino da leggersi tutto d’un fiato, Farsi luogo di Marco Martinelli. Lo pubblica, come ebook ma anche a stampa Cue Press, una giovane casa editrice di Imola specializzata in editoria teatrale, che sta recuperando alcuni saggi ormai introvabili (tra gli altri Brecht regista di Claudio Meldolesi) e molti nuovi testi. Questo di Martinelli […]
1 Gennaio 2016

Pim, quando il successo è essere off

Diego Vincenti, «Hystrio», XXIX-1

La storia di un’anomalia. Di un esperimento in grado di divenire realtà solida, per certi aspetti seminale. Si sa, i compleanni sono il pretesto per fare i conti con sé stessi. Per tracciare bilanci. O forse semplicemente per festeggiarsi. La pubblicazione di Pim Off è un po’ tutto questo, all’interno di un volume ibrido dove, […]
31 Dicembre 2015

Per un teatro vivente

Massimo Marino, «Doppiozero»

Procede per tesi, Marco Martinelli, intrecciando una spirale di 101 argomenti rivolti come riflessioni al lettore con un piglio fortemente discorsivo, quasi dialogico. D’altra parte l’idea di teatro (e di società) che traspare da questo scritto è proprio quella di una relazione costante, che abbandoni ogni narcisismo, ogni esibizionismo cui spinge la società dello spettacolo, […]
16 Dicembre 2015

Cue Press, la ribalta digitale del teatro

Nicola Arrigoni, «Pac – Magazine di Arte e Cultura»

Sta portando avanti una piccola e grande rivoluzione, sta cambiando l’editoria teatrale divisa fra l’urgenza dell’attualità e la possibilità di dare corpo a instant book che leghino pagina scritta e spettacolo, ma anche con un’attenzione alla memoria, che in campo editoriale vuol dire rimettere in circolo libri ormai introvabili. Sembra essere questa in estrema sintesi […]
14 Dicembre 2015

Cue Press, il teatro in ebook e su carta

Anna Bandettini, «la Repubblica»

Le case editrici di spettacolo sono rare ma tenaci. Basterebbe citare la Ubulibri di Franco Quadri che ha resistito indomita fino alla morte del suo fondatore e che ci ha fatto conoscere i migliori testi della drammaturgia contemporanea. Oppure la Casa Usher con il grande lavoro che sta compiendo su Grotowski con tutti gli scritti […]
25 Novembre 2015

La danza degli opposti nelle Strategie fatali

Adriana Malandrino, «Il Messaggero»

Una coppia di attori, autori, registi tra le più promettenti del teatro italiano, Lino Musella (vincitore del Premio Hystrio Anct 2015) e Paolo Mazzarelli, da stasera a domenica, sono al Teatro Sperimentale con il loro nuovo spettacolo, Strategie fatali, prodotto da Marche Teatro. Dopo La società (2012), la coppia torna a lavorare con il teatro […]
22 Novembre 2015

Una sera con Salomè, tra carta e palcoscenico

Alessia Stefanini, «Smart in the City»

La scenografia è già pronta: i tendaggi, la luna, sono in posizione, ma sul palcoscenico – ancor prima della rappresentazione – va in scena la presentazione del sostanzioso saggio di Cesare Molinari, storico del teatro e professore emerito che ha insegnato a Firenze, Toronto, Parigi, Santiago del Cile dedicato a I mille volti di Salomè. […]
11 Settembre 2015

Nasce la prima impresa sostenuta dal fondo: è Cue...

Cristina degli Esposti, «Il Resto del Carlino»

Da associazione a Srl, questa la parabola dell’impresa che ‘non c’è’. La casa editrice digitale Cue Press, nata da un’idea dell’imolese Mattia Visani, è il primo progetto che verrà sostenuto dal Fondo Strategico Territoriale voluto da Con.Ami e nato a giugno con l’intenzione di superare l’esperienza dell’incubatore d’impresa Innovami. Fst – la Spa costituita da […]
10 Settembre 2015

Premio Nico Garrone

Sostenuto dall’Associazione Nazionale Critici di Teatro e da Radicandoli Arte

Il Premio Nico Garrone è un riconoscimento dedicato alla memoria di Nico Garrone, critico teatrale e giornalista italiano, noto per il suo impegno nella promozione del teatro e della cultura. Il premio viene assegnato annualmente a figure o realtà che si distinguono per il contributo significativo al panorama teatrale italiano, con particolare attenzione ai valori […]
25 Giugno 2015

Recensione de La supplica

Giulio Fogliata, «Rivista!unaspecie»

Non è difficile, al giorno d’oggi, incappare nella lettura, o nella visione, di commedie del Seicento. Rimane tuttavia raro cogliere da vicino quali fossero lo spirito e il genio ma anche le cure e le preoccupazioni di quelli che furono i protagonisti della Commedia dell’Arte; ce ne fornisce un prezioso esempio Nicolò Barbieri, attore nato […]
26 Aprile 2015

Fuochi, scoppi, crolli in dodici quadri. Addio al...

Anna Bandettini, «La Repubblica»

Facciamo tutti il tifo per gli autori nuovi, ma certo devono essere molto volenterosi per farsi strada nei teatri italiani. È il caso di Davide Carnevali, trentaquattrenne scrittore, professore milanese, pieno di premi per i suoi testi teatrali: Variazioni sul modello di Kraepel, Calciobailla, Come fu che in Italia scoppiò la rivoluzione ma nessuno se […]
17 Aprile 2015

Killed by the hand that feeds you: Rafael Spregelb...

Joseph Paerson, «schaubuehne»

Rafael Spregelburd is telling me the story of David Hume’s chicken. It was first recounted by the philosopher Bertrand Russell, and later retold in a different form by Nassim Nicholas Taleb. The chicken believes the hand that feeds him loves him. «They feed me, they like me, I love them!» The chicken is, of course, […]
29 Gennaio 2015

Schimmelpfennig va in Visita al padre

Fabio Francione, «Il Cittadino»

Si recupera il primo titolo uscito nella collana di drammaturgia I testi della Cue Press di Mattia Visani: Visita al padre del drammaturgo tedesco Roland Schimmelpfennig. Tra gli ultimi numeri ci sono Totò e Vicé del compianto Franco Scaldati e La donna che legge di Renato Gabrielli, quest’ultimo attualmente fino all’8 febbraio in scena al […]
14 Gennaio 2015

La donna che legge. Renato Gabrielli alla ricerca...

Laura Timpanaro, «KLP Teatro»

È stata una prima molto applaudita e affollata quella de La donna che legge al Teatro Out Off di Milano. Una scrittura sofisticata, quella di Renato Gabrielli, che arriva da due suggestioni letterarie molto diverse fra loro: l’Ulisse di James Joyce, in particolare il capitolo Nausicaa, e il saggio di Francesca Serra Le brave ragazze […]
13 Gennaio 2015

Siamo asini o pedanti?

Maria Dolores Pesce, «Dramma»

Probabilmente programmato da tempo ma, per una di quelle casuali coincidenze o interferenze del destino che, anche loro malgrado, assumono il significato di una testimonianza feconda, esce per l’editore Cue Press di Imola, quasi contestualmente alla morte di uno dei protagonisti di quella stagione, questo testo di fine anni Ottanta del secolo scorso, una delle […]
4 Dicembre 2014

Cue Press, l’editoria digitale è un business da...

Federico Spadoni, «La Voce»

I migliori per sostenibilità del progetto, carattere innovativo e fattibilità. Così Cue Press si aggiudica il premio Impresa Creativa, il concorso orientato a sviluppare e favorire la nascita di startup. Tra le dieci idee imprenditoriali selezionate al termine di un percorso formativo di sviluppo, il progetto imolese pensato da Mattia Visani è stato selezionato fra […]
2 Dicembre 2014

Premio Impresa Creativa

Promosso dalle province di Rimini e Forlì-Cesena

Cue Press ha vinto il Premio Impresa Creativa 2014, un concorso promosso dalle province di Rimini e Forlì-Cesena per premiare le migliori iniziative imprenditoriali nel settore creativo. Il premio riconosce Cue Press come il miglior progetto d’impresa dell’anno, evidenziando il valore innovativo e culturale della sua proposta editoriale. Questo riconoscimento sottolinea l’impegno della casa editrice […]
10 Ottobre 2014

Totò e Vicé di Franco Scaldati

Paolo Randazzo, «Dramma»

Quando l’anno scorso, il 13 giugno 2013, Franco Scaldati è venuto a mancare, fatta la tara all’ipocrisia di chi, dopo averlo lasciato una vita senza un teatro, voleva magari dedicargli una strada o una piazzetta a Palermo, tutti coloro che gli sono stati vicino negli anni e hanno amato la sua arte si sono chiesti […]
25 Settembre 2014

L’orgoglio delle idee del Brecht regista

Fabio Francione, «Il Cittadino»

Ristampa in e-book con nuova prefazione a cura di Marco De Marinis di uno dei libri che ha portato all’attenzione del pubblico la capacità di lavoro sui testi non solo teorica di Brecht. Infatti Brecht regista. Memorie dal Berliner Ensemble, oltre a reggersi sulla riproposizione del diario che Hans Bunge (assistente di Brecht nella messinscena […]