Logbook
Approfondimenti, interviste, recensioni e cultura: il meglio dell’editoria e delle arti da leggere, guardare e ascoltare.


Alla ricerca di Koltès segreto
«Carissimi genitori, è difficile alla mia età fare un complimento carino! Sono ancora così piccolo. Che il mio primo complimento potrebbe stare dieci volte in una pagina. Vi amo tanto e chiedo al Signore che vi dia sempre gioia e felicità. Bernard».
Bernard Marie Koltès ha sette anni e scrive ai genitori il 1 gennaio 1955. È il biglietto con cui si apre il volume Lettere, a cura di Stefano Casi e pubblicato da Cue Press. «In God we trust? Do We. B», solo sei parole scritte a Lisbona nell’aprile 1989, pochi giorni prima di morire. Si ha quasi l’impressione di violare un cassetto chiuso con all’interno carte segrete, ma poi la lettura delle Lettere di Bernard Marie Koltès restituisce un dialogo con l’autore della Solitudine nei campi di cotone che trasforma la vergogna in piacere. Alpha e Omega, una vita raccontata in presa diretta, con i piccoli fatti del quotidiano: lettere che non arrivano, dubbi, amori infranti, paure e speranze, frammenti di quotidiano di un uomo e intellettuale in fuga, inquieto, in cerca di un altrove che è, ovviamente, al di là da venire e spinge al movimento. E allora è quasi con una sorta di impudicizia – a tratti ci si sente un po’ voyeur – che ci si avvicina, si ficcano gli occhi fra le parole e le righe di quelle carte che restituiscono «l’uomo Koltès con tutte le sue omissioni e contraddizioni. [Il punto di forza di questo epistolario] è il fatto di non essere letterario e di non essere stato scritto per i posteri, ma per la reale e concreta esistenza, spesso relativa a questioni spicciole, di comunicare con i suoi interlocutori» scrive Stefano Casi nella prefazione. I fratelli e tutta la sua famiglia, ma soprattutto i genitori, anzi la madre: è lei la destinataria privilegiata a cui si rivolge Bernard con maggiore trepidazione, con immutato amore per oltre trent’anni, ma soprattutto con immutato atteggiamento di confidenza».
La lettura dell’epistolario – meritoriamente pubblicato da Cue Press – restituisce l’uomo, «ci offre gli elementi per farci strada tra i riflessi che mascherano l’uomo, e in definitiva l’autore», continua Casi. «Ce lo mostrano nelle sue fragilità di giovane artista alla ricerca di un posto al sole e di giovane uomo per il quale il mondo è troppo piccolo per la sua infinita sete di vita e di conoscenza».
Le lettere di Koltès sono istantanee di vita. In un tempo in cui il documentare in presa diretta il vivere di tutti giorni è diventato naturale, appaiono a distanza come dei reperti di vita che ancora dicono per la loro freschezza e immediatezza e restituiscono al lettore e all’appassionato di Koltès un dialogo intimo con l’uomo che sta dietro o dento l’autore. Nel leggere le lettere in più punti si ha la sensazione di violare un segreto, di aprire, non visti, un cassetto di un mobile lasciato in soffitta per decenni. E questo senso di vergogna è reso ben chiaro da quanto scrive il fratello François Koltès nella premessa al volume: «Bernard-Marie Koltès non era un uomo pubblico alla stregua di come potrebbero esserlo altri scrittori. Gli importava che solamente di lui si conoscessero le opere. A ogni modo, se oggi ci ha lasciato un’opera in gran parte pubblicata, è altresì vero che ha affidato ai suoi cari delle lettere che non erano destinate alla pubblicazione. Vengono pubblicate oggi, a trent’anni dalla sua scomparsa, perché è parso interessante capportasse lui stesso luce sulla sua opera». E allora è questa la chiave con cui avvicinarsi all’epistolario di Koltès, la possibilità di andar cercando le premesse, il vissuto da cui sono scaturite le opere.
Collegamenti
Samuel Beckett, Quaderni di regia
Uno scoop editoriale. Una scelta di pubblicazione raffinata dal punto di vista culturale, ma anche estetico. Preziosi tesori che solo la piccola e media editoria, con logiche di mercato diverse da quelle dei colossi editoriali, ci può a volte riservare. Erano rimasti inediti in Italia i Quaderni di regia di Samuel Beckett, preziosa testimonianza del lavoro «sul campo» che lo scrittore e drammaturgo irlandese fece su alcuni dei suoi testi.
Ora sono disponibili anche da noi, pubblicati dalla valorosa Cue Press, che continua così il suo lavoro di ricerca, recupero e riproposizione di importanti testi di storia e critica dello spettacolo, spesso rimasti fuori commercio o di difficile reperibilità. Questi «quaderni» dove Beckett annotava appunti, revisioni e varianti dei lavori portati in scena, ci pongono di fronte ad una delle grandi questioni del teatro e nello specifico della drammaturgia teatrale, e cioè il confronto-divario tra scrittura letteraria e scrittura scenica. Un confronto, ma a volte un conflitto, che Beckett sentì fortissimo. Dopo una prima fase in cui non nascondeva una certa insoddisfazione per le scelte operate dai registi che portavano in teatro i suoi lavori, fu coinvolto sempre più spesso negli allestimenti in qualità di consulente, finché, nel 1967, lo Schiller Theater di Berlino gli propose di curare direttamente la regia di una sua opera. Beckett scelse Finale di partita, testo al quale, per vari motivi si sentiva particolarmente legato. Si trovò così a impegnarsi in una sorta di corpo a corpo con la sua stessa scrittura, sentendosi in dovere di riplasmarla sulla concretezza degli spazi, degli attori, della lingua utilizzata (si occupò personalmente delle versioni inglesi, francesi e tedesche delle sue opere), così come poi succederà per le successive regie, sempre allo Schiller, quella di Aspettando Godot e L’ultimo nastro di Krapp.
Cimentarsi con la messa in scena fu quindi per Beckett occasione non solo di verificare, ma anche di proseguire, per così dire, «dal vivo» il suo lavoro creativo, apportando, dove necessario, cambiamenti e modifiche, rifinendo e modellando direttamente sul palcoscenico la sua scrittura.
I volumi che si avvalgono della cura critica di James Knowlson, autore della più completa biografia disponibile su Beckett, di Stanley Gontarski, e di Luca Scarlini per quanto riguarda l’edizione italiana, sono curatissimi, ricchi di apparati e di note esplicative, impreziositi dalla ristampa anastatica delle pagine scritte di pugno dall’autore irlandese. Il tutto a comporre una importante testimonianza non solo del lavoro di Beckett, ma più in generale del complesso processo che intercorre tra la scrittura drammaturgica e la sua realizzazione scenica.
Barabba. In scena l’opera di Tarantino a metà strada tra commedia e tragedia
Al Nest – Napoli Est Teatro – il 21 e 22 gennaio va in scena Barabba di Antonio Tarantino, esponente della drammaturgia contemporanea. Ombroso e solitario, ma anche poliedrico e innovativo, Tarantino è scomparso a ottantadue anni nel 2020 ed è autore di vari testi teatrali, tutti scritti in età matura dopo una lunga esperienza come artista figurativo.
Nella sala partenopea – allestita con quasi cento posti in una scuola abbandonata – la stagione 2022-2023 è stata denominata Vieni a scoprire i nostri assi, e non è dunque casuale la scelta di Tarantino tra gli autori rappresentati, così come non lo è quella dell’opera, composta nel 2010 ma rimasta inedita fino alla pubblicazione postuma nel 2021 per le edizioni Cue Press e la prefazione di Andrea Porcheddu.
Lo spettacolo, interpretato da Michele Schiano di Cola con allestimenti e luci di Vincent Longuemare, è diretto da Teresa Ludovico, che già in passato ha rappresentato altri rilevanti testi del Maestro come La casa di Ramallah, Namur, Cara Medea e Piccola Antigone. Tutti accomunati da personaggi che – come la stessa regista ha dichiarato – sono «portatori di mitiche ferite, chiedono all’attore di essere incarnati così come si presentano: nudi e crudi, senza nessun giudizio», e dei quali spicca soprattutto «la voce, magari rauca, di quell’umanità che ha paura dell’altro, che si sente continuamente minacciata e che vive di doppiezza».
In Barabba però Tarantino, come nei drammi d’esordio – tra cui il monologo Stabat Mater e i testi della cosiddetta Tetralogia delle Cure – riporta sul palcoscenico un personaggio evangelico, rendendolo protagonista di un’opera quasi integralmente in versi e a metà strada tra commedia e tragedia, facendo emergere con tutta la sua forza l’anima tormentata del protagonista come tramandato dalla tradizione dei quattro vangeli canonici, che lo identificano già dal suo nome come letteralmente «Figlio del Padre» o «Gesù Barabba».
Ebreo detenuto dai Romani a Gerusalemme assieme ad alcuni ribelli e negli stessi giorni della passione di Cristo, Barabba, com’è noto, venne liberato da Ponzio Pilato per volontà del popolo, chiamato a scegliere chi rilasciare tra lui e Gesù di Nazareth, trovandosi così a vivere un dramma personale che diventa poi dramma collettivo e fatto storico.
Nel suo teatro di emozioni e di pathos, fondato sulla forza dirompente della parola e del linguaggio spesso crudo e contemporaneo, Tarantino tratteggia in maniera netta la storia di un uomo solo, che si snoda in uno spazio chiuso ma che al tempo stesso è il riflesso dell’esterno e delle vicissitudini di tutta l’umanità. Barabba, isolato nella sua cella, si trova infatti ad essere involontario testimone della condanna e del martirio di Gesù, anch’egli Figlio del Padre, e si interroga allora alla ricerca di una verità superiore ed evidentemente distante da quella terrena, talvolta ingannevole, che si concretizzerà difatti in forme diverse: nella crocifissione dell’uno e nella salvezza dell’altro. Lo stesso nome, ma due destini opposti.
Barabba si tormenta nel suo meditare rabbioso e incontrollato finché Cristo, pur essendo in procinto di morire sulla croce, impartisce la benedizione urbis et orbis. Comprenderà così solo allora che la verità divina non conosce alcuna contraddizione ed è talmente avulsa dalle miserie terrene da sembrare persino folle, potendo così finalmente raggiungere la fede e la serenità:
«Se lui mi ha assicurato che me la caverò allora vuol dire che ci devo credere perché è venuto qualcuno che mi ha voluto bene. Roba da matti».
Gigi Giacobbe, Bob Wilson in Italia
Mancava un libro dedicato allo spettacolo di Bob Wilson capace di darne ampia visibilità divulgativa, in aggiunta agli interventi critici di sapore specialistico e accademico. La lacuna è colmata da questo lavoro, agile e assai interessante, di Gigi Giacobbe, che ricostruisce gli allestimenti di Bob Wilson in Italia realizzati dal 1994 al 2022.
Dichiara il regista texano: «Il Teatro? È la somma di tutte le arti». In questa idea di teatro totale si incontrano e coesistono il movimento del corpo, la parola, la luce, il suono, le immagini, disponendosi e interagendo su un piano narrativo che supera la centralità del testo letterario per trasportare lo spettatore in una dimensione di incanto atemporale in un universo di bizzarra fantasia. In merito all’alchimia dei colori e dei movimenti coreografici dei suoi spettacoli, Wilson sottolinea che l’attore in scena «è estremamente formale, non deve essere spontaneo, deve essere immediatamente riconoscibile in quanto movimento artificiale creato per il teatro». Altri e simili intenti d’arte, basilari per inquadrare la ricerca sperimentale condotta da questo straordinario regista, tra i maggiori e innovativi della scena mondiale contemporanea, si leggono nella prima parte del volume di Giacobbe.
Dal discorso teorico si passa alla verifica della sua materializzazione sul palcoscenico attraverso l’occhio critico di osservatori eccellenti. Achille Bonito Oliva riconosce nella struttura del Teatro–totale–immagine l’architettura creativa di uno «smontaggio, di un’atomizzazione del gesto» definito nel rallentamento e nella ripetizione, talvolta con effetti dilatati, dell’azione dell’attore, secondo uno schema che in parte rinvia alle suggestioni esercitate dal Teatro Nō giapponese o si avvicina alle composizioni musicali di John Cage.
Il sipario sullo spettacolo wilsoniano Giacobbe lo apre accorpando, in ordine cronologico, le sue stesse recensioni, scritte con competenza e minuzia critica. È come entrare nel mondo delle meraviglie, a partire dall’iniziale Alice del 1994 e da Hamlet a monologue, presentato alla Biennale Teatro di Venezia nel 1995, interpretato dallo stesso Wilson in uno spazio scenico che si colorava di azzurro e di rosso. Oppure Woyzeck di Georg Büchner visto a RomaEuropaFestival nel 2002 e «recitato e cantato da formidabili attori-cantanti danesi», sottolinea Giacobbe, che poi ricorda la magistrale prova di Adriana Asti nel beckettiano Giorni felici al Festival dei Due Mondi di Spoleto nel 2009. Alle spalle dell’attrice, con il «viso bianchissimo interrotto dal rosso del rossetto e dal suo generoso decolleté su un vestito grigio-azzurro», c’è un fondale bianco accecante e interrotto talvolta da effetti azzurri e rosa.
Se memorabili rimangono I Sonetti di Shakespeare allestiti ancora a Spoleto nel 2010, altrettanto vale per Lulu di Wedekind, accompagnata dalle musiche di Lou Reed, con la protagonista caratterizzata da «immutabile, […] faccia infarinata e pesante trucco», come se fosse sul set di un film in bianco e nero.
Altro spettacolo-manifesto della cifra stilistica di Wilson è Odyssey al Piccolo Teatro di Milano nel 2013: è un susseguirsi di magie illuminotecniche che avvolgono i personaggi omerici calati in un ambiente scenografico e sonoro in continua trasformazione. Grandi emozioni e suggestioni visive sprigiona la messinscena di Hamletmachine di Heiner Miller, ancora a Spoleto nel 2016. In merito, Giacobbe evidenzia la performance di 35 giovani attori dell’Accademia Silvio d’Amico, simili ad «aure metafisiche senza tempo».
Si tratta di spettacoli di grande eleganza stilistica e formale, declinata da Wilson in una sintassi drammaturgica sempre mutevole, di continua ricerca, tanto che lo stesso regista afferma: «spesso la gente mi chiede di cosa tratta il mio teatro; generalmente rispondo che non lo so. […] per me l’interpretazione non spetta al regista, all’attore o all’interprete: l’interpretazione spetta al pubblico».
Collegamenti
Un padre ci vuole
Ci sono scritti che risuonano come un dialogo mai avviato, un complesso insieme di relazioni che riguardano le infinite realtà, i tanti rimpianti, le parole mai dette di una dialettica sospesa. Luigi Pirandello e Stefano, il figlio primogenito, ovvero Stefano Pirandello, il figlio paterno. Come da titolazione del saggio di Sarah Zappulla Muscarà ed Enzo Zappulla, in cui i due studiosi siciliani ricompongono la drammaticità del rapporto familiare, caratterizzato da un’imprescindibile intensità e da un’autentica tensione etica.
Lo scritto apre la pubblicazione del testo di Stefano Pirandello Un padre ci vuole (Cue Press) interamente giocato sull’inversione dei rapporti fra un padre, Ferruccio, e un figlio, Oreste, un legame conflittuale e indissolubile tale «da rendere volutamente fallimentare qualunque tentativo di fuga», come avvertono i curatori. Volume prezioso perché risponde alle aspettative di quanti oltralpe manifestano un non effimero interesse per il dialogo umano ed intellettuale al fondo di ogni successiva indicazione critica. Nel suo non volersi sottrarre alla spietata complessità del rapporto padre-figlio sostanziato d’immedicabili ferite dell’anima, Stefano mette a nudo tutta la sua poderosa fragilità; che, se per un verso lo induce ad un contrasto drammatico, per l’altro ne sottolinea, all’origine, la volontà di non volersi fare da parte e retrocedere dalle tante private aspettative. La commedia appare nella doppia versione in italiano ed in inglese All You Need is a Father (Cue Press), con traduzione di Enza De Francisci e Susan Bassnett. Si tratta dell’ulteriore tassello della preziosa operazione di circolazione plurilingue avviata da Sarah Zappulla Muscarà ed Enzo Zappulla, da anni impegnati nel recupero storico e filologico di Stefano Pirandello.
Già tradotti in più lingue, i testi, per mantenere inalterato il sapore corretto della vis espressiva, necessitano di una traduzione che superi lo steccato del bello/brutto, infedele/fedele, operando piuttosto nel mantenimento della ratio testuale. Con l’attuale, le due traduttrici hanno condotto un’operazione di vasta portata, assicurando al testo una pregnanza linguistica e storica di ampia gittata. Il risultato è stato il recupero della reale essenza del prodotto testuale grazie all’accuratezza linguistica e storica inserita in una linea traduttiva che restituisce al testo la sua essenza.
Enza De Francisci, dell’Università di Glasgow, direttrice del programma internazionale di Translations Studies in collaborazione con l’Università di Nankai in Cina, è titolare della complessa operazione di traduzione insieme a Susan Bassnet, già lettrice alla Sapienza – Università di Roma e all’Università di Lancaster, e docente di Letterature comparate all’Università di Glasgow, nel recupero di nessi storici e linguistici magari desueti. Con un lavoro prezioso che è facile riconoscere quale modello di come oggi si dovrebbe fare una traduzione.
Diversi e compositi gli elementi che costituiscono la globalità di una traduzione e tali da sottolineare l’importanza del traduttore in quanto mediatore linguistico. Ma anche voce dialogante con il testo, che accompagna il lettore nella comprensione dello scritto, con la capacità di rendere nella lingua di arrivo il messaggio dell’autore, compensando con la propria esperienza e abilità le differenze a volte profonde che esistono tra le due lingue, sia a livello sintattico sia terminologico. E tutto questo sottolinea senza dubbio l’importanza culturale del ruolo del traduttore; il suo difficile compito è di trasmettere il testo originale a un nuovo pubblico che ha lingua, cultura e conoscenze differenti, mantenendo il rispetto sia per la lingua di partenza sia per la lingua di arrivo.
La traslazione di un testo da un contesto linguistico-culturale a un altro è operazione delicata che comporta innanzitutto il rispetto per il testo originale e per il messaggio da veicolare. Ecco perché la traduzione testuale deve essere un’attività collaborativa tra lo scritto e chi lo traduce. Fondamentale è che il traduttore stabilisca un registro stilistico non univoco ma per ogni singolo personaggio, ed è quanto hanno fatto le due traduttrici, affrontando financo il problema di come attualizzare una lingua che per forza di cose rimane ancorata al tempo dell’ideazione e della resa progettuale.
Il diffuso interesse per l’opera di Stefano Pirandello si segnala all’estero grazie al numero non indifferente di traduzioni nelle più svariate lingue. Non mera operazione di traslazione linguistica, ma un’autentica mediazione e negoziazione culturale, un interagire costante con il testo di riferimento, di cui è prioritario fornire la dimensione di autenticità, pur nella complessità del rendere nel paese della traduzione la reale cifra dello scritto.
Si legge nell’introduzione: «Stefano molto deve, e non potrebbe essere altrimenti, al magistero paterno rimanendo tuttavia schiacciato dal peso di una dittatura famigliare e letteraria», da cui è giunto il momento di affrancarlo e da cui il fratello Fausto, invece, si era sottratto scegliendo una via artistica differente, quella della pittura.
Sarah Zappulla Muscarà mette a fuoco il personaggio di Stefano scrittore e drammaturgo, del tutto autonomo pur nell’apparente similarità tematica che lo accosta al padre. Una vita dolente e travagliata quella di Stefano, vittima di un dramma destinato a ricomporsi soltanto negli anni. Affrontando la disamina dell’odierna operazione culturale, la studiosa accademica evidenzia innanzitutto la necessità di rispondere alla curiosità che all’estero si registra intorno ai nomi dei due Pirandello. Già tradotti in più lingue, i testi, per mantenere inalterato il senso della scrittura, si avvalgono di un intervento mai arbitrario; al contrario, in assoluta consonanza con il pensiero dello scrittore. Ci dice Sarah Zappulla Muscarà: «Quella di oggi in inglese è una traduzione di pregio per la quale le due traduttrici hanno impiegato accuratezza linguistica e storica, inserendosi in una linea traduttiva che restituisca al testo la sua essenza».
I canali di attualizzazione filologica, la declinazione del rapporto dimidiato padre/figlio, il recupero di nessi storici e linguistici, oltre che leggersi come un lavoro egregio, diventano, afferma Enzo Zappulla, Presidente dell’Istituto di Storia dello Spettacolo Siciliano: «Un modello di come oggi si dovrebbe fare una traduzione».
La commedia Un padre ci vuole, curata da Sarah Zappulla Muscarà ed Enzo Zappulla, è apparsa nella traduzione in francese di Myriam Tanant (Parigi, L’avant-scène théàtre, 2008); in quella greca di Anteos Chrisostomides (Atene, ed. Kastaniotis, 2012); in quella bulgara di Daniela Ilieva (Sofia, 2014); in quella serba di Dusica Todorovic Lakava («Revue de philologie», Filoloski fakulter, Belgrado, xliii, 2, 2016); in quella araba di Amer El Alfi e Naglas Waly (Cairo, Akhbar Al Yourn, 2016 con testo italiano a fronte, Catania, Edizione Ho.u.se, 2017); in quella spagnola di Vincente González Martín (Ediciones de la Universidad de Salamanca, Salamanca, 2017); in quella inglese di Barbara McGilvray, introduzione di Donatella Cannova (Wellington, New Zeland, in association with Istituto Italiano di Cultura, Sydney, Australia,2017). Cfr. al riguardo Sergio Sciacca, Stefano Pirandello e i suoi traduttori: «Un padre ci vuole», «Pirandello Studies», 41, 2021, pp. 154-169.
Collegamenti
Il corpo in testa
L’attività di Alessandro Garzella viene presentata tramite un lavoro difficile da definire, se non – forse – per via negativa, come nota Porcheddu nell’introduzione. E se il libro «non è un romanzo, non è un racconto, non è un saggio, non è un manuale, non è una testimonianza, non è un pamphlet, non è un diario intimo ma è tutte queste cose insieme», è proprio in questa complessità che troviamo il modo per rispecchiare l’attività di un artista difficile da etichettare.
Tennessee Williams. Modernismo in t-shirt e i rinnovamenti del teatro
Grazie ai suoi personaggi, eroi e antieroi che emergevano dal contesto dell’America del secondo dopoguerra, Tennessee Williams diede vita a un’estetica drammaturgica innovativa e rivoluzionaria. Attraverso l’analisi dei suoi personaggi, il volume disegna un ritratto a tuttotondo, umano e artistico, dell’autore statunitense di alcuni degli indiscussi capolavori della drammaturgia del Novecento.
L’attore e il volto
Il volume raccoglie una selezione di saggi del critico europeo Leif Zern, mescolando ricordi autobiografici, recensioni a spettacoli teatrali, piccoli ritratti del mondo del cinema, analisi teoriche sull’arte attoriale. Da Ingmar Bergman a Lars Norén, fino ad autentici pilastri della tradizione scenica come Louis Jouvet, lo sguardo di Zern si sofferma sulla recitazione, l’immedesimazione dell’attore, in un percorso dove «le emozioni non sono innate ma conquistate con un processo di appropriazione».
Gassman. Oltre il palcoscenico
Un Gassman a tuttotondo. Vittorio, attore poliedrico capace di cavalcare i mezzi che la sua epoca gli offre, esce vincitore grazie al ritratto che ne fa Arianna Frattali, nel senso che il suo essere attore totale – dalla voce straordinaria e dalla fisicità imponente – gli consente di dominare la comunicazione dei suoi anni. E sì, perché l’attore è colui che comunica per eccellenza, anche più di altri professionisti, poiché la sua arte è prima di tutto relazione con il pubblico, da quello più affezionato a quello occasionale.
Nel caso di Vittorio Gassman vale molto più il primo del secondo, in quanto è stato l’artista forse più conosciuto e amato del suo tempo. La studiosa ci offre un taglio preciso, costruito su alcuni saggi (un mix tra quelli già pubblicati e gli inediti) che colgono i momenti essenziali, di svolta, della carriera lanciata di Gassman attore di teatro nel momento in cui si affermano il cinema e la televisione, senza dimenticare il rapporto con la stampa. A uscirne è il profilo di un artista curioso e generoso, che amplifica il senso dello stare in scena anche oltre il palcoscenico, facendo tesoro di una tradizione antica che lui proietta, senza risparmiarsi, verso il mondo nuovo.
Cue Press, edizioni digitali verso un libro multim...
Lorenzo Donati, «Altre Velocità»








