Logbook

Approfondimenti, interviste, recensioni e cultura: il meglio dell’editoria e delle arti da leggere, guardare e ascoltare.

Tennessee williams
1 Novembre 2022

Tennessee Williams. Modernismo in t-shirt e i rinnovamenti del teatro

«Hystrio», XXXV-4

Grazie ai suoi personaggi, eroi e antieroi che emergevano dal contesto dell’America del secondo dopoguerra, Tennessee Williams diede vita a un’estetica drammaturgica innovativa e rivoluzionaria. Attraverso l’analisi dei suoi personaggi, il volume disegna un ritratto a tuttotondo, umano e artistico, dell’autore statunitense di alcuni degli indiscussi capolavori della drammaturgia del Novecento.

Zern leif foto autore 3
1 Novembre 2022

L’attore e il volto

«Hystrio», XXXV-4

Il volume raccoglie una selezione di saggi del critico europeo Leif Zern, mescolando ricordi autobiografici, recensioni a spettacoli teatrali, piccoli ritratti del mondo del cinema, analisi teoriche sull’arte attoriale. Da Ingmar Bergman a Lars Norén, fino ad autentici pilastri della tradizione scenica come Louis Jouvet, lo sguardo di Zern si sofferma sulla recitazione, l’immedesimazione dell’attore, in un percorso dove «le emozioni non sono innate ma conquistate con un processo di appropriazione».

Vittorio gassman
1 Novembre 2022

Gassman. Oltre il palcoscenico

Pierfrancesco Giannangeli, «Hystrio», XXXV-4

Un Gassman a tuttotondo. Vittorio, attore poliedrico capace di cavalcare i mezzi che la sua epoca gli offre, esce vincitore grazie al ritratto che ne fa Arianna Frattali, nel senso che il suo essere attore totale – dalla voce straordinaria e dalla fisicità imponente – gli consente di dominare la comunicazione dei suoi anni. E sì, perché l’attore è colui che comunica per eccellenza, anche più di altri professionisti, poiché la sua arte è prima di tutto relazione con il pubblico, da quello più affezionato a quello occasionale.
Nel caso di Vittorio Gassman vale molto più il primo del secondo, in quanto è stato l’artista forse più conosciuto e amato del suo tempo. La studiosa ci offre un taglio preciso, costruito su alcuni saggi (un mix tra quelli già pubblicati e gli inediti) che colgono i momenti essenziali, di svolta, della carriera lanciata di Gassman attore di teatro nel momento in cui si affermano il cinema e la televisione, senza dimenticare il rapporto con la stampa. A uscirne è il profilo di un artista curioso e generoso, che amplifica il senso dello stare in scena anche oltre il palcoscenico, facendo tesoro di una tradizione antica che lui proietta, senza risparmiarsi, verso il mondo nuovo.

1 Novembre 2022

Beckett fra le righe. Appunti di lavoro

Pierfrancesco Giannangeli, «Hystrio», XXXV-4

Sentite questa: «Il teatro per me è prima di tutto svago dal lavoro sulla narrativa. Abbiamo a che fare con un certo spazio e con persone in quello spazio. Questo è rilassante». La frase la pronunciò Samuel Beckett parlando con Michael Haerdter, suo assistente per la messinscena di Finale di partita allo Schiller Theater di Berlino, nel settembre del 1967. A riportarla è Stanley E. Gontarski nell’introduzione alla pubblicazione del quaderno di regia dedicato appunto al testo e alla sua revisione da parte dell’autore, in versione italiana meritoriamente pubblicato dall’editore Cue Press. Lasciando da parte il piacere del dettaglio che tale revisione produce, insieme alla pura emozione suscitata dal poter leggere gli appunti nella scrittura di Beckett – cose preziose che si devono lasciare alla relazione personale del lettore con il libro – bastano queste parole per capire come anche un autore considerato, a buon diritto, uno scrittore di letteratura, comprenda la necessità di un’altra grammatica quando si tratta di uno spettacolo. Insomma, anche Beckett venne rapito dalle necessità della «scrittura scenica», indispensabile sviluppo della «scrittura drammaturgica», poiché chi scrive per il teatro, o quando si scrive per il teatro, lo si fa per essere rappresentati piuttosto che letti. In precedenza era accaduto a un altro immenso autore, il nostro Pirandello, che a contatto con gli attori, in verità più Ruggeri e Melato (con sullo sfondo Talli) che Musco, comprese che quella che si parla sul palcoscenico è un’altra lingua da quella che si scrive sulla carta. In più, Beckett nella sua dichiarazione sottolinea per ben due volte la parola «spazio». Il segreto sta proprio lì, nell’intuizione di ciò che rende possibile la messinscena e dunque il teatro: lo spazio, dove azione e movimento producono il tempo. Il luogo dove tutto diviene grazie alla determinante presenza dell’attore, insieme al respiro dello spettatore.

Koltes bernard marie foto autore 2
1 Novembre 2022

Nel laboratorio creativo di Koltès

Diego Vincenti, «Hystrio», XXXV-4

«Non desidero che una cosa: essere capace di correre dei rischi», scrive Koltès nel marzo del 1968. Prima della rivoluzione. A neanche vent’anni. E proprio l’età acerba è al cuore della conversazione a distanza con la madre, per tutta la vita confidente privilegiata. È in quei giorni che il drammaturgo decide di dedicarsi al teatro. Passaggio fondamentale. Ma solo uno fra i tanti. Volume densissimo infatti quello di Cue Press, che porta in Italia il progetto delle Éditions de Minuit, qui con la preziosa curatela di Stefano Casi. Una raccolta di lettere, biglietti d’auguri, telegrammi, ringraziamenti. C’è di tutto. Ad alimentare una certa filologia mitizzante. L’aria bohémien. Ma con l’andare del tempo, mentre si spulcia nei cassetti, la prosa si allunga. E così i pensieri. Emerge l’uomo. Insieme a riflessioni che diverranno centrali nella sua produzione. Si pensi solo all’impossibilità della parola di fronte alle profondità del sentire. Anche se mai Koltès abbandonerà quell’irrequietezza così identitaria, sintetizzata nel 1981 in una cartolina da New York: «Qui abbondano le persone della mia razza, caratterizzate da: inquietudine (fondamentale), disperazione assoluta (senza tristezza) e gusto del piacere».

01 il corpo piu bello maddalena crippa e josep maria miro scaled 1 1068x580
20 Ottobre 2022

Dedicato a chi crede che scrivere un monologo sia facile. Intervista di Marina Cappa a Josep Maria Miró

Marina Cappa, «Tortuga Magazine»

Qualche giorno fa, mentre stava sbarcando dall’aereo a Firenze, una telefonata gli ha annunciato che aveva vinto ventimila euro. I soldi contano, anche per gli scrittori. Ma ben di più pesa stavolta il valore artistico di questo Premio nazionale della letteratura drammatica 2022.

Il ministero della Cultura spagnola lo ha assegnato a Josep Maria Miró, scegliendolo fra diverse centinaia di autori che avevano pubblicato nell’ultimo anno un testo di drammaturgia.

Il suo era Il corpo più bello che si sia mai visto da queste parti. Qualche mese fa – al Teatro Rifredi di Firenze, in anteprima mondiale – Maddalena Crippa diede appunto «corpo» a questo «testo per unico interprete (a sette voci)», che ricostruisce una morte e un incontro.

Adesso Miró è tornato a Firenze, sempre al Teatro di Rifredi diretto da Giancarlo Mordini, in occasione della presentazione del suo ultimo spettacolo: L’amico ritrovato, adattamento del libro di Fred Uhlman che in passato era stato sceneggiato per il cinema da Harold Pinter.

Per l’occasione ha partecipato anche alla presentazione del nuovo libro in cui Fabio Francione (per la serie Scheiwiller Sguardi sul teatro contemporaneo) intervista 16 protagonisti del teatro contemporaneo, fra cui appunto lui.

L’autore è catalano e i suoi testi sono tradotti in diverse lingue, compreso lo spagnolo. Ha 45 anni, scrive (fra i suoi lavori più noti, Il principio di Archimede e Nerium Park) ma dirige anche, regista di opere non necessariamente sue.

Attivo fuori dalle scene, Josep Maria ha raccontato di essere pure andato a un convegno di Vox per fotografare i partecipanti, che si sono subito tolti la maglietta per esporre toraci e muscoli. Non che gli uomini politici siano meno narcisi dei loro seguaci, è convinto. Come ha spesso osservato: la loro presenza nelle sale cinematografiche o teatrali si nota solo quando fuori li aspettano un red carpet, fotografi e televisioni, e dichiarazioni a uso auto-promozionale.

Restiamo in tema: per lei, fare teatro è fare politica?

Tutto è politica, vivere è politica. Il teatro lo è perché è un incontro di spettatori che condividono uno sguardo sul mondo, con posizioni uguali oppure diverse, e l’occasione di mettere in dubbio le proprie posizioni e il sistema intero in cui vivono. In teatro noi rinnoviamo il nostro patto di convivenza e i nostri principi. Anche quando si tratta di spettacoli di puro intrattenimento. Pure questa è un punto di vista politico, anche se conservatore.

Che cosa vede quando guarda oggi all’Italia?

Quello che succede è preoccupante, non solo in Italia ma anche nel Nord Europa, in Francia, in Spagna: mi tocca, non è qualcosa di esterno a me. Oggi alcuni partiti che sono ai margini della democrazia sono usciti dall’armadio, non si vergognano di mostrarsi. Ma è inquietante anche che altri partiti democratici, o che si dicono tali, abbiano permesso loro l’ingresso nelle istituzioni, attraverso patti, accordi. Senza dimenticare il quarto potere, la stampa, che ha fatto loro la campagna.

Il ruolo dell’artista qual è, allora?

Deve essere cronista del suo tempo, raccontarne la complessità, generare riflessioni, dubbi. Mai dogmi, però. Un artista può esprimersi in migliaia di modi diversi, ma l’importante è farlo sempre con una visione etica.

Lei in alcuni casi scrive testi che saranno diretti da altri, a volte invece è regista di se stesso. Che differenza c’è nell’approccio? Non ha paura di essere «tradito» o di «tradire»?

Ho avuto molte esperienze, felici e meno. Quando affido un mio testo a qualcuno sottoscrivo con lui un patto di fiducia, ed è vero che negli ultimi anni sono diventato un po’ geloso, cerco maggiori garanzie. Quando invece dirigo il lavoro di un altro – e ne ho fatti diversi – mi metto al servizio di quel materiale e posso farlo solo se ci credo, anzi dopo un po’ finisce che credo di averlo scritto io quel testo. In ogni caso, io scrivo il teatro che mi piacerebbe vedere, tradimento per me significherebbe scrivere pensando solo alla reazione del pubblico.

Non vorrebbe dedicarsi alla narrativa?

Da tempo lo vorrei fare, ma ho sempre molti dubbi su me stesso, non so se ne sono capace. Ma prima o poi verrà il momento. Il corpo più bello che si sia mai visto da queste parti è il mio primo monologo, un editore lo ha letto e ha detto che sarei pronto.

Non aveva mai scritto monologhi prima?

No, spesso si crede che questa sia la forma teatrale più semplice, ma non è così. Lo puoi scrivere dopo che hai affinato gli strumenti di scrittura, le idee. C’è un’età per ogni cosa, come per gli attori: non puoi fare Re Lear o Giorni felici se non hai una certa esperienza alle spalle. Uno dei vantaggi degli anni che avanzano è che si perde l’ansia di fare tutto subito, di ottenere risultati: adesso prendo molto più sul serio ciò che faccio e sono più cosciente del perché scrivo.

Che cosa la spaventa di più nel provare la narrativa: la storia, i dialoghi?

Come dico sempre ai miei corsi di Drammaturgia, il teatro è un genere molto complesso; quando lo scrivi devi sempre tenere in considerazione la teatralità. Però poi lo monti su un palco, assieme ad altre persone e scopri la sua efficacia, sperimenti, puoi togliere battute, correggere qualcosa con gli attori: si sperimenta mentre lo fai e c’è un lavoro di équipe. Nella narrativa tu sei solo, il riscontro te lo dà solo l’editore, che è un altro mondo ed è un vincolo molto importante, tante carriere letterarie sono dipese da lui. Quando il libro è finito, e già questo mi sembra richieda molto più tempo, si pubblica: l’esposizione al pubblico è un salto nel buio. Ma ammetto che sono tutte scuse per ritardare qualcosa che finirò per fare.

I premi, come questo che ha appena vinto, aiutano?

Fanno piacere. Ma – premi o non premi, successo o non successo – ogni volta che ti metti a scrivere una cosa nuova, ricominci da zero. Lo spettatore in teatro non vedrà le tue statuette e gli applausi che hai ricevuto: vedrà quello spettacolo nuovo, e lo giudicherà. Questo è meraviglioso e terribile al tempo stesso. Anche molto adrenalinico, perché in teatro l’esperienza non è garanzia di nulla. Ogni volta sei messo alla prova. E ti devi confrontare non solo con gli altri drammaturghi, ma anche con te stesso, con quello che hai fatto prima e che ti potrà essere giocato contro.

Il suo rapporto con il Teatro di Rifredi dura da tempo…

C’è un rapporto umano e artistico straordinario. Anche con gli spettatori. Rifredi ha creato un pubblico fedele, ha costruito un’identità in cui lo spettatore si riconosce. Come succede con le librerie. Puoi averne una grossa, dove il commesso impara due cose e ti suggerisce l’ultimo romanzo, quello che piace a tutti, vende molto… Dall’altra parte, c’è il negozio magari piccolino dove il libraio ti consiglia l’opera giusta proprio per te. Questo è il Teatro di Rifredi.

Collegamenti

mg 7384
19 Ottobre 2022

I dieci anni di Cue Press al fianco di teatro e cinema

Nicola Arrigoni, «Hystrio»

Scommettere sull’editoria teatrale è un vero e proprio azzardo. A dieci anni di distanza dalla nascita della casa editrice Cue Press, la scommessa sembra essere vinta, ma con tutte le cautele che impongono il presente e soprattutto il futuro. «A pensarci bene non avrei mai immaginato di festeggiare il decennale di Cue Press, che per me rimane una bel- la avventura e una scommessa tutt’ora – afferma Mattia Visani –. L’idea iniziale è stata quella di lavorare su una casa editrice digita- le, in cui il prodotto editoriale fosse soprattutto online, uno sviluppo che credo abbia ancora ampi margini».

Nelle parole di Visani c’è la consapevolezza che, dopo il lockdown dei teatri a causa del Covid, si prepari una nuova ondata di crisi: «Malgrado ciò siamo in espansione, la nostra politica editoriale piace, forse perché si costruisce con le relazioni con gli artisti e i teatri, senza dimenticare la necessità di coltivare la memoria degli studi che hanno fatto la storia della cultura teatrale, non solo in Italia – continua l’editore -. Ad esempio, stiamo lavorando per dare alle stampe la riedizione del saggio di Ludovico Zorzi, Il teatro e la città, ormai introvabile. Abbiamo fatto così per altri volumi o per alcuni autori. Si è trattato di un modo per rendere disponibili saggi e testi ormai irreperibili». Al di là della necessità di ridare vita, e quindi mercato, a libri di saggistica teatrale e cinematografica, c’è l’attenzione alla drammaturgia contemporanea italiana e straniera, e il progetto Quaderni di regia e testi riveduti di Samuel Beckett ne è un esempio. «Lavorare sui quaderni di Samuel Beckett è stato ed è il nostro più grande impegno editoriale soprattutto per la mole di materiali – afferma Visani –. Credo che sia la più importante novità editoriale nell’ambito delle pubblicazioni legate allo spettacolo, insieme al volume Il teatro postdrammatico di Hans-Thies Lehmann. Le due operazioni editoriali per noi hanno avuto un valore non solo imprenditoriale, ma anche simbolico: hanno dimostrato la vivacità di un’editoria di nicchia, ma che sa essere molto ricettiva e attiva nel proporre e nel germinare idee».

In questo senso si lega anche l’attenzione che nell’ultimo periodo la casa editrice sta dedicando al mondo del cinema: «Dall’autobiografia di Vittorio Gassman, al saggio di Goffredo Fofi e Gianni Volpi dedicato a Vittorio De Sica, piuttosto che a quello di Leif Zern, Vedere Bergman, o al testo di Renato Palazzi, Esotici, eroti- ci, psicotici. Il peggio degli anni Settanta in 120 film, il cinema è diventato un settore importante per Cue Press che sta dando grande soddisfazione – continua Visani –. Detto questo, l’attenzione ai testi teatrali e alla pubblicazione di drammaturgie legate a nuove produzioni è fondamentale e soprattutto è il bello di questo mestiere. Il mettersi a disposizione di attori e teatri per fermare su pagina scritta esperienze, estetiche, testi e drammaturgie dà il senso del nostro lavoro, sottrae il teatro all’effimero, ci permette di agire non solo come casa editrice, ma anche come un progetto culturale che testimonia quanto accade nel teatro italiano e, nei casi più felici, si fa promotore di nuovi stimoli culturali».

Nelle parole di Mattia Visani, che profumano di bilancio e di considerazione per capire come reinventarsi e costruire un piano di sviluppo, non manca la considerazione che «la casa editrice prima del Covid aveva fatto registrare un incremento di crescita pari al 68%, questo per far capire che cosa lo stop pandemico abbia interrotto – prosegue l’editore –. Solo per fare un esempio, il mese di giugno scorso abbiamo fatturato un terzo rispetto al mese precedente e la metà rispetto al 2021. Malgrado questi segnali, credo che Cue Press possa ancora intercettare una fascia di mercato come quella legata allo spettacolo che è in parte sguarnita, dopo la fine di alcune importanti e gloriose case editrici di settore. Certo, stampare libri – il volume cartaceo ha il suo fascino e non tramonta, anzi – oggi è un azzardo, ma noi siamo convinti che questo azzardo premi e ce lo testimoniano gli artisti che si affidano a noi».

Nelle parole di Mattia Visani coesiste la volontà di dare vita a pubblicazioni che contribuiscono alla scoperta di autori come Aleksandr Nikolaevič Ostrovskij, con la preziosa collaborazione di Fausto Malcovati, oppure che fermino su carta il magistero di Giorgio Strehler nel centenario della nascita, o ancora raccontino il volto privato di Bernard-Marie Koltès nella pubblicazione delle sue lettere. Ma nel catalogo di Cue Press ci sono anche i giganti della drammaturgia contemporanea non solo italiana, basti pensare ai testi di Pascal Rambert, Sergio Blanco, Juan Mayorga oppure Tim Crouch, solo per fare qualche esempio, cui si affiancano gli italiani da Saverio La Ruina, a Daniele Timpano, a Emanuele Aldrovandi, a Daria Deflorian e Antonio Tagliarini, anche qui la lista è più che mai incompleta. La casa Cue Press festeggia il suo decennale con un forte senso di realtà, consapevole di un orizzonte non facile, ma altrettanto convinta che oggi pubblicare libri – in cartaceo e in versione digitale – non solo sia un servizio, ma rappresenti un modo per fare cultura insieme agli artisti e ai teatri.

Milo rau 2
17 Ottobre 2022

Milo Rau, Realismo globale

Maria Dolores Pesce, «dramma.it»

Che il Teatro sia o possa essere non solo aristotelica mimesi/rappresentazione ma soprattutto uno strumento per cambiare il mondo è oggetto di una riflessione antica che nella modernità si è fatta spesso più consapevole. Come l’alchimista sanguinetiano, il facitore di teatro combina in maniera singolare gli elementi della rappresentazione per produrre una materia estetica nuova da cui sprigionare un’energia che travalica, con la quarta parete, i confini della scena per entrare di diritto tra le forze in campo, dentro le dinamiche attraverso e quali il mondo «si fa» e si evolve. Milo Rau è forse l’artista che più di ogni altro progetta di organizzare ed utilizzare con più consapevolezza questo strumento/teatro, rendendo in qualche modo esplicite le leggi, o meglio le regole implicite, che lo strutturano. Cerca cioè di abbinare la riflessione estetica con la fattiva operatività, in una reciproca condivisione ed influenza di cui il cosiddetto «Manifesto di Gent» (coevo all’assunzione della direzione del teatro di quella città) è espressione dialettica. Da questo «Manifesto», che chiude il volume di cui trattiamo, citiamo in proposito due illuminanti affermazioni: «Il primo passo verso il ‘teatro di città del futuro’ è quindi trasformare le regole implicite in regole esplicite», la prima; «Non si tratta soltanto di rappresentare il mondo. Si tratta di cambiarlo», la seconda. Il libro dunque raccoglie ed anticipa le ragioni di queste conclusioni, attraverso una raccolta di conversazioni sul teatro con critici e studiosi, e con la riproposizione di alcuni testi e discorsi, chiusa appunto con il citato «Manifesto di Gent». La pubblicazione, infine, è introdotta da una partecipata prefazione/presentazione di Marco Martinelli ed Ermanna Montanari che riconoscono in Milo Rau alcuni degli elementi del loro essere nel teatro, con alcuni punti che si possono percepire sovrapponibili con momenti del loro, più liricamente motivato, «Teatro Politttttttico». Un volume che è una sorta di autopresentazione di uno degli autori più noti e anche controversi del teatro mondiale di oggi.

Collegamenti

Gribaudi maffesanti ph fabio sau
10 Ottobre 2022

Graces Anatomy. Dai corpi al testo

Emilio Nigro, «Persinsala»

A Lamezia Terme, Calabria tirrenica e centrale. Tra le province di Cosenza e Catanzaro, a un respiro dalla Costa degli Dei, probabilmente una delle più incantevoli d’Europa. Nella terra di ‘ndrangheta, evitando piagnistei dal sapore della commercializzazione dei dolori a fini di persuasione (pratica diffusa in regione), un presidio culturale, sociale, etico, punto di riferimento per ogni strato sociale.

Tutto pronto per realizzare il bando. Si pensa a Silvia Gribaudi, danzatrice – a stringere la divaricazione tra vocazione e proposta (la passione di Dario Natale per la danza, il ribadire la potenza dei nuovi linguaggi) – l’idea è del laboratorio aperto, professionisti e neofiti, un osservatore critico. E poi il Covid. Il lockdown. La scappatoia: realizzarlo in streaming. Graces Anatomy, a cura di Sandra De Falco, per la penna di Michele Di Donato, edito da Cue Press (69 pagine, € 14,99) è letteralmente il diario di bordo di quella esperienza.

Introduzione di Dario Natale e Domenico D’Agostino (Scenari visibili), in postfazione il resoconto dei partecipanti, parola a chi precedentemente aveva usato il corpo. Emozioni vivide, incanalate e costrette e perciò liberate in meccanismi puri di espressione. La rappresentazione a significare movimenti intimi tradotti in gesti, tentare di incarnare l’irrappresentabilità del presente vivo. La penna di Di Donato, sensibile auditore, pennella a guazzi d’acquerello, descrive a rigore di cronaca e verseggia coinvolto nella partecipazione. Quaranta performer, l’oggetto immaginifico del pensiero tradotto. Un’opera scultorea di riferimento: Tre Grazie, di Antonio Canova, «un nuovo ordinamento degli spazi dettato dai corpi».

Alcune foto prima di calare il sipario, postcards di un remoto tornato a galleggiare. Si fa inconsueta testimonianza, il volumetto, di vissuti umani in situazioni altre da cosa è convenzionalmente accettata come quotidianità. E di come l’arte, qualora ancora ci fosse bisogno di ribadirlo, si sovrapponga ai responsi di anima e psiche settati in modello seriale. La liberazione dei corpi, rianimati quali tracce di linguaggio, di presenza, di comunicazione, di relazione con l’altro. Un pezzo immancabile, nelle biblioteche teatrali.

Collegamenti