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Quaderni di regia e testi riveduti. Aspettando Godot
«Gli stivali vanno tolti ogni giorno, perché non mi ascolti?»
«Perché non mi aiuti?»
«Fa male?»
«Ecco l’uomo. Dare agli stivali la colpa dei piedi. Una cosa inquietante».
[…]
«E se te li provi?»
«Ho provato di tutto».
«Parlo degli stivali».
«Sarebbe una cosa buona?»
«Ci farebbe passare il tempo. Sicuro sarebbe un intrattenimento».
«Un rilassamento».
«Un divertimento».
«Un rilassamento».
Aspettando Godot di Samuel Beckett è uno dei testi teatrali che dovrebbero stare alla base della formazione culturale di chiunque senta il bisogno di lavorare non solo col teatro, ma con la scrittura tutta, il linguaggio, la comunicazione.
Su «InGenere Cinema» parliamo raramente di teatro e probabilmente questa è la prima volta che fra le pagine virtuali della nostra Gazzetta del Fantastico vi presentiamo un testo teatrale, ma non potevamo voltarci dall’altra parte quando la Cue Press ha iniziato a pubblicare (questo di cui vi parliamo è un primo volume di una collana) i Quaderni di regia e Testi riveduti di Samuel Beckett, in questo caso quelli riguardanti il suo Aspettando Godot.
Si tratta di un’operazione preziosissima, di un’impresa: testi riveduti e quaderni arrivano per la prima volta in Italia, con la traduzione e l’adattamento di Luca Scarlini, partendo del testo inglese The Theatrical Notebooks of Samuel Beckett, curato da James Knowlson [maggiore biografo di Beckett] e Dougald McMillan.
La collana ha avuto già un secondo momento editoriale, con Finale di partita, e andrà avanti con L’ultimo nastro di Krapp e con i testi brevi ma si parte, appunto, con Godot, di cui Beckett ebbe modo di curare la regia – per la prima volta – a Berlino, nel 1975. La prima assoluta, parigina (senza la regia dell’autore, ma con quella di Roger Blin), era stata del 1953.
A oltre vent’anni di distanza, quindi, Beckett si trova a poter rileggere e rivivere il suo testo più famoso con un’esperienza d’autore maturo e importante. A riguardare il suo scritto con lenti completamente differenti e occhi interessati non solo alla composizione grafica, ma anche alla traduzione delle parole in gesti, all’incarnarsi dei personaggi in attori. Cosa che farà nuovamente – e in lingua inglese – al San Quentin Drama Workshop di Londra nel 1984.
Inizia così un lungo processo che porterà ad una completa revisione (in alcuni casi radicale) del testo, che da quel momento conterrà uno scheletro rigido di riferimenti di messa in scena registici e studio sulla composizione, sui movimenti, sull’interpretazione dei personaggi.
Non vi parliamo di tutto quello che racchiude narrativamente Aspettando Godot, invitando chi ancora non si sia mai approcciato a questa lettura a provvedere immediatamente, in quanto nessuno (né prima, né dopo) è riuscito a raccontare l’immobilità e l’assenza (di voglia, di spirito, di comunicazione, di vita…) in modo così semplice e allo stesso tempo feroce; immediato ma profondo.
Un lavoro decisamente complesso, che trova specchio nel volume Cue Press che è altrettanto stratificato e pretende una fruizione attenta e impegnata: oltre quattrocentocinquanta pagine che, dopo una serie di note introduttive e la prefazione storico-letteraria, propone la versione riveduta (lavorata durante la prima messa in scena da regista) del testo di Beckett con una serie di segni tipografici ad evidenziarne aggiunte, tagli e revisioni rispetto alla versione originale.
Quello proposto da Cue è innanzitutto – cosa assolutamente da non sottovalutare – un modo nuovo e molto interessante di approcciarsi all’Aspettando Godot, respirando un’aria per molti versi diversa da quella dell’edizione Einaudi che, finora, aveva proposto in Italia unicamente la traduzione anni Sessanta curata da Carlo Fruttero.
Ma nel volume c’è tanto di più: il testo beckettiano viene seguito da una corposa appendice di note, che esplicano nel dettaglio quanto inserito fra parentesi e grassetti nel testo di nuova traduzione, contestualizzando ogni modifica all’originale nell’ambito delle aggiunte e delle revisioni.
Il fiore all’occhiello dell’edizione Cue Press, poi, è di certo la riproduzione fotografica del quaderno di regia [il famoso ‘quaderno rosso’, per il colore della copertina, riprodotta anche su quella del volume di cui stiamo parlando] scritto da Samuel Beckett durante la lavorazione per la produzione tedesca del suo spettacolo, allo Schiller Theater. Un modo davvero unico e diretto per agganciarsi ad una delle menti più brillanti della letteratura e del teatro novecentesco, provando ad assaporarne e immaginarne anche spiragli di personalità, attraverso la grafia degli appunti, l’ossessivo studio per gli schemi dei movimenti delle presenze in scena, gli schemi e i disegni elementari, ma anche le cancellature [talvolta davvero grafiche e ingombranti]. Il tutto è poi ripreso e reso editorialmente più leggibile per darci il modo di essere quasi testimoni a posteriori di prove e tentativi; del formarsi di un regista nel corpo di un meraviglioso pensatore e scrittore. Si viaggia tra il letterario e l’artigianalità, tra l’elucubrazione più raffinata e la soluzione pratica, ma soprattutto si sente il battito che ancora oggi si nasconde all’interno di un testo che racconta lo smarrimento, la perdita, la solitudine, l’incomunicabilità, la bassezza, la convenienza bieca, ma anche l’aspirazione irraggiungibile, la fede cieca, l’attesa di qualcosa che possa in qualche modo scardinare una vita andata a male.
Un viaggio unico, che oggi possiamo fare proprio grazie alla corposa edizione Cue Press, in cui prende corpo proprio la meraviglia del teatro [non solo di Beckett]: la vita scenica che ha pieno possesso del pensiero su carta e a volte ne stravolge convinzioni preventive. Di certo ne modifica parte del DNA.
Un libro di Storia del Teatro, da studiare e ristudiare, per arrivare ad un’assimilazione davvero profonda.
Probabilmente troppo impegnativo per un primo approccio alla drammaturgia delle drammaturgie, ma un testo davvero imprescindibile per chi ama il teatro, la scrittura tutta, il linguaggio, la comunicazione. E Beckett.
«Andiamo».
«No».
«Perché?»
«Aspettiamo […]».
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Umberto Albini, Nel nome di Dioniso
Come si legge nel sito istituzionale della casa editrice di Imola: «[…] alla fine del 2012 intorno a Mattia Visani, ultimo autore della Ubulibri di Franco Quadri, nasce la prima casa editrice digital first interamente dedicata alle arti dello spettacolo.
Un laboratorio di idee per costruire modelli nuovi per l’editoria e moderne modalità di produzione culturale. A fronte di una materialità che va assottigliandosi sempre di più, non pensiamo il libro come oggetto ma come progetto. Sfruttando l’agilità del digitale, Cue Press propone il meglio della produzione viva di settore, in vista di un pubblico che esiste ed è reattivo, ma non raggiunto – e forse non più raggiungibile – dai metodi dell’editoria tradizionale».
Proprio per questa particolarità adottata da Cue, cioè il pubblicare sia in digitale che su carta (secondo il desiderio e l’esigenza del lettore), il ricco catalogo fornisce una moltitudine di titoli di primissimo piano, toccando disparati argomenti con un unico comune denominatore, la qualità dei contenuti.
Nel presente libro (collana I Saggi del Teatro, 312 pagine) si riscontrano i principali fondamenti del mondo teatrale nell’Atene classica. Si parla dell’attore, del coro, senza tralasciare maschere e costumi, le macchine teatrali e l’attrezzeria, gli edifici teatrali e i festival, il pubblico, e al contempo si toccano i testi, con un’ampia sezione dedicata ad Eschilo, Sofocle, Euripide, Aristofane e Menandro.
Non mancano le note musicali e negli apparati finali una bibliografia ed un indice dei nomi e delle opere. L’autore così dona una lettura scorrevole, agile e con illuminata singolarità consegna un excursus storico e culturale del teatro greco, senza adombrare riferimenti a quello moderno.
Il titolo fa riferimento alla convinzione che il teatro greco abbia fatto la sua comparsa grazie alle feste religiose in onore di Dioniso. Infatti gli studi ci riportano al VI secolo a.C., periodo in cui si fa risalire l’origine del teatro che fino all’era ellenistica (III-I sec. a.C.) si basava completamente sul culto della divinità (Dioniso inizialmente fu associato al dio arcaico della vegetazione, per poi essere aggregato all’estasi, al vino, all’ebbrezza, e alla liberazione dei sensi).
Pagina dopo pagina, Umberto Albini, con la sua opera di carattere argomentativo, documenta particolari studi e ricerche sul tema del teatro (ed anche perché fosse così particolarmente importante allora; ed oggi così valido a comprendere la società ateniese, anche detta ‘l’età d’oro della città’) tastando con fascino l’intero mondo greco.
Umberto Albini ha insegnato nelle università di Bonn, Colonia e Firenze, divenendo infine direttore del Dipartimento di Filologia Classica presso l’Università di Genova. Fra i massimi esperti e traduttori del teatro classico, è stato presidente dell’Istituto Nazionale del Dramma Antico. Tra i suoi saggi si ricorda: Riso alla greca, Testo e palcoscenico. Divagazioni sul teatro antico, Atene: l’udienza è aperta, Euripide o dell’invenzione.
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Quaderni di regia e testi riveduti. Aspettando Godot
«Dare forma alla confusione» dice Beckett a proposito di Warten auf Godot che si accingeva ad allestire per lo Schiller Theater di Berlino nel 1975, ventidue anni dopo il debutto al Théâtre de Babylone di Parigi. Per l’edizione tedesca il drammaturgo-regista rivede e corregge il testo di Aspettando Godot adattandolo al pubblico e agli attori tedeschi. A questi ultimi suggerisce di recitare immaginando di trovarsi su una barca con una falla impossibile da tappare. È quanto riporta James Knowlson, amico e biografo dello scrittore irlandese, nella nota introduttiva a Quaderni di regia e testi riveduti. Aspettando Godot, un volume di fondamentale importanza, per contenuti e rigore scientifico, che conduce il lettore in un labirinto creativo mosso da una visione dinamica e permeabile della parola teatrale.
Si legge una nuova e inedita traduzione, di grande fedeltà al testo originale di Aspettando Godot, impreziosita dalle aggiunte e dai tagli apportati dallo stesso Beckett per l’edizione originale inglese del 1954. La punta di diamante di questa pubblicazione di Cue Press è il Quaderno di regia dello Schiller Theater: sono fogli a quadretti, scannerizzati, scritti con calligrafia rapida e sicura che alterna le parti e le parole del testo in tedesco a descrizioni in lingua inglese dei più piccoli e particolareggiati movimenti degli attori, specificati anche da disegni e schemi circa le loro posizioni e spostamenti in scena. Abbondano le cancellature, con penna nera; non mancano le correzioni e le aggiunte di colore rosso. Significative risultano le didascalie: rivelano silenzi ancora più prolungati e dilatati di quelli canonici, movimenti di millimetrica precisione che riguardano personaggi e oggetti.
Il sofisticato e ricco apparato di note predisposto da Luca Scarlini diventa strumento basilare per cogliere le dinamiche espressive dell’allestimento berlinese, il cui sottotitolo è «una tragicommedia in due atti».
Così questo Warten auf Godot contiene in sé soluzioni sorprendenti e inconsuete. Basta qualche esempio. Nella scena iniziale Vladimir non raggiunge Estragon, è già in scena «a destra vicino all’albero, per metà nell’ombra»; oppure mentre lo stesso personaggio dorme, Vladimir non si muove «irrequieto avanti e indietro», come detta la didascalia del testo originale, ma cammina in senso antiorario lungo un percorso prima seguito da Estragon in senso invece orario.
Si tratta di accorgimenti – annota Knowlson – non banali: rivelano un accurato e minuzioso lavoro di regia basato su «suggestioni piuttosto che affermazioni», creando in questo modo «immagini che si rimandano a vicenda e risuonano nell’immaginazione» animata da anime spoglie guidate dall’ansia di cercarsi e poi distruggersi, appoggiandosi a dialoghi caratterizzati da intercalari secchi e ripetitivi, quasi ossessivi. Prende forma un labirinto teatrale di parole, gesti e movimenti, silenzi e sussulti, espressi da attori quasi grotteschi e imprigionati in una sequenza inconcludente di avvicinamenti e di allontanamenti. Del resto, lo stesso Beckett sosteneva che era «impossibile dipingerli in maniera naturalistica». Ossia Warten auf Godot «deve essere fatto in maniera artificiale, come un balletto» perché «è un gioco alla sopravvivenza».
Questo volume di Cue Press è il primo tomo di un ambizioso progetto editoriale che prevede la pubblicazione, tra l’altro fresca di stampa, dei Quaderni di regia e testi riveduti – Finale di partita, edizione critica di Stanley E. Gontarski a cura di Luca Scarlini, per proseguire con L’ultimo nastro di Krapp e gli appunti sui Drammi brevi.
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Koltès, vocazione alla gioia
Tra gli autori che somigliano alle proprie opere, Bernard-Marie Koltès è un caso particolare. Il tutt’uno con i suoi drammi è spontaneo, omogeneo, senza pose. Se c’è un primo dato da rilevare nell’epistolario di Koltès finalmente pubblicato da Cue Press – introdotto da Stefano Casi e tradotto da Giorgia Cerruti – è proprio questo: tra l’opera e la vita di Koltès c’è una continuità perfetta, al punto che il Koltès di queste lettere finisce col sembrare, nel corso della lettura, uno dei suoi stessi spensierati, verbosi personaggi. Può stupire, questa naturalezza, in un autore che oggi – a quasi trentacinque anni dalla morte – sempre più si conferma come una tra le più grandi voci teatrali del Novecento europeo. Ci aspetteremmo forse, da un autore così profondo e a volte estremamente complesso, più cautela, più impliciti, più doppi fondi. Una qualche macchinosa forma di distanza artistica. Non è così.
Nelle lettere, il legame fra sé e il suo mondo teatrale è immediato. La prima impressione per me, che leggo queste lettere da adoratore di Koltès, è la straordinaria cordialità nell’accesso alla sua persona privata: Koltès è un uomo umanamente generoso, che parla di sé in una trasparenza che rivela la vertiginosa profondità del fondale senza, per questo, essere meno limpida. La complessità di Koltès è tutta verticale, e non ha niente di allegorico. Il Koltès di queste lettere è un personaggio innocente, un Boris Godunov che sembra ignorare le categorie del compromesso e della menzogna. Anche nelle difficoltà – prima fra tutte, quella economica – il suo atteggiamento è improntato sempre a un’incontrastata, mozartiana leggerezza. È l’ultimo dei romantici, Koltès, forse l’ultimo dei «maledetti» – e lo è proprio perché non lo sa.
Romantica è anche la percezione, precoce e folgorante, di una vita intesa come vocazione. Una vocazione non (innanzitutto) al teatro o alla letteratura, ma alla vita – la sua è un’elezione, per così dire, biologica: una vocazione alla spregiudicatezza, all’assenza di mediazioni, all’incapacità di accontentarsi. Basta leggere le prime lettere per incontrare un ragazzo già fermamente indisponibile a qualunque soluzione che sia al di sotto della felicità totale. La gioia: è questa la sua vocazione. E il teatro arriva solo dopo, come conseguenza: il teatro è per Koltès la forma professionale di una vita refrattaria alla necessità del sacrificio, del risparmio, della conservazione. Le lettere forse più belle di questo libro sono quelle dedicate ai viaggi – in Russia, in Africa, negli Stati Uniti. Momenti dove il tema della scrittura quasi non emerge affatto. Koltès non cerca la gloria o il successo, ma l’esperienza: da bruciare tutta, in un continuo qui e ora. Se c’è una posta in gioco nell’esistenza, Koltès sembra disposto fin dall’inizio a un all-in. Il teatro non è il rifugio o la salvezza dalla vita, ma la forma di un azzardo esistenziale. Il 26 marzo 1968, poco dopo aver compiuto vent’anni, scrive a sua madre una lettera così bella da sembrare un manifesto:
«Vent’anni: perché voler dire a ogni costo che questa età è il periodo più brutto della vita? È un’età forse di difficoltà, certo, di indecisioni, ma personalmente resto persuaso che la vita è quanto ce ne facciamo di essa, e che non c’è età che sia particolarmente sfortunata, se non quella in cui si abbandona la partita. E la si può abbandonare a ogni età. Troverò la vita immonda il giorno in cui mi metterò «seduto» e non vorrò più rialzarmi. Per il momento per me vent’anni è l’età di una grande decisione, è l’età in cui rischio la mia vita, il mio avvenire, la mia anima, tutto nella speranza di ottenere di più; è l’età nella quale ‘prendo dei rischi’. È terribile, certo… ma non è questo vivere? […] Non desidero che una cosa: essere capace, nella mia vita, di correre dei rischi e di non volermi mai fermare in cammino. Non è forse questo ‘avere sempre vent’anni?’ Eccomi per esempio alla vigilia del mio mettermi al servizio del Teatro. Credo di averne pesato tutti i rischi, e di averne misurato gli inconvenienti. Eppure, corro questo rischio con felicità, malgrado l’abisso che mi attende se fallisco. Se fallisco, sarò un essere sbagliato senza alcun dubbio, sarò senza una ‘situazione’, una famiglia, una ragione di vita, senza alcun posto nella società. Lo so. Ma per questo dovrei forse rinunciare alla speranza di una vita piena, debordante di una ragione di vivere, nel pieno senso della parola? Dovrei rinunciare a tutto ciò che posso apportare al mondo, per quanto piccolo? Conosco il tuo tormento: rischio la mia ‘anima’. Ma mamma, quanta felicità – non è vero – se potrò dire alla fine della mia vita di fronte a Dio: ‘Vedi, ho rischiato e ho vinto’.»
Il teatro inflessibile, severo, vitale di Koltès è lì a un passo, generato dalla stessa esigenza di azzardo che muove tutta la sua vita. È la logica estrema del «tutto o niente» applicata, sistematicamente, alla vita, alla politica (si iscrive, quasi da subito, al Partito Comunista) e poi, di conseguenza, alla creazione teatrale:
«Concepisco di fare una cosa del genere solo se devo farla: intendo dire solo se si ha davvero bisogno di me a teatro. Non voglio essere di troppo, detesto la mediocrità nell’arte, è peggio ancora del fumo e della stupidità. Capiscimi bene, non si tratta di orgoglio, semplicemente ci sono già abbastanza stronzi sulla terra che non stanno al loro posto per aggiungerne un altro. Farò questo solo se le mie idee saranno realmente ed effettivamente interessanti e nuove. Il giorno in cui le mie idee – una volta espresse e proposte – verranno rifiutate, concluderò dunque che quello non è il mio posto. E comunque, il mio posto non sarà neanche altrove. La mia anarchia dovrà dunque scoppiare e scoppierà dove potrà, non importa dove, ma sarà così violenta che non sopravviverò.»
Difficile, alla luce del poi, non vedere in queste parole il segno della condanna. Koltès morirà giovane, troppo giovane – a quarantun anni, di Aids. È difficile immaginarlo anziano, soprattutto in queste lettere: un eterno ragazzo impegnato in un estenuante corpo a corpo con la vita. Resterà deluso chi, in questo epistolario, cercherà una genesi più dettagliata delle singole opere teatrali, un qualche retroscena – Koltès vi fa cenno solo di sfuggita, trasversalmente; per quanto anche in questo campo emerga prepotente una consapevolezza artistica che non accetta, mai, compromessi: dalla dedizione al sodalizio con Chéreau alla lotta strenua per avere, come traduttore tedesco, nessuno che non fosse Heiner Müller. Ma queste lettere non sono un territorio di indagine filologica. Si potrebbe dire che il teatro, per Koltès, è subordinato a un’esigenza principale, che è sempre quella del cercare il contatto col mondo: entrare nei rapporti fino a toccare il punto più profondo, quello in cui si sentono vibrare i nodi fra le cose:
«Dopo che si è amato anche solo una volta nella vita si sa – o si dovrebbe sapere – che ci sono almeno due livelli attorno ai quali si strutturano i rapporti; c’è il livello dell’esistenza in senso aneddotico, con la formazione delle abitudini, la costruzione del passato, l’esperienza di una quantità di sentimenti secondari come la gelosia, l’avversione ecc. Ma questo livello, il solo di cui si parla quando si parla d’amore, non è il più importante e non è certamente quello riservato all’amore. C’è un altro livello, più profondo, assolutamente inesprimibile, sempre inespresso, sovente ignorato, che è quello statico, indifferente ai tumulti dell’esistenza, dove gli esseri umani si annodano tra loro come corde, lentamente, silenziosamente, ma con legami irreversibili che sembrano un’escrescenza che cresce su sé stessa. È questa la sola cosa che conta, quella cui spesso non pensiamo, quella che anneghiamo in interminabili chiacchiericci interiori sulle disgrazie, le quali finiscono per invaderci l’anima, incatenandosi le une alle altre inutilmente e senza fine, arrotolandosi su loro stesse senza riuscire a smuovere mai nulla. Pertanto, il solo pensiero d’amore possibile, il solo modo per ritrovare un essere assente, sta nella ricerca di quel livello profondo dove risiedono i veri legami. […] Bisogna imparare un altro modo di pensare, un altro modo contemplativo, che non cerchi la spiegazione, né la comprensione, […] senza sentimenti addirittura, intendendo le infinite variazioni dei sentimenti superficiali.»
La lettera è del 1977: Koltès ha quasi trent’anni. Eppure il nucleo ideale del suo teatro antinaturalistico, vocativo, fondato in una fluviale verbalità antipsicologica e apparentemente priva di azione, è già perfettamente formato. Quello che Koltès prova a cogliere nella sua indagine drammaturgica non è l’infinita oscillazione delle relazioni umane, ma lo svolgimento dei rapporti di forza. La sua idea di situazione teatrale risponde a una diversa idea di azione: ciò che si muove nei suoi personaggi non sono le motivazioni psicologiche, ma le forze storiche, di cui gli individui non sono che le figure finali: fantasmi agiti dai processi storici, eppure ansiosi di una felicità impossibile, portati in quel luogo nevralgico e ambiguo dove corpo e parola non si distinguono più: il palcoscenico, appunto.
Ancora alla madre: «Tu sei erede di una tradizione giudeo-cristiana che si è risolta nel compiere una separazione tra la carne e lo spirito totalmente artificiale, mostruosa, che ha fatto più male che bene. Amare qualcuno ‘con la carne’ è una maniera di amare o di parlare che vale quanto un’altra, né meglio né peggio. Per tornare al mio personaggio [di Notte poco prima delle foreste], il punto è sapere se possiede altri mezzi rispetto all’avere un rapporto d’amore con gli altri. Durante tutta la durata del testo, egli spiega perché tutti gli altri mezzi gli sono stati impediti. C’è un grado di miseria (sociale, o morale, o tutto ciò che vuoi) dove il linguaggio non serve più a nulla, dove la facoltà di spiegarsi con le parole (che è un lusso dato ai ricchi con l’educazione, ed ecco il fondo vero della questione) non esiste più. Dunque (credimi sulla parola!) alle volte c’è un grado di conoscenza, di tenerezza, di amore, di comprensione, di solidarietà che si raggiunge in una notte, tra due sconosciuti, superiore a quello che due esseri non riescono a raggiungere in una vita intera. Questo mistero merita che non si disprezzi nessun mezzo di espressione di cui si è testimoni, ma che anzi si passi il proprio tempo a tentare di comprenderli tutti, per non rischiare di perdere le cose essenziali.»
Anche questo, come tutti gli epistolari, coincide con la vita del suo autore, e bruscamente si chiude con essa. La morte di Koltès lo colloca immediatamente nella categoria dei morti precoci, come Büchner e Rimbaud, come Kleist e Leopardi. L’ennesimo astro nascente morto troppo presto. Una cometa però più lieve e sfuggente, più svagata, così come sanno essere svagati certi ragazzi imprendibili e sognanti – capace, poco prima di morire, di scrivere all’amico François Regnault una lettera come questa, stupendamente al limite fra il genio, il sogno e lo scherzo – l’utopia giocosa di chi, per dirla con Pasolini, non ha mai voluto essere adulto: «Scambierei, credimi, tutti i sorrisi di Minuit, tutti i cavalli, e persino Shakespeare per essere stato fotografato nel 1890 da una persona non identificata, mentre me ne sto imbronciato all’ombra di una tigre».
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Ostrovskij, Teatro
La cultura teatrale italiana ha instaurato un rapporto intermittente con il repertorio di Ostrovskij: in parallelo ai pochi e pregevoli allestimenti di fine Ottocento, preceduti da articoli e pubblicazioni di alcune commedie, e a quelli firmati dai grandi registi del Novecento (tra i quali Tatiana Pavlova, Giorgio Strehler, Luigi Squarzina, Guido De Monticelli), non è corrisposto un adeguato riscontro editoriale, circoscritto alla pubblicazione di qualche singola opera in volume autonomo o miscellaneo.
Questa lacuna è arginata dall’intraprendente e attenta Cue Press con la stampa di due distinte antologie che bene illustrano il lungo percorso creativo dello scrittore moscovita capace di produrre oltre cinquanta titoli.
Sta di fatto che Ostrovskij è l’unico e autentico drammaturgo dell’Ottocento russo, se si considera che Puskin, Gogol, Dostoevskij, Tolstoj e Turgenev sono, di fatto, poeti e narratori prestati al teatro. Eppure questo non basta perché «In occidente [è] quasi uno sconosciuto», scrive Fausto Malcovati nella sua luminosa ed esaustiva Introduzione in cui si ripercorrono le opere e la vita di questo fondamentale drammaturgo bersagliato dalla censura, assai apprezzato da pubblico e critica, infine promosso alla direzione dei teatri moscoviti.
Tra le tante ragioni, «tutte valide e nessuna convincente», sottolinea ancora Malcovati, si riconoscono il dominio tematico dedicato alla classe dei mercanti, rozzi, ignoranti, brutali nei rapporti domestici, secondo mentalità e stili comportamentali del tutto inattuali per le coeve platee europee; e l’adozione di una lingua diversa dai classici russi, inventata e legata alla sintassi sconnessa dei quartieri popolari di Mosca, caratterizzata da parole alterate, espressioni e esclamazioni esagerate.
In che misura la (presunta) inattualità di un testo non ne comprometta la sua bellezza, costituisce la chiave di lettura di queste commedie in cui prevalgono le donne, giovani sottomesse, ostinate, capricciose, illuse e deluse, di grande forza interiore.
Il primo volume antologizza commedie di costume dominate dal mondo variegato dei mercanti – scaltri piccolo borghesi, funzionari furfanti, artigiani – che godono di pochi diritti civili. Ne La bancarotta un ricco mercante escogita una bancarotta fraudolenta con la complicità del suo impiegato al quale fa sposare la figlia, poi gli intesta tutti i suoi averi per liberarsi dei creditori, per essere infine sconfitto da sé stesso.
Al centro di meschini bisticci matrimoniali c’è una bella fanciulla in cerca di marito, ossia La fidanzata povera in lotta tra sentimento e convenienza. È del 1859 Il temporale, ossia la drammatica storia di Katerina protagonista di un amore peccaminoso e scandaloso per i suoi compaesani, tanto da indurla ad annegarsi nel Volga. Con Cuore ardente, con cui si chiude il volume Teatro (che comprende anche (Due mariti per Avdot’ja e Un buon posto), domina il caos provocato dall’abolizione della servitù della gleba che dà via libera alla corruzione con il denaro.
A partire dal 1873 Ostrovskij abbandona la commedia e si concentra sulla favola in versi, come Lupi e pecore, testo presente in Teatro II (assieme a Il bosco, Colpevoli senza colpa) incentrata sulla figura di una ricca e ipocrita proprietaria terriera con gli abiti della benefattrice poi smascherata da un uomo altrettanto avido ma più lucido e abile stratega. Considerata il capolavoro del periodo, la fiaba Una ragazza senza dote è in balia dei tormenti sentimentali in cui si annidano le ombre tenebrose della società russa; mentre Un’attrice di talento declina nel gioco delle gelosie e degli intrighi una satira amara e pungente del mondo del teatro assai noto al drammaturgo.
In definitiva la lettura di questi due preziosi volumi arricchisce le nostre conoscenze riscoprendo la penna di uno scrittore assai raffinato e abile nella costruzione di un impianto narrativo funzionale alla rappresentazione di personaggi ambigui, contraddittori, mai banali, soprattutto specchio delle trasformazioni della società russa del loro tempo.
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Firmato Koltès. Drammaturgo maledetto
A circa metà del dramma Roberto Zucco, l’ultimo scritto da Bernard-Marie Koltès (1948-1989) – ispirato alle vicende del serial killer veneziano Roberto Succo – in uno dei monologhi più toccanti della rappresentazione, dopo aver scaraventato il padre giù dalla finestra e strozzato la madre, il protagonista dice: «Io non sono un eroe. Gli eroi sono dei criminali. Non c’è eroe i cui abiti non siano inzuppati di sangue, e il sangue è la sola cosa al mondo che non possa passare inosservata».
Sempre vicino alle esistenze dei déraciné, degli emarginati, degli ultimi, certo non stupisce tale antieroismo da parte del drammaturgo francese che, sebbene in patria sia stato ormai aureolato maestro, fuori dai confini nazionali è sconosciuto al grande pubblico poiché fatica a essere messo in scena vista l’irriducibile letterarietà dei suoi testi. Una certa attenzione da noi se la guadagna dopo che nel 2018 Pierfrancesco Favino recita sul palco di Sanremo un monologo da La notte poco prima delle foreste, un testo tagliente e attuale di Koltès sulla solitudine degli stranieri che nessuno vede perché sono ‘il rumore di fondo’ delle nostre città.
Tuttavia, di Bernard-Marie si sa poco: che è nato a Metz e morto a Parigi, che era un bohémien, un viaggiatore frenetico, un omosessuale, che morì di Aids a soli 41 anni. Soprattutto, che era bellissimo: labbra piene, incarnato niveo, occhi tristi e cesellati. A raccontarci, allora, il carnevale nero che è stata la via dell’autore di capolavori quali Nella solitudine dei campi di cotone e Il ritorno al deserto ci pensa la sua corrispondenza raccolta in Lettere, (Cue Press, a cura di Stefano Casi, traduzione di Giorgia Cerruti). Scopriamo, così, che si è sempre considerato «un povero ragazzino sbrindellato». Solo una certezza lo mandava avanti, l’essere «un teatrante». Agli amanti non si negava mai: «Ogni due giorni ho complicate storie d’amore, e più d’una alla volta» confessa bramoso. Ed è attratto fatalmente da una pasoliniana vita violenta: «Non desidero che una cosa: di correre dei rischi». I corrispondenti fidati sono pochi amici – tra cui l’attrice Maria Casarès e il regista Patrice Chéreau -, nonché la famiglia. Con la madre, presenza «indispensabile» delle missive, Bernard-Marie è ineditamente dolcissimo: si sente «un cucciolo gentile», adombrato da questo gigante di donna «che non si spaventa mai». Come spiega il curatore Casi nella prefazione, proprio a lei a vent’anni rivela di voler vivere «a servizio del teatro», il solo territorio dove rischia di essere felice.
Sprecheremmo del tempo, però, a chiederci chi sia stato davvero Koltès, se il genio maledetto o il figlio devoto, se il teatrante del margine o l’uomo libertino. Persino lui, alla sera della vita, di fronte a una sua foto sfocata si domanda: «Con così tanti riflessi mescolati attraverso lo specchio, cosa resta dell’uomo?». Ma alla fine, rinuncia a rispondere.
I teatri di Pasolini
Il 5 marzo 1922 nasceva a Bologna Pier Paolo Pasolini la cui eclettica produzione di intellettuale e artista viene declinata tra cinema, letteratura, dibattito pubblico e impegno politico. Figura tra le più emblematiche rappresenta, ancora oggi, un punto fermo della cultura italiana e internazionale per la sua capacità di leggere, e anticipare, le trasformazioni della società contemporanea. Un autore originale, sempre di straordinaria attualità e studiato mettendo in risalto ora la produzione poetica, ora la prosa e la saggistica mentre, il suo teatro, viene considerato minore.
In occasione del centesimo anniversario della nascita, crediamo utile segnalare I teatri di Pasolini di Stefano Casi – edito nel 2019 con Cue con una presentazione di Luca Ronconi – volto a sradicare tale interpretazione focalizzando proprio sulla centralità del teatro nel pensiero e nell’opera pasoliniana.
Partendo dall’adolescenza in Friuli vissuta alla ricerca di una drammaturgia sperimentale e di una lingua nuova che la potesse reggere, al di là della meticolosa analisi degli scritti, anche giovanili, destinati alle scene e a un riesame minuzioso degli allestimenti, il volume evidenzia, attraverso una fitta serie di carteggi, appunti, note a margine e documenti autografi spesso inediti, l’autentica vocazione teatrale rovesciando un troppo semplicistico luogo comune della critica.
I teatri di Pasolini si divide in cinque parti: Teatri della formazione (Bologna, 1938-43), Teatro della polis, Teatro dell’io (Casarsa, 1943-49), Teatri capitali (Roma, 1950-65), Un nuovo teatro: le tragedie (1965-66), Un nuovo teatro: la teoria e la pratica (1966-69), Teatri dell’esistenza (1970-75) a cui seguono due sezioni su Pasolini in scena e sulla Teatrografia pasoliniana.
Stefano Casi integra – con chiarimenti formali, concettuali e aggiornamenti sulle messinscene italiane delle opere di Pasolini (fino al gennaio 2019) – l’omonimo volume del 2005, che a sua volta aveva portato a compimento uno studio del 1990 contenuto in Pasolini un’idea di teatro.
Già dal primo capitolo, l’autore accompagna alla scoperta di come la fascinazione del teatro in Pasolini risalga all’infanzia e, per lasciare al lettore il piacere della scoperta individuale, solo due annotazioni.
Nel suo teatro individuerà l’incontro fra la parola dell’autore, la parola interpretata dall’attore e l’ascolto dello spettatore, esperienze tra le più originali della scena europea del Novecento in quanto percepisce nettamente la necessità di una recitazione intesa come il mezzo con cui la parola si stacca dalla pagina per arrivare a chi assiste per mezzo della voce, e del corpo, di chi sta sul palco. Per Pasolini non esiste la folgorazione derivante dell’azione scenica, per lui il teatro esiste nello spazio dove autore, attore e spettatore ribadiscono le loro identità attraverso il confronto diretto.
Altro aspetto è la nascita della tragedia borghese proprio attraverso il recupero del concetto di tragicità perduto nella drammaturgia del Novecento bloccata dal vuoto, il non sviluppo narrativo. Il tragico recupera allora la lezione del teatro del grottesco, nel quale l’uomo non trova rimedio in quanto la pena, non avendo conforto al dolore, ride come un pagliaccio e si dilania l’anima e urla. Da qui il suicidio per mancanza di consolazione a un dolore che è la consapevolezza di non aver vissuto la propria vita.
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Vita, amori e miracoli di un mattatore narrati da lui stesso
Rileggere oggi Un grande avvenire dietro le spalle di Vittorio Gassman, opportunamente rieditato da Cue Press, non trasmette il sapore della banale riesumazione magari pensando alla ricorrenza del centenario della nascita del grande attore; permette piuttosto di (ri)scoprire anche la vena letteraria del suo sorprendente autore che diventa «freddo e rigoroso cronachista dei fatti andati», attivando una sorta di sottile sfida tra sé e il lettore al quale suggerisce la giusta chiave di lettura: «la verità va cercata nel non detto».
Gassman pubblicò il libro nel 1981 presso Longanesi, in un periodo infelice segnato dalla depressione con la quale conviverà per gli ultimi venti anni della sua vita. Alla scrittura – applicata anche alla stesura di poesie, un romanzo e articoli vari – diede un valore e una funzione quasi terapeutica, tanto che dichiarò: «Scrivere questo libro mi ha se non altro aiutato a guarire».
Tra le pieghe del testo si riconosce un impianto narrativo costruito sui perni ormeggianti una sceneggiatura cinematografica incentrata sulle imprese di un grande mattatore che, mescolando la finzione e la realtà, alzano il sipario, attraverso i continui flashback, su un mondo in cui si annodano storie di tradimenti e grandi amori – come i matrimoni improvvisi con Nora Ricci, Shelley Winters, Diletta D’Andrea – e all’epoca materia di rotocalchi popolari, con luminosi frammenti della carriera di attore teatrale e cinematografico.
Divisa in capitoli dai titoli spiritosi e accattivanti, questa sorta di confessione autobiografica segue un taglio cronologico. Si inizia con il ricordo degli anni vissuti da bambino a Genova e dei periodi calabresi e romani segnati dalla morte del padre; si prosegue con i primi innamoramenti, la rocambolesca parentesi militare con uno sguardo a Roma nei giorni della Liberazione, i trionfi come cestista (Gassman ha giocato nella nazionale di basket). E poi si arriva al teatro, prima con l’iscrizione all’Accademia Nazionale di Arte Drammatica di Roma, poi con i debutti al fianco di attori carismatici quali Lyda Borelli e la compagnia Adani-Calindri.
A queste esperienze fondamentali a livello artistico, pur condizionate da difficoltà economiche che costrinsero il giovane e intraprendete attore ad alloggiare in squallide e malfamate pensioni, seguono i clamorosi successi, tra cui l’indimenticabile Amleto del 1952 al fianco di Elena Zareschi e Anna Proclemer e, in successione, le grandi interpretazioni degli anni Sessanta e Settanta in parallelo all’intensificarsi del rapporto, pur controverso, con il cinema lavorando, tra i tanti, con De Sica, Risi, Monicelli, Scola.
Si incontrano poi episodi assai significativi per meglio inquadrare i progetti artistici cullati da Gassman. Indicativo in merito è il Teatro Tenda concepito nel 1960 di cui l’attore-scrittore racconta il complicatissimo montaggio del tendone per tre volte scoperchiato da impetuosi temporali che continuavano a rinviare il debutto con Adelchi di Manzoni capace di coinvolgere in scena trenta attori e decine di comparse, nonché sei cavalli veri.
Così la miniera di informazioni quale è Un grande avvenire dietro le spalle, in cui sottotitolo è verosimilmente emblematico (Vita, amori e miracoli di un mattatore narrati da lui stesso) diventa anche un prezioso e luminoso serbatoio di traiettorie culturali che disegnano significativi segmenti di storia del coevo teatro italiano, con le sue luci e ombre, cui Gassman ha dato un consistente contributo per la sua crescita.
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Il progetto esistenziale di Gian Maria Volonté, tra arte e impegno
Nel panorama del cinema italiano non sono numerosi gli attori che hanno interpretato il proprio ruolo sotto il segno di un impegno politico e sociale fattivo, fondendo professionalità assoluta ed etica, la persona pubblica a quella privata. Tra essi, per qualità e ampiezza di risultati, incisività e impronta nell’immaginario collettivo, spicca senz’altro Gian Maria Volonté.
Al grande artista milanese, alla poliedricità della sua opera e agli insegnamenti che ha lasciato è dedicato un imperdibile volume, Gian Maria Volonté: lo sguardo ribelle, curato dai critici cinematografici Franco Montini e Piero Spila, pubblicato da Cue Press, un piccolo ma agguerrito editore lodevolmente impegnato nel recupero della preziosa tradizione culturale e artistica italiana. Apparso nel 2004, in occasione del decennale della morte, lo si riaccoglie con grande interesse, poiché anche in prospettiva conserva per intero la sua rilevanza critica e informativa.
La qualità dei contributi raccolti è notevole, una ricchezza anche dovuta ai diversi mezzi comunicativi impiegati: l’oralità dell’intervista, la naturalezza del ricordo, l’andamento meditato e analitico del saggio critico. Nella prefazione Walter Veltroni sottolinea l’imprescindibilità della memoria, e nella lucida e densa introduzione i curatori sottolineano l’importanza della riflessione sull’originalità interpretativa di Volonté, sulla sua capacità di incidere nel tempo in cui visse ed agì. Fu un artista per il quale «essere uomo o attore non ha mai fatto alcuna differenza», che non sceglieva le parti per «calcolo o interesse professionale», sempre in prima linea nelle battaglie sociali e politiche intraprese con indomita passione, che viveva il proprio ruolo come «portatore di cultura», sposando mirabilmente virtuosismo tecnico e abilità istrioniche col fervore civile: un’esperienza che ha molto da insegnarci, soprattutto in un tempo in cui tali attitudini si sono alquanto rarefatte.
Non a caso, il titolo del libro allude significativamente a due azioni – guardare e ribellarsi – che rappresentano «la prima, la base stessa del cinema» (e del teatro, si potrebbe aggiungere), «la seconda, una scelta dichiaratamente politica». Legate insieme, spiegano i curatori, tali azioni sono in grado di definire, ma anche di aprire ad ulteriori sviluppi, il senso della vita e della carriera di un uomo «che non si è mai accontentato di guardare passivamente la realtà», un attore mai pago della superficie delle cose e delle verità precostituite, ma che «nei caratteri e nelle fisiologie», è stato capace di «approfondire i sentimenti anche più segreti, insistere a cercare verità anche quando sembrava inutile o non opportuno». Un artista, insomma, che ha coniugato il proprio mestiere con la denuncia di mali sociali e ingiustizie, ipocrite regole, equilibri imposti con la forza, che ha portato avanti con caparbia convinzione un lavoro denso di impegno civile mettendo in scena un’impressionante galleria di personaggi, diversissimi tra loro ma caratterizzati da uno sguardo problematico e mai consolatorio, sempre inchiodati al contesto delle proprie responsabilità. Dunque, una sorta di «altro italiano» rispetto alla galleria dei film di Alberto Sordi, con «un’inedita consapevolezza di intendere il mestiere dell’attore» e una mirabile capacità di contribuire al processo creativo.
Il volume si apre con una sezione dedicata ai ricordi di artisti che hanno lavorato con lui, tra cui Gianni Amelio, Carlo Lizzani, Giuliano Montaldo, Ugo Pirro, Francesco Rosi, i fratelli Taviani. Seguono tre parti dedicate agli approfondimenti critici, divise per le forme d’arte praticate da Volonté – cinema, teatro, televisione – con scritti di consolidati critici quali Maurizio Grande, Alberto Crespi, Mauro Sesti, Morando Morandini ed altri, di figure come Angelo Guglielmi e artisti come Giorgio Albertazzi, che nell’insieme compongono un pregevole quadro analitico, gravido di spunti di riflessione. Una sezione illumina fondamentali aspetti del vissuto privato (tra i contributi, c’è quello della figlia Giovanna Gravina), un’altra ricostruisce la biografia, con una concisa ma esaustiva panoramica delle attività e della sfera privata di uno dei più grandi attori italiani di sempre. Non poco suggestiva è la parte dedicata ai personaggi memorabili da lui creati e incarnati, con le battute e le scene madri dei film in cui compaiono, e di particolare interesse è quella che ne raccoglie interviste e interventi. Il libro è inoltre corredato di una filmografia, una teatrografia, l’elenco delle apparizioni in tv, nonché di una bibliografia essenziale. Si segnala infine l’apparato iconografico, con numerose e suggestive fotografie scattate sui set.
Ricordare Gian Maria Volonté a quasi trent’anni dalla scomparsa, tramandarne la vivida e feconda testimonianza nel rispetto del suo progetto esistenziale, stimolare riflessioni e approfondimenti non è una semplice operazione culturale. Nel rivitalizzarne la vita e il percorso artistico, lo spirito di ribellione, la pervicace resistenza all’omologazione, l’avvertita esigenza di porsi fuori dal coro, l’inesausta ricerca di una verità sempre rimossa, si stimola la curiosità delle nuove generazioni di critici e di artisti, si indica loro una via poco battuta: è dunque anche un modo di intervenire civicamente sulla realtà contemporanea.
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