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Approfondimenti, interviste, recensioni e cultura: il meglio dell’editoria e delle arti da leggere, guardare e ascoltare.

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27 Giugno 2022

Le varie forme della comicità nel teatro dell’antica Grecia

Andrea Bisicchia, «Libertà Sicilia»

Sulle pagine di questo giornale, ci siamo interessati di Nel nome di Dioniso di Umberto Albini, dedicato, in particolare, all’analisi dei grandi tragici e delle tecniche spettacolari utilizzate nel V secolo a. C. Sempre di Umberto Albini, l’Editore Cue Press, ha pubblicato Riso alla greca. Aristofane e la fabbrica del comico, in cui l’autore analizza le varie forme di comicità e in che modo veniva declinandosi nelle commedie di Aristofane, evidenziandone tutti gli ingredienti, ovvero lo sberleffo, il qui-pro-quo, lo scambio delle parti, il travestimento, l’oscenità, la parodia, le buffonerie, le clownerie, le pagliacciate, le volgarità, soprattutto, quelle che suscitavano il riso immediato di cui, Aristofane, era un calcolatore perfetto, vero Maestro per il Premio Nobel Dario Fo.

Eppure, Albini sosteneva che, nelle commedie di Aristofane, esistessero anche delle impennate elegiache e delle riflessioni di carattere sociale, oltre che politiche. Insomma, non si rideva per nulla, per il «non senso», perché quello che lo si poteva classificare come tale, aveva sempre un senso, come dimostreranno, secoli dopo, Ionesco, Campanile, Beckett, perché, in fondo, in tutti i secoli, si ride delle crisi, sia sociali che politiche. Non per nulla, al centro delle commedie aristofanesche, c’è sempre una crisi che può essere di tipo familiare, di tipo economico, di tipo femministico, vedi Lisistrata.

La capacità di Aristofane consisteva nell’analizzare le varie fasi delle crisi che traduceva in situazioni, a volte, farsesche, a volte, grottesche, anche perché, alla fine, il suo interesse principale era quello di appagare il pubblico, grazie anche all’uso di una particolare brillantezza che inseriva nel suo modo di intendere la comicità che affrontava problemi reali, col ricorso alla pura teatralità e ai suoi stilemi.

In Aristofane non ci sono «caratteri», ma «tipi», per i caratteri bisogna attendere Menandro, anche l’uso dei servi è ben meditato e perfezionato, tanto da diventare modello per autori come Goldoni, benché non assumessero ruoli di primo piano e non fossero artefici veri di trame ben definite, insomma sono assenti i virtuosi dell’intrigo, come Arlecchino, servitore di due padroni, essendo, semplicemente, dei meccanismi che mettono in moto la macchina del «riso alla greca», più adatta ad essere ripresa dalla Commedia dell’Arte.

In genere, osserva Albini, i servi si limitavano a creare degli intrighi modesti, delle bricconerie fasulle, perché ciò che veramente interessava ad Aristofane era la vita quotidiana con la sua vivacità. Non è un caso, ricorda Albini, che Dionigi, tiranno di Siracusa, noto per il suo «Orecchio», fatto costruire nelle Latomie, attraverso il quale voleva conoscere i segreti dei detenuti, non soddisfatto perché voleva anche conoscere quanto accadesse nella sua città, si rivolse a Platone per come fare e il filosofo, come risposta, gli inviò, come modello da seguire, le Opere di Aristofane, dove poteva trovare di tutto.

Un tema che affascina Aristofane e gli autori comici, in genere, è quello del sesso e delle sue turbolenze, basti ricordare la già citata Lisistrata, sia per il linguaggio sboccato che per la volontà di inseguire la risata grassa. L’occhio irriverente del commediografo non trascura nulla, vedi anche gli «Acarnesi», con i due invertiti ateniesi travestiti da eunuchi persiani, con processioni falloforiche, con espressioni «proibite», con l’uso di vocaboli grossolani, il tutto per creare una facile intesa tra scena e platea. Altre forme di comicità le individuava nel ricorso alla «fame», basti pensare all’uso che ne farà Arlecchino nel famoso spettacolo di Strehler, ai banchetti che si trasformavano in azioni ad alto tasso di comicità.

Anche gli intellettuali e filosofi diventavano oggetto del riso alla greca, vedi Le Nuvole, dove assistiamo alla caricatura grottesca di Socrate e dove era presa di mira l’arroganza intellettuale e i danni di certa educazione. E vedi ancora in che modo tragediografi come Eschilo ed Euripide vengano parodiati nelle Rane, il tutto per creare situazioni esilaranti che rendevano le azioni spettacolari, alquanto audaci, persino nella ferocia con cui Aristofane utilizzava la comicità, di cui fu il primo, vero Maestro.

Palazzi renato logbook
20 Giugno 2022

Renato Palazzi. Il critico traumatizzato

Giuseppe Costigliola, «Pulp Libri»

Metti un giovane aspirante critico teatrale, un tetragono caporedattore del maggiore quotidiano nazionale che lo costringe, forse con una punta di sadismo, a visionare il peggio delle uscite cinematografiche del momento; metti l’esplosivo e mutevole contesto degli anni Settanta, un universo cinematografico in continua fioritura ma già indelebilmente avvelenato dal decadimento morale e dal cattivo gusto: metti tutto questo ed ecco Esotici, erotici, psicotici. Il peggio degli anni Settanta in 120 film, un volume che raccoglie le recensioni del docente, critico teatrale e giornalista Renato Palazzi, uscite tra il 1974 e il 1978 sul «Corriere della Sera», edito da Cue Press, piccola ma agguerrita casa editrice che sforna volumi pregevoli sul cinema e sul teatro.

Il libro è corredato di una prefazione di Maurizio Porro, un «avviso al lettore» dell’autore, una postfazione di Cristina Battocletti e un suggestivo apparato iconografico con riproduzioni di locandine a colori, il titolo echeggia un film del 1972, Esotika Erotika Psikotica, scelto a simbolo di un’intera categoria, pellicola bollata come «assolutamente senza capo né coda» (per curiosità, Andy Warhol invece la definì «un capolavoro oltraggiosamente stravagante»). Le recensioni, accompagnate da sintetiche schede dei film, sono raggruppate in capitoli secondo generi, sottogeneri, rivoli e scorie di generi: voyeurismo casareccio, declinazioni di erotismo nelle cinematografie estere, porno-inchieste, sexy carceri e lager, poliziotteschi, spaghetti horror, rimasugli del western, alieni e mostri vari, Bruce Lee e dintorni, pugni e fagioli, coppole e lupare, nazional-popolari, lacrima movies, e una sezione, «Effetti collaterali», dove appaiono recensioni interessanti dal punto di vista sociologico, che rendono testimonianza dell’inarrestabile avanzata dei cinema a luci rosse, nonché una lettera di protesta di un lettore.

Un esperto di cinematografia trash del periodo troverà senz’altro dei buchi nel campionario di pellicole presentate, ma l’autore avverte che i film sono quelli da lui recensiti, non si tratta dunque di una classifica del peggio in assoluto (che sarebbe peraltro altamente soggettiva). Sono per lo più prodotti confezionati con lo stampino, che salvo rarissime eccezioni si attengono ai più vieti cliché, a formule consolidate dal successo commerciale. Nelle sue vivaci e pittoresche analisi Palazzi sembra voler compensare la mancanza di possibilità critica dell’«opera» visionata (regie maldestre, trame inesistenti, sceneggiature abborracciate, bozzetti mal assemblati) con notazioni sociologiche e di costume che oggi risultano di grande interesse. Ecco allora le descrizioni, tra la repulsione e il divertito, dell’affezionatissima clientela maschile di quei film che si soffermava nelle toilette ben oltre i tempi di una necessità fisiologica, l’inquietante tremito d’una fila di poltroncine dove i più sfacciati sedevano, il mistero d’una platea traboccante di pubblico per ammirare un’attrice «dal fascino insignificante» (Franca Gonella, nel film La bolognese).

Il critico stronca senza pietà film non di rado ignobili (tanto per chiarire la qualità di ciò che era costretto a visionare, l’autore spiega con lampante sarcasmo che pellicole come Giovannona coscialunga o Quel gran pezzo dell’Ubalda tutta nuda e tutta calda appartenevano a una categoria premium a cui per diktat redazionali non aveva accesso), esercitando in tal modo il ruolo civile di critico militante che, da «ex sessantottino con la tipica presunzione di essere sempre dalla parte del giusto», avvertiva come suo, e difendendosi dalle immagini che lo tormentano fino al disgusto con l’affilatissima arma dell’ironia, che rende imperdibili queste recensioni.

Per Palazzi «le vie del cattivo gusto sono davvero infinite» (incipit della recensione de Il compromesso erotico), e «niente è più volgare della stupidità» (a proposito della «farsa pecoreccia» La commessa). I suoi strali passano dal «grossolano e caotico miscuglio di thrilling ed erotismo» di La mogliettina, ai «vieti luoghi comuni e caratteri sbozzati con l’accetta» di Lezioni private, «all’assoluta assenza di trama e di sviluppo logico» del «razzista» Emanuelle nera, a «uno dei prodotti più bolsi e deprimenti degli ultimi anni» (Amore mio spogliati… che poi ti spiego). Lungi dal divertirsi, il critico annota «l’infinita noia delle freddure e la triviale esibizione di luoghi comuni esibiti» in La figliastra, il «sentimentalismo d’accatto», gli «accigliati moralismi», gli «psicologismi da salotto» di Seduzione coniugale, fotografa un’epoca con un incipit fulminante («Con La bellissima estate il cinema italiano della commozione e dello strazio dà la stura alla sua vena più funerea e cimiteriale»), lamenta il mai esaurito «infausto filone erotico-monastico» (La novizia indemoniata), «i brividucci superficiali e i trucchetti da strapaese» di Chi sei?, esecra «l’indegna serie erotico-nazista» che con Fräulein Kitty «prosegue senza il minimo scrupolo di civile pudore», si disgusta per le solite pseudo-inchieste tedesche piene di «sedicenti psicologi che rilasciano deliranti dichiarazioni sulla crisi della coppia come pretesto per sciorinare pesanti barzellette da birreria» (Ninfomania casalinga).

Oggi possono anche sorprendere certe piccate indignazioni, una vena che un lettore dell’epoca con una lettera di protesta definì moralistica e bacchettona, ma è impossibile non solidarizzare con chi scrive una tale frase accorata: «Credetemi, bisogna proprio voler annientare una persona per mandarla a vedere un film con Sabina Ciuffini» (la celeberrima valletta della trasmissione Rischiatutto di Mike Buongiorno, «ex idolo acqua e sapone delle platee televisive» definita «graziosa e patetica» ragazza). Comunque, si apprezza non poco la lingua affilata e pittoresca di Palazzi, l’ammirevole serie di varianti con cui declinava un trito campionario di titoli serialmente simili. E così tra viziosette, minorenni e verginelle precocemente dedite ai piaceri della carne, dottoresse e soldatesse non poco disinibite, mogliettine, cognatine, cuginette e nipotine paraninfomani, la penna del critico si sbizzarrisce in analogie volutamente improbabili (per il film Inhibition evoca Alan Ladd nel finale del Cavaliere nella valle solitaria), cogliendo l’occasione per demolire il cinema trash in ogni sua declinazione, reo di riprodurre una «mezza misura ammiccante e sudaticcia, da buco della serratura, un po’ peccaminosa e un po’ parrocchiale, che non ha nulla a che fare con l’autentica pornografia, per la quale è comunque necessario un certo ingegno», nonché per riflettere sul rapporto tra intrattenimento e cultura di massa.

A uno sguardo attento una cosa però balza evidente: in non poche di queste (e altre coeve) pellicole appaiono fior di attori, la crema degli autori di colonne sonore, tecnici e artisti di primissimo piano, ricordati per ben altri film. Nelle recensioni, dettate com’erano da altre urgenze, di ciò non v’è quasi traccia, ma con lo sguardo retrospettivo questa filmografia assume altri significati, si presta ad analisi sociologiche e di costume, allo studio delle realtà economiche, produttive e creative del sistema cinema italiano che nel ventennio 1960-1970 visse una stagione floridissima, caratterizzata dalla prodigiosa capacità di penetrazione di una cultura (certo, anche di una sottocultura) nei mercati e nell’immaginario d’oltreconfine. In tale ottica, la godibilissima lettura di questo libro non sarà forse fine a se stessa, ma potrà offrire ulteriori spunti critici agli studiosi del come eravamo ­– e magari del come ancora siamo.

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Dioniso 1
20 Giugno 2022

Una lettura che arricchisce la cultura del teatro antico

Andrea Bisicchia, «Libertà Sicilia»

Tra il 1990 e il 2005, l’Editore Garzanti pubblicò una serie di volumi di Umberto Albini che determinarono una svolta nell’ambito della ricerca filologica, dato che l’interesse dello studioso non si limitò allo studio dei testi o della lingua o della società greca, essendosi indirizzato verso il mondo misterioso delle realizzazioni sceniche che erano frutto di una costruzione collettiva, di cui facevano parte non solo gli attori, allora non sempre professionisti, ma anche scenografi, musicisti, tecnici, organizzatori, e il Corego che, essendo un cittadino facoltoso, finanziava il coro, senza dimenticare l’Arconte, il vero responsabile degli spettacoli, che aveva il compito di ricercare finanziamenti presso i cittadini più ricchi, gli sponsor di allora.

Pur essendo stato un filologo classico, Albini era amico di teatranti come Aldo Trionfo, Lele Luzzati, Franco Parenti e Andrée Shammah, nel cui teatro tenne dei seminari sull’Orestea, inoltre era stato Sovrintendente dell’INDA dal 1995 al 1998. Insomma, aveva ben capito che anche la ricerca filologica avesse bisogno delle conoscenze pratiche, indispensabili per fare teatro o per tradurre dal greco.

L’Editore Cue Press ha appena pubblicato Nel nome di Dioniso. Vita teatrale nell’Atene classica, un volume diviso in due parti, la prima riguarda l’Attore, il Coro, le Maschere, i Costumi, il Pubblico, le Macchine sceniche, la seconda affronta i testi di Eschilo, Sofocle, Euripide, Aristofane e Menandro.

Per quanto riguarda l’Attore, Albini si intrattiene sul «tritagonista», una specie di promiscuo che, però, non risultava sempre adatto alle parti, tanto che non gli venivano risparmiate delle critiche, anche eccessive. Per fare un esempio, Demostene, in una delle sue Orazioni, a proposito di Eschine, diceva che si trattasse di un «attorucolo», inoltre riferisce delle reazioni del pubblico, durante la rappresentazione di Antigone, dove faceva talmente male la parte di Tiresia, che non solo lo fischiò, ma volle «cacciarlo via». Un motivo in più, per Albini, per analizzare il problema dei ruoli e, quindi, della vocalità, della tonalità, delle superflue leziosaggini, senza dimenticare le gelosie tra gli attori, come quella di Minnisco, molto caro a Eschilo, che insultava Callipide, chiamandolo «scimmia».

Sia ben chiaro che anche i pettegolezzi, per Albini, facevano parte degli spettacoli, le sue analisi sono sempre comprovate dai testi a cui fa riferimento, nulla è affidato al caso. Tutte le sue ricostruzioni, sia degli attori che del coro, di cui analizza i movimenti, la sincronia dei gesti, lo dimostrano, con rimandi precisi a tragedie e commedie, metodologia che utilizza quando riferisce sull’uso delle maschere, «elementi immobili», da distinguere dalla voce, «elemento mobile», benché le maschere creassero: «un’atmosfera alta», per la tragedia, e una bassa per la commedia.

Certamente il capitolo più interessante è quello che riguarda le macchine teatrali e l’attrezzeria, a dimostrazione di come il teatro greco, pur essendo povero di scenografie, utilizzasse dei marchingegni che rendevano dinamica l’azione teatrale, a cominciare dell’«enciclema» che, col suo movimento, essendo una specie di girevole o di carrello, faceva vedere ciò che avveniva all’interno di una reggia o di una abitazione. Come oggi il teatro va in cerca di effetti spettacolari, vedi l’Orestea di Livermore, anche, alle sue origini, il teatro classico non disdegnava le apparizioni degli dei, grazie a delle macchine, specie di gru, che li posizionavano in alto, e sembra che, per l’occasione, avessero inventato dei cavalli alati. Molto usato era il «theologeion», una specie di pedana rialzata che veniva utilizzata per l’arrivo degli eroi.

A dire il vero, Aristotele, nella Poetica, sosteneva di non amare le invenzioni artificiose a cui si ricorre quando non si hanno idee critiche, necessarie per una analisi profonda dei testi. Egli, infatti, sosteneva che il vero dramma non avesse bisogno né di scenografie, né di congegni tecnici, come ha dimostrato Carsen nel suo Edipo, tutto costruito sul potere della parola.

Per quanto riguarda le attrezzerie, sulla scena antica, abbondavano i bauli, le statue, funzionali alla vicenda rappresentata ed ancora simulacri, archi, grandi scudi, ghirlande, ricche bigiotterie, collane, cinture dorate e, in particolare, oggetti sacri per agganciare il presente col mistero religioso.

Nella seconda parte, Albini si intrattiene sui testi degli autori citati, ne ricorda le origini, generalmente legate al patrimonio mitico e leggendario, con tutte le sue varianti e con i significati «secondi», con i loro riscontri etici, così come ricorda che, a base delle loro storie, ci fossero le due saghe principali, quella degli Atridi e quella dei Labdacidi, senza dimenticare le diverse avventure che coinvolgevano personaggi come Eracle, Aiace o Filottete. Insomma, una lettura che arricchisce le conoscenze di chi ama il Teatro Antico.

Pirandello famiglia
17 Giugno 2022

Il difficile ruolo di figlio di papà. Anche in inglese il rapporto fra i Pirandello

Gabriella Congiu, «La Sicilia»

Ci sono scritti che risuonano come un dialogo mai avviato, un complesso insieme di relazioni che riguardano le infinite realtà, i tanti rimpianti, le parole mai dette di una dialettica sospesa. Luigi Pirandello e Stefano, il figlio, ovvero Stefano Pirandello, il figlio paterno, come il titolo del saggio di Sarah Zappulla Muscarà ed Enzo Zappulla in cui i due studiosi ricompongono la drammaticità del rapporto familiare.

Lo scritto apre la pubblicazione del testo di Stefano Pirandello Un padre ci vuole (Cue Press) interamente giocato sull’inversione dei rapporti fra un padre, Ferruccio, e un figlio, Oreste, un legame conflittuale e indissolubile tale «da rendere volutamente fallimentare qualunque tentativo di fuga», come avvertono i curatori. Il volume è stato presentato alla Fondazione Verga nella versione inglese (All you need is a father con traduzione di Enza De Francisci e Susan Bassnett).

Della preziosa operazione di circolazione plurilingue dei due studiosi siciliani, ha parlato il prof. Antonio Di Silvestro ricordando il recupero storico e filologico dei Pirandello condotto da Sarah ed Enzo Zappulla.

La prof. Zappulla Muscarà si è quindi soffermata sul personaggio di Stefano scrittore e drammaturgo, del tutto autonomo pur nella similarità tematica che lo accosta al padre. Una vita dolente e travagliata quella di Stefano, titolare di un dramma destinato a ricomporsi soltanto negli anni.

La studiosa ha innanzitutto posto l’attenzione sulla necessità di rispondere alla curiosità che all’estero si registra intorno ai nomi dei due Pirandello.

Già tradotti in più lingue, i testi, per mantenere inalterato il sapore corretto della vis espressiva, necessitano di una traduzione che superi lo steccato del bello-brutto, infedele-fedele, operando piuttosto nel mantenimento della ratio testuale. Ha sottolineato Sarah Zappulla Muscarà: «Quella in inglese è una traduzione bellissima per la quale le due traduttrici hanno impiegato accuratezza linguistica e storica inserendosi in una linea traduttiva che restituisca al testo la sua essenza».

Enza De Francisci (Università di Glasgow) ha fatto il punto sulla complessa operazione di traduzione condotta con Susan Bassnet parlando dei canali di attualizzazione filologica, della declinazione del rapporto dimidiato padre/figlio, del recupero di nessi storici e linguistici magari desueti.

«Un lavoro egregio, un modello di come oggi si dovrebbe fare una traduzione», ha sottolineato Enzo Zappulla, presidente dell’Istituto di Storia dello spettacolo siciliano. A chiusura dell’incontro, Agostino Zumbo ha letto dei brani del saggio.

Samuel beckett
16 Giugno 2022

Quaderni di regia e testi riveduti. Aspettando Godot

Luca Ruocco, «InGenereCinema.com»

«Gli stivali vanno tolti ogni giorno, perché non mi ascolti?»
«Perché non mi aiuti?»
«Fa male?»
«Ecco l’uomo. Dare agli stivali la colpa dei piedi. Una cosa inquietante».
[…]
«E se te li provi?»
«Ho provato di tutto».
«Parlo degli stivali».
«Sarebbe una cosa buona?»
«Ci farebbe passare il tempo. Sicuro sarebbe un intrattenimento».
«Un rilassamento».
«Un divertimento».
«Un rilassamento».

Aspettando Godot di Samuel Beckett è uno dei testi teatrali che dovrebbero stare alla base della formazione culturale di chiunque senta il bisogno di lavorare non solo col teatro, ma con la scrittura tutta, il linguaggio, la comunicazione.

Su «InGenere Cinema» parliamo raramente di teatro e probabilmente questa è la prima volta che fra le pagine virtuali della nostra Gazzetta del Fantastico vi presentiamo un testo teatrale, ma non potevamo voltarci dall’altra parte quando la Cue Press ha iniziato a pubblicare (questo di cui vi parliamo è un primo volume di una collana) i Quaderni di regia e Testi riveduti di Samuel Beckett, in questo caso quelli riguardanti il suo Aspettando Godot.

Si tratta di un’operazione preziosissima, di un’impresa: testi riveduti e quaderni arrivano per la prima volta in Italia, con la traduzione e l’adattamento di Luca Scarlini, partendo del testo inglese The Theatrical Notebooks of Samuel Beckett, curato da James Knowlson [maggiore biografo di Beckett] e Dougald McMillan.

La collana ha avuto già un secondo momento editoriale, con Finale di partita, e andrà avanti con L’ultimo nastro di Krapp e con i testi brevi ma si parte, appunto, con Godot, di cui Beckett ebbe modo di curare la regia – per la prima volta – a Berlino, nel 1975. La prima assoluta, parigina (senza la regia dell’autore, ma con quella di Roger Blin), era stata del 1953.

A oltre vent’anni di distanza, quindi, Beckett si trova a poter rileggere e rivivere il suo testo più famoso con un’esperienza d’autore maturo e importante. A riguardare il suo scritto con lenti completamente differenti e occhi interessati non solo alla composizione grafica, ma anche alla traduzione delle parole in gesti, all’incarnarsi dei personaggi in attori. Cosa che farà nuovamente – e in lingua inglese – al San Quentin Drama Workshop di Londra nel 1984.

Inizia così un lungo processo che porterà ad una completa revisione (in alcuni casi radicale) del testo, che da quel momento conterrà uno scheletro rigido di riferimenti di messa in scena registici e studio sulla composizione, sui movimenti, sull’interpretazione dei personaggi.

Non vi parliamo di tutto quello che racchiude narrativamente Aspettando Godot, invitando chi ancora non si sia mai approcciato a questa lettura a provvedere immediatamente, in quanto nessuno (né prima, né dopo) è riuscito a raccontare l’immobilità e l’assenza (di voglia, di spirito, di comunicazione, di vita…) in modo così semplice e allo stesso tempo feroce; immediato ma profondo.

Un lavoro decisamente complesso, che trova specchio nel volume Cue Press che è altrettanto stratificato e pretende una fruizione attenta e impegnata: oltre quattrocentocinquanta pagine che, dopo una serie di note introduttive e la prefazione storico-letteraria, propone la versione riveduta (lavorata durante la prima messa in scena da regista) del testo di Beckett con una serie di segni tipografici ad evidenziarne aggiunte, tagli e revisioni rispetto alla versione originale.

Quello proposto da Cue è innanzitutto – cosa assolutamente da non sottovalutare – un modo nuovo e molto interessante di approcciarsi all’Aspettando Godot, respirando un’aria per molti versi diversa da quella dell’edizione Einaudi che, finora, aveva proposto in Italia unicamente la traduzione anni Sessanta curata da Carlo Fruttero.

Ma nel volume c’è tanto di più: il testo beckettiano viene seguito da una corposa appendice di note, che esplicano nel dettaglio quanto inserito fra parentesi e grassetti nel testo di nuova traduzione, contestualizzando ogni modifica all’originale nell’ambito delle aggiunte e delle revisioni.

Il fiore all’occhiello dell’edizione Cue Press, poi, è di certo la riproduzione fotografica del quaderno di regia [il famoso ‘quaderno rosso’, per il colore della copertina, riprodotta anche su quella del volume di cui stiamo parlando] scritto da Samuel Beckett durante la lavorazione per la produzione tedesca del suo spettacolo, allo Schiller Theater. Un modo davvero unico e diretto per agganciarsi ad una delle menti più brillanti della letteratura e del teatro novecentesco, provando ad assaporarne e immaginarne anche spiragli di personalità, attraverso la grafia degli appunti, l’ossessivo studio per gli schemi dei movimenti delle presenze in scena, gli schemi e i disegni elementari, ma anche le cancellature [talvolta davvero grafiche e ingombranti]. Il tutto è poi ripreso e reso editorialmente più leggibile per darci il modo di essere quasi testimoni a posteriori di prove e tentativi; del formarsi di un regista nel corpo di un meraviglioso pensatore e scrittore. Si viaggia tra il letterario e l’artigianalità, tra l’elucubrazione più raffinata e la soluzione pratica, ma soprattutto si sente il battito che ancora oggi si nasconde all’interno di un testo che racconta lo smarrimento, la perdita, la solitudine, l’incomunicabilità, la bassezza, la convenienza bieca, ma anche l’aspirazione irraggiungibile, la fede cieca, l’attesa di qualcosa che possa in qualche modo scardinare una vita andata a male.

Un viaggio unico, che oggi possiamo fare proprio grazie alla corposa edizione Cue Press, in cui prende corpo proprio la meraviglia del teatro [non solo di Beckett]: la vita scenica che ha pieno possesso del pensiero su carta e a volte ne stravolge convinzioni preventive. Di certo ne modifica parte del DNA.

Un libro di Storia del Teatro, da studiare e ristudiare, per arrivare ad un’assimilazione davvero profonda.

Probabilmente troppo impegnativo per un primo approccio alla drammaturgia delle drammaturgie, ma un testo davvero imprescindibile per chi ama il teatro, la scrittura tutta, il linguaggio, la comunicazione. E Beckett.

«Andiamo».
«No».
«Perché?»
«Aspettiamo […]».

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Albini umberto
8 Giugno 2022

Umberto Albini, Nel nome di Dioniso

Michele Olivieri, «La Nouvelle Vague Magazine»

Come si legge nel sito istituzionale della casa editrice di Imola: «[…] alla fine del 2012 intorno a Mattia Visani, ultimo autore della Ubulibri di Franco Quadri, nasce la prima casa editrice digital first interamente dedicata alle arti dello spettacolo.
Un laboratorio di idee per costruire modelli nuovi per l’editoria e moderne modalità di produzione culturale. A fronte di una materialità che va assottigliandosi sempre di più, non pensiamo il libro come oggetto ma come progetto. Sfruttando l’agilità del digitale, Cue Press propone il meglio della produzione viva di settore, in vista di un pubblico che esiste ed è reattivo, ma non raggiunto – e forse non più raggiungibile – dai metodi dell’editoria tradizionale».

Proprio per questa particolarità adottata da Cue, cioè il pubblicare sia in digitale che su carta (secondo il desiderio e l’esigenza del lettore), il ricco catalogo fornisce una moltitudine di titoli di primissimo piano, toccando disparati argomenti con un unico comune denominatore, la qualità dei contenuti.

Nel presente libro (collana I Saggi del Teatro, 312 pagine) si riscontrano i principali fondamenti del mondo teatrale nell’Atene classica. Si parla dell’attore, del coro, senza tralasciare maschere e costumi, le macchine teatrali e l’attrezzeria, gli edifici teatrali e i festival, il pubblico, e al contempo si toccano i testi, con un’ampia sezione dedicata ad Eschilo, Sofocle, Euripide, Aristofane e Menandro.

Non mancano le note musicali e negli apparati finali una bibliografia ed un indice dei nomi e delle opere. L’autore così dona una lettura scorrevole, agile e con illuminata singolarità consegna un excursus storico e culturale del teatro greco, senza adombrare riferimenti a quello moderno.

Il titolo fa riferimento alla convinzione che il teatro greco abbia fatto la sua comparsa grazie alle feste religiose in onore di Dioniso. Infatti gli studi ci riportano al VI secolo a.C., periodo in cui si fa risalire l’origine del teatro che fino all’era ellenistica (III-I sec. a.C.) si basava completamente sul culto della divinità (Dioniso inizialmente fu associato al dio arcaico della vegetazione, per poi essere aggregato all’estasi, al vino, all’ebbrezza, e alla liberazione dei sensi).

Pagina dopo pagina, Umberto Albini, con la sua opera di carattere argomentativo, documenta particolari studi e ricerche sul tema del teatro (ed anche perché fosse così particolarmente importante allora; ed oggi così valido a comprendere la società ateniese, anche detta ‘l’età d’oro della città’) tastando con fascino l’intero mondo greco.

Umberto Albini ha insegnato nelle università di Bonn, Colonia e Firenze, divenendo infine direttore del Dipartimento di Filologia Classica presso l’Università di Genova. Fra i massimi esperti e traduttori del teatro classico, è stato presidente dell’Istituto Nazionale del Dramma Antico. Tra i suoi saggi si ricorda: Riso alla greca, Testo e palcoscenico. Divagazioni sul teatro antico, Atene: l’udienza è aperta, Euripide o dell’invenzione.

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7 Giugno 2022

Quaderni di regia e testi riveduti. Aspettando Godot

Massimo Bertoldi, «Il Cristallo On Line»

«Dare forma alla confusione» dice Beckett a proposito di Warten auf Godot che si accingeva ad allestire per lo Schiller Theater di Berlino nel 1975, ventidue anni dopo il debutto al Théâtre de Babylone di Parigi. Per l’edizione tedesca il drammaturgo-regista rivede e corregge il testo di Aspettando Godot adattandolo al pubblico e agli attori tedeschi. A questi ultimi suggerisce di recitare immaginando di trovarsi su una barca con una falla impossibile da tappare. È quanto riporta James Knowlson, amico e biografo dello scrittore irlandese, nella nota introduttiva a Quaderni di regia e testi riveduti. Aspettando Godot, un volume di fondamentale importanza, per contenuti e rigore scientifico, che conduce il lettore in un labirinto creativo mosso da una visione dinamica e permeabile della parola teatrale.

Si legge una nuova e inedita traduzione, di grande fedeltà al testo originale di Aspettando Godot, impreziosita dalle aggiunte e dai tagli apportati dallo stesso Beckett per l’edizione originale inglese del 1954. La punta di diamante di questa pubblicazione di Cue Press è il Quaderno di regia dello Schiller Theater: sono fogli a quadretti, scannerizzati, scritti con calligrafia rapida e sicura che alterna le parti e le parole del testo in tedesco a descrizioni in lingua inglese dei più piccoli e particolareggiati movimenti degli attori, specificati anche da disegni e schemi circa le loro posizioni e spostamenti in scena. Abbondano le cancellature, con penna nera; non mancano le correzioni e le aggiunte di colore rosso. Significative risultano le didascalie: rivelano silenzi ancora più prolungati e dilatati di quelli canonici, movimenti di millimetrica precisione che riguardano personaggi e oggetti.

Il sofisticato e ricco apparato di note predisposto da Luca Scarlini diventa strumento basilare per cogliere le dinamiche espressive dell’allestimento berlinese, il cui sottotitolo è «una tragicommedia in due atti».

Così questo Warten auf Godot contiene in sé soluzioni sorprendenti e inconsuete. Basta qualche esempio. Nella scena iniziale Vladimir non raggiunge Estragon, è già in scena «a destra vicino all’albero, per metà nell’ombra»; oppure mentre lo stesso personaggio dorme, Vladimir non si muove «irrequieto avanti e indietro», come detta la didascalia del testo originale, ma cammina in senso antiorario lungo un percorso prima seguito da Estragon in senso invece orario.

Si tratta di accorgimenti – annota Knowlson – non banali: rivelano un accurato e minuzioso lavoro di regia basato su «suggestioni piuttosto che affermazioni», creando in questo modo «immagini che si rimandano a vicenda e risuonano nell’immaginazione» animata da anime spoglie guidate dall’ansia di cercarsi e poi distruggersi, appoggiandosi a dialoghi caratterizzati da intercalari secchi e ripetitivi, quasi ossessivi. Prende forma un labirinto teatrale di parole, gesti e movimenti, silenzi e sussulti, espressi da attori quasi grotteschi e imprigionati in una sequenza inconcludente di avvicinamenti e di allontanamenti. Del resto, lo stesso Beckett sosteneva che era «impossibile dipingerli in maniera naturalistica». Ossia Warten auf Godot «deve essere fatto in maniera artificiale, come un balletto» perché «è un gioco alla sopravvivenza».

Questo volume di Cue Press è il primo tomo di un ambizioso progetto editoriale che prevede la pubblicazione, tra l’altro fresca di stampa, dei Quaderni di regia e testi riveduti – Finale di partita, edizione critica di Stanley E. Gontarski a cura di Luca Scarlini, per proseguire con L’ultimo nastro di Krapp e gli appunti sui Drammi brevi.

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26 Maggio 2022

Koltès, vocazione alla gioia

Fabrizio Sinisi, «DoppioZero»

Tra gli autori che somigliano alle proprie opere, Bernard-Marie Koltès è un caso particolare. Il tutt’uno con i suoi drammi è spontaneo, omogeneo, senza pose. Se c’è un primo dato da rilevare nell’epistolario di Koltès finalmente pubblicato da Cue Press – introdotto da Stefano Casi e tradotto da Giorgia Cerruti – è proprio questo: tra l’opera e la vita di Koltès c’è una continuità perfetta, al punto che il Koltès di queste lettere finisce col sembrare, nel corso della lettura, uno dei suoi stessi spensierati, verbosi personaggi. Può stupire, questa naturalezza, in un autore che oggi – a quasi trentacinque anni dalla morte – sempre più si conferma come una tra le più grandi voci teatrali del Novecento europeo. Ci aspetteremmo forse, da un autore così profondo e a volte estremamente complesso, più cautela, più impliciti, più doppi fondi. Una qualche macchinosa forma di distanza artistica. Non è così.

Nelle lettere, il legame fra sé e il suo mondo teatrale è immediato. La prima impressione per me, che leggo queste lettere da adoratore di Koltès, è la straordinaria cordialità nell’accesso alla sua persona privata: Koltès è un uomo umanamente generoso, che parla di sé in una trasparenza che rivela la vertiginosa profondità del fondale senza, per questo, essere meno limpida. La complessità di Koltès è tutta verticale, e non ha niente di allegorico. Il Koltès di queste lettere è un personaggio innocente, un Boris Godunov che sembra ignorare le categorie del compromesso e della menzogna. Anche nelle difficoltà – prima fra tutte, quella economica – il suo atteggiamento è improntato sempre a un’incontrastata, mozartiana leggerezza. È l’ultimo dei romantici, Koltès, forse l’ultimo dei «maledetti» – e lo è proprio perché non lo sa.

Romantica è anche la percezione, precoce e folgorante, di una vita intesa come vocazione. Una vocazione non (innanzitutto) al teatro o alla letteratura, ma alla vita – la sua è un’elezione, per così dire, biologica: una vocazione alla spregiudicatezza, all’assenza di mediazioni, all’incapacità di accontentarsi. Basta leggere le prime lettere per incontrare un ragazzo già fermamente indisponibile a qualunque soluzione che sia al di sotto della felicità totale. La gioia: è questa la sua vocazione. E il teatro arriva solo dopo, come conseguenza: il teatro è per Koltès la forma professionale di una vita refrattaria alla necessità del sacrificio, del risparmio, della conservazione. Le lettere forse più belle di questo libro sono quelle dedicate ai viaggi – in Russia, in Africa, negli Stati Uniti. Momenti dove il tema della scrittura quasi non emerge affatto. Koltès non cerca la gloria o il successo, ma l’esperienza: da bruciare tutta, in un continuo qui e ora. Se c’è una posta in gioco nell’esistenza, Koltès sembra disposto fin dall’inizio a un all-in. Il teatro non è il rifugio o la salvezza dalla vita, ma la forma di un azzardo esistenziale. Il 26 marzo 1968, poco dopo aver compiuto vent’anni, scrive a sua madre una lettera così bella da sembrare un manifesto:

«Vent’anni: perché voler dire a ogni costo che questa età è il periodo più brutto della vita? È un’età forse di difficoltà, certo, di indecisioni, ma personalmente resto persuaso che la vita è quanto ce ne facciamo di essa, e che non c’è età che sia particolarmente sfortunata, se non quella in cui si abbandona la partita. E la si può abbandonare a ogni età. Troverò la vita immonda il giorno in cui mi metterò «seduto» e non vorrò più rialzarmi. Per il momento per me vent’anni è l’età di una grande decisione, è l’età in cui rischio la mia vita, il mio avvenire, la mia anima, tutto nella speranza di ottenere di più; è l’età nella quale ‘prendo dei rischi’. È terribile, certo… ma non è questo vivere? […] Non desidero che una cosa: essere capace, nella mia vita, di correre dei rischi e di non volermi mai fermare in cammino. Non è forse questo ‘avere sempre vent’anni?’ Eccomi per esempio alla vigilia del mio mettermi al servizio del Teatro. Credo di averne pesato tutti i rischi, e di averne misurato gli inconvenienti. Eppure, corro questo rischio con felicità, malgrado l’abisso che mi attende se fallisco. Se fallisco, sarò un essere sbagliato senza alcun dubbio, sarò senza una ‘situazione’, una famiglia, una ragione di vita, senza alcun posto nella società. Lo so. Ma per questo dovrei forse rinunciare alla speranza di una vita piena, debordante di una ragione di vivere, nel pieno senso della parola? Dovrei rinunciare a tutto ciò che posso apportare al mondo, per quanto piccolo? Conosco il tuo tormento: rischio la mia ‘anima’. Ma mamma, quanta felicità – non è vero – se potrò dire alla fine della mia vita di fronte a Dio: ‘Vedi, ho rischiato e ho vinto’.»

Il teatro inflessibile, severo, vitale di Koltès è lì a un passo, generato dalla stessa esigenza di azzardo che muove tutta la sua vita. È la logica estrema del «tutto o niente» applicata, sistematicamente, alla vita, alla politica (si iscrive, quasi da subito, al Partito Comunista) e poi, di conseguenza, alla creazione teatrale:

«Concepisco di fare una cosa del genere solo se devo farla: intendo dire solo se si ha davvero bisogno di me a teatro. Non voglio essere di troppo, detesto la mediocrità nell’arte, è peggio ancora del fumo e della stupidità. Capiscimi bene, non si tratta di orgoglio, semplicemente ci sono già abbastanza stronzi sulla terra che non stanno al loro posto per aggiungerne un altro. Farò questo solo se le mie idee saranno realmente ed effettivamente interessanti e nuove. Il giorno in cui le mie idee – una volta espresse e proposte – verranno rifiutate, concluderò dunque che quello non è il mio posto. E comunque, il mio posto non sarà neanche altrove. La mia anarchia dovrà dunque scoppiare e scoppierà dove potrà, non importa dove, ma sarà così violenta che non sopravviverò.»

Difficile, alla luce del poi, non vedere in queste parole il segno della condanna. Koltès morirà giovane, troppo giovane – a quarantun anni, di Aids. È difficile immaginarlo anziano, soprattutto in queste lettere: un eterno ragazzo impegnato in un estenuante corpo a corpo con la vita. Resterà deluso chi, in questo epistolario, cercherà una genesi più dettagliata delle singole opere teatrali, un qualche retroscena – Koltès vi fa cenno solo di sfuggita, trasversalmente; per quanto anche in questo campo emerga prepotente una consapevolezza artistica che non accetta, mai, compromessi: dalla dedizione al sodalizio con Chéreau alla lotta strenua per avere, come traduttore tedesco, nessuno che non fosse Heiner Müller. Ma queste lettere non sono un territorio di indagine filologica. Si potrebbe dire che il teatro, per Koltès, è subordinato a un’esigenza principale, che è sempre quella del cercare il contatto col mondo: entrare nei rapporti fino a toccare il punto più profondo, quello in cui si sentono vibrare i nodi fra le cose:

«Dopo che si è amato anche solo una volta nella vita si sa – o si dovrebbe sapere – che ci sono almeno due livelli attorno ai quali si strutturano i rapporti; c’è il livello dell’esistenza in senso aneddotico, con la formazione delle abitudini, la costruzione del passato, l’esperienza di una quantità di sentimenti secondari come la gelosia, l’avversione ecc. Ma questo livello, il solo di cui si parla quando si parla d’amore, non è il più importante e non è certamente quello riservato all’amore. C’è un altro livello, più profondo, assolutamente inesprimibile, sempre inespresso, sovente ignorato, che è quello statico, indifferente ai tumulti dell’esistenza, dove gli esseri umani si annodano tra loro come corde, lentamente, silenziosamente, ma con legami irreversibili che sembrano un’escrescenza che cresce su sé stessa. È questa la sola cosa che conta, quella cui spesso non pensiamo, quella che anneghiamo in interminabili chiacchiericci interiori sulle disgrazie, le quali finiscono per invaderci l’anima, incatenandosi le une alle altre inutilmente e senza fine, arrotolandosi su loro stesse senza riuscire a smuovere mai nulla. Pertanto, il solo pensiero d’amore possibile, il solo modo per ritrovare un essere assente, sta nella ricerca di quel livello profondo dove risiedono i veri legami. […] Bisogna imparare un altro modo di pensare, un altro modo contemplativo, che non cerchi la spiegazione, né la comprensione, […] senza sentimenti addirittura, intendendo le infinite variazioni dei sentimenti superficiali.»

La lettera è del 1977: Koltès ha quasi trent’anni. Eppure il nucleo ideale del suo teatro antinaturalistico, vocativo, fondato in una fluviale verbalità antipsicologica e apparentemente priva di azione, è già perfettamente formato. Quello che Koltès prova a cogliere nella sua indagine drammaturgica non è l’infinita oscillazione delle relazioni umane, ma lo svolgimento dei rapporti di forza. La sua idea di situazione teatrale risponde a una diversa idea di azione: ciò che si muove nei suoi personaggi non sono le motivazioni psicologiche, ma le forze storiche, di cui gli individui non sono che le figure finali: fantasmi agiti dai processi storici, eppure ansiosi di una felicità impossibile, portati in quel luogo nevralgico e ambiguo dove corpo e parola non si distinguono più: il palcoscenico, appunto.

Ancora alla madre: «Tu sei erede di una tradizione giudeo-cristiana che si è risolta nel compiere una separazione tra la carne e lo spirito totalmente artificiale, mostruosa, che ha fatto più male che bene. Amare qualcuno ‘con la carne’ è una maniera di amare o di parlare che vale quanto un’altra, né meglio né peggio. Per tornare al mio personaggio [di Notte poco prima delle foreste], il punto è sapere se possiede altri mezzi rispetto all’avere un rapporto d’amore con gli altri. Durante tutta la durata del testo, egli spiega perché tutti gli altri mezzi gli sono stati impediti. C’è un grado di miseria (sociale, o morale, o tutto ciò che vuoi) dove il linguaggio non serve più a nulla, dove la facoltà di spiegarsi con le parole (che è un lusso dato ai ricchi con l’educazione, ed ecco il fondo vero della questione) non esiste più. Dunque (credimi sulla parola!) alle volte c’è un grado di conoscenza, di tenerezza, di amore, di comprensione, di solidarietà che si raggiunge in una notte, tra due sconosciuti, superiore a quello che due esseri non riescono a raggiungere in una vita intera. Questo mistero merita che non si disprezzi nessun mezzo di espressione di cui si è testimoni, ma che anzi si passi il proprio tempo a tentare di comprenderli tutti, per non rischiare di perdere le cose essenziali.»

Anche questo, come tutti gli epistolari, coincide con la vita del suo autore, e bruscamente si chiude con essa. La morte di Koltès lo colloca immediatamente nella categoria dei morti precoci, come Büchner e Rimbaud, come Kleist e Leopardi. L’ennesimo astro nascente morto troppo presto. Una cometa però più lieve e sfuggente, più svagata, così come sanno essere svagati certi ragazzi imprendibili e sognanti – capace, poco prima di morire, di scrivere all’amico François Regnault una lettera come questa, stupendamente al limite fra il genio, il sogno e lo scherzo – l’utopia giocosa di chi, per dirla con Pasolini, non ha mai voluto essere adulto: «Scambierei, credimi, tutti i sorrisi di Minuit, tutti i cavalli, e persino Shakespeare per essere stato fotografato nel 1890 da una persona non identificata, mentre me ne sto imbronciato all’ombra di una tigre».

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18 Maggio 2022

Ostrovskij, Teatro

Massimo Bertoldi, «Il Cristallo On Line»

La cultura teatrale italiana ha instaurato un rapporto intermittente con il repertorio di Ostrovskij: in parallelo ai pochi e pregevoli allestimenti di fine Ottocento, preceduti da articoli e pubblicazioni di alcune commedie, e a quelli firmati dai grandi registi del Novecento (tra i quali Tatiana Pavlova, Giorgio Strehler, Luigi Squarzina, Guido De Monticelli), non è corrisposto un adeguato riscontro editoriale, circoscritto alla pubblicazione di qualche singola opera in volume autonomo o miscellaneo.

Questa lacuna è arginata dall’intraprendente e attenta Cue Press con la stampa di due distinte antologie che bene illustrano il lungo percorso creativo dello scrittore moscovita capace di produrre oltre cinquanta titoli.

Sta di fatto che Ostrovskij è l’unico e autentico drammaturgo dell’Ottocento russo, se si considera che Puskin, Gogol, Dostoevskij, Tolstoj e Turgenev sono, di fatto, poeti e narratori prestati al teatro. Eppure questo non basta perché «In occidente [è] quasi uno sconosciuto», scrive Fausto Malcovati nella sua luminosa ed esaustiva Introduzione in cui si ripercorrono le opere e la vita di questo fondamentale drammaturgo bersagliato dalla censura, assai apprezzato da pubblico e critica, infine promosso alla direzione dei teatri moscoviti.

Tra le tante ragioni, «tutte valide e nessuna convincente», sottolinea ancora Malcovati, si riconoscono il dominio tematico dedicato alla classe dei mercanti, rozzi, ignoranti, brutali nei rapporti domestici, secondo mentalità e stili comportamentali del tutto inattuali per le coeve platee europee; e l’adozione di una lingua diversa dai classici russi, inventata e legata alla sintassi sconnessa dei quartieri popolari di Mosca, caratterizzata da parole alterate, espressioni e esclamazioni esagerate.

In che misura la (presunta) inattualità di un testo non ne comprometta la sua bellezza, costituisce la chiave di lettura di queste commedie in cui prevalgono le donne, giovani sottomesse, ostinate, capricciose, illuse e deluse, di grande forza interiore.

Il primo volume antologizza commedie di costume dominate dal mondo variegato dei mercanti – scaltri piccolo borghesi, funzionari furfanti, artigiani – che godono di pochi diritti civili. Ne La bancarotta un ricco mercante escogita una bancarotta fraudolenta con la complicità del suo impiegato al quale fa sposare la figlia, poi gli intesta tutti i suoi averi per liberarsi dei creditori, per essere infine sconfitto da sé stesso.

Al centro di meschini bisticci matrimoniali c’è una bella fanciulla in cerca di marito, ossia La fidanzata povera in lotta tra sentimento e convenienza. È del 1859 Il temporale, ossia la drammatica storia di Katerina protagonista di un amore peccaminoso e scandaloso per i suoi compaesani, tanto da indurla ad annegarsi nel Volga. Con Cuore ardente, con cui si chiude il volume Teatro (che comprende anche (Due mariti per Avdot’ja e Un buon posto), domina il caos provocato dall’abolizione della servitù della gleba che dà via libera alla corruzione con il denaro.

A partire dal 1873 Ostrovskij abbandona la commedia e si concentra sulla favola in versi, come Lupi e pecore, testo presente in Teatro II (assieme a Il bosco, Colpevoli senza colpa) incentrata sulla figura di una ricca e ipocrita proprietaria terriera con gli abiti della benefattrice poi smascherata da un uomo altrettanto avido ma più lucido e abile stratega. Considerata il capolavoro del periodo, la fiaba Una ragazza senza dote è in balia dei tormenti sentimentali in cui si annidano le ombre tenebrose della società russa; mentre Un’attrice di talento declina nel gioco delle gelosie e degli intrighi una satira amara e pungente del mondo del teatro assai noto al drammaturgo.

In definitiva la lettura di questi due preziosi volumi arricchisce le nostre conoscenze riscoprendo la penna di uno scrittore assai raffinato e abile nella costruzione di un impianto narrativo funzionale alla rappresentazione di personaggi ambigui, contraddittori, mai banali, soprattutto specchio delle trasformazioni della società russa del loro tempo.

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