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Approfondimenti, interviste, recensioni e cultura: il meglio dell’editoria e delle arti da leggere, guardare e ascoltare.

Gabriele f
28 Novembre 2023

Ritratto dell’artista senza tempo

Federico Platania, «SamuelBeckett.it»

Dopo quindici anni torno a intervistare Gabriele Frasca – scrittore, traduttore e docente di letteratura, ma soprattutto infaticabile promotore beckettiano.
Il Meridiano dedicato a Beckett, da lui tradotto e curato, rappresenta se non il punto d’arrivo quanto meno una pietra miliare sulla strada – sulla quale Frasca sta procedendo da anni – del rilancio di questo autore.

Samuel Beckett. Uno dei classici del Novecento con il quale, però, gli editori italiani – almeno da un certo momento in poi – sembravano quasi non saper cosa fare. E adesso, invece, la «consacrazione» in un Meridiano di cui firmi integralmente cura e traduzioni. Le prime domande che mi vengono in mente sono: come ti sei sentito ad affrontare una simile impresa? E soprattutto: come sei riuscito a convincere Mondadori?

Non credo di aver durato particolare fatica a convincere Mondadori.
Anzi, penso persino che accarezzassero l’idea prima che entrassero in contatto con me, più o meno verso la primavera del ’17. In realtà Elisabetta Risari mi telefonò un giorno per organizzare un incontro, con lei e Luigi Belmonte. Chiacchierammo di diverse cose per l’occasione, e soprattutto della straordinaria impresa di Fabio Pedone ed Enrico Terrinoni che stavano portando a compimento la traduzione del Finnegans Wake. Fu un modo per conoscersi e capire cosa avremmo potuto fare insieme, suppongo. Io ero fresco di un corso di Media Comparati – disciplina che ho fatto nascere da un bel po’ di anni dalla costola delle ben più riconosciute Letterature Comparate – che avevo dedicato al primo quindicennio di cinematografia sovietica. Era del resto il centenario della Rivoluzione Bolscevica.
Ne approfittai così per lamentarmi del fatto che mentre la Penguin aveva per la ricorrenza pubblicato una bellissima nuova edizione della Storia della rivoluzione russa di Lev Trockij, qui da noi nessuno aveva avuto l’idea di tornare a fare circolare questo capolavoro della storiografia. Perché lo è. E quando mi risposero che lo avrebbero fatto senz’altro loro, a patto che io firmassi l’introduzione – consegna che ho poi rispettato con grande entusiasmo –, capii che mi avevano contattato per un progetto di più ampio respiro. Non si accetta una proposta quasi estemporanea se non si ha in mente qualcos’altro.
Così di tanto in tanto cominciai ad andare a Segrate, soprattutto per incontrare Elisabetta e Luigi, ma poi anche Renata Colorni, quando fra le tante ipotesi di lavoro emerse per l’appunto il Meridiano Beckett.
Che non fu nemmeno l’unico Meridiano possibile su cui discutemmo, ma di sicuro quello che pareva a tutti il più impellente da realizzare. Probabilmente sarò stato io a introdurre la questione, ma ho l’impressione che non aspettassero altro.
Quanto a me, naturalmente puntavo sui due volumi delle opere complete, e la prima scheda che inviai loro andava in quella direzione. Ma mi spiegarono che non erano nelle condizioni di poter intraprendere lo sforzo economico per un doppio volume, perché Beckett in Italia assicura vendite modeste. Temo che sia vero. O quanto meno che lo sia stato negli ultimi decenni. Quando mi chiesero di fare dunque una scelta, in un primo momento rifiutai. L’idea stessa di mettere arbitrariamente mano a un’opera così straordinariamente coesa, mi faceva rabbrividire. Ma l’argomento che mi convinse l’usò per l’occasione Luigi Belmonte. Mi disse semplicemente che dovevo «autorizzarmi» a scegliere le opere necessarie a rilanciare Beckett in Italia. Gli devo questa assunzione di coraggio. Quanto all’impresa in sé, cioè circa cinque anni di lavoro, per me era un debito da pagare. E spero di averlo saldato.

Come hai proceduto per la selezione delle opere? Se da un lato non mi sembra una grande perdita rinunciare ai vari rough for theatre mi sembra invece un peccato che la categoria dei radiodrammi sia rappresentata dal solo Parole e Musica e che non vi siano Ceneri e Tutti quelli che cadono.

Per non parlare dell’altro radiomelodramma, Cascando… e dell’esilarante camera della tortura di Pochade radiophonique! Proverò allora a rendere ragione dei criteri che ho adottato per le mie scelte, che ho cercato di rendere quanto meno arbitrarie possibili. Da questo punto di vista ho proceduto secondo due direzioni che ho cercato poi di far convergere. Come prima cosa, difatti, mi sono affidato alle volontà stesse dell’autore, escludendo a priori le opere alla cui pubblicazione Beckett si era sempre opposto, e che sono apparse difatti solo postume: mi riferisco ovviamente al romanzo giovanile Dream of Fair to Middling Women e alla prima opera teatrale in francese, Eleutheria. Forte poi di quante volte l’autore nel suo epistolario avesse nel corso del tempo assegnato al romanzo Murphy il ruolo d’inizio della sua intera produzione, ho rinunciato – a malincuore – anche alle novelle di More Pricks than Kicks, lasciando che si delineasse così una delle due colonne portanti su cui si regge questa scelta, quella per l’appunto romanzesca, che da quella prima prova edita in inglese giunge – con la sola espunzione di Mercier et Camier, testo a sua volta in un primo momento rifiutato, e recuperato da Beckett solo dopo il Nobel per compiacere i suoi editori – alle strutture narrative condensate e compresse di Compagnia, Mal visto mal detto e Peggio tutta.
Una volta delineato il privilegio accordato alla forma romanzo, è stato dunque inevitabile escludere dal volume quella serie di testi, per quanto formidabili, che vanno dalle prime novelle in francese dell’immediato dopoguerra ai Testi per nulla, per proseguire poi coi frammenti in inglese di From an Abandoned Work e All Strange Away, e con le fulminanti strutture narrative in francese che Minuit raccolse nel volumetto Têtes-mortes, e non solo. Di tutte queste opere apparentemente residuali, ma che costituiscono il semenzaio dell’intera produzione beckettiana dai primi anni Cinquanta ai Settanta del secolo scorso, ho accolto, a rappresentarle tutte, quello che sembrerebbe essere un vero e proprio aborto di romanzo, Lo spopolatore. «Una volta delineato il privilegio accordato alla forma romanzo, è stato dunque inevitabile escludere dal volume quella serie di testi, per quanto formidabili […] che costituiscono il semenzaio dell’intera produzione beckettiana dai primi anni Cinquanta ai Settanta del secolo scorso».
Dal momento che la seconda direzione che avevo deciso di perseguire era la stessa ipotesi critica che ho posto alla base della scelta, vale a dire l’emersione della televisione come mezzo specifico dell’estetica beckettiana, è risultato relativamente più semplice sacrificare la certo non continua, ma comunque fondamentale produzione poetica dell’autore irlandese. Avendo nel 1999 provveduto a curare per Einaudi un’edizione delle poesie – che andrebbe magari aggiornata coi pochi ritrovamenti degli ultimi anni, e ovviamente ripubblicata –, è stato per me meno doloroso ridurre la presenza delle strutture versali al solo testo conclusivo, con tutta l’ambiguità formale che lo circonda.
La produzione teatrale è stata al contrario riportata quasi nella sua interezza, escludendo solo pochi testi brevi – i due mimi intitolati entrambi Acte sans paroles, e poi Va e vieni, Respiro, Un pezzo di monologo e Ohio Impromptu – e i rari frammenti di pièce abbandonate e recuperate in un secondo momento.
Estremamente sofferta è stata l’esclusione proprio dei radiodrammi, con la sola eccezione che ricordavi, dal momento che li ho sempre ritenuti fra i testi più significativi dell’opera beckettiana.
Perché è quasi una regola: quando si è costretti a effettuare una scelta fra le opere di un autore, e lo si fa affidandosi non al gusto ma a una tesi critica, si finisce prima o poi con l’escludere lavori che in un primo momento sarebbero apparsi intoccabili. Ma a lenire il senso di amarezza che si è rinnovato a ogni dolorosa rinuncia, c’è stata se non altro la certezza di fornire per le opere prescelte un apparato di note abbastanza cospicuo, in grado di tenere conto delle questioni di traduzione, di esplicitare alcuni rimandi forse per il lettore italiano opachi, e al contempo di chiarire alcuni snodi critici e tracciare una sia pur rapida storia genetica dei singoli testi.
Fortunatamente a gennaio l’ottima Cue Press di Mattia Visani, che sta pubblicando i quaderni di regia beckettiani curati da Luca Scarlini, e che editerà a giorni due testi fondamentali di critica, come quelli di Ruby Cohn e Alan Astro affidati alle cure rispettivamente di Enzo Mansueto e Tommaso Gennaro – oltre a ripubblicare la biografia di James Knowlson –, darà alle stampe il mio libro d’accompagnamento (o «compagnonevole», per dirla con Company) di tutta l’opera di Beckett, non solo dei testi apparsi in Romanzi, teatro e televisione. S’intitolerà Il dolce stil no, e almeno per quello che mi riguarda sarà la quadratura del cerchio.

Fa una certa impressione rileggere Com’è, la cui ultima edizione italiana risaliva a quasi sessanta anni fa. Immagino che in questo caso il lavoro di traduzione sia stato particolarmente impegnativo. O forse per un traduttore è più difficile accostarsi a testi più semplici dal punto di vista linguistico, ma considerati «mostri sacri» (come può essere ad esempio Aspettando Godot)?

Com’è, romanzo scritto in prima battuta in francese, è stato un vero tour de force. Tradurre quel testo significa prima di tutto identificare, nell’andamento orale di ogni singola lassa, dove far cadere le pause di respiro. Già, proprio quel respiro che la voce del testo, la «voce quaqua», dice di sentire costantemente. Un libro che «ascolta» i suoi lettori non si è mai dato. Com’è lo fa. E come se non bastasse in lingue diverse. Ogni lingua ha il suo sistema di pause, per nulla sovrapponibile a quello di un’altra… come mostra la traduzione in inglese dello stesso Beckett, disposta a tradire la lettera del testo pur di preservare il suo chicco di senape di reale, la presa di respiro. Il che vuol dire una cosa sola: che in quel testo non si può eludere la questione del ritmo. Forse nella fattispecie mi ha aiutato la frequentazione della poesia, e l’abitudine consolidata nel corso del tempo a «respirare» Dante.
Anche Beckett lo faceva, lo ha sempre fatto: per lui la metrica della Commedia dantesca non era un «gargarismo estetico», ma l’indicazione precisa su come impostare la propria voce per slatentizzare il testo. È lì che un traduttore italiano può incontrare Beckett, per sua fortuna. Ma hai ragione tu: è più difficile tradurre i presunti testi «semplici», perché risultano pieni d’insidie. Luoghi comuni della traduzione che vanno evitati come la peste. Con uno scrittore equilingue, poi, c’è poco da scherzare, bisogna imparare a procedere strabici, o stereofonici. Ma innanzitutto bisogna decidere quale siano le ultime volontà dell’autore rispetto al testo in questione. Quale sia l’edizione rivista fino alla fine, quale sia la lingua che conserva l’ultima mano di vernice. Soprattutto per i testi teatrali – che Beckett non solo ha scritto e tradotto ma ha anche diretto – di vere e proprie varianti adiafore, come direbbe un bravo filologo, ce ne sono a chili. Aspettando Godot da questo punto di vista è un bel nodo di questioni.
A partire persino da dove mettere a sedere Estragone in prima scena… Fortunatamente ho avuto la possibilità nelle schede dei singoli testi di render conto di tutte le mie scelte.

Quali sono i testi che ti rendono più orgoglioso di questo Meridiano, sia dal punto di vista della riuscita del tuo lavoro di curatore e traduttore sia per la consapevolezza di proporre qualcosa di importante al lettore?

Dovrò essere banale: tutti. E per il metodo dichiaratamente filologico che ho adottato. La filologia significa mettersi al servizio dei testi, soprattutto quando a tramandarceli sono, diciamo così, due o più rami diversi della tradizione. Con uno scrittore equilingue si può essere solo filologi, o rinunciare. E non c’è testo beckettiano che non faccia da questo punto di vista storia a sé; per due motivi, che nel corso del tempo hanno finito persino con l’intrecciarsi. Innanzitutto Beckett si accorse assai per tempo di quanto il testo teatrale fosse per l’appunto per sua natura decisamente meno tetragono di quello narrativo, che diviene sostanzialmente immutabile, fatte salve eventuali successive edizioni, una volta licenziata l’ultima bozza. E in tutte le occasioni in cui gli capitò, come per Aspettando Godot, di dare alle stampe una pièce prim’ancora del suo allestimento, non poté che pentirsene. La prova della scena finì rapidamente con l’imporsi alle ragioni in sé concluse del testo, non solo convalidando o meno l’efficacia stessa delle battute, ma anche e soprattutto saggiando l’adeguatezza delle indicazioni contenute nelle didascalie, il cui statuto autoriale, trattandosi in realtà di istruzioni per la messa in scena, si sa bene quanto sia di suo attenuato. Una didascalia, nell’economia autoriale di un testo, ha meno peso di una battuta; ma in quella dell’eventuale regista acquista tutto il suo senso.
La questione in sé non desterebbe scalpore, se ci dovessimo limitare a seguire le peripezie di un autore di teatro nel continuo gioco dialettico fra i vari allestimenti e le successive edizioni di una stessa opera. Ma dal momento che la seconda apparizione tipografica dello stesso testo per Beckett ha sempre significato la pubblicazione dell’opera da lui stessa tradotta nell’altra lingua, quale che fosse quella d’origine, ci troviamo il più delle volte nelle condizioni di ritrovare il testo della pièce da ritenere fededegno ovviamente nella lingua d’origine, e reperire invece quello più attendibile, per quanto riguarda le indicazioni di regia contenute nelle didascalie, senza alcun dubbio nella lingua di traduzione. Insomma: le didascalie delle sue pièce tradotte derivano direttamente dalla prova della scena, e a non tenerne conto si falsa il destino teatrale del testo.

Del suo continuo tradursi, Beckett ha fatto una sorta d’insegna di bottega. Per quanto sia ovvio partire dalla lingua di prima stesura, appare altrettanto evidente che il testo nell’altra lingua prosegue la storia genetica del testo. È come se avessimo a che fare con due testimoni di un originale che non c’è.

Per non parlare di quanto l’intera questione divenne più complessa quando la pratica equilingue s’instaurò in Beckett persino nel processo di composizione. Perché il vero problema resta ineludibile. Come tenere difatti conto del paradossale sistema a doppio originale messo in campo da un autore che del suo continuo tradursi – e persino mettersi in scena, che nel caso di Beckett ha sempre significato piegare il testo alle esigenze di regia, e dunque senz’altro modificarlo – ha nel corso del tempo fatto una sorta d’insegna di bottega? Perché per quanto sia ovvio che occorra partire dalla lingua di prima stesura, appare altrettanto evidente che il testo nell’altra lingua – sempre innovativo, perché Beckett limava, modificava, aggiungeva – non può essere utilizzato solo come mera riprova, dal momento che a suo modo prosegue la storia genetica del testo. È come se, in qualche modo, avessimo a che fare con due testimoni di un originale che non c’è, con tanto di varianti per l’appunto adiafore; situazione che i filologi conoscono bene, e che non si augurano mai, perché senza il terzo, testimone o ramo della tradizione, occorre operare una scelta, motivarla con iudicium, avrebbe detto un filologo come Giorgio Pasquali, aprendo così la strada a quella nebulosa delle scelte opinabili nella quale – attenzione! – solo un critico si può addentrare. Ovvio che ogni testo abbia dunque avuto una storia a sé, e abbia posto ciascuno i suoi specifici problemi di traduzione. Ed è per questo che non riesco a scegliere fra loro.

Nella prefazione al volume sollevi la questione della controversa notorietà di Beckett, di un autore che tutti «conoscono» (le virgolette sono d’obbligo) ma le cui opere non sono mai state dei best-seller, né in libreria né al botteghino. Dici, giustamente, che spiegare la peculiare natura di questa notorietà al lettore del nuovo millennio è il compito più difficile. A me sembra intanto una buona notizia che ci siano ancora lettori di Beckett nel nuovo millennio. Ma poi, pensavo, forse Beckett è riuscito a diventare un’icona pop (la definizione è tua) proprio perché ha creato opere al tempo stesso attraenti e respingenti, difficili ma irresistibili…

Beckett, sulla scorta di Joyce, si è sempre definito «artista», non «scrittore». Il discrimine se vuoi è questo. Le sue opere sono irresistibili perché hanno la forza dell’arte, e l’arte fortunatamente non dà scampo. Sono fresco della visione della mostra di Rothko a Parigi, e posso dichiararlo con certezza: sfido chiunque a passeggiare per quelle sale, anche a digiuno dei più elementari rudimenti di storia dell’arte contemporanea, e non sentire la potenza assoluta che sprigiona dalle tele. Ho cercato lo sguardo dei tanti visitatori, e ne sono certo. Brillava qualcosa in ciascuno di loro, per quanto distratti potessero apparire. Per questo l’arte deve sempre essere messa a disposizione di tutti, perché non ha bisogno di tante chiacchiere: ti viene a cercare, e se è il caso ti modifica una volta per tutte. Beckett questo effetto lo sappiamo che lo suscita, come l’hanno sempre suscitato tutti quegli autori che un tempo si chiamavano «classici». E sarà questo il motivo per cui in tante altre nazioni, se entri in libreria, le opere di Beckett le trovi a banco. È così in Francia, in Gran Bretagna, in Germania, nelle grandi città americane. Ciò non vuol dire che in questi Paesi le opere di Beckett si vendano come il pane, anzi. In Francia, in Gran Bretagna, in Germania, in America, in ogni angolo del mondo se vuoi, a furoreggiare è soltanto la letteratura d’intrattenimento, com’è sempre avvenuto del resto. Era così anche ai tempi di Flaubert. È sempre stato così, e per il semplice fatto che la letteratura nasce proprio per questo, per intrattenere.
La letteratura è intrattenimento. L’arte invece è un solvente, qualcosa che vuole slegare. Insomma: in tutto il mondo ancora alfabetizzato, si legge per passare il tempo, e si cercano quei libri che sono nati proprio con l’intento di occupare – talvolta militarmente, come nel caso dei bestseller – quel po’ di ozio concesso a un’umanità condannata a produrre a ritmi sempre più vertiginosi, per il breve tratto di esistenza a ciascuno concesso. Ora, l’unica differenza con l’Italia è questa: nelle altre nazioni, anche dopo la nascita delle grandi concentrazioni editoriali avvenuta negli anni Ottanta del secolo scorso, se è vero che si legge in maniera intensiva solo letteratura d’intrattenimento, lo è altrettanto che si riserva sempre un posto nelle librerie per le opere dei grandi artefici – o artificieri, per dirla con Joyce – del discorso. Si lascia insomma la possibilità a chi vuole d’incontrare l’arte, e il suo costante invito a vivere oltre i propri mezzi. In Italia, non so perché – o forse lo so, ma non è il caso di parlarne qui –, questo non avviene più da tempo. Non trovi più Beckett in libreria? Ma se persino di Pirandello non riesci a intercettare che una manciata di titoli multicolori, e manca persino un’edizione curata come si deve e facilmente accessibile di un monumento come Maschere nude… E parliamo di un autore altrettanto pop, e che dovrebbe far parte del nostro patrimonio letterario.

In passato mi è capitato di paragonare Beckett a una di quelle sonde Voyager che continuano a inviarci segnali dai punti più remoti della galassia. Al pari di quelle sonde anche Beckett a un certo punto smetterà di “funzionare”. La domanda allora è: cosa ci racconta, ancora oggi, nel 2023, Samuel Beckett? Come dobbiamo accostarci alla sua opera? Come a un monumento da guardare con soggezione o come a un manuale di istruzioni per la vita?

Direi senz’altro la seconda. Anche quando il Voyager Beckett sarà ancora più lontano nel tempo, continuerà a funzionare sempre e solo nella direzione di farci vivere oltre noi stessi. Perché se l’arte sopravvive, è per il fatto che ci fa sopravvivere. La letteratura (d’intrattenimento) ha un solo senso, e va a senso unico. L’arte invece si fonda su un’implicazione reciproca. E quanto a ciò che racconta oggi Beckett: beh, pensa soltanto che ho trascorso il lockdown della primavera del 2020 traducendo… Finale di partita. Tanto di ciò che si replica nell’opera di Beckett, è ancora sul punto di compiersi.

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Jon fosse2
26 Novembre 2023

E pensare che odiavo il teatro

Jon Fosse, «Robinson — la Repubblica»

Io sono un drammaturgo, ma, a dire il vero, non ho mai voluto esserlo. Anzi, non amavo il teatro e, in diverse occasioni, per esempio in interviste, affermavo di fatto di detestare il teatro, quantomeno quello norvegese. Ciò forse perché i direttori dei teatri norvegesi mi chiedevano di scrivere per la scena, cosa che per anni mi sono rifiutato di fare. Ero e sono, prima di tutto, uno scrittore. Ho pubblicato una trentina di volumi, romanzi soprattutto, ma anche raccolte di poesia e saggi, e libri per bambini. Infatti, per tutta la mia vita adulta, ho lavorato come libero scrittore. Ma, come può capitare a uno che non ha introiti fìssi, ero proprio a corto di denaro e quando mi fu richiesto, una volta ancora, di scrivere un dramma, e di denaro avevo maledettamente bisogno, acconsentii. Così, per la prima volta, mi sono impegnato a tentare di scrivere un dramma; prima di farlo, decisi di scrivere un dramma con pochi personaggi, in un luogo determinato, in un lasso di tempo unitario, e che quel genere d’intreccio che mi accingevo a scrivere doveva essere così intenso che coloro che vi avrebbero assistito per un’ora o giù di lì ne avrebbero tratto un’esperienza intensa che in qualche modo avrebbe cambiato la loro concezione della vita.

Non dirò altro su queste aspirazioni, ma certo le limitazioni che avevo imposto alla mia scrittura in effetti mi si confacevano. Di natura, sono sempre stato una sorta di minimalista e, per me, il teatro è di per sé una sorta di forma d’arte minimalista, con molte strutture costitutive minimaliste: uno spazio limitato, un lasso di tempo limitato e via dicendo. Con mia grande sorpresa, quando la prima volta mi sono impegnato a stendere un dramma, ho scoperto che mi piaceva molto scrivere le didascalie o il dialogo che poteva significare quanto o anche più di quello che viene detto, forse persino l’opposto di quello che viene detto, senza essere ironico. E dopo avere scritto il mio primo dramma, mi sentivo sicuro di avere scritto un buon testo, sebbene fossi assai incerto se potesse funzionare sulla scena. La gente di teatro lo credeva e, grazie a Dio, sta di fatto che il mio modo di scrivere drammaturgia sulla scena ha funzionato. Qualche volta, ne ho la certezza, lavoro così bene che la qualità della mia scrittura tende quasi a raddoppiare. Altre volte, naturalmente, non funziona, ma, in ogni caso, ho imparato che è possibile che i miei drammi funzionino comunque bene sulla scena.

Vedere, per la prima volta, un mio dramma in scena fu un’esperienza incredibile; era pressoché magico vedere che le mie parole assumevano quasi delle ali umane, vedere altre persone partecipare alla mia arte, e io alla loro. Era così profondamente soddisfacente per me come essere umano; mi rendeva meno pauroso e nevrotico e, in qualche modo, più sociale. Come si comprenderà, io non odio più il teatro.

Ora cercherò di esprimere che cosa m’affascini soprattutto nello scrivere per il teatro. Mi è stato riferito che in Ungheria, quando in teatro una serata è andata bene, ripetono che un angelo ha attraversato la scena, una, due, parecchie volte. E per me, quel momento è l’essenza del teatro: il teatro è il momento in cui un angelo attraversa la scena. Che accade in quei momenti? Naturalmente non lo so, nessuno lo sa, perché o accade o non accade; una sera accade in un momento della rappresentazione, la sera successiva in un altro. Per me, questi momenti chiari e intensi, nonostante siano inspiegabili, sono momenti di comprensione; sono momenti nei quali le persone che sono presenti, gli attori, gli spettatori, fanno insieme esperienza di qualcosa che consente loro di comprendere quel che non hanno mai compreso prima, quantomeno non come lo comprendono adesso. Ma tale comprensione non è principalmente intellettuale; è una specie di comprensione emozionale che, come ho già detto, è principalmente inspiegabile, almeno sul piano intellettuale. Probabilmente non la si può spiegare, la si può giusto mostrare, è una comprensione attraverso le emozioni. Quando scrivo per il teatro cerco di scrivere drammi in modo tale che possano creare questi intensi chiari momenti, spesso momenti di pena estrema- mente profonda, ma anche spesso momenti che nella loro goffa umanità scatenano la risata. Io penso che se ho scritto un buon dramma, chi vi assiste, o almeno una parte del pubblico, dovrebbe sia ridere che piangere; per cui, nella mia opinione, i miei drammi sono tipiche tragicommedie. E se, ai miei occhi, è come se scrivessi drammi molto ‘stretti’, molto chiusi, nella storia, nell’atmosfera, nel provincialismo, paradossalmente, scrivo pure drammi molto aperti, drammi così essenziali che riescono a creare momenti nei quali le dinamiche drammaturgiche chiuse si sciolgono in lacrime, in risate.

Quando scrivo un dramma, io riduco e concentro e questa concentrazione riduttiva rende possibile l’improvvisa esplosione di una sorta d’intensa implicita sapienza, ch’è insieme triste e divertente. Per me, il dramma genuino sta lì, non nell’azione come tale, il dramma sta nell’enorme tensione e intensità fra persone che sono molto distanti fra loro e, allo stesso tempo, profondamente integrate, non solo socialmente, ma anche nella loro comune comprensione. Questi momenti, questa incredibile presenza sono connessi, a un livello davvero minimo, se non per niente, ai temi centrali dell’epoca, quelli di cui si parla nei media. Il buon teatro può riguardare qualsiasi cosa; ciò che conta non è cosa riguardi, ma come; è una questione di sensibilità, musicalità e pensiero, non una discussione di problemi attuali. E io credo che sia questa una delle ragioni per le quali i classici hanno una così forte posizione in teatro; una posizione molto più forte, per esempio, di quella che i classici hanno nel campo del romanzo. Ma allora perché scrivere per il teatro? Forse perché ogni epoca produce un nuovo genere o una nuova prevalente variante della sensibilità, un nuovo genere di musicalità e di pensiero. Un dramma contemporaneo, un buon dramma, deve in qualche modo rivelare una sensibilità, una musicalità, un pensiero mai visti prima; deve mettere al mondo qualcosa che in una singolare modalità era già lì, ma che non si era visto; un buon drammaturgo deve avere, in altri termini, come si suol dire, una propria voce.

L’arte, compresi il teatro e la scrittura drammaturgica (se è arte e non semplicemente intrattenimento o pedagogia o dibattito politico), deve pertanto esprimere quel che deve esprimere principalmente attraverso la sua forma; e intendo forma in senso assai lato, trattandosi più di un’attitudine che di un concetto. Quel che per gli altri è contenuto è forma per l’artista, diceva Nietzsche. Nell’affermare questo, parlo quasi come se fossi il teorico che non sono. Io sono un uomo pratico, uno scrittore pratico. E questo è un altro motivo per il quale mi piace tanto scrivere per il teatro. Il teatro è assai concreto, non puoi barare da drammaturgo, devi offrire una materia valida, non ti puoi nascondere dietro questa o quella astrazione di natura politica, ideologica, ecc. E come ha scritto, una volta, un uomo della massima astrazione, Friedrich Hegel, «Die Wahrheit ist immer Konkret» [«La verità è sempre concreta»]. In altri termini, il teatro è la più umana e, per me, la più intensa di tutte le forme artistiche.

Jon fosse e la poetica del confine
25 Novembre 2023

Quando un angelo attraversa la scena

Nicola Arrigoni, «Sipario»

«Io sono un drammaturgo, ma, a dire il vero, non ho mai voluto esserlo. Anzi non amavo il teatro e, in diverse occasioni, per esempio in interviste, affermavo di fatto di detestare il teatro». Così scrive Jon Fosse nel saggio Su di me drammaturgo, raccolto in Saggi gnostici, a cura di Franco Perelli, pubblicato da Cue Press (pagine 96, euro 22,99). A fronte di questa dichiarazione, l’incontro dello scrittore norvegese col teatro, dettato dalla necessità di avere introiti, si è rivelato più che felice, stupendo lo stesso autore: «Quando per la prima volta mi sono impegnato a stendere un dramma, ho scoperto che mi piaceva molto scrivere le didascalie o il dialogo, che poteva significare quanto o anche più di quello che viene detto, forse persino l’opposto di quello che viene detto, senza essere ironico». Così scrive il Nobel per la letteratura, premiato «per le sue opere teatrali e di prosa innovative che danno voce all’indicibile», si legge in un passo della motivazione elaborata dall’Accademia svedese.

La casa editrice Cue Press ha dedicato una serie di volumi al teatro di Fosse: Teatro, a cura di Vanda Monaco Westerståhl, che raccoglie i testi: E non ci separeremo mai, Qualcuno verrà, Il nome (pagine 146, euro 22,99), Caldo a cura di Franco Perrelli (pagine 82, euro 16,99) e il saggio Quel buio luminoso, sulla drammaturgia di Jon Fosse di Leif Zern, a cura di Vanda Monaco Westerståhl (pagine 98, euro 22,99). E anche per questo la casa editrice, diretta da Mattia Visani, ha ottenuto il Premio Anct, conferito dall’Associazione Nazionale Critici di Teatro per l’attività messa in atto nella documentazione delle arti performative.

L’indicibile a cui fa riferimento la motivazione del Nobel è il cuore e la scommessa che lanciano i testi di Fosse, testi aperti che hanno fatto pensare a eredità beckettiane mischiate ad ascendenze ibseniane e strindberghiane, quando non a brevità e icasticità delle battute proprie del miglior Pinter. Sono queste suggestioni e punti di riferimento che aiutano il lettore a cercare una bussola possibile nell’incontro con i personaggi di Fosse, spesso indicati semplicemente con Lei, Lui, Un uomo, Una donna, Una ragazza, Il Padre, il Ragazzo. Nessun appiglio, nessuna apparente identità nominale aiutano a definire i personaggi in scena, lasciando lo spettatore/lettore del tutto disorientato, di fronte a quei dialoghi in cui possono più le pause e i non detto.

La scena è spesso un luogo apparentemente definito: una stanza, una casa, il pontile che dà sul mare. In quello spazio definito lo sguardo va oltre, spesso oltre l’orizzonte, oltre una finestra. Elementi d’arredo come fotografie, un tavolo, un divano diventano strumenti di un rito che porta i personaggi a muoversi con precisione e pochi gesti, in una cadenza di azioni che nel suo ripetersi cerca di far emergere ciò che non è detto. Di primo acchito i due uomini potrebbero sembrare due volti della stessa persona, ma poi è la donna stessa a distinguerli. Scrive Perrelli: «Tutt’e due, in un certo momento della vita, hanno incontrato la donna in quel luogo astratto e l’hanno amata dentro la misteriosa casa alle loro spalle. Caldo disvelerebbe una caparbia concretezza dell’esistere, quantunque inquadrato nell’indeterminatezza del tempo e dello spazio».

«A fronte di situazioni apparentemente quotidiane in cui fa capolino la gelosia come motore o pungolo, la narrazione relazionale, lo sviluppo emotivo sono raggelati e trovano una loro sostanza e realizzazione nella condizione di attesa, in un andare e venire, entrare e uscire che rappresentano – spazialmente – ciò che le pause concedono al tempo dell’azione». Tutto ciò in una dimensione di scarto continuo per l’autore, per lo spettatore, uno scarto che nasce dalla scrittura, dal suo compiersi sulla pagina come sulla scena. È come se parola dopo parola – pur in un controllato uso delle battute e della loro ritmica interna – i personaggi prendessero corpo, fossero tutti nelle pause, nei silenzi, nei gesti oltre che nelle battute che dicono, senza definirli, perché questo tocca al lettore/spettatore. Scrive Fosse: «Scrivo senza pensare a niente, bensì ascolto. Così si forma la storia, è come se non fossi io a scrivere, per me scrivere è come pregare, scrivere per me è ascoltare. Ascolto senza prefigurarmi la scena: i personaggi si muovono in uno spazio emotivo». In tal senso appare illuminante quanto scrive Vanda Monaco Westerståhl nella prefazione al volume Teatro: «Nel teatro di Fosse la trama (non è racconto, non ha significato) è un atto esperenziale che si forma nel rapporto tra il mondo interiore dell’artista e il testo. Le tensioni e i conflitti hanno origini dai silenzi, dalle pause, dai movimenti».

Nei Saggi gnostici lo stesso Fosse dà conto di cosa sia la scrittura per lui: «Un luogo nel quale viene a esistere qualcosa di sconosciuto, qualcosa che prima non c’era. Questo, che lo scrivere sia lo stato in cui qualcosa, in un certo senso, persino un intero universo, è creato e viene a esistere per la prima volta, è forse ciò che mi dà maggior gioia nello scrivere».

Ciò che offrono i volumi editi da Cue Press nel loro complesso è uno spaccato illuminante dell’arte di Fosse. I testi pubblicati, sorretti dai due volumi saggistici, offrono uno spaccato non solo del teatro del Premio Nobel, ma anche della sua estetica, del suo pensiero di scrittore che va oltre, che non teme di passare il limite, che va in cerca di quei confini invisibili in cui essere e non essere possono coesistere, dialogare in piani temporali sovrapposti, in luoghi che nella loro definizione si offrono come punti di vista su ciò che è indicibile e invisibile. Per questo Leif Zern parlando del teatro e della scrittura di Fosse non può che parlare di «buio luminoso», un ossimoro che bene sintetizza la drammaturgia di Fosse e la sua scrittura capaci di «creare quella percezione della distanza che in Fosse è un equilibrio tra l’assenza e la presenza, tra l’angoscia e la sensazione di libertà che si trovano nel vuoto».

E allora si può dire del teatro e della scrittura di Fosse quello che in Ungheria affermano di uno spettacolo che sa essere illuminante e di straordinaria intensità, ovvero che un angelo attraversa la scena. Ecco, nei suoi testi, nella sua scrittura Jon Fosse va in cerca dell’angelo, di quell’angelo che attraversa le pagine, ci immette in un’intensità «che è nel contempo pregna di una comprensione che prende tutto l’essere, quantunque non sia facile da spiegare», scrive l’autore dei Saggi gnostici. Ecco, si cede che questo vada cercando il Premio Nobel della letteratura nei suoi testi letterari e teatrali, e non è cosa da poco.

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20 Novembre 2023

Premio Nazionale della Critica

Premio prestigioso, che arriva dopo due finali, nel 2014 e 2015

Il Premio Anct è un riconoscimento conferito dall’Associazione Nazionale dei Critici di Teatro, che ogni anno celebra personalità e realtà artistiche particolarmente rilevanti nel panorama teatrale italiano.

Si tratta di un premio di grande prestigio, assegnato in virtù del contributo culturale e innovativo apportato dagli artisti o dalle istituzioni coinvolte.

Nell’edizione del 20 novembre 2023, svoltasi a Torino, Cue Press si è aggiudicata il premio grazie alla qualità e alla ricchezza del suo progetto editoriale, conquistando così il Premio Nazionale della Critica 2023 dopo essere già stata finalista nel 2014 e 2015.

Ecco le motivazioni della giuria specializzata:

In pochi avrebbero preconizzato nel 2012, quando è nata, lo sviluppo della casa editrice Cue Press. Più facile accomunarla alle tante iniziative editoriali destinate a durare lo spazio di un mattino, tanto più che il suo specifico territorio di interesse non è mai stato storicamente tra i più appetibili in ambito commerciale. In pochi ne avevano capito le potenzialità di sviluppo e le sue ramificazioni. Invece la tenacia e le intuizioni di Mattia Visani, suo ideatore, ne hanno fatto oggi un punto di imprescindibile riferimento per tutti coloro che si interessano di teatro, cinema, televisione, di spettacolo nel senso più ampio del termine.
Un tempo tra i meriti di Cue Press si annoveravano i differenti formati in cui mette a disposizione i suoi volumi (digitale e cartaceo, a seconda delle esigenze del lettore) o l’accostamento delle ristampe di titoli storici, fondamentali ma fuori catalogo, in parallelo a novità di assoluto interesse. Oggi va riconosciuta anche la ricchezza e l’articolazione delle collane in cui sono organizzate le sue produzioni. Nel vastissimo catalogo troviamo le guide ai luoghi teatrali delle grandi città come pure i saggi teorici fondamentali del Novecento, da Stanislavskij a Beckett. I nomi titanici di O’Neill e Cechov compaiono accanto a Tennessee Williams e Koltès, citati solo come esempi; ma anche massima è l’attenzione per la nostra drammaturgia contemporanea quando troviamo i testi di un Renato Gabrielli o di una Daria Deflorian. Le analisi degli studiosi e dei critici più affermati sono pubblicate insieme alle pagine e agli approfondimenti degli stessi protagonisti. Nuove traduzioni sono state commissionate alle migliori firme del nostro panorama teatrale.
Impressiona soprattutto la tempestività con cui Cue Press riesce a cogliere le novità internazionali più importanti, tant’è che se oggi si vogliono leggere i testi del Premio Nobel 2023, il norvegese Jon Fosse, si deve ricorrere ai volumi editi proprio dalla casa editrice di Imola.

Il presidente Anct
Giulio Baffi

La vittoria di Cue Press non rappresenta solo un tributo alla passione e all’impegno profuso, ma è anche testimonianza della rilevanza e del carattere innovativo del suo progetto editoriale.

Il Premio Anct 2023 suggella il ruolo sempre più centrale che la casa editrice riveste nel panorama culturale italiano e internazionale, aprendo nuove prospettive per il futuro dell’editoria teatrale e consolidandone la posizione come punto di riferimento imprescindibile per studiosi, critici e appassionati di spettacolo.

Mucchio selvaggio
19 Novembre 2023

La leggenda del West. Attualità del western

Roberto De Gaetano, «Fata Morgana Web»

I generi sono quelle forme capaci di raccontare la vita activa delle persone per quanto di generale ogni singola vita contiene. E tale racconto si sviluppa in un’architettura narrativa che chiamiamo intreccio. Aristotele lo chiama mythos e ci dice che è tale solo in quanto «imitazione dell’azione». I generi sono le forme determinate attraverso le quali viene restituito il senso della prassi, e si articolano nella macro distinzione tra tragedia e commedia: la prima – come dice Dante nella Lettera a Cangrande – inizia bene per finire male, la seconda, all’opposto, inizia con problemi e si chiude con un happy end. Sia tragedia che commedia ci restituiscono l’immagine di un rapporto tra individuo e comunità: la prima attraverso un isolamento irreversibile del personaggio dal contesto sociale per colpe commesse, volontariamente o meno; la seconda attraverso l’inclusione sociale finale intorno al formarsi di una nuova coppia. Oltre i due grandi generi, abbiamo l’epica come racconto di comunità senza fratture, guidata pienamente dall’eroe. L’antichità classica ha presentato tutte e tre queste categorie generiche. La modernità a questo ha aggiunto il romanzo, dove il soggetto isolato non ha un destino assegnato di esclusione (tragedia) o inclusione (commedia), e tanto meno rappresenta la comunità (epica). L’erranza dell’eroe romanzesco, il suo carattere problematico, rimandano ad una forma strutturalmente aperta e non prevedibile.

Che cos’è il western e dove si colloca? Che cosa mette in gioco di profondo tale genere? La riproposizione recente di un grande classico degli studi sul genere, Il western, a cura di Raymond Bellour, così come l’omaggio del Torino Film Festival a John Wayne, confermando un rinnovato interesse per il genere permettono di porre tali interrogativi. Proviamo ad ipotizzarne la risposta. Se il western è un racconto dell’America, questa è l’America dei pionieri. Lo spostamento verso Ovest, il mito della frontiera, il viaggio verso ciò che ancora non si conosce, definiscono uno movimento esplorativo verso l’ignoto. L’Ovest ha rappresentato l’America nell’America, l’America per l’America, quella dell’Est. Il “Go west, young man, and grow up with the country.” di Horace Greeley nel 1837 non era solo «un rimedio di fronte alle crisi economiche» (Tailleur in Bellour, p. 22) era qualcosa di più.

In gioco non erano solo allevatori, coltivatori, cacciatori, cioè le declinazioni di ruoli e di economie che il West attivava alleggerendo l’East. In gioco c’era il pioniere. Cioè l’uomo orientato verso la scoperta del nuovo con tutto il rischio che accompagnava tale scoperta. Per il pioniere c’è solo la frontiera, che esiste per essere superata, e sempre di nuovo superata. E una volta giunti all’ultima frontiera, al Pacifico, c’è un ulteriore passaggio, verso l’India: «When Lewis and Clark reached the shore of the Pacific in 1804 they reactived the oldest of all ideas associated with America – that of passage to India» (Smith 1978, p. 22).

Nel pioniere che oltrepassa la frontiera e apre il passaggio c’è l’immagine epica del movimento di una intera comunità che seguirà il pioniere per la creazione di un nuovo “inizio”, e che porterà traccia e memoria del primo inizio, del “nuovo mondo” scoperto dai coloni europei nel loro approdo ad Est. Il West è la sua leggenda, qualcosa che sostituisce la storia. Nella trasformazione leggendaria di un paesaggio e delle figure che lo popolano, la figura dell’Uomo del West, il Westerner come lo chiama Robert Warshow, è decisiva. Lo è nel senso che ciò che lo caratterizza non sono tanto gli obiettivi che si prefigge, né il suo status morale ma il fatto, che connota sempre un eroe tragico, di non poter fa altro che ciò che fa. Come viene detto con splendida sintesi in Winchester 73 di Anthony Mann: «Some things a man has to do, so he does ’em». Da dove l’uso della violenza e delle pistole, inseparabili dai cinturoni, dalle posture e dal gesto di sparare, cioè di estrarre la pistola dalla fondina. Lo stile del Westerner è molto più importante degli effetti dei colpi di pistola, della serie di morti senza sangue che i western ci mostrano: «It’s not violence at all which is the “point” of the Western movie, but a certain image of man, a style, which expresses itself most clearly in violence» (Warshow 2002, p. 123).

L’eroe del western conta dunque per i suoi gesti più che per le sue azioni. I primi testimoniano di una intransitività che lo attraversa, segno di qualcosa che lo trascende e alla quale tragicamente deve corrispondere. Quando il Westerner perde il suo stile degenera nel mero bandito, dove mitragliatrici che sparano all’impazzata, schizzi di sangue, e ralenti, soppiantano lo stile dei gesti, come in Il mucchio selvaggio (1969) di Sam Peckinpah.

Ma se l’epica e il tragico ritrovano nel western una loro evidente riattualizzazione – come evidenziano i saggi di Dort e di Glucksman (in Bellour, pp. 37-54) – più complicata sembra la commedia, che passa in primis per la presenza e la parola femminile. Ma abbiamo alcuni esempi significativi, il massimo dei quali è forse il finale di Ombre rosse (1937) di John Ford. Dopo che Ringo (John Wayne) è stato prima un eroe epico, capace di difendere la piccola comunità dei passeggeri della diligenza dall’attacco degli indiani, poi un eroe tragico nel non poter far altro che affrontare in duello, con stile e rispetto delle regole, i tre fratelli che lo avevano mandato ingiustamente in galera, nell’happy end finale diviene un personaggio tipico della commedia, che convolerà a nozze con l’amata Dallas, e andrà a vivere con gli auspici augurali del Marshall e del Dottore (a rappresentare l’intera comunità) che lo lasciano libero di andare oltre frontiera, in Messico, a iniziare una nuova vita nel suo ranch, «al di fuori delle delizie della civiltà». Ma il western è stato capace di sposare anche la modernità romanzesca. Gli esempi sono diversi, ma il più felice rimane L’uomo che uccise Liberty Valance (1962) di John Ford. Il flashback con cui il film è condotto, la fine dell’epoca epico-tragica rappresentata da Tom Doniphon (un John Wayne splendidamente decaduto, a rappresentare il declino di un genere e di un mondo che nessuno meglio di lui aveva rappresentato), il passaggio alla alfabetizzazione e soprattutto alla Legge dell’Est rappresentata da Ransom Stoddard (James Stewart) chiudono definitivamente con l’età dell’oro degli eroi per aprire al ‘prosaico’ di una civiltà che va compiendosi nelle aule parlamentari.

Ma se l’età dell’oro si è chiusa, potrà comunque continuare ad alimentare la vita civile e il suo carattere non più eroico, né epico né tragico, facendosi leggenda, come il giornalista nel finale del film ben sintetizza: «Qui siamo nel West dove se la leggenda diventa realtà vince la leggenda». Perché sono le leggende a fare la storia, cioè a spiegare e a correggere il passato per meglio sopportare il presente: «Le leggende presentavano [l’uomo] come l’artefice di quanto non aveva compiuto, e gli attribuivano la capacità di sistemare quel che in realtà non si poteva disfare. In questo senso, esse non sono soltanto fra i primi ricordi dell’umanità, ma anche l’autentico inizio della sua storia» (Arendt 2009, p. 290). E il West è in primo luogo una leggenda, prima di essere una storia. Non lo testimonia solo il cinema dalle origini alla contemporaneità (fino al recente meraviglioso Killers of the Flower Moon di Scorsese), ma anche la letteratura di ieri e di oggi, e perfino gli spettacoli sul selvaggio west, i Buffalo Bill Show, che hanno contributo alla invenzione di una tradizione (cfr. Rydell, Kroes 2006).

Il western è dunque molto più di un genere. È la messa in atto dell’intera ontologia occidentale e dei suoi modi di rappresentazione (dall’epico al tragico, perfino al commedico, fino al romanzesco), nonché l’immagine più prossima al costituirsi di una civiltà e alla invenzione di una tradizione. Ma resta ancora una domanda: perché oggi il western sembra tornare ad una rinnovata centralità? L’eroe western è un pioniere e un fondatore, un uomo d’azione capace di prendere le distanze dall’azione stessa, posto al confine tra wilderness e civiltà, vita e morte, sospensione e vigenza della legge. È un avventuriero e un creatore di mondi, dunque è qualcuno che non svolge il ruolo di mediatore: più che mediare costruisce passaggi e apre orizzonti. E quando questo non accade ha il coraggio di guardare in faccia la sua condizione mortale e la sua stessa fine. Rappresenta dunque una immagine di vita che non elude la vita stessa, che l’attraversa alternando il passo lento della camminata e la cavalcata veloce.

L’uomo d’oggi ridotto a mediatore di dispositivi che pretende di controllare e da cui è invece controllato, smarrito in una prosaicità che ha perso ogni traccia epico-tragica e che non riesce ad essere commedica, trova nell’eroe western e nella sua scoperta eroica di mondi non tanto la nostalgia di un passato mai vissuto, quanto l’immagine di una possibilità di vita ancora da venire, dove il soggetto possa ancora, o meglio per la prima volta, essere protagonista della sua propria vita, avventurosa e imprevedibile. E soprattutto vissuta con stile.

Riferimenti bibliografici
H. Arendt, Le origini del totalitarismo, Einaudi, Torino 2009.
B. Cartosio, Verso ovest. Storia e mitologia del Far West, Feltrinelli, Milano 2018.
R. W. Rydell, R. Kroes, Buffalo Bill Show, Donzelli, Roma 2006.
H.N. Smith, Virgin Land. The American West as Symbol and Myth, Harvard University Press, Cambridge 1978.
R. Warshow, The Immediate Experience, Harvard University Press, Cambridge 2002.

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Jonfosseflickr
15 Novembre 2023

Non si può mettere un punto alla scrittura del Premio Nobel Jon Fosse

Enrico Montanari, «Il Libraio.it»

Lo scorso 5 ottobre è stato assegnato il Premio Nobel per la Letteratura del 2023 allo scrittore e drammaturgo norvegese Jon Fosse «per le sue opere innovative e la sua prosa che danno voce all’indicibile». Un riconoscimento che ha risvegliato l’interesse per le opere di narrativa dell’autore (nato a Haugesund il 29 settembre 1959), oltre che per i testi teatrali per cui era già apprezzato (non a caso è stato definito «il Samuel Beckett del XXI secolo»). A questo proposito, per chi volesse recuperare la bibliografia di Fosse, tra le pubblicazioni a sfondo saggistico e drammaturgico segnaliamo tra le prime uscite Teatro («Editoria e Spettacolo», 2006, a cura di Rodolfo di Giammarco) e Tre drammi («Titivillus», 2012, traduzione di G. Perin e F. Ferrari), passando poi a Saggi gnostici (2018, a cura di Franco Perrelli), Caldo (2019, a cura di Franco Perrelli) e Teatro (2023), volumi editi dalla casa editrice delle arti e dello spettacolo Cue Press.
Per quanto riguarda invece le opere di narrativa, lo scrittore è stato proposto in un primo momento da Fandango con Melancholia (2009, con la traduzione di C. Falcinella) e Insonni (2011, traduzione di C. Falcinella). Due pubblicazioni a cui ha contribuito lo scrittore Sandro Veronesi, che in un’intervista a il Libraio.it ha affermato, tra le altre cose, che «alla fine il tempo ha dato ragione alla grande opera di Jon Fosse». Delle dichiarazioni esultanti a cui sono affiancate quelle di Elisabetta Sgarbi, che con La nave di Teseo pubblica attualmente l’opera narrativa del Premio Nobel («Mi sono commossa», ha raccontato in seguito alla vittoria). La casa editrice milanese ha infatti tradotto le ultime uscite di Fosse, tra cui Mattino e sera (2019), L’altro nome (2021) e Io è un altro (2023). Inoltre, dal 5 dicembre ritorna disponibile, in una nuova edizione curata da La nave di Teseo, Melancholia, uno dei libri più evocativi e magnetici del premio Nobel per la Letteratura 2023. Questi ultimi due volumi fanno parte della Settologia, il romanzo-mondo strutturato in sette parti di Jon Fosse, da molti considerato il suo capolavoro. Una mastodontica impresa che fonde diversi generi e linguaggi, realizzando un ibrido tra letteratura e forma teatrale, dove il flusso di coscienza regna sovrano (anche dal punto di vista stilistico, dove non sono presenti punti fermi a interrompere la narrazione). «No, devo ritrarre l’immagine in modo tale che si dissolva e sparisca, come se diventasse una parte invisibile e dimenticata di me stesso, della mia stessa immagine interiore».

In L’altro nome di Jon Fosse (primo capitolo italiano della Settologia, edita da La nave di Teseo, che presenta i primi due capitoli tradotti da Margherita Podestà Heir) un nuovo anno sta per concludersi ed Asle, un anziano pittore rimasto vedovo, è intento a ripensare ossessivamente alla sua storia come un novello – e più politicamente corretto – Barney Panofsky. Tra i fiordi norvegesi, le piogge incessanti e i tergicristalli che battono ritmicamente, l’uomo abbraccia una solitudine pressoché totale, spezzata soltanto dal suo vicino, Åsleik, e da Beyer, un gallerista che vive in città e che ospita le sue opere. Lì vive anche l’omonimo Asle, artista solitario consumato dall’alcol. Un doppio che segue il racconto nebuloso del protagonista come una vivida ombra, assieme all’angelica figura di Ales, l’amata da tempo perduta. Immerso nel suo soggiorno/atelier, il pittore rivive la sua arte, vera e propria estensione della sua persona, che lo accompagna da sempre con un morboso legame odi et amo. Un grimaldello per far leva sull’indicibile per «l’affrescatore di ricordi» Asle, grazie al quale realizza la sua personalissima e disordinata sinfonia. La prova lampante di questa ossessione si ritrova nelle prime fugaci apparizioni, dove il protagonista – appartato – fruga nel proprio passato alla ricerca di ricordi dolce amari della coppia Asle/Ales, alle prese con un amore giovane che si muove sulle ali della leggerezza adolescenziale. Dal timido dondolare sull’altalena ai candidi angeli nella neve fresca, i ricordi dei due emergono durante la lettura come fantasmi da un passato lontano.
Jon Fosse, attraverso una scrittura frenetica, vorticante e straripante come un fiume in piena, realizza un’esperienza sensoriale e sinestetica, dove non è ammesso un singolo punto fermo a interrompere il fluire della narrazione. «Una scelta non prevista, è successo da sé, per non bloccare il flusso. Non pensavo neppure a un testo così lungo. Cercavo semplicemente una prosa lenta, un’opera a cui non servisse l’intensità drammatica del teatro, spesso forte come l’epifania di una poesia» racconta l’autore in un’intervista al Corriere della Sera. Nel testo, incessanti domande scandiscono il soliloquio di Asle, dettando ritmo e pause del flusso di coscienza, come boe a cui affidarsi per non affondare in un mare di ricordi, dubbi e malcelate verità. «Nessuno vedeva, tranne me e forse qualcun altro, che ciò che dipingevo erano le ombre, il buio in tutta quella luce, la vera luce, la luce invisibile, ma qualcuno lo vedeva?».

Un passaggio che esemplifica perfettamente l’abilità innata del pittore: dipingere le ombre, laddove la gente vuole rifugiarsi in spaziose case inondate di luce. Allo stesso modo Jon Fosse ricerca la verità nei particolari, anche e soprattutto nei difetti, che spesso e volentieri rappresentano la parte migliore di un quadro. La scrittura del Premio Nobel per la Letteratura del 2023 attinge a piene mani dalla forma teatrale, presentando incursioni religiose su Dio, sul battesimo, e confrontandosi con l’inspiegabile tragedia della morte (e con la convivenza con quest’ultima). «Sono nato nella Chiesa luterana, da ragazzo mi ritenevo ateo, influenzato dal marxismo. Poi sono diventato più religioso – forse a causa del mistero della scrittura: da dove viene ciò che scrivo?», si domanda in un’intervista a la Repubblica, parlando di spiritualità e arte.
La scrittura ha per Fosse la funzione di una velatura atta a conferire luminosità anche ai colori più scuri, come riportato anche in questo frenetico passaggio: «E continuo così, a volte soltanto con il bianco, a volte soltanto con il nero, ma sempre con il colore a olio molto diluito, insisto fino a quando il buio comincia a brillare, dipingo nell’oscurità con il bianco o il nero e a un certo punto il buio diventa luminoso, sì sempre, sì, sì prima o poi il buio comincia a splendere».

Nel secondo volume della Settologia, Io è un altro (edito da La nave di Teseo con traduzione di Margherita Podestà Heir, che presenta i capitoli dal tre al cinque), nuovi fantasmi emergono dal mellifluo e nebuloso passato di Asle. In questo volume, tra amori fugaci, le prove per rock band e le prime sigarette, i destini dei due Asle sembrano destinati a incontrarsi. E perchè no, anche a scontrarsi… Attraverso leitmotiv ricorrenti come onde che si infrangono con fare ritmico sulla battigia (tra cui l’ultimo quadro di Asle, somigliante a una Croce di Sant’Andrea), il pittore si addentra in un mare di nebbia alla ricerca di volti familiari, sfruttando la sua arte come risacca che porta a riva conchiglie e rifiuti. Dalla confusa figura della sorella, legata a un trauma invalicabile, a Testa Pelata, un individuo dal fare viscido che segna il finale de L’altro nome, in Io è un altro viene presentato a lettrici e lettori un racconto più lineare – dove sembra attenuata la sbornia stilistica di Fosse – pur rimanendo all’interno del serrato flusso di coscienza di Asle. Il tutto però presentando un tratto ricorrente: la preghiera-sipario, ovvero la chiusura del capitolo con uno scorrimento dei grani del rosario che – come lo scorrimento di un grande velo – detta ombra sul palcoscenico. Un’ombra fatta di «luminosa oscurità», che nelle opere dell’autore – attraverso una scrittura ispirata e irrefrenabile – è fonte di straripante ricchezza e vitalità. D’altronde, non si può mettere un punto alla scrittura del Premio Nobel Jon Fosse.

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Calorio giacomo 2
12 Novembre 2023

Ikisaki intervista: Giacomo Calorio

Lorenzo di Giuseppe, «Associazione Ikisaki»

Giacomo Calorio, dottore di ricerca in Digital Humanities (Università di Genova), è attualmente ricercatore presso il Dipartimento di Scienze Umane per la Formazione R. Massa dell’Università di Milano-Bicocca, CdS in Comunicazione Interculturale. I suoi interessi di ricerca vertono prevalentemente intorno al cinema giapponese. Sull’argomento ha pubblicato, oltre ad articoli, saggi e recensioni, le monografie Horror dal Giappone e dal resto dell’Asia (2005), Mondi che cadono – Il cinema di Kurosawa Kiyoshi (2007) e To the Digital Observer – Il cinema giapponese contemporaneo attraverso il monitor (2019). Parallelamente svolge l’attività di traduttore di manga dal 2004.

Nella premessa di Ruggiti e silenzi: Mifune Toshirō scrivi che «questo libro parte da un altro libro, ma non è quel libro», riferendoti alla tua prima pubblicazione cartacea sull’argomento, Toshirō Mifune (2011).
Come e perché è nato l’interesse nella figura di Mifune all’epoca e in quale modo si è sviluppato fino a prendere forma nel tuo primo libro?

Kurosawa e Mifune sono stati per me, come per mezzo mondo qualche decennio prima, le due figure attraverso le quali, da adolescente, ho conosciuto il cinema giapponese e mi ci sono appassionato, e per questo motivo occuperanno per sempre un posto privilegiato nel mio cuore di cinefilo.
Detto ciò, devo ammettere che la prima versione del libro non fu affatto una mia idea: in realtà mi fu proposto, perché avrebbe dovuto essere il primo anello di un’ambiziosa collana sugli attori e le attrici del cinema asiatico curata da Dario Tomasi ed edita da L’Epos. Il progetto era intrigante, ma in un primo momento mi spaventò: non avevo idea di cosa scrivere a proposito di un attore, e ancor meno di come farlo, e l’idea di lavorare su un nome così grande mi sembrò una responsabilità che non sapevo se ero in grado di sostenere. Presto comunque mi appassionai davvero all’idea, e man mano che mi documentavo e che scoprivo o riguardavo i suoi film, il libro prese forma da sé. La struttura del resto era abbastanza semplice, anche se, nella prima versione, un po’ sbilenca, a causa del ruolo importante assunto dallo stesso Kurosawa nella carriera dell’attore e della mancanza di alcuni tasselli importanti della filmografia di quest’ultimo; che, coi mezzi e il tempo a disposizione di appena una dozzina d’anni fa, non ero riuscito a reperire: non solo film importanti di registi che con Mifune avevano instaurato relazioni proficue, come Taniguchi Senkichi, Inagaki Hiroshi e Kumai Kei, ma anche di veri e propri maestri della storia del cinema quali Naruse Mikio e Kinoshita Keisuke, più alcune perle a sé stanti come Kettō kagiya no tsuji (Vendetta for a samurai) di Mori Kazuo e Bakurō ichidai (Life of a Horse Trader) di Kimura Keigo, che molto ci dicono del Mifune dei primi anni Cinquanta nei due ambiti del jidaigeki e del gendaigeki. Negli anni, queste mancanze, insieme a quelle sul versante bibliografico, hanno fatto nascere in me un crescente senso di insoddisfazione che ha poi portato alla nascita di Ruggiti e silenzi.

Concentrandoci specificatamente su Ruggiti e silenzi, da lettore, appassionato e ricercatore-indipendente-alle-prime-armi, ho apprezzato particolarmente la struttura del libro, molto chiara, precisa e analitica nel delineare una figura complessa su cui si è scritto tanto.
Come è stato il processo di riscrittura e ri-progettazione del libro?

Da lettore amo la chiarezza, quindi cerco di scrivere cose che io per primo sarei in grado di comprendere. Per certi versi, la struttura complessiva del nuovo libro rispecchia quella del vecchio, ma l’ampliamento del primo e degli ultimi due capitoli mi ha permesso di accorpare i due che avevo dedicato a Kurosawa in uno solo. Questo, credo, rende la struttura di Ruggiti e silenzi più logica e sensata, ma soprattutto più equilibrata a livello di contenuti, prima eccessivamente sbilanciati sul versante del grande mentore.
La riscrittura si è basata innanzitutto sull’utilizzo delle fonti giapponesi, assenti nel libro del 2011, che mi sono state utili sia per integrare il testo con nuove e preziose testimonianze e prospettive critiche, sia per colmare almeno in parte, attraverso informazioni di seconda mano, pochi buchi tuttora rimasti rispetto ai film realmente visti e analizzati di persona. Negli ultimi due capitoli del nuovo libro compaiono quindi non solo intere sezioni dedicate ai film che all’epoca non ero riuscito ad analizzare – peraltro tutti di considerevole interesse per un motivo o per l’altro, e che nel tempo intercorso ho rimediato, guardato e studiato – ma anche informazioni più dettagliate relativamente a film tuttora irreperibili. Per le stesse ragioni, anche la filmografia finale è molto più completa e precisa. Non si tratta però solo di semplici aggiunte, perché tutte queste nuove informazioni mi hanno spinto anche a rivedere a livello più generale l’immagine che mi ero fatto di Mifune e delle evoluzioni della sua carriera, costringendomi a operare a livello più sistemico, rivedendo diversi passaggi o ri-orientandone il senso. Infine, col passare degli anni, anche i miei gusti rispetto alla scrittura sono cambiati, quindi i due libri risultano un po’ diversi anche sul piano stilistico.

Ritieni che il rapporto con Kurosawa Akira – visto nella sua totalità – sia una sorta di unicum all’interno del cinema giapponese o pensi che sussistano altre «coppie» regista-attore di questo tipo?
A me vengono in mente quella Kurosawa Kiyoshi-Yakusho Kōji e quella Kitano Takeshi-Ōsugi Ren, ma forse non hanno la stessa forza mediatica dei primi due…

Il cinema giapponese è ricco di collaborazioni solide e longeve tra un regista e uno o più attori. Lo stesso Mifune, come scrivo nel libro, instaurò relazioni proficue anche con altri cineasti, e in realtà il regista con cui lavorò di più fu Inagaki, non Kurosawa. Viceversa, quest’ultimo instaurò relazioni importanti e durature anche con altri interpreti: penso ovviamente a Shimura Takashi. Sull’altro versante, esistono senz’altro coppie regista-interprete altrettanto iconiche nella ricca storia di questa cinematografia: su due piedi penso a quella di Ozu con Hara Setsuko e Ryū Chishū, a quella di Naruse e Kinoshita con Takamine Hideko, a quella di Mizoguchi con Tanaka Kinuyo e Yamada Isuzu, a quella di Masumura con Wakao Ayako, a quella di Shindō con Otowa Nobuko, a quella di Kobayashi con Nakadai Tatsuya, a quella di Yoshida con Okada Mariko, a quella di Suzuki con Shishido Joe… e via dicendo, fino ad arrivare ai contemporanei che tu citi, ai quali aggiungerei forse anche i ruoli – non molti ma pregnanti – di Kiki Kirin per Koreeda. Detto questo, un po’ per le circostanze storiche a cui accennavo all’inizio, un po’ per l’effettiva estensione, la continuità, la solidità, la varietà, l’esposizione mediatica internazionale, ma anche per l’intensità e la caratura dei ruoli di quelle sedici collaborazioni, la coppia Mifune-Kurosawa rappresenta in effetti davvero una sorta di unicum, e non per niente i due sono associati sin dal titolo in più pubblicazioni monografiche incentrate sulla loro relazione, sia di lingua giapponese che inglese.

Oltre alle illuminanti intuizioni sulla filmografia kurosawaiana di Mifune, molto interessante risultano le parti dedicati ai jidaigeki oltre Kurosawa e i film ad ambientazione contemporanea.
Se ti dicessi di consigliare 3 film meno conosciuti al pubblico in cui Mifune è protagonista, quali sceglieresti e perché?

Faccio sempre difficoltà quando si tratta di scegliere. A ogni modo, volendo operare una scelta ragionata (per quanto estemporanea) basandomi su un titolo per categoria, direi innanzitutto, tra quelli di ambientazione contemporanea, il suo primo film, Ginrei no hate (Snow Trail) di Taniguchi, in cui Mifune offre un’interpretazione senz’altro acerba ma selvaggia che lascia ben intuire come mai l’attore si impose subito come un nuovo tipo di star nel clima dell’immediato dopoguerra. Tra i jidai-geki mi trovo parecchio indeciso ma, senza nulla togliere a quelli di certo più significativi e in linea coi tempi, diretti negli stessi anni da Kobayashi e Okamoto, mi sento di consigliare Furin kazan (Samurai Banners) di Inagaki, un kolossal di impostazione piuttosto classica ma importante perché rappresenta il canto del cigno sia del cinema del regista, sia della Mifune Productions, la casa di produzione fondata dall’attore. È un film da cui traspare un grande amore per una stagione del cinema (e di un genere) ormai al tramonto, girato e interpretato con una passione e un trasporto contagiosi – almeno per me.
Tra i film girati all’estero, infine, consiglierei senza il minimo dubbio Animas Trujano (The Important Man) di Ismael Rodriguez, il primo film girato da Mifune all’estero e quello di cui più andava giustamente orgoglioso. Il ruolo di quest’antieroe messicano ingenuo, alcolizzato e brutale gli calza addosso alla perfezione, e anche se per ovvie ragioni l’attore giapponese fu doppiato, resta la sua interpretazione migliore fuori dal suo paese (tra le poche davvero significative, a dirla tutta).
Se posso aggiungere un quarto titolo, direi Tōkyō no koibit (Tokyo Sweetheart) di Chiba Yasuki, una commedia romantica che fa emergere un Mifune, qui al fianco di Hara Setsuko, meno rude, selvaggio e granitico di quanto siamo soliti immaginare, ma che rispecchia effettivamente altri ruoli simili interpretati nella prima metà degli anni Cinquanta.

All’interno del panorama cinematografico dinamico e digitale attuale, che hai benissimo descritto nel tuo precedente libro To the Digital Observer: il cinema giapponese contemporaneo (2019), sembra che Ruggiti e silenzi sia una sorta di manifesto teso a indagare il cinema del passato e l’importanza di studiarlo per comprendere il presente, dentro e fuori lo schermo.
È così oppure c’è dell’altro?

Ti ringrazio per la fiducia, ma in tutta onestà questo libro non nasconde ambizioni tanto grandi. La genesi è quella che ti ho raccontato, ed è semplicemente un testo la cui stesura mi ha progressivamente appassionato. Allo stesso tempo, però, mentre lo scrivevo mi sono reso conto che le testimonianze e le considerazioni su Mifune in esso contenute raccontano, seppur indirettamente e a sprazzi, anche diverse cose del mondo in cui egli emerse e si mosse. Quindi, in effetti, ho pensato che poteva essere un tassello utile a conoscere non solo qualcosa sull’uomo, l’attore e il divo, ma anche su ciò che gli stava intorno (registi, colleghi, produttori, sceneggiatori, studi cinematografici, il clima e la mentalità del Giappone dell’epoca, i metodi di lavorazione, le evoluzioni del cinema – o almeno di una sua parte -, i suoi rapporti con gli altri media…). Ecco, se potesse servire anche a questo e interessare non solo i fan di Mifune e Kurosawa, mi farebbe senz’altro piacere.

Guardando alla schiera di ottimi interpreti maschili che il Giappone ha portato alla luce negli ultimi anni, anche globalmente, (Yakusho Kōji, Asano Tadanobu, Abe Hiroshi, Matsuda Ryūhei, ecc.), secondo te Mifune ha lasciato degli eredi a livello di tecnica interpretativa, carisma e attitudine?
Se sì, chi e perché?
Se no, pensi possa succedere?

Il cinema giapponese ha avuto e ha tuttora una schiera invidiabile di attrici e attori straordinari.
Mifune è stato per certi versi l’interprete ideale di un preciso periodo storico, e in effetti un po’ ha fatto scuola nei decenni immediatamente successivi al suo esordio nel delineare un nuovo tipo di eroe dinamico e selvaggio prima, più riflessivo poi, e un tipo di recitazione spontanea, istintiva e per certi versi dilettantesca (unita però a una dedizione e a una professionalità quasi ossessive). Nel suo caso sono in particolare il personaggio di Sanjūrō e la sua caratterizzazione a essere serviti da modello per tanti altri spadaccini erranti dagli anni Sessanta in avanti. Onestamente non so dire se oggi possano ripetersi le stesse circostanze, perché è il cinema stesso (giapponese e non) a essere radicalmente cambiato, così come la società e il mondo circostanti. Anche la storia personale di Mifune, come quella di molti attori che hanno vissuto la guerra, le ristrettezze postbelliche e il successivo boom economico, non trova paralleli nel mondo di oggi. Sicuramente si produrranno altre e diverse alchimie in futuro che porteranno alla ribalta dello scenario internazionale un determinato attore o una determinata attrice giapponese.
Il caso di Asano a cavallo dei due millenni presenta senz’altro dei punti in comune con quello di Mifune, anche se in un contesto più cult e meno esteso, mentre Yakusho, un interprete molto diverso, occupa certamente un posto altrettanto grande nel cinema giapponese degli ultimi trent’anni.
Aggiungerei alla lista dei nomi da te citati anche quello di Sanada Hiroyuki per via delle sue numerose interpretazioni all’estero. Il punto è che ognuno di essi rappresenta solo una diversa parte di ciò che Mifune rappresentò invece nella sua totalità. Ma questo, credo, è dovuto unicamente alle circostanze, non alla indiscussa bravura degli attori citati. Il futuro non so cosa possa riservarci, però se penso ad attrici emerse in questo millennio che hanno dato vita ad alcune interpretazioni particolarmente ruvide e intense, quali Andō Sakura (Love Exposure, 100 Yen Love…), Kishii Yukino (Small, Slow but Steady) e Miura Tōko (Drive My Car)… chissà, forse saranno loro a raccogliere il testimone?

Cosa consiglieresti a chi oggi vuole scrivere di cinema giapponese?

Io per primo sono in cerca di consigli che ricavo leggendo i libri scritti dagli altri, e non sono abbastanza sicuro e soddisfatto di ciò che faccio per poter rispondere a questa domanda, quindi mi limito a qualche considerazione. Scrivere di cinema giapponese oggi è per certi versi più semplice di un tempo perché la mole di opere, informazioni, testi e nuovi approcci disponibili, e la facilità con cui tutto ciò si può raggiungere, consente di farsi un’idea più completa del tutto. Ci sono anche più opportunità per studiare la lingua (o farsi aiutare dalla tecnologia, che evolverà sempre più) e andare sul posto, e quindi avere informazioni di prima mano. Chi scrive oggi può e deve approfittarne, senz’altro, e questa è una responsabilità in più rispetto a un tempo, perché potenzialmente consente di scrivere cose migliori e quindi ci sono meno «scusanti», diciamo. Ma il rovescio della medaglia è che la stessa sovrabbondanza di materia prima può scoraggiare e distrarre, quindi magari finisce che non approfittiamo di tutto ciò. E infatti ho qualche dubbio sul fatto che oggi scriviamo davvero cose migliori. Siamo umani, abbiamo dei limiti e dobbiamo trovare il tempo e la concentrazione per focalizzarci su una cosa e svilupparla con cura, precisione e chiarezza nonostante tutto, tenendo al contempo in considerazione il contesto più ampio che la circonda.
Lasciando invece i consigli a voci più autorevoli della mia, e quindi prendendoli come suggerimenti rivolti a me stesso, penso da un lato a André Bazin che, in riferimento a Rashōmon, ribadiva l’universalità del linguaggio cinematografico, ammettendo tuttavia con estrema umiltà di non avere gli strumenti per cogliere alcune specificità culturali dell’opera; dall’altro a Yomota Inuhiko che, parafrasando, in tempi più recenti ha evidenziato come, per capire appieno il binomio «cinema giapponese», si debbano conoscere sia «il cinema» che «il Giappone». Credo che si possa tranquillamente scrivere di cinema giapponese conoscendo solo uno dei due poli della locuzione, e anche ricavarne articoli o libri interessanti.
Per farlo davvero con cognizione di causa e non incorrere in equivoci sarebbe però meglio avere una minima conoscenza di entrambi. Altrimenti si rischia, da un lato, di scrivere di cinema con scarsa proprietà di linguaggio e in maniera approssimativa, senza sapere cosa esso è realmente e come funziona un film (e quindi cosa esprime la sua grammatica), né come contestualizzarlo nella storia del cinema mondiale (non dimentichiamo che la storia del cinema giapponese è improntata all’ibridismo dalla sua nascita sino a oggi, e non ha mai davvero viaggiato da sola). Viceversa, senza una minima conoscenza del Giappone si rischia di scrivere di un oggetto che nasce in seno a una cultura specifica (attenzione, non unica né isolata: specifica), senza comprenderne i riferimenti (estetici, sociali, intra- e intermediali, eccetera), e anche questo può portare ad approssimazioni, esagerazioni, esotismi vari, interpretazioni errate. È una banalità ma, come dicevo, più che un consiglio è un proposito.

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Strade maestre stein
4 Novembre 2023

Strade maestre. I cardini della drammaturgia europea

Valeria Ottolenghi, «Gazzetta di Parma»

Quest’estate ai festival si è parlato spesso di maestri. Le coincidenze stimolano pensieri. Da diversi anni – quindici se non si va errando – a Radicondoli, nel bel territorio senese, viene nominato un Maestro di Teatro, con una giuria che decide tra i nomi indicati dal mondo dello spettacolo, che comprende anche gli spettatori. Nel bando questa la domanda: «Ci sono stati/ci sono maestri di teatro che vi hanno aiutato a crescere, figure particolarmente disponibili, capaci di ascoltare, di mettersi a confronto con generosità?». Anche il nome di Gigi Dall’Aglio in questa sorta di albo d’oro.

Da qualche edizione il glorioso Kilowatt dedica un tempo speciale – con spettacoli, dialoghi, video – a una figura importante per il teatro: lì, a Sansepolcro, in territorio aretino, abbiamo incontrato, con Pippo Del Bono, alcune sue opere, nell’ultima edizione invece Antonio Latella, non a caso già Maestro a Radicondoli. Non solo: da un paio d’anni Paola Pedrazzini con Bottega XNL ha fatto nascere a Piacenza, su modello di Fare Cinema, di cui è responsabile (maestro di riferimento Marco Bellocchio) anche Fare Teatro, facendo incontrare ogni anno un gruppo di attori con un maestro, con cui viene allestito uno spettacolo, il corso gratuito, le giornate di rappresentazione (pagate), il debutto a Veleia.

Ma al di là di Radicondoli, di Sansepolcro e della Bottega piacentina, il motivo di questo ritorno tematico, che subito accendeva gli animi, rendeva effervescenti i pensieri, era il libro Strade maestre di Corrado D’Elia e Sergio Maifredi, ed. Cue Press. Un vero viaggio per incontrare, interrogare – e moltiplicare, quindi, quesiti, confronti, ipotesi – i Maestri del teatro contemporaneo, nove nomi importanti; primo tra questi Peter Stein, che da poco aveva ricevuto il gran titolo a Radicondoli.
Limpida la sua poetica: i veri creatori sono gli autori, a cui è necessario restare fedeli, unica condizione per fare teatro d’arte. Un’affermazione netta che, se fosse vera, sottrarrebbe valore a molto teatro italiano. Ma fortunatamente sono possibili le convivenze. E comunque lo stesso Stein sa essere potente visionario, specie nella creazione di spazi per le messe in scena. Ma il rigore – anche se per vie diverse – è anche di Eugenio Barba, raggiunto attraverso l’esperienza dell’impegno manuale. Ampia la sua narrazione d’esperienza di vita, fondamentale l’incontro con Grotowski.

«Il modo in cui prepari l’attore è un marchio che gli resterà tutta la vita. Non è un problema di sacralità… si tratta di cultura del lavoro». Una sorta di artigianato? Ma poi nella narrazione c’è molto di più. L’antropologia teatrale, il training, anche lui con le sue verità; essenziale il contribuito ideativo, fisico degli interpreti, vita e teatro intensamente connessi. Aperte le modalità di agire di Stefan Kaegi e Rimini Protokoll: qui a un nucleo stabile si aggregano via via persone che collaborano per la scena, teatro di comunità. «Io non parlo mai di arte». E quasi dialogando a distanza con Stein spiega: «L’origine del teatro non dovrebbe essere il testo ma l’esperienza».

Indimenticabili gli spettacoli di Thomas Ostermeier, sempre grandiosamente pulsanti. E qui vengono citati Amleto, Riccardo III, superbe rielaborazioni shakespeariane. «Il teatro si salva facendo del buon teatro». Il prossimo appuntamento con Re Lear. Limpida la visione di Milo Rau alla ricerca di un nuovo teatro popolare. Nel suo Manifesto viene sottolineato il valore del processo creativo plurale ancor più dell’esito. Essenziale la vicinanza, la conoscenza del particolare per arrivare all’universalità. «Il mito universale deve realizzarsi nei singoli corpi, nei singoli luoghi. Senza divisione tra ragione e sentimenti, due aspetti che non dovrebbero mai essere divisi, riunirli è compito dell’arte».

Impossibile l’incontro con Lev Dodin, magnifiche le sue opere viste in Russia e in Italia. Ci sono però alcune sue parole, sconvolto da quanto sta accadendo, il ritorno della guerra: questo secolo peggiore del precedente? Come sempre carico di molteplici sollecitazioni il pensiero di Antonio Latella, ogni suo spettacolo pulsante d’assoluta energia con echi che restano a lungo. «Oggi sono più giovane di prima. Di sicuro non ho più paura di essere dolce. E non è poco». Interessante il confronto con la Germania, dove Latella ha una casa e lavora spesso. I Maestri? «Quelli che hanno avuto il dono di creare un codice che ha poi fatto la differenza», il nome d’esempio Pina Bausch. Krzysztof Warlikowski: a Palermo il dialogo con il regista polacco. «La finzione che non è finzione… ho fatto uno spettacolo sull’impossibilità di raccontare l’Odissea». Bisogna pensare anche al pubblico, avere fiducia nel teatro. Da discutere la sua visione del teatro italiano.

Resta ultima, in questo percorso a tappe tra i grandi del teatro, la Maestra – sì, grandissima – Ariane Mnouchkine: il teatro come arte del presente. «Cerco di creare lo spettacolo che mi piacerebbe vedere e mi fido delle mie emozioni». Come sempre radicalmente autentico il suo discorso sul teatro. Per la forma della creazione, per la sua funzione, ricordando alcune parole che ritornano all’interno del Théâtre du Soleil: «Il tempo si vendica sempre di ciò che facciamo senza di lui».

Gli autori di Strade maestre informano, registrano le parole degli artisti incontrati, aggiungono note. Ora il discorso è aperto, infinite le domande, sulla preparazione degli attori, i modelli di regia, il training. Qualcuno forse potrebbe chiedere motivo di alcune assenze. Ma va bene: ora è importante arricchire il dibattito, magari in più sedi. Non si è più «figli d’arte» come un tempo, ora ci sono percorsi da conquistare: come? Con chi? Quali errori evitare? Bella l’idea della Bottega a Piacenza; come un tempo l’allievo guarda, imita, sperimenta, per allontanarsi infine in autonomia lungo la sua strada. «Il teatro viene dal malessere, viene per aiutarti. Credo che per questo sia apparso nella mia vita». Storie vere?

Strade maestre2
1 Novembre 2023

Le strade maestre del teatro contemporaneo

Antonio Tedesco, «Proscenio», VIII-1

Faccia a faccia. Incontrare le persone. Percepirne la presenza fisica. Gli sguardi, gli umori. Esplorare e «sentire» i luoghi in cui vivono, in cui lavorano. Partire dalle origini della loro esperienza («I tuoi primi ricordi…», «La prima volta in teatro…»). In un mondo che va sempre più smaterializzandosi, dove è la norma effettuare interviste via telefono o email, Corrado d’Elia e Sergio Maifredi hanno deciso, invece, di mettersi in viaggio. Le loro Strade Maestre (edito da Cue Press – pp. 222, € 24,99) coincidono, quindi, con le strade che portano «ai» Maestri. E più specificamente ai Maestri della scena teatrale contemporanea che i due autori, entrambi registi e uomini di teatro di solida e riconosciuta esperienza, hanno incontrato uno a uno raggiungendoli nei loro luoghi di vita e di lavoro. Instaurando con essi un dialogo che va oltre la pura e semplice intervista. Arricchito in qualche caso anche da momenti di convivialità e scambi di doni. Per raccontare «dal vivo», come si addice al teatro. Un’operazione complessa che ha richiesto passione e tempi lunghi. E che si è avvalsa della produzione della Compagnia Teatro d’Elia e del Teatro Pubblico Ligure. E che ha il respiro ampio della testimonianza diretta, dell’esperienza vissuta, del contatto umano. Uno studio sul campo della creatività, teatrale, ma non solo, attraverso le sue espressioni contemporanee più alte e significative. Qualcosa che ricorda il grande lavoro svolto nella seconda metà del Novecento dalla rivista letteraria americana «Paris Review», con le lunghe e minuziose interviste che i suoi redattori hanno realizzato incontrando di persona i massimi scrittori del loro tempo.

Così Maifredi e D’Elia si sono confrontati con personalità del calibro di Eugenio Barba, Lev Dodin, Stefan Kaegi, Antonio Latella, Ariane Mnouchkine, Thomas Ostermeier, Milo Rau, Peter Stein, Krzysztof Warlikowski. Viaggiando, spostandosi per luoghi e città a loro volta fortemente rappresentative per l’arte e la cultura contemporanea. Roma, Berlino, Palermo, il borgo umbro di Stein, Tolosa. Il risultato è un libro prezioso. Una testimonianza che restituisce non solo il pensiero e l’arte dei Maestri, ma la loro umanità, il loro modo di essere nel mondo. Trasformando le interviste in narrazioni. Descrivendo luoghi, persone, emozioni. Le stesse esperienze di viaggio degli autori. Il piacere, e a volte la fatica, di raggiungere i luoghi. Un lavoro di ricerca, in ogni senso. Per tentare di definire come possa intendersi, ancora oggi, nell’arte e nel teatro in particolare, il concetto di Maestro. Che viene anche messo in discussione, e qualcuno degli intervistati ne prende le distanze.

Il libro, molto ben curato, è corredato da un ricco apparato fotografico che documenta gli incontri e aiuta il lettore a visualizzare la «fonte», per così dire, delle parole che legge. Così come ogni capitolo è corredato da un breve testo introduttivo, e da una riflessione finale nella quale gli autori descrivano le impressioni e le sensazioni che ogni singolo incontro ha suscitato in loro. Un’ulteriore testimonianza dell’importante lavoro svolto, oltre che della propria sensibilità e del proprio senso dell’arte.

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26 Aprile 2022

Bernard-Marie Koltès, Lettere

Gianni Poli, «Drammaturgia.it»

La raccolta delle Lettres, uscita nel 2009, forniva una fonte autobiografica su molti aspetti sconosciuti di Bernard-Marie Koltès, autore di Le nuit juste avant les forêts, Combat de nègre et de chiens e Roberto Zucco. La traduzione permette ora anche al lettore italiano di scoprire certi caratteri più intimi e segreti del drammaturgo, a confronto […]
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