Logbook

Approfondimenti, interviste, recensioni e cultura: il meglio dell’editoria e delle arti da leggere, guardare e ascoltare.

Strade maestre barba
8 Ottobre 2023

Post Teatro

Anna Bandettini, «la Repubblica»

Letture di resistenza

«Non ricordo quasi niente della mia infanzia. La mia memoria comincia con la morte di mio padre. Prima di quell’agonia che ho vissuto come un rito di passaggio e una nuova consapevolezza della condizione umana, ho rari ricordi, tutti di guerra». Sono parole del regista Eugenio Barba, grande «maestro» e rivoluzionario del teatro della seconda metà del Novecento, dal libro Strade maestre di Corrado D’Elia e Sergio Maifredi. Nella newsletter di oggi, infatti, parlo di libri. Non soltanto di letture piacevoli per le vacanze estive, ma di resoconti e racconti su cui vale la pena riflettere per il loro valore di «resistenza» al conformismo dilagante, o perché hanno un loro pensiero originale, o semplicemente perché ci stimolano a farcene uno proprio.

La lezione dei «maestri»

È stato una bella sorpresa la lettura di Strade maestre, il libro di Corrado D’Elia e Sergio Maifredi (Cue Press, € 24.99) che consiglio vivamente. Intanto è bella l’idea da cui nasce: interrogare i più grandi registi della scena contemporanea, «maestri» come Eugenio Barba, appunto, Lev Dodin, Arianne Mnouchkine, Peter Stein, e nuovi maestri come Warlikowski, Ostermeier, Latella, Stefan Kaegi, Milo Rau. Una bella scelta. I due autori li hanno incontrati, non per intervistarli come «giornalisti», ma per capire dalla loro vita e dal loro lavoro, dagli inizi, dalle domande che li hanno accompagnati nel corso degli anni, dalle relazioni che hanno costruito, il senso del fare teatro. Ne escono una serie di autobiografie umane e artistiche molto interessanti.
C’è Peter Stein che parla della cultura in modo profondo (leggete la risposta in cui parla della regia), c’è Milo Rau che precisa la sua idea di «nuovo teatro popolare», Arianne Mnouchkine che ricorda l’importanza di avere «maestri», Antonio Latella che confessa come il teatro lo ha fatto ritrovare. Sono parole spesso importanti, quelle dei «maestri», pensieri che sono radici da cui ripartire se si vuole capire il teatro. Ma non è un libro solo per teatranti o per chi frequenta il teatro, perché racconta come il teatro non sia solo una macchina per produrre, per vendere, per mostrare spettacoli, ma un luogo che congiunge tutte queste cose, che ha a che fare con la vita delle persone , con la società che c’è intorno.
Il teatro come macchina per comunicare, che talvolta ci appare disordinato e confuso, ma che attraverso le personalità di grandi artisti che riempiono le sue strade, ci appare una «strada maestra».

Fosse libro
7 Ottobre 2023

Jon Fosse, il Nobel alla Letteratura e la piccola casa editrice di Imola: «Sommersi di richieste, tremila libri in poche ore»

Simona Cantelmi, «Corriere di Bologna»

La notizia del Nobel per la Letteratura allo scrittore norvegese Jon Fosse ha sconvolto la routine di una piccola ma prestigiosa casa editrice di Imola. La Cue Press, che pubblica testi di teatro e cinema, è la casa editrice italiana che ha pubblicato alcuni testi teatrali di Fosse e in queste ultime ore è stata travolta da migliaia di richieste come spiega il fondatore della casa editrice, Mattia Visani.

Immagino che queste siano ore calde.

Sì, abbiamo ricevuto più di tremila richieste dei suoi testi in poche ore, ne siamo molto felici. Di Jon Fosse abbiamo pubblicato una raccolta di tre testi teatrali (E non ci separeremo mai, Qualcuno verrà e Il nome), un testo singolo (Caldo) e il testo teorico Saggi gnostici. E non è l’unico Nobel del nostro catalogo: abbiamo anche Samuel Beckett.

Cosa avete in programma con Jon Fosse?

Vogliamo portarlo a Bologna e a Imola, cominceremo a breve a dialogare con i suoi agenti. Poi speriamo che tutto ciò sia da traino alle vendite delle altre pubblicazioni.

Qual è stato l’iter di pubblicazione dei suoi testi?

Jon Fosse è prima di tutto un drammaturgo, uno scrittore per la scena e nel mondo del teatro è già conosciuto da vent’anni. Ma nell’ambito della drammaturgia italiana e straniera ha una vita molto particolare, nel senso che non è che andasse a ruba, ma noi ci abbiamo sempre creduto perché è un grande autore. Lo abbiamo pubblicato prima di Elisabetta Sgarbi (direttrice de La nave di Teseo, l’altra casa editrice italiana di Fosse, [N.d.R]), per esempio, è un dato di fatto. Conoscevo la sua produzione e sono andato a cercarlo, dialogando poi col suo agente norvegese.

Ci racconti della sua casa editrice.

Cue Press è nata dieci anni fa, da una costola di Ubu Libri. Quando uscì il mio libro Franco Quadri di Ubu Libri morì e decidemmo di aprire una casa editrice digitale. Vedete, in quel periodo le case editrici digitali erano di moda e una grande promessa. Ma negli anni molte sono nate e poi morte, mentre noi siamo ancora qua. Poi oggi ovviamente abbiamo in primis la produzione del cartaceo. In un anno facciamo circa ottanta uscite, ma ci stiamo proiettando verso le cento.

Progetti futuri?

In tema di Nobel, stiamo completando un grande lavoro di pubblicazione dei testi Samuel Beckett, come ad esempio un volume che raccoglie gli appunti di regia, i testi riveduti sulla base della sua esperienza registica. A fine mese usciranno i suoi Testi brevi. E stiamo trattando anche la prima mondiale del quaderno di regia di Happy Days. Per la prima volta in Italia potremo inaugurare un vero e proprio settore di studi beckettiani. Poi a breve uscirà il grande Scene madri di Bernardo Bertolucci e Enzo Ungari. Insomma, tanti progetti sia teatrali sia cinematografici.

Collegamenti

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6 Ottobre 2023

Fosse, il Nobel venuto dai fiordi

Stefano Gallerani, «Il Mattino»

Come spesso accade, anche stavolta i telefoni delle librerie impazziranno e le rotatorie delle case editrici faranno gli straordinari per rimpinguare la non straordinaria presenza editoriale nel nostro paese di Jon Fosse (classe 1959), fresco vincitore del centosedicesimo premio Nobel per la letteratura. Fortuna che – dimostrando buon fiuto – da qualche anno a questa parte La Nave di Teseo abbia cominciato a pubblicare brani significativi dell’opera in prosa di un autore che il pubblico italiano conosce più come drammaturgo che come narratore: nel 2019 è toccato alla novella Mattino e sera mentre due anni più tardi è stata la volta di L’altro nome, che raccoglieva i primi due capitoli della Settologia romanzesca di cui martedì prossimo usciranno, sotto l’intestazione rimbaudiana di Io è un altro, le parti da tre a cinque (come le altre tradotte da Margherita Podestà Heir). Nel 2009 era stata invece Fandango a stampare per noi Melancholia, struggente dittico monologante che ha come protagonista il pittore ottocentesco Lars Hertvig. Quattro testi, insomma, che, al netto delle pubblicazioni teatrali (per Titivillus, Cue Press e i tipi di Editoria e Spettacolo) e della raccolta teorica di Saggi gnostici, rappresentano un buon viatico per un artista che vanta, in originale, oltre cinquanta titoli tra drammi, romanzi e poesie, e di cui l’Accademia svedese ha riconosciuto – così nella motivazione – la capacità di «dare voce all’indicibile».

Nella loro estrema concisione, i savi di Stoccolma hanno efficacemente colto un punto che solo all’apparenza si risolve in un facile ossimoro. Già, perché se c’è una qualità che salta all’occhio sin dal primo incontro con la scrittura di Fosse è che il suo campo d’elezione è quel lembo di realtà in cui la riconoscibilità (di luoghi, situazioni e dinamiche) non ha altro scopo che velare, ma non del tutto, quella dimensione spirituale che difficilmente trova spazio nell’equivoco realista. Il quotidiano diventa, in questo modo, assoluto, così come i personaggi finiscono per rappresentare nient’altro che lo specchio di un unico «sé». Non a caso, tra i nomi che ora si tirano in ballo per rendere più potabile questo neolaureato dallo stile asciutto e vagamente sperimentale (se così si intende qualsiasi cosa esca appena fuori dal seminato della grammatica più convenzionale), quello in pole position è senz’altro Samuel Beckett (altro Nobel conteso tra pagina e palcoscenico). Pure, per quanto nobile, l’ascendenza con l’irlandese rischia di diventare equivoca, se non limitativa, tanto ingombra il giudizio – e il pregiudizio – che grava sull’autore di Murphy e Aspettando Godot. Ben più interessante è, invece, capire quali siano i punti di distanza e quelli di contatto tra Fosse e il connazionale Ibsen, che con il primo condivide il primato di essere il drammaturgo norvegese più rappresentato al mondo. Di sicuro, ad accomunarli è lo stigma ibseniano per antonomasia: quegli «spettri» attraverso cui le ombre del passato si manifestano nell’esistenza per conferirle una prospettiva e una profondità inedite.

Distante appare, invece, la dinamica del conflitto, laddove la spietatezza di Ibsen – e per essa, in grado superiore, l’odio – è un detonatore assente (o quantomeno depotenziato) dalle pagine di Fosse. Non a caso – è stato lui stesso a confessarlo in più di un’occasione – i suoi personaggi cercano né più né meno che nell’amore una ragione per vivere e sopravvivere. Di che tipo di amore si tratti, poi, è tutt’altra e ben più complessa ragione. Una ragione, anzi, che Jon Fosse rimette in quasi tutta la sua interezza nelle mani del lettore, interlocutore imprescindibile di figure che, su carta, non hanno mai – o quasi – nome. Per Fosse, infatti, il nome costringe l’essere umano in un ruolo sociale, spogliandolo della sua umanità. Esemplare in tal senso, tra i molti, il dramma Io sono il vento (allestito in Italia nel 2013 per la regia di Alessandro Greco), i cui personaggi, abbandonati su una nave in balia del mare sono, semplicemente, «l’uno» e «l’altro»: figure speculari che agiscono su un piano che, anche temporalmente, ha poco a che fare con la sequenza cronologica di passato e presente. Di loro si sa poco, né si conosce esattamente il legame che li costringe in quell’isolamento forzato. Se «l’uno» sia il padre de «l’altro», se siano solo amici (così come potevano esserlo i Vladimiro e Estragone beckettiani) o se tra di loro esista un rapporto di sangue – ma, anche, se addirittura siano contemporanei – non è dato sapere. Pure, nell’astratto furore immaginativo di Fosse, ogni loro parola e ogni loro frase hanno un’esatta, per quanto enigmatica, luminosità. Sta qui, probabilmente, la misura «universale» di Fosse – il quarto scrittore del suo paese a ricevere il più prestigioso premio letterario del mondo dopo Bjørnstierne Bjørnson (1903), Knut Hamsun (1920) e Sigrid Undset (1928). Sta in quest’apertura di senso la forza di una scrittura che, come sempre la grande letteratura, coinvolge chi legge in un agire di segno uguale e contrario a quello di chi scrive. Una forza, insomma, che vale un Nobel.

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6 Ottobre 2023

Jon Fosse, il Nobel che racconta l’indicibile

Carmelo Claudio Pistillo, «Libero»

Dopo Bjørnstjerne Bjørnson 1903, che insieme a Henrik Ibsen ha contribuito alla nascita della drammaturgia norvegese, Knut Hamsun, premiato nel 1920 e Sigrid Undset, nel 1928, la Norvegia si porta a casa il quarto premio Nobel della Letteratura. A godere di questo privilegio è Jon Fosse, scrittore, poeta e drammaturgo nato nel 1959, amante di autori di assoluto rigore e inimitabile complessità, come un sovvertitore del linguaggio teatrale che risponde al nome di Samuel Beckett, il percussivo e narrativamente implacabile Thomas Bernhard o l’oscurissimo Georg Trakl, legato incestuosamente alla sorella. Già da questi nomi, che racchiudono alcune sue predilezioni letterarie, non certamente di metodo, si può dedurre la precisione con cui l’Accademia Svedese ha inteso motivare l’assegnazione del premio a questo scrittore prolifico e appartato: «Per le sue opere teatrali e di prosa innovative che danno voce all’indicibile». Poco conosciuto ma assolutamente in evidenza per i suoi libri pubblicati in Italia e tradotti in quaranta lingue, nella sua residenza nel Grotten, datagli in affido dal re di Norvegia per i suoi meriti letterari, il poliedrico scrittore sta vivendo una crescente e inaspettata popolarità. In un’intervista rilasciata al Corriere nel 2022 dichiarava non senza qualche imbarazzo la sua incredulità rispetto all’ipotesi del conferimento del premio Nobel. Ecco le sue parole: «Non so se sono un vero candidato, comunque è un onore che molte persone pensino che io lo meriti, o almeno che pensino che l’Accademia svedese pensi che io meriti un Premio Nobel. Invece il pensiero di essere premiato è terrorizzante». Raggiunto al telefono in queste ore, dopo essere già stato nominato cavaliere dell’Ordre national du Mèrite in Francia nel 2007, con questo felice annuncio Fosse sembra essere entrato con sobrietà ed eleganza nell’abito del vincitore: «Sono così felice e sorpreso. Non me lo aspettavo davvero».
Nessuno se lo aspettava, anche se il suo nome echeggiava con sicurezza negli ambienti più più vicini all’Accademia svedese.

La reazione a Godot

Ma chi è Jon Fosse, considerato il «Samuel Beckett del XXI secolo» per le sue qualità drammaturgiche riconosciutegli dopo il suo debutto come autore teatrale di Qualcuno arriverà, scritto come reazione ad Aspettando Godot. Come i grandi letterati, anche il nuovo premio Nobel non si accontenta della descrizione della realtà senza che in questa aleggi il respiro di un altro ipotetico universo. La letteratura è uno strumento d’indagine sul senso ultimo delle cose. Di aiuto, in questa sua ricognizione, ha un ruolo fondamentale il silenzio da cui cerca di estrarre parole insperate ma degne di entrare e caratterizzare la pagina scritta. La sua prosa non attinge alla dimensione più autobiografica se non in termini di suggestioni, ma si nutre d’immaginazione e non di fantasia. Dichiarò nel 2022: «Non scrivo mai per parlare di me ma per liberarmene, allontanarmi. Da questo punto di vista, la scrittura somiglia al bere. Ecco perché forse non ho mai scritto così tanto come dopo avere smesso con l’alcol. La letteratura può essere una forma di sopravvivenza, per me è stata di sicuro un modo per vivere». Una tecnica sapiente, la sua, dove al ritmo studiato nella poesia unisce la coerenza lungo tutta la trama assorbite dal teatro. Sono più d’una le traduzioni italiane delle sue opere spesso dominate dal paesaggio nordico. Diverse le case editrici che in questi ultimi anni hanno fiutato con lungimiranza il valore dello scrittore: Fandango con Melancholia (2009) e Insonni (2011) entrambi tradotti da C. Falcinella, Cuepress con Saggi gnostici (2018) e Caldo (2018) curati da uno dei maggiori esperti della letteratura nordica come Franco Perelli, ma prima ancora, a mettere le mani su questo autore, è stata Editoria e Spettacolo con Teatro (2006), per la cura di Rodolfo Di Gianmarco. Con protagonista il tormentato Lars Hertevig, fra i maggiori pittori norvegesi, è utile ricordare un gioiello come Melancholia, che si avvicina, almeno nella trama, al miglior Bernhard. Il pittore, infatti, viene colto nell’ultimo giorno di vita prima del suicidio avvenuto per ragioni amorose o forse, per motivi più profondi come l’incapacità di vivere, tema tipicamente bernhardiano.

La vis polemica

Per la Nave di Teseo sono inoltre disponibili sia Mattino e sera (2019) che L’altro nomeSettologia vol. 1-2 (2021), entrambi tradotti da Margherita Podestà. Mentre Mattino e sera racconta i termini della vita attraverso la nascita di un figlio e l’ultimo giorno di un vecchio nella ripetizione di gesti sempre definitivi, L’altro nome è la singolare storia di due uomini con lo stesso nome, Asle, una doppia versione dello stesso uomo. Il dieci ottobre sempre la casa editrice guidata da Elisabetta Sgarbi pubblicherà Io è un altro Settologia III-IV volume, un romanzo-mondo dal titolo rimbaudiano, che vuole essere un riflessione poetica sull’amore, sull’arte e sull’amicizia. Il nuovo Nobel non manca, come accade spesso in questi casi, di vis polemica. Giusto, secondo lui, il premio conferito a Luigi Pirandello ma non quello a Dario Fo, un non scrittore. Così come ritiene ingiusto aver onorato un autore come Bob Dylan. Non è meno tenero con il teatro contemporaneo, a suo avviso troppo legato ai classici e poco incline alle novità. Sicuro, comunque, di una sua ripresa nel solco della contemporaneità.

Oslo, norway 20161012. portrait of author jon fosse. the picture is taken in the state honorary housing for deserving artists, "grotten", in oslo. photo: ole berg rusten / ntb scanpix
6 Ottobre 2023

Jon Fosse. Triste, solitario e Nobel

Anna Bandettini, «la Repubblica»

Ha fama di scontroso, solitario, depresso, ex alcolista, di isolato tra i fiordi e le nebbie della sua Norvegia, ma con le sue parole ha scaldato di emozioni, pensieri, profondità migliaia di spettatori nel mondo, Jon Fosse: una delle voci più innovative della scena internazionale e ora, a 64 anni, Premio Nobel della Letteratura 2023. Poeta, saggista, scrittore (il suo monumentale Settologia, romanzo oversize è per il «New York Times» uno dei più grandi capolavori) e soprattutto grande autore di teatro, Fosse è stato tradotto in più di 40 paesi, con schiere di fan e i suoi testi rappresentati nelle sale dei cinque continenti, dalla Cina agli Usa. Tanto che il suo Nobel (vale 11 milioni di corone svedesi, circa 1 milione di euro) è un po’ anche una festa per il teatro, il segno della vitalità di un’arte, la scrittura drammatica, solitamente considerata elitaria, inutile o futile; e invece decisiva e addirittura primaria, visto che il premio a Fosse segue quello di altri grandi drammaturghi, George Bernard Shaw (1925), Pirandello (1934), Eugene O’Neill (1936), Beckett (1969), Dario Fo (1997), Elfriede Jelinek (2004), Harold Pinter (2005), Peter Handke (2019).

Quel che è certo è che con il riconoscimento al «nuovo Ibsen» come è stato chiamato – con la motivazione che «le sue opere teatrali e di prosa innovative danno voce all’indicibile» – l’Accademia svedese di Stoccolma ha visto giusto e colto nel segno, anche nel segno dei tempi. Perché parliamo di un gigante che ha fotografato le inquietudini e fluidità del mondo contemporaneo e ha attraversato, specie col teatro, le strade più buie dell’animo umano con personaggi che spesso non hanno nome, hanno un linguaggio secco e senza fronzoli, dialoghi apparentemente minimali, ma che scavano nelle angosce e nel fondo delle nostre relazioni e della nostra vita. Storie come Melancholia, Insonni (editi da Fandango), e soprattutto gli amari testi di teatro, Qualcuno arriverrà, Inverno, il bellissimo Io sono il vento, Caldo. «Faccio il possibile per scrivere ciò che non si può dire, come dicevano Wittgenstein e Derrida», aveva dichiarato in una intervista a Repubblica nel 2016, in occasione del debutto mondiale nella rassegna ’Quartieri dell’arte’ di Viterbo della sua commedia Det er Ales (Lei è Alice).

Nato a Haugesund, sulla costa occidentale della Norvegia, un viso nordico, severo, fisico massiccio, laureato in letteratura comparata e in filosofia, Fosse ha cominciato a scrivere a 12 anni. «Ho avuto una infanzia felice, mi piaceva il pallone, con l’adolescenza tutto è cambiato. Ho cominciato a sentirmi estraneo, salvo che nello scrivere. E ancora oggi la scrittura è il rifugio» ha detto. All’esordio nel 1983 con il romanzo Red, Black, seguono, tra i più celebri, Melancholia e Insonni, una favola moderna sulla disillusione di due piccoli protagonisti, fino al capolavoro Settologia, un romanzo di migliaia di pagine, sette parti, scritto nel 2019. Da noi martedì uscirà Io è un altro, i volumi III-V nella traduzione di Margherita Podestà Heir, con La nave di Teseo che ha già pubblicato (oltre al romanzo Mattino e sera) i volumi I e II sotto il titolo di L’altro nome: una storia fiume di due uomini che hanno lo stesso nome (forse sono lo stesso uomo) lungo un non-tempo, come spesso è nell’opera di Fosse, dove «passato e presente si muovono in un solo attimo, come fossero più vicini all’eternità», e sono parole sue. Nonostante abbia smesso di scrivere testi drammatici, come autore di teatro Fosse è stato forse perfino più prolifico e amato. Dal successo, nel 1999, di Qualcuno sta per venire, molte commedie sono tradotte, messe in scena (anche se più spesso da piccole compagnie) e pubblicate, dal volume Teatro (Editoria & Spettacolo, 2006), che raccoglie sei testi (tra cui Sogno d’autunno, Inverno), al bellissimo Io sono il vento (Titivillus). In italiano sono apparsi anche Saggi gnostici (a cura di Franco Perelli, Cue Press, 2018).

Sposato con figli, Fosse vive in prevalenza nella residenza di Grotten, a Oslo, concessagli dal Re per i meriti letterari e da lì si dice conduca una vita quasi claustrale, scossa dall’alcolismo da cui si è dichiarato guarito e dall’ansia cronica in parte risolta con l’avvicinamento alla fede cattolica.

La notizia del Nobel l’ha ricevuta in auto, come successe a Dario Fo; lui guidando nei pressi di Bergen, sulla costa occidentale della Norvegia. «Negli ultimi dieci anni mi sono preparato con cautela al fatto che ciò potesse accadere. Ma credetemi, non mi aspettavo di ricevere il premio oggi, anche se avevo una chance». Vederlo dal vivo in Italia sarà difficile, ma in questa stagione sarà in scena con lo Stabile di Torino La ragazza sul divano con la regia di Valerio Binasco, un’altra vicenda di personaggi irrisolti: qui una donna, alla ricerca di una qualche ragione per vivere. Quale? «Semplice: l’amore», aveva risposto in passato Fosse. Crediamogli.

Jon fosse
6 Ottobre 2023

Jon Fosse, esercizi di incomunicabilità

Andrea Romanzi, «Il Manifesto»

L’introduzione del norvegese Jon Fosse alla letteratura fu – a suo dire – poco invitante e ancor meno lusinghiera: nel corso di una intervista del 2006 per la rivista «Bok & Bibliotek» rivelò al suo interlocutore: «Iniziai a leggere nello stesso momento in cui cominciai a scrivere. La maggior parte di ciò che leggevo non mi piaceva … fatta eccezione per Tarjei Vesaas, di cui lessi prima di tutto Il castello di ghiaccio (Iperborea). Successivamente, ricordo che inserii nell’elenco Gli uccelli (Iperborea)». Erano titoli da cui uno studente norvegese non poteva prescindere: Fosse avrebbe aggiunto, più avanti, fra i suoi autori Knut Hamsun, anche lui Nobel per la letteratura nel 1920, e fra le sue letture l’Inferno di Dante, letto in diverse traduzioni.

Nonostante la sua scrittura abbia una chiara matrice modernista, i pilastri su cui Fosse ha costruito la propria cultura letteraria sono ben radicati nella letteratura classica, in particolare nei poemi epici – l’Iliade e l’Odissea – e nella Bibbia. Nello stile ricorda da vicino alcune pagine di Samuel Beckett, ma la sua scrittura è ancora più radicale e, soprattutto nel teatro, procede per sottrazione, scardinando e deostruendo gli elementi spazio-temporali, così da presentare un ambiente privo di punti di riferimento, dove anche il concetto di identità perde consistenza. Governate da un estremo minimalismo, le pièces di Fosse sono connotate dall’assenza di una trama vera e propria, da una lingua scarna e da pochissimi personaggi privati del nome e di qualsiasi elemento che contribuisca alla loro caratterizzazione.

Quarto scrittore norvegese a ricevere il Nobel per la letteratura, Fosse è nato nel 1959 e ha studiato filosofia e sociologia, prima di specializzarsi in scienze della letteratura. Mentre stava ancora studiando, a metà degli anni Ottanta, pubblicò il suo primo romanzo, Raudt, Svart (Rosso, nero), dando avvio a una carriera prolifica, che spazia tra i generi più disparati: dal romanzo, ai libri per bambini, alle opere teatrali, ai saggi, alle poesie, tutti tradotti in molte lingue e apprezzati soprattutto in Germania, Stati Uniti, Giappone e Polonia.

La componente modernista dei suoi scritti attinge alla corrente letteraria che ha incontrato più larga fortuna nella Norvegia degli anni Ottanta, e di cui Fosse è forse l’esponente più acclamato. Cresciuto in un contesto familiare intensamente permeato dal pietismo e dal quaccherismo, ne prese le distanze molto presto dichiarandosi in un primo tempo ateo, ma convertendosi poi al cattolicesimo nel 2013. Sui suoi scritti i motivi religiosi fanno, patentemente, una grande presa: tutta la filosofia nichilista che parte dalla «morte di dio» è – secondo Fosse – il presupposto fondatore della letteratura moderna; compresa la sua. Il che non gli ha impedito di conferire alla scrittura il carattere sacro di un esercizio religioso.

Già a partire dai primi studi, le questioni di teoria della letteratura entrano stabilmente nei suoi saggi, che risentono palesemente dell’influenza di linguisti, semiologi e aforisti – da Greimas, a Barthes – concretizzandosi in una scrittura letteraria sintatticamente asettica e minimalista ma allo stesso tempo connotata da un gran numero di ripetizioni – che contribuiscono a problematizzare la questione della lingua – e l’incapacità di metterci in comunicazione, con gli altri e con noi stessi. Non a caso, i pochi personaggi delle opere teatrali di Fosse si parlano addosso, si ripetono, pirandellianamente senza capirsi mai, dando luogo a sequenze narrative di natura descrittiva, più che mirata a restituire l’azione dei caratteri in campo. I quali, tuttavia, proprio in quanto sottratti alle esigenze narrative più votate all’intreccio, assumono uno spessore psicologico complesso e intrigante, che si risolve in una focalizzazione introspettiva, consentendo al lettore di scendere nelle più recondite fratture del loro animo.

Già dai suoi primi tre romanzi erano evidenti la potenzialità narrative di Jon Fosse: l’esordio, Raudt Svart (Rosso, nero) si articola in numerosi salti temporali, e altrettanto frequenti cambi di prospettiva, per raccontare la ribellione di un giovane ragazzo nei confronti dell’ambiente pietista in cui cresce. Ma è con Stengd gitar, (Chitarra chiusa) secondo romanzo pubblicato nel 1985, che il nome di Jon Fosse si carica di una maggiore risonanza: la storia di una giovane madre, che, rimanendo chiusa fuori casa, si condanna a separarsi dal suo bambino di un anno, vive sulla pagina grazie alla descrizione allarmante dell’impotenza della donna, restituita con una tecnica narrativa basata su associazione di idee e stati d’animo che scorrono, lineari, sotto gli occhi del lettore.

Più complesso dei precedenti, e chiaramente più evoluto da un punto di vista stilistico, il terzo titolo dello scrittore norvegese si carica di contorni oscuri: Blod. Steinen er (Sangue. La pietra è) (1987) è costruito come un lungo monologo interiore che ruota attorno a un possibile caso di omicidio. «I miei romanzi erano così oscuri e densi che la poesia si fece strada a forza». E, infatti, i suoi versi portano chiara una sorta di necessità naturale, un’ineluttabilità di esistere, almeno sulla pagina.

Negli ultimi anni, la fortuna di Jon Fosse si è costruita soprattutto attorno alla sua produzione teatrale: il debutto avvenne nel 1994 al teatro di Bergen con il primo dramma, E non ci separeremo mai (Cue Press), che lo consacrò come uno dei più importanti drammaturghi della nostra epoca. Spesso inquadrati nel teatro post-modernista, i suoi stykk – come i norvegesi chiamano i testi teatrali – sono anch’essi figli di un inconfondibile stile scarno e pragmatico, che predilige ambientazioni quasi irreali, comunque scheletriche. I suoi personaggi, molto spesso anonimi, sono analizzati – anzi denudati – davanti agli occhi dello spettatore, privi di qualsivoglia barriera e liberi da imbarazzi, portando a galla i desideri, le paure e le passioni più nascoste del nostro subconscio. Torna, anche nelle battute dei personaggi portati sulla scena, l’insistenza sulle ripetizioni, già abbondanti nei lavori in prosa, con un effetto ritmico coinvolgente.

Il motivo per cui le anafore sono una prerogativa imprescindibile nel suo modo di scrivere, Fosse lo ha spiegato in una conversazione uscita sulla rivista «Prosopopeia», dell’Università di Bergen: «Le utilizzo in maniera del tutto involontaria. È la verità. Ho iniziato a scrivere dopo essermi interessato molto di musica; tentavo di riprodurre lo stesso stato d’animo che avevo quando suonavo… È per questo che è sbagliato intendere le ripetizioni come uno strumento narrativo, come un qualcosa di calcolato. Non è mai stato così». Questa naturalezza a cui Fosse fa riferimento è ben percepibile, per esempio, in drammi come Nokon kjem til a komme (Arriverà qualcuno) del 1996, in cui mette in scena una coppia di cui non conosciamo quasi nulla, nemmeno i nomi. I due, che nel testo vengono indicati come «Lui» e «Lei», si recano presso la nuova casa che hanno acquistato, vicino al mare, pianificando una vita tranquilla, lontana dal resto del mondo: vogliono stare soli, è questo che ripetono, ritmicamente, finché un uomo non si presenta bussando alla loro porta e sconvolge i loro piani. L’incontro riporta alla luce desideri nascosti, paure, abiezioni: Lui e Lei si trasformano nel corso dell’opera, mutevoli ed incerti come ognuno di noi.

Un’opera monumentale, che si compone di sette volumi, è in corso di traduzione per La nave di Teseo, che farà uscire, di qui a pochi giorni, il primo libro di questa Settologia, con il titolo Io e un altro (traduzione di Margherita Podestà Heir), che corrisponde ai volumi III-V dell’opera. Fosse prosegue tra queste pagine il racconto cominciato in L’altro nome (volumi I-II) il cui protagonista, Asle, è un pittore che vive sulla costa occidentale della Norvegia. Per Natale dovrà dipingere un’opera, e le aspettative riposte in lui lo forzeranno a rompere l’isolamento in cui si è rifugiato dopo la morte della moglie.

Del resto, la pittura è per lui un tramite per la conoscenza del proprio sé, qualcosa di realistico tanto quanto lo sono le fotografie, pur nella loro diversa concretezza. Il comparto introspettivo viene squadernato in Io e un altro più che in altre prove narrative, e come quasi sempre accade nelle pagine di Jon Fosse, il piano relativo alla propria identità, quello temporale e quello più meramente fisico sfocano i loro contorni scivolando l’uno nell’altro, fino a trasformare la narrazione in un onirico viaggio verso la conoscenza di sé.

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6 Ottobre 2023

Jon Fosse, il Nobel che viene dal rock e sussurra al buio

Camilla Tagliabue, «il Fatto Quotidiano»

Nella solitudine dei campi di cotone in cui vaga il teatro contemporaneo, driiin: l’Accademia di Svezia chiamò. A rispondere è Jon Fosse, norvegese, classe 1959, drammaturgo sopraffino prima ancora che venerato romanziere, fresco di Nobel per la Letteratura per aver «dato voce all’indicibile». Da Pinter a Jelinek, almeno a Stoccolma si ricordano di quell’arte chiamata drammatica, appena espunta, per dire, dal nuovo programma dell’italico Salone del Libro. Chiosa il «NYT»: «Fosse è uno di quegli scrittori che ti senti in colpa di non avere ancora letto». «Sorpreso, ma preparato alla felice evenienza», l’autore dal tipico humour nordico ha già detto «che dopo questo premio, non si arriva più in alto, è solo discesa».
Cresciuto nella Norvegia occidentale, tra i fiordi e la pesca, Fosse vive da tempo a Oslo, nella residenza concessagli dal re per meriti letterari, dall’esordio nel 1983 alle traduzioni in oltre 40 lingue, dalle pièce allestite ovunque ai tanti blasoni e riconoscimenti (due volte Premio Ibsen e Nynorsk Prize; European Prize; il Willy Brandt e il nostrano Ubu…).

«Quando la scrittura è buona ha in sé un dolore. L’arte si fonda su un temperamento malinconico». Con allegrezza artica Fosse debutta a 24 anni con un romanzo sul suicidio, Rosso, nero, mentre in altri suoi testi «si può dire per esempio / che quello che separa noi vivi da noi morti / è una cabina telefonica». Svedese. Credente, cattolico e con una spiccata avversione per l’educazione puritana ricevuta, il Nostro non è nato imparato: «Non ero bravo a scrivere, avevo cattivi voti: sono arrivato alla scrittura dal rock». E ora, sornione, dichiara per mestiere di «sussurrare nella tenebra», mercanteggiando col caos, la solitudine, la depressione, Dio. Antirealista, antipsicologista, Fosse si definisce un «minimalista»;di formazione filosofica più che letteraria, a parte le grandi sbronze: Bernhard, Beckett, Joyce e ovviamente il compaesano Ibsen, unico a batterlo come norvegese più rappresentato al mondo. «Non mi occupo della vita inconscia, ammesso che esista, m’interessa la relazione». Poi certo, le relazioni sono un inferno; non ci si capisce niente, non ci si capisce mai.

Approdato al teatro controvoglia — come i veri drammaturghi ne provava «avversione» — inanella una serie di «commedie», dice lui diabolico, di successo, di grande respiro, cioè da apnea e panico. I titoli sono laconici, lapidari: Caldo; Inverno; Il nome; Qualcuno verrà, seee… Lei, Lui, Uomo, Secondo uomo, Donna, Ragazzo, Madre: i personaggi non hanno nome, sono archetipici, ruoli perché appunto definiti dalla relazione prima che da sé. In Sogno d’autunno, ad esempio, tra i pochi visti su un palco italiano negli ultimi anni (Binasco, 2017), la trama gira di funerale in funerale, ammesso che i protagonisti non siano già morti. Ma la vita del corpo, per Fosse, conta poco, così come pensieri, emozioni e «sentimenti di merda».

Nei suoi Saggi gnostici (Cue Press) si legge: «Ci sono uomini molto sensibili che per questo non diventano buoni artisti, i più anzi non lo diventano, e io credo che molti di questi sensibili siano perdenti». Si muove nel tempo, Jon (ok lo fanno tutti i geni da Proust in su e giù), non nello spazio, come si evince dalla monumentale Settologia (2019-2021), il cui secondo volume è in uscita martedì con La nave di Teseo. Io è un altro c’entra con Rimbaud, al diavolo Lacan: è il flusso di coscienza di oltre 1.300 pagine di Asle, un uomo e il suo doppio. Tra gli altri romanzi, i più noti sono Melancholia e Insonni (Fandango): il primo è sul pittore Lars Hertervig; il secondo è un apologo breve, dall’asprezza biblica, su una coppia di adolescenti che vaga in cerca di un rifugio per la notte, ma nessuno è disposto a ospitarli: lui porta un violino in spalla, lei lo scandalo in grembo. «Così spariscono l’uno nell’altra e si sente solamente, debole, il vento tra gli alberi». Nella solitudine dei campi di cotone. Chissà dove.

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6 Ottobre 2023

Jon Fosse, la voce dell’indicibile

Alessia Rastelli, «Corriere della Sera»

«Quando scrivo, ascolto. Ascolto il silenzio e cerco di farlo parlare». Così il 17 gennaio 2021, su «La Lettura», Jon Fosse apriva le porte del suo universo letterario. E ieri la sua tenace ricerca di un senso, da raggiungere sottraendo, nella narrativa come nella drammaturgia, ha ottenuto il riconoscimento più importante. L’autore norvegese, 64 anni, è il Nobel per la Letteratura 2023. L’Accademia svedese ha riconosciuto la forza luminosa della sua prosa e del suo teatro, fatti di poche azioni e gesti essenziali, ma che non di rado rinviano ad altro, nutriti da un anelito metafisico in grado di far vivere al lettore e allo spettatore un’autentica esperienza interiore.

Ad annunciare il Premio, «per le innovative opere drammaturgiche e la prosa che danno voce all’indicibile», è stato il segretario permanente dell’Accademia Mats Malm, il quale ha raccontato di avere raggiunto Fosse al telefono mentre stava guidando nelle campagne nei dintorni di Bergen, nella Norvegia sud-occidentale, e che l’autore gli ha promesso che avrebbe proseguito con prudenza fino a casa. Il nome di Fosse — autore anche di racconti, poesie, saggi, traduzioni e libri per bambini, oltre che di romanzi e opere teatrali tra le più rappresentate al mondo — circolava già alla vigilia tra i possibili vincitori. E, infatti, «sono stato sorpreso, ma allo stesso tempo non troppo» ha commentato l’autore con l’emittente norvegese Nrk. Anche se poi ha aggiunto: «Negli ultimi dieci anni mi ero cautamente preparato al fatto che potesse accadere. Ma non mi aspettavo di ricevere il Premio oggi, anche se c’era una chance». Fosse ha poi diffuso una nota attraverso la sua casa editrice di Oslo, Samlaget: «Sono commosso e grato. È un premio alla letteratura che vuole innanzitutto essere letteratura, senza altre considerazioni«.

Una frase in cui c’è molto di lui e delle sue idee. Se nella sua opera Fosse abbraccia le contraddizioni del vivere e le domande più scottanti — la solitudine, l’ansia e l’invecchiare, la morte, il senso del tempo e dell’arte, la ricerca di Dio — resta però sempre salda la fiducia nella letteratura come strumento d’indagine sul senso ultimo delle cose. «La letteratura è immaginazione. La sua essenza ha a che fare con ciò che la separa dalla realtà, con la trasformazione della realtà, con la creazione di un universo fatto di forma e contenuto, che così, a sua volta, ti fa guardare la realtà in modo nuovo». A partire da questa visione, Fosse si era anche detto contrario a un certa recente influenza delle «politiche dell’identità» sulla letteratura; così come lontano dall’autofiction, che invece tanta fortuna ha portato a un altro norvegese illustre, Karl Ove Knausgård, allievo del neo-Nobel quando insegnava all’Accademia di scrittura di Hordaland. Negli anni scorsi Fosse ha pure spiegato di non condividere l’assegnazione del Nobel a personalità come Dario Fo e Bob Dylan, lontane dalla figura del letterato «puro», mentre in un dialogo con il «Corriere» alla Buchmesse 2019, poco dopo il Premio a Peter Handke, difese quella scelta in nome della separazione tra arte e politica.

Nato nel 1959 a Haugesund, nella regione dei fiordi, nel sud-ovest della Norvegia, Fosse ha ottenuto la residenza per meriti letterari nell’edificio reale di Grotten, a Oslo, ma si divide con l’Austria, dove possiede una casa con la seconda moglie di origine slovacca. A 7 anni rischiò di morire in un incidente, episodio che lo segnò; mentre più avanti si laureò in Letterature comparate all’Università di Bergen. L’esordio narrativo risale al 1983 con il romanzo Raudt, svartRosso, nero»); quello drammaturgico al 1992 con Qualcuno arriverà. Il titolo, ha chiarito l’autore, nacque in contrapposizione ad Aspettando Godot di Samuel Beckett: gigante al quale è stato paragonato e di cui Fosse stesso ammette l’influenza ma, proprio per questo, la contestuale esigenza di «ribellarsi, come un figlio al padre». Con il poeta austriaco Georg Trakl e lo scrittore norvegese Tarjei Vesaas, gli altri debiti letterari dichiarati. Nella vasta e poliedrica produzione di Fosse, nel 1995 arriva Melancholia: dittico di monologhi di cui è protagonista il pittore norvegese Lars Hertervig. Su intuizione di Sandro Veronesi, l’opera viene pubblicata nel 2009 in Italia da Fandango, che due anni dopo replica con la favola moderna Insonni. Nel 2006, invece, Rodolfo Di Giammarco aveva curato il volume Teatro (Editoria e Spettacolo), che contiene opere di Fosse come E la notte canta (1997) e La ragazza sul divano (2002). Una rappresentazione di quest’ultima, diretta da Valerio Binasco, principale interprete italiano di Fosse, debutterà il 5 marzo al Carignano di Torino. È invece con Settologia, impresa narrativa di oltre 1.200 pagine senza mai un punto, divisa in 7 parti, che Fosse firma probabilmente il capolavoro narrativo. In Italia l’editore è La nave di Teseo di Elisabetta Sgarbi che pubblicherà tutto il catalogo dell’autore: il primo libro, L’altro nome, è uscito nel 2021; il secondo, Io è un altro, che il «Corriere» ha letto in anteprima, arriverà il 10 ottobre; il terzo nel 2024. Ha detto Fosse: «È un lavoro in cui confluiscono temi e modi di tutta la mia produzione, ma in una luce nuova».

Il protagonista è Asle, un pittore anziano, ex bevitore, che conta solo sull’amicizia di un altro Asle, di fatto un suo doppio, e di un pescatore. Scarna la trama, in un paesaggio norvegese di mare e di neve. Lenta e avvolgente, mistica, la prosa. Quasi una preghiera, fatta di flashback, ripetizioni e visioni, mentre il protagonista scivola tra presente e passato, riflettendo sul senso dell’arte, della religione, della vita. Nulla a che vedere con un romanzo tradizionale. Ha spiegato Fosse: «Cercavo una prosa lenta — ha spiegato Fosse —, così smisi con il teatro, e smisi di bere. Anche se poi, alla drammaturgia, sono tornato». Per quanto rifugga dall’autobiografismo, come Asle anche Fosse è stato un bevitore e ha raccontato di avere smesso una decina di anni fa: «Non scrivo mai per parlare di me ma per liberarmene. Da questo punto di vista, la scrittura somiglia al bere. Ecco perché forse non ho mai scritto così tanto come dopo avere smesso con l’alcol. La letteratura può essere una forma di sopravvivenza». Una svolta è anche la conversione al cattolicesimo, intorno al 2012: «Da giovane ero ateo. Poi proprio la scrittura, il chiedermi che cosa la determinasse, mi ha fatto uscire dal mio confortante ateismo. Ho iniziato a credere in ciò che può essere chiamato Dio. Ora, dopo un lungo viaggio, sono un cristiano praticante». Anche in questo caso, un percorso condiviso con il personaggio di Asle. Il quale nel libro riflette: «Considerarsi cattolici non è soltanto una questione di fede, ma è un modo di vivere la propria vita e nel modo che può somigliare all’essere un artista (…), perché entrambi creano, per dirla così, una certa distanza dal mondo mentre al contempo indicano qualcos’altro, qualcosa che è presente nel mondo (…) e qualcosa di lontano dal mondo, qualcosa di trascendente». Come fa la scrittura di Fosse.

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6 Ottobre 2023

Il Premio Nobel per la Letteratura Jon Fosse e quel legame con Imola

Luca Balduzzi, «il Nuovo Diario Messaggero»

È un po’ imolese il Premio Nobel per la letteratura che l’Accademia svedese di Stoccolma ha assegnato allo scrittore e drammaturgo norvegese Jon Fosse, «per le sue opere teatrali e la prosa innovativa che danno voce all’indicibile». A pubblicare le sue opere nel nostro Paese, infatti, ha contribuito anche la casa editrice Cue Press di piazzale Pertini.

Il catalogo della casa editrice comprende tre libri dello lo scrittore e drammaturgo: Teatro, una raccolta dei suoi primi testi teatrali (Qualcuno verrà del 1992-1993, E non ci separeremo mai del 1994, e Il nome del 1995); Caldo, un altro testo teatrale del 2005; e Saggi gnostici, una raccolta di testi teorici scritti fra il 1990 e il 2000. Prima di ricevere il Premio Nobel in Svezia, in patria Fosse si è visto riconoscere i propri meriti letterari in una maniera decisamente molto particolare: nel maggio del 2011 il re Harald V gli ha concesso di vivere nella residenza onoraria di Grotten ai margini del parco del Palazzo reale, nella capitale Oslo.

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