Logbook

Approfondimenti, interviste, recensioni e cultura: il meglio dell’editoria e delle arti da leggere, guardare e ascoltare.

Antoine de Baecque
15 Luglio 2025

La politique des cinéphiles

Roy Menarini, «Fata Morgana Web»

La prima affermazione implicita del volume La cinefilia. Invenzione di uno sguardo, storia di una cultura 1944-68 (finalmente tradotto in Italia da CuePress, dopo l’uscita originaria del 2004, con la consulenza e la prefazione di Emiliano Morreale) è che la cinefilia è un fatto francese. Questa affermazione, intorno alla quale per tanti anni ci si è trovati d’accordo, appare oggi meno scontata. Mentre la critica cinefila – e la nascita della critica moderna, che significa quasi la stessa cosa – è di certo un esperimento parigino, la cinefilia in generale potrebbe avere altre madri e altri padri, dalla cultura cinematografica italiana degli anni trenta alla Hollywood degli anni quaranta. Tutto sta a decidere che cosa sia la cinefilia, questione assai problematica, che per di più poggia su fonti effimere e instabili – la cinefilia è una pratica, non una teoria né un settore della scrittura editoriale, e come tale spesso è singolare, solipsistica, comportamentale.

De Baecque, invece, è uno storico che desidera interrogare le fonti (ha lavorato su Robespierre, la Rivoluzione Francese, il Terrore) e dunque immagina la cinefilia come un prodotto originale di un’epoca (il secondo dopoguerra) di cui si può ricostruire la fisionomia a partire dai documenti – che sono principalmente riviste e quotidiani, ma anche epistolari, memorie, programmi, paratesti e così via. Ovviamente va bene così, e nel caso francese è più che giusto, perché la gigantesca battaglia culturale che va dalla fine della Seconda guerra mondiale al 1968 (date sufficientemente evocative per non dover essere giustificate) non si limita a una nicchia per appassionati ma assume connotati politici, sociali e istituzionali molto forti.

Come spiega Morreale,

La storia della cinefilia è anche un capitolo del rapporto tra Europa e Stati Uniti, di un’immagine degli Stati Uniti che, a partire da un gruppo piccolo e minoritario di intellettuali francesi, viene restituito di là dall’Oceano a costituire un’autorappresentazione da parte di una generazione di critici e registi (senza la politique des auteurs non sarebbe quella prima generazione di registi cinefili che dà l’assalto a Hollywood dalla fine degli anni Sessanta, da Scorsese a Spielberg…).


In effetti, l’alleanza tra la cinefilia dei Giovani Turchi, e poi dei radicalissimi MacMahonisti, con Hollywood va oltre l’apprezzamento estetico e la rivolta contro il contenutismo della critica comunista ortodossa, e diventa anche strategia industriale.

L’anti-comunismo dei «Cahiers» del periodo giallo è conclamato e si sviluppa principalmente a partire dal 1954 in poi, con l’influenza sempre più marcata di Truffaut e Godard. Dentro alla rivista, mostra De Baecque (autore anche di una storia dei «Cahiers» altrettanto appassionante, Assalto al cinema), vivono tante anime, da quella cattolica di Bazin a quelle più vicine alla cultura ufficiale di Sartre. Ma è proprio uscendo dalle pur avventurose vicende dei «Cahiers» (con la battaglia di Rohmer e poi contro Rohmer, con la contraddittoria risposta alla Nouvelle Vague, con la politicizzazione di metà anni sessanta), che La cinefilia prende il volo. È nella minuziosa ricostruzione della cosmogonia di riviste e bollettini, di terze pagine dei quotidiani e di dibattiti pubblici, di frequentazioni poco note (Truffaut con i collaborazionisti) e di firme meno celebrate (in primis Bernard Dort) che il volume entusiasma e stupisce.

Si ricostruisce, infatti, una rete fittissima di riferimenti, che da una parte toccano e rispecchiano il vertice dell’iceberg di una cultura istituzionale in rapido mutamento e attraversata da spinte centrifughe che stanno modellando il presente e il futuro della liberal-democrazia post-coloniale transalpina; dall’altra allargano lo sguardo a tal punto da diventare centrifughi (basti pensare alle derive cineclubbarie e cultuali, peraltro adorabili, raccontate da Jacques Thorens nel celebre volume Il Brady, 2017).

È una vicenda frastagliata, dove – oltre alla storia editoriale – è lecito seguire anche la storia delle idee, la storia della ricezione dei film e la storia degli autori. In questo scenario, giustamente De Baecque offre molto spazio a «Positif», relegata da molti appassionati superficiali al ruolo di anti-Cahiers paludato e trotzkista, mentre anch’essa era attraversata da ogni genere di approccio. E in ogni caso, senza «Positif» un altro cinema americano (da Huston a Tashlin, da Aldrich a Losey) avrebbe rischiato di fare la stessa fine del fattore H (Hitchcock/Hawks) prima dei «Cahiers».

E, se si pensa che manchi uno sguardo sull’elefante nella stanza (ovvero il maschilismo escludente impietoso di tutta questa romantica avventura critica), De Baecque risponde. C’è un capitolo impagabile dedicato all’erotomania dei critici francesi. Il fatto è semplice: il trasporto metafisico per l’immagine schermica, che deriva dal formalismo della «mise en scène» e della sua esaltazione, si traduce in una sensualità diffusa verso i corpi delle attrici – essendo buona parte della cinefilia popolata da critici maschi eterosessuali. Dunque, le liste redatte da Truffaut e altri dedicate alle movenze, ai dettagli curvilinei, alle pieghe carnali delle dive hollywoodiane ed europee – oggi apparentemente irricevibili – appaiono all’epoca come un ulteriore capitolo della strategia discorsiva di una vera e propria rivoluzione estetica e teorica.

In conclusione, anche se De Baecque lo suggerisce solo in parte (più interessato a mantenere equidistanza e a costruire pian piano il puzzle culturale), La cinefilia ci ricorda anche quanto il mondo degli studi accademici sul cinema debba a questa pratica così originale e inventiva. Il paradosso è che, più la cinefilia appare a distanza di anni esagerata, mistica, partigiana, visionaria, più in verità alzava l’asticella del sapere: richiedeva conoscenza appropriata, precisione filmografica, competenza storiografica, disciplina spettatoriale, in disprezzo di ogni dilettantismo pour parler (che dura lezione dev’essere leggere questo volume per certi sedicenti cinefili da social media; ma utile a una rieducazione mai troppo tardiva). Inoltre si possono aggiungere: apertura alle teorie dell’autore, attenzione alla teoria della recitazione e della performance, analisi del film, metamorfosi della nozione di stile, e molto altro ancora, tra cui la filosofia del cinema in tutte le sue forme (compreso Deleuze, notoriamente debitore della cinefilia canonica dei «Cahiers» per la stesura di L’immagine-movimento e L’immagine-tempo). Vittime, invece, della filosofia dello ‘sguardo’ sono stati per lungo tempo la sceneggiatura, la produzione, l’audience. Ma il tempo ha poi riequilibrato l’orizzonte.

Riferimenti bibliografici
A. de Baecque, Assalto al cinema. La storia dei Cahiers du Cinéma, Il Saggiatore, Milano 1993.
J. Thorens, Il Brady, L’Orma, Roma 2017.

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Goldoni
3 Luglio 2025

L’umanità, il testo, il processo. Il Mulino di Amleto letto da Ambrosio e Novelli

Carlo Lei, «Krapp's Last Post»

Partiamo dalla fine, o quasi: risaliamo la corrente di Raccontare il Mulino di Amleto edito da Cue Press a fine 2024. Oltre alle autrici Ilena Ambrosio e Laura Novelli, è numeroso e qualificato il gruppo di specialisti riuniti attorno al lavoro della compagnia fondata da Barbara Mazzi e Marco Lorenzi. C’è l’intervento del ‘nostro’ Mario Bianchi, che racconta in una prospettiva autobiografica il proprio percorso di spettatore a fianco di quello della compagnia, per il quale rimanda anche a un’intervista a Lorenzi, ancora presente su queste pagine. C’è il resoconto degli anni da ufficio stampa di Raffaella Ilari e l’attenta disamina di Renzo Francabandera, che esplora dal punto di vista della multimedialità il linguaggio del Mulino. C’è il saggio di Laura Bevione intorno all’approccio che la compagnia, di lavoro in lavoro, ha mantenuto con la letteratura drammatica, «controcorrente in un’epoca segnata dal postdrammatico». Il lavoro di Mauro Sesia esplora poi il Marco Lorenzi didatta, che non si esaurisce nella pratica sempre attiva del training con gli attori degli spettacoli ma si specializza nell’attività come direttore artistico del master internazionale per attori e attrici LoStudio, in cui l’artista incarna perfettamente il ruolo di «regista maieuta».

Procedendo ancora a ritroso nel libro, ma rimanendo nella seconda parte, quella dei materiali e degli interventi, prima di una serie di ricordi di collaboratori storici della compagnia, è presente una zona che configura una «costellazione lemmatica», un nucleo di parole attorno a cui Lorenzi e Mazzi si interrogano, sollecitati dalle curatrici. Ora riflettono su «ricerca» («vocazione alla ricerca» è quella che riconosce in sé Lorenzi, condotta contro la «castrazione preventiva», data dall’artista, «dall’assuefazione ai limiti morali, economici e strutturali, che conduce l’artista a non porsi neanche più il problema del nuovo, del rischio, del superamento dei confini»); su «compagnia» («in una vera compagnia si può arrivare a momenti di anarchia, la vera anarchia, quella che utopisticamente sarebbe bellissimo esistesse nel mondo», dice Mazzi); su «incontro», «progettualità» e «umanesimo».

L’approccio e la tensione umanistici del Mulino di Amleto si evincono non solo dal racconto che ne fa Enrico Pastore nel suo racconto di Cantiere Ibsen, il progetto – interrotto dal Covid – in cui proprio alle ristrettezze e alle assuefazioni si è cercato di porre una barriera, di costruire un’alternativa, ma sono evidenti anche nella prima parte del libro.

Qui, nel cuore del volume, si esplora il rapporto della compagnia con il testo e la letteratura drammatica, a partire dalla scelta dell’opera da mettere in scena: quanto diverse sono le «piattaforme» de Gl’innamorati di Goldoni rispetto a Mahagonny, all’Affabulazione pasoliniana, all’estratto dal film Festen, a Čechov, Hugo. Si passa poi a esaminare il lavoro sul testo, l’attore nel contesto del Mulino, il dispositivo scenico, e infine il pubblico, in una quasi ininterrotta catena di coblas capfinidas, ove il titolo di un capitolo riprende l’ultima parola del precedente. E insomma, oltre un linguaggio pronto a trascolorare a contatto con testi e contesti diversi, tutto trova un senso e un ordine nel caro vecchio nucleo caldo del metodo (o il non-metodo), nelle sue radici. Radici che affondano, innanzitutto, nell’ultimo Stanislavskij, quello per cui «la vita fisica conduce alla vita spirituale», e non viceversa, e che apre dunque, in prospettiva, alla pratica del training e, risalendone le origini, dell’etjud, che Vasil’ev rinominava, sulla scorta di Marija Knebel, «metodo dell’analisi attiva», cioè condotta «per mezzo dell’azione». E poi in Peter Brook, quello che forse rimane il principale nume tutelare di Lorenzi, dalla cui idea di uno spazio vuoto «come strumento» si procede in un avvicinamento graduale alla «modalità ‘ecosistemica’ di pensare l’ambiente scenico». E nella definizione di Katie Mitchell di «idee rilevanti» del testo, attraverso le quali costruire il concept: come ci ricordano Novelli e Ambrosio con le parole della studiosa inglese, «qualcosa che il regista impone al testo» e con cui «lo interpreta scenicamente».
Analisi attiva, spazio come strumento, idee rilevanti: tutti concetti attivamente coinvolti, come si vede, a frantumare la separazione tra testo e scena, anzi a inserirli nella dialettica che è, in fondo, la regia nel suo senso più profondo e più nobilmente artigianale, in cui la teoria è sempre tesa alla prassi, anzi alle prassi.

Ed è questo ciò che consente, come ricorda Alessandro Toppi (in conclusione del volume, con un ultimo intervento che illumina tutto il percorso di una luce larga, che sfora sul contesto) di «affrontare i testi classici come fossero contemporanei e i testi contemporanei come fossero classici».
È un intervento, quello di Toppi, che lega l’idea di un percorso lungo, come quello pensato da Mazzi e Lorenzi, ad esempio, col Cantiere Ibsen, ma frequentato in occasione di ogni nuova produzione, alla realtà di una politica e di un’amministrazione che, negli ultimi anni, si è interrogata sulla misurabilità dell’intervento economico pubblico sull’arte in termini di effetti, appunto, tangibili, meccanicisticamente ricadenti nella realtà.

È quanto accade in questi giorni con la pubblicazione delle graduatorie per il FNSV, da più parti lette come una decisa sterzata verso «visioni attraenti, prodotte in eccesso e subito rimpiazzabili», per citare il volume che stiamo leggendo.
Invano suonerebbero oggi le parole di Ferdinando Taviani riportate da Toppi quasi in conclusione del volume, così aderenti all’ostinato lavoro del Mulino e al rifiuto della castrazione preventiva di cui si diceva, ma così disperatamente fuori fuoco, eppure un monito alla presenza, almeno su carta, del pensiero lungo degli antichi maestri: «Il sussidio economico non serve per finanziare la diffusione del risultato raggiunto, ma appunto per permettere un processo che miri a un risultato».

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Brecht
30 Giugno 2025

Non solo per avere l’idea d’un debutto. Con i monumentali ed eterogenei Modellbücher, spettacoli senza più segreti

Andrea Bisicchia, «lo Spettacoliere»

Credo che la ricerca, condotta da Sara Torrenzieri, su cosa siano quelli che, in Italia, impropriamente, vengono chiamati «Quaderni di Regia» e che, in Germania, si chiamano Modellbücher, sia molto importante per capire quanto lavoro stia dietro una messinscena, non solo nella sua fase realizzativa, ma anche in quella che possa documentarla a-posteriori.


I Modellbücher cui fa riferimento Sara Torrenzieri nel libro pubblicato da Cue Press Prassi teatrali brechtiane. Modellbücher Editi e Inediti del Berliner Ensemble, sono dei libri modello che contengono indicazioni precise e dettagliate su ciò che precede il disegno registico di un testo da portare in scena e su ciò che lo seguirà.
Non si tratta semplicemente del copione, bensì di uno strumento che diventa una guida per il regista al quale fornisce elementi di varia natura, considerati importanti, che possono essere le didascalie di lavoro, diverse da quelle dell’autore, le immagini fotografiche, i filmati, i vari dettagli scenografici, quelli dei costumi, dei movimenti da fissare, della illuminazione e della musica, elementi che si arricchiranno di continue varianti, dovute proprio alla «prassi teatrale».


In Italia si nota un rapporto intellettuale diverso da come lo intendesse Brecht, nel senso che esistono altre forme a cui attingere come: epistolari, interviste fatte poco prima di un debutto che spiegano l’idea dello spettacolo e che, in alcuni casi, diventano libri, come quelli di Strehler e di Ronconi, ma non sono i «libri modello» ideati da Brecht, dai quali emergono molteplici fonti che rimandano ai tanti documenti o alle tante indicazioni che venivano fatte durante le prove, a contatto degli attori.


Ciò che va segnalato, nel lavoro dell’autrice, è la conoscenza della ricerca archivistica che le ha consentito di capire e di scoprire metodi non usuali che avevano a che fare con la gestualità, con le immagini, ritagliate dai giornali, di fatti di cronaca, di guerre, con continue annotazioni, con assemblaggi di fotogtafie, attraverso le quali si andava in cerca di dettagli espressivi, utili per la costruzione di certi personaggi.


Veniamo, infatti, a sapere che, per Arturo UI, Brecht aveva raccolto immagini, non solo del Fürer e dei suoi generali più fidati, ma persino di Mussolini. Insomma, per Sara Torrenzieri, che è dottore di ricerca in Arti Visive, Performance, Mediali, i Modellbücher vanno configurati in due modi: come un vasto complesso monumentale ed eterogeneo, con materiali editi e inediti, ma anche come oggetto che sta a base delle riflessioni brechtiane.
Alcuni di questi, come Antigone, Galileo, La Madre, Madre coraggio sono diventati modelli vincolanti per i giovani registi tedeschi che avrebbero dovuto portarli in scena.


Nel suo lavoro di ricerca, anche la Torrenzieri ha avuto dei Modellbücher, come il saggio su Brecht regista di Meldolesi, oltre che: Immagini, malgrado tutto e Quand les images prennent position di Didi Huberman, il quale considerava la fotografia non solo uno strumento di documentazione, bensì di rielaborazione.


Brecht, come Pirandello, prende coscienza del teatro di regia dopo anni dedicati alla scrittura. In entrambi, la coscienza registica è frutto di lenti accostamenti a quello che diventerà il linguaggio della scena. Pirandello comincia a fare i suoi esperimenti con la direzione del Teatro d’Arte, Brecht col Berliner Ensemble. In questo ruolo, Pirandello era un autodidatta, Brecht conosceva il lavoro teorico e registico di Piscator e di Mejerchol’d, tanto che anche lui diventò il teorico del famoso «Teatro epico» che cercò di accordare con le sue esperienze di tipo registico. Se Pirandello affidò il pensiero creativo allo spirito vitale, quello teorizzato da Bergson, Brecht lo adottò a due tipi, quello statico della scrittura e quello dinamico della messinscena.
Il volume è molto ricco, contiene un’ampia iconografia, una ricca bibliografia e le indicazioni dei Modellbücher editi.

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Woodyallen3 1
27 Giugno 2025

Woody Allen su Woody Allen: quella bellissima chiacchierata con Stig Björkman

Adele Porzia, «ClassiCult.it»

Ogni volta che penso a Woody Allen mi sembra di essere più felice. E ultimamente sono particolarmente felice perché sto leggendo tantissimo su di lui. Non solo ho riletto l’autobiografiaA proposito di niente, pubblicata in italiano da La nave di Teseo nel 2020, ma anche diversi saggi, tra cui quello di Roberto Escobar,Il mondo di Woody, per Il Mulino (2020), e quello di Natalio Grueso,Woody Allen. L’ultimo genio, pubblicato nel 2015 da Salani Editore.

E non solo: ho recuperato la conversazione tra Allen ed Eric Lax, critico ed esperto del suo cinema, pubblicata in Italia da La nave di Teseo nel 2024.

Insomma, sono in piena fase Woody Allen e non ho potuto fare a meno di alternare alle tante letture la visione dei suoi quasi cinquanta lavori, tra film, corti, uno sceneggiato per la televisione e una serie tv per Prime Video.

E in questa fase — che, in un certo senso, continua da tutta una vita — mi sono resa conto che Allen dà il meglio di sé quando conversa con qualcun altro. E non con Eric Lax, che ha il grande difetto di adularlo e quindi non lo mette mai in difficoltà, ma con un altro regista. Un suo pari, col quale possa parlare, alla pari, di cinema, letteratura, teatro e, naturalmente, di vita.

Grazie alla CuePress, ho potuto recuperare la conversazione che Allen ha avuto con Stig Björkman, critico e regista svedese, nato solo tre anni dopo Woody Allen.

Nel 1993, Björkman ha intrattenuto un lungo dialogo con il regista di Brooklyn, toccando alcuni punti fondamentali del suo cinema. La conversazione è poi proseguita nel 2005, spingendosi fino a Match Point. Ed è proprio qui che si conclude anche il volume pubblicato dalla casa editrice di Imola, dal titolo Woody Allen su Woody Allen. Woody Allen conversa con Stig Björkman, nella traduzione di Giampiero Cara, Giovanni Gorla e Luca Taglinetti, pubblicato nel 2022.

Quello che maggiormente mi ha sorpreso di questa lettura è che, dalla conversazione tra questi due registi, sono emersi temi e argomenti di cui Allen non aveva mai parlato prima. Battute inedite, segreti non solo sui film che ha girato, ma anche sulla sua stessa concezione dell’arte.

Dichiarazioni di prima mano, che a mio parere sono emerse grazie alla grande abilità di Björkman, il quale non si è mai limitato a porre domande — come in una classica intervista — ma ha approfittato dell’occasione per uno scambio autentico di opinioni. È stato grazie a questo clima amicale che Woody Allen si è tanto aperto con lui.

All’inizio, per esempio, quando parlano di Ingmar Bergman, regista preferito da entrambi, allargano il campo all’intera cinematografia di Bergman, al cinema europeo e americano, a quando Allen era ragazzo e marinava la scuola per chiudersi nei cinema con i suoi compagni di classe. Ho avuto anche l’impressione, nel corso di questo bel botta e risposta, che Allen si stesse divertendo, che non volesse più smettere di parlare. Ha perfino chiesto l’opinione di Stig Björkman su alcune pellicole, su libri, sul teatro. E non è una cosa che fa spesso.

È un libro prezioso, perché permette non solo di conoscere meglio Allen, ma anche il suo interlocutore. Mi ha fatto venire voglia di vedere i film di Björkman e di leggere le altre interviste che ha condotto nel corso della sua vita, come quella a Lars von Trier.

Mi ha ricordato un’altra celebre conversazione, che era anche un passaggio di testimone da un cineasta all’altro: quella tra François Truffaut e Alfred Hitchcock (Il cinema secondo Hitchcock, edizione più recente quella de Il Saggiatore, 2014).

Mentre leggevo la conversazione tra Allen e Björkman, speravo che non finisse più, che si protraesse ancora per qualche pagina. E oggi che l’ho terminata, non nascondo di avvertire un vuoto dentro di me. Come se mi fossi congedata da due amici di vecchia data. Una sensazione che, ne sono certa, il lettore sperimenterà a sua volta, insieme a quel malcelato desiderio di chiudersi in un cinema e non uscirne mai più.

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Cavell
27 Giugno 2025

Tra filosofia e cinema: a proposito di Il mondo visto di Stanley Cavell

Stefano Marino, «Mimesis–Scenari»

Da qualche anno il pensiero versatile e multiforme di Stanley Cavell (1926-2018) sembra essere al centro di una significativa riscoperta, soprattutto sul versante dell’impegno di Cavell come filosofo estremamente interessato alle arti. Senza alcuna pretesa di completezza, come segni di questa recente opera di riscoperta è possibile citare qui, ad esempio, i volumi di Rex Butler, Stanley Cavell and the Arts (2021), David LaRocca, Music with Stanley Cavell in Mind (2024), Paola Marrati, Understanding Cavell, Understanding Modernism (2025), tutti editi da Bloomsbury, o anche il volume antologico di W. Rothman, Cavell on Film (2005¹; 2025²), edito da SUNY Press. Rientra all’interno di una tale operazione, indubbiamente significativa e meritoria, anche la recente pubblicazione in italiano, da parte della casa editrice CUE Press, di due importanti scritti Cavell dedicati al cinema, ovvero Alla ricerca della felicità. La commedia hollywoodiana del rimatrimonio (ed. it. a cura di P. Donatelli; con contributi di P. Donatelli, G. Manzoli, E. Morreale, 2022) e Il mondo visto. Riflessioni sull’ontologia del cinema (ed. it. a cura di P. Donatelli; Postfazione di G. Manzoli, 2023). È precisamente su quest’ultimo testo, ovvero Il mondo visto, che mi concentrerò in questa recensione, al fine di tentare di far emergere sinteticamente alcune linee guida dell’originale e stimolante approccio filosofico al cinema delineato da Cavell.

Uscito in prima edizione inglese nel 1971, e successivamente in una seconda edizione inglese ampliata nel 1979 (con l’aggiunta dell’importante saggio conclusivo «Ancora su Il mondo visto», meritoriamente incluso nell’edizione italiana del libro), Il mondo visto di Cavell viene presentato ai lettori e alle lettrici del nostro paese in una ricca edizione che comprende anche un’Introduzione di Piergiorgio Donatelli (pp. 8-21) e una Postfazione di Giacomo Manzoli (pp. 258-262). I due testi degli studiosi italiani risultano perfettamente bilanciati e complementari fra loro, riuscendo a far emergere in modo immediato e molto chiaro come l’ontologia del cinema di Cavell possa risultare egualmente stimolante per gli studiosi e le studiose di filosofia con un interesse per il cinema come possibile oggetto di indagine, da un lato, e per gli studiosi e le studiose di cinema con un interesse per la filosofia come possibile metodo di indagine, dall’altro lato.

Passando ora a una rapida analisi della forma e dei contenuti principali del libro di Cavell, possiamo dire, per prima cosa, che Il mondo visto si struttura in 19 capitoli di differente lunghezza, preceduti da una Prefazione, una Prefazione all’edizione ampliata e un saggio conclusivo intitolato «Ancora su Il mondo visto». Nella Prefazione (1971) Cavell prende le mosse dall’importanza del «bisogno di intrattenimento» (pur aggiungendo che esso «non è mai stato tutto, o la parte importante, di ciò che i film fornivano, così come non è tutto ciò che i romanzi o la musica forniscono») e dal proprio rapporto intimo, personale, essenziale con il cinema: più precisamente, con un certo tipo di cinema, ovvero con la «continuità con i film di Hollywood» che viene analizzata in Il mondo visto proprio in un’epoca in cui, come scrive Cavell, «Hollywood stessa [la] stava perdendo» (p. 31). È, quest’ultimo, un presupposto fondamentale alla base dell’intera indagine di Cavell, il quale, in Il mondo visto, si interroga filosoficamente sul cinema anche al fine di «rendere conto della [sua] esperienza del cinema» e del modo in cui «i ricordi del cinema si intrecciano per filo e per segno con quelli della [sua] vita» (pp. 31, 33).

Nella Prefazione all’edizione ampliata (1979) Cavell si ricollega a tale questione, accennando all’«‘onere immediato ed enorme’ che grava sulla nostra capacità di descrizione critica, quando rendiamo conto della nostra esperienza cinematografica» nel tentativo di «comprendere il medium cinematografico in quanto tale» (p. 27), e specificando come «un tema del Il mondo visto che è esplicito e guida tutta la [sua] riflessione successiva sul cinema» sia quello per cui ad «assegnare significato alle possibilità e alle necessità specifiche del medium fisico del cinema […] sono gli atti fondamentali, rispettivamente, del regista di un film e del critico (o del pubblico) del cinema», al pari dell’idea secondo cui «ciò che costituisce un ‘elemento’ del medium cinematografico non è conoscibile prima di queste scoperte della regia e della critica»(p. 27). Si tratta di un aspetto che Cavell chiama, in modo indubbiamente suggestivo, «circolo cinematografico» (in riferimento alla «reciprocità tra elemento e significato» [p. 27]) e che si collega spontaneamente, fra le altre cose, alla questione di «che cosa costituisca, o che cosa esprima, il fatto di ‘conoscere un’opera’»(p. 25).

Tutto ciò, a sua volta, non può non condurre la riflessione verso la questione del rapporto fra il cinema e altre forme artistiche, e dunque anche verso il problema, citato esplicitamente da Cavell, di «concedere al cinema lo status di soggetto che incoraggia e premia la speculazione filosofica, al pari delle grandi arti», accettando quindi «il cinema come un’arte» e, conseguentemente, non tirandosi indietro di fronte al compito di «una modifica del concetto di arte», né di fronte al compito, d’altra parte, di tracciare distinzioni tra alto e basso, o tra maggiore e minore, […] all’interno del corpo stesso del cinema» (p. 28), così come avviene spesso nel caso della pittura, della poesia, della musica o ancora altre arti. Tali questioni, a conferma della loro importanza per Cavell, vengono esplicitamente riprese anche nel succitato saggio conclusivo «Ancora su Il mondo visto” (derivante da alcuni testi presentati a un convegno dell’American Society for Aesthetics nel 1972 e poi pubblicati nel 1974), là dove Cavell spiega come «la più chiara delle [sue] intenzioni», durante la stesura di Il mondo visto, fosse quella di «dimostrare che si può scrivere sui film […] con la stessa serietà che ogni opera d’arte merita» (p. 211). Come dicevo, però, ciò non spinge Cavell a eliminare l’idea di una differenza qualitativa fra ciò che possiamo chiamare genericamente ‘buona’ e ‘cattiva’ arte anche nel caso del cinema (così come facciamo spesso nel caso della pittura, della poesia, della musica e della stessa filosofia, per differenziare i contributi di autori e autrici eminenti dalle opere meno riuscite o talvolta meramente ripetitive e standardizzate): «non tutti i film sono di fatto degni di tale attenzione», afferma infatti Cavell (p. 212), il quale si sofferma varie volte, non a caso, su categorie come ‘grandi registi’, ‘cinema serio’ e ‘film brillanti’ (pp. 227, 248), là dove questi ultimi sono quei film che «scoprono con la massima chiarezza e la massima profondità i poteri del medium stesso» (p. 248).

Prendendo le mosse da domande classiche come «Che cos’è l’arte?» o «Qual è l’importanza dell’arte?», nel primo capitolo del libro Cavell si chiede: «Perché il cinema è importante?» (p. 39) Da ciò ne scaturisce una riflessione, già accennata nella Prefazione e destinata poi a essere ripresa e approfondita varie volte nel corso del libro, sul rapporto fra il cinema e le altre arti – per esempio, allorché Cavell riflette sul fatto che «gli standard di rigore e di cultura che abbiamo imparato a dare per scontato [o a criticare] quando diamo o ci vengono date letture di libri, sono ignorati o inaccessibili quando diamo o ci vengono date letture di film» (p. 42), oppure là dove si sofferma sui rapporti fra cinema e teatro (pp. 65-66). Oltre a ciò, dalla succitata domanda iniziale scaturisce una riflessione su determinati tratti caratteristici e unici del cinema, come ad esempio il fatto che «tutti si interessano ai film», per cui «il cinema sembra esistere naturalmente in una condizione in cui i suoi esempi più alti e quelli più ordinari attirano lo stesso pubblico», laddove invece «le persone che si interessano alla musica seria non si interessano alla musica d’ambiente o, diciamo, alla musica da film» (p. 40) (sebbene si possa forse obiettare che tale situazione, riguardo alla musica, fosse probabilmente più usuale negli anni in cui Cavell lavorò alla stesura di Il mondo visto rispetto allo scenario musicale attuale, in cui alcune barriere fra stili e generi diversi sono state almeno in parte superate).

Ora, poiché «una nuova opera», secondo Cavell, «nasce, in una civiltà, dai poteri dell’arte stessa» (p. 42), e poiché la situazione artistica generale in cui nacque il cinema come forma d’arte fu la «condizione dell’arte modernista» (p. 45), a suo giudizio ne scaturisce logicamente il quesito su quale rapporto debba vigere fra cinema e modernismo. «Si dice spesso», osserva infatti Cavell, «che il film è l’arte moderna, quella a cui l’uomo moderno reagisce naturalmente», ma a suo giudizio sussistono diverse buone ragioni per «diffidare di questa idea», fra cui, primariamente, il fatto che, «se il cinema deve essere preso minimamente sul serio come forma d’arte, allora bisogna spiegare come possa aver evitato il destino del modernismo» (dato che, per Cavell, perlomeno per molti decenni è proprio questo ciò che è avvenuto): ovvero, bisogna spiegare come il cinema «possa aver mantenuto le sue continuità in termini di pubblico e di generi, come possa essere preso sul serio senza essersi assunto il peso della serietà. […] [I]l fatto ovvio del cinema», secondo Cavell, è infatti che, «se è arte, è l’unica arte tradizionale vivente, l’unica che può dare per scontata la sua tradizione» (p. 46). La questione del rapporto fra il cinema e il modernismo, posta nel primo capitolo del libro, sarà poi ripresa e sviluppata da Cavell innumerevoli volte nel corso di Il mondo visto (cfr. pp. 152-153; 169-171; 191-192; 245-248), sempre con l’aggiunta di nuovi stimoli e nuovi approfondimenti – ad esempio, in relazione a ciò che è avvenuto dagli anni Sessanta in poi, quando «il cinema si è gradualmente trasferito nell’ambiente modernista che le altre grandi arti hanno abitato per generazioni e dove ogni forma d’arte ha dovuto lottare per la propria sopravvivenza» (p. 111), oppure in relazione al grande tema del rapporto fra l’arte moderna e la poetica ottocentesca del realismo nelle sue varie forme (pp. 81, 232), che naturalmente non ha mancato di incidere anche sulla delineazione della peculiare estetica del cinema.

Nei capitoli immediatamente successivi Cavell introduce un altro tema fondamentale, se non proprio il tema fondamentale del libro, cioè quello del rapporto fra la realtà e la dimensione per così dire sui generis del mondo che viene dischiuso dai film. Il tema (estetico e, al contempo, rigorosamente epistemologico) del «fare i conti con la realtà» è già racchiuso nella domanda posta da Cavell nel primo capoverso del secondo capitolo: «che cosa succede alla realtà quando viene proiettata su uno schermo?» (p. 51). Per affrontare tale tema, Cavell si premura in primo luogo di definire il rapporto tra cinema e fotografia, evidenziando come quest’ultima, a differenza della pittura, «non ci presenta una ‘somiglianza’ delle cose», bensì «le cose stesse», e come, nonostante ciò, essa sia qualcosa che «non sappiamo come definir[e] ontologicamente», nella misura in cui, guardando una fotografia, «vediamo cose che non sono presenti» (pp. 51-52). A partire da qui, sottolineando come «le fotografie sono fotografie del mondo, della realtà nel suo insieme» (cosicché «quello che succede in una fotografia è che il mondo trova un termine»), Cavell sposta il focus della propria attenzione sul cinema e giunge alla definizione del film come «mondo [che] viene proiettato», in cui «lo schermo è una barriera» che «mi nasconde dal mondo che mi contiene – mi rende infatti invisibile. […] Che il mondo proiettato non esiste (ora)», scrive Cavell, «è la sua unica differenza dalla realtà» (p. 59). «La promessa del cinema», come si legge finanche negli ultimi capoversi di Il mondo visto, è quella di «esibire il mondo» e, come spiega Cavell, al fine di «soddisfare il desiderio di esibizione del mondo» si deve essere disposti a «lasciare apparire il mondo in quanto tale» (p. 205). Si tratta di ciò che Cavell, unendo in una maniera estremamente originale il registro filosofico dell’estetica con quello dell’epistemologia, definisce «il desiderio di totale intelligibilità» (p. 205); a tal proposito, dunque, risulta quanto mai affascinante notare come una fra le principali «possibilità del medium [cinematografico]», secondo Cavell, sia proprio quella di «lasciare che il mondo accada» (pp. 59-60).

La succitata questione relativa al «medium fisico del cinema in generale» viene collegata da Cavell a quella relativa «forme o ai generi specifici che questo medium ha assunto nel corso della sua storia» e alle «possibilità del medium», le quali, spiega Cavell, «non sono date», bensì si articolano e si dispiegano per l’appunto storicamente (p. 71). Così, Cavell si spinge ad argomentare come «le prime pellicole cinematografiche accettate come film» vadano intese in un certo senso come «la creazione di un medium per il fatto che questi film davano significato a delle possibilità specifiche. Solo l’arte stessa», scrive infatti Cavell, «può scoprire le sue possibilità, e la scoperta di una nuova possibilità è la scoperta di un nuovo medium», il quale può essere definito, a livello generale, come «qualcosa in cui, o per mezzo di cui, una cosa specifica viene fatta o detta in un modo particolare», nonché qualcosa che «fornisce delle modalità particolari per farsi capire da qualcuno, per essere comprensibile» (p. 72). Nel caso particolare del cinema, secondo Cavell, analizzare «le realtà concrete del medium cinematografico stesso» ci deve portare a riconoscere, ad esempio, che non sono tanto delle forme prestabilite e già date a veicolare l’espressione di determinati tipi, bensì «sono proprio i tipi a portare le forme su cui i film hanno fatto affidamento», là dove «il modo in cui i film creano degli individui» consiste nel fatto che essi «creano delle individualità» (p. 73).

Partendo da qui, oltre a sottolineare le differenze tra «un tipo nel cinema», in grado di realizzare «il mito della singolarità», e «un tipo nel teatro» (p. 74), Cavell mostra anche come la creazione di «cicli di film», lungi dal costituire un mero dato estrinseco o accidentale nella storia del cinema, rappresenti invece «una possibilità intrinseca di questo medium», nella misura in cui, a ben vedere, «un ciclo è un genere […] e un genere è un medium» (p. 75). A partire da tali premesse, quindi, si può facilmente comprendere l’enfasi e l’attenzione posta da Cavell, in alcuni capitoli importanti di Il mondo visto, su questioni quali i «miti del cinema» (pp. 87-89), i «tipi principali di personaggi» e i rapporti fra loro (pp. 95-99; 105-107), nonché le conseguenze dell’«esaurimento dei miti originari del cinema» (p. 180) che egli intravede nella storia del cinema col passare dei decenni. Questa concezione genuinamente relazionale, per così dire, dei nessi sussistenti fra la dimensione del «medium di un’arte» (l’arte cinematografica, in questo caso) e le dimensioni de «i generi, i tipi e le individualità che hanno costituito i media dei film» (p. 119) spinge Cavell, nel quinto capitolo di Il mondo visto, a citare un aspetto veramente centrale della sua filosofia del cinema: ovvero, il fatto che «con lo sviluppo di Hollywood i tipi originali si [siano] ramificati in individualità tanto diverse e sottili, tanto ampie nella loro capacità di influenzare i nostri umori e di liberare la fantasia, quanto ogni insieme di personaggi che popolavano i grandi teatri del nostro mondo. […] Hollywood è stato il teatro in cui sono apparsi» determinati tipi, singolari e unici, perché «i film di Hollywood hanno costituito un mondo» (p. 75), laddove, come si legge nel dodicesimo capitolo, in maniera piuttosto drastica Cavell decreta che «la Nuova Hollywood non è un mondo» (p. 128). È, quest’ultimo, uno degli aspetti dell’indagine sviluppata in Il mondo visto in cui il piano dell’analisi filosofica e il piano dell’esperienza personale di fruizione cinematografica (con tutto il carico di soggettività e talvolta idiosincrasia che tale esperienza inevitabilmente comporta) si saldano e si intrecciano l’uno all’altro nella maniera più stretta, per non dire inscindibile. Nel saggio conclusivo «Ancora su Il mondo visto», a tal proposito, Cavell ammetterà con grande onestà di essersi limitato, «come [suo] canone di riferimento, ai soli film sonori che avev[a] a disposizione mentre scrivev[a]» e riconoscerà che la sua «eccessiva indulgenza verso i contributi di Hollywood alla storia del cinema», da un lato, e la sua «quasi totale omissione del cinema sperimentale contemporaneo» (p. 214), dall’altro lato, potrebbero anche suscitare qualche diffidenza.

Oltre a ciò, nel corso di Il mondo visto Cavell non manca di soffermarsi con lucidità filosofica e, al contempo, con genuina passione cinematografica su molti altri argomenti, fra cui il rapporto fra il bianco e nero ed il colore (pp. 133-146), la dimensione dell’automatismo dei dispositivi tecnici e l’«implicazione della cinepresa» (pp. 177-179), se non proprio il «destino della cinepresa» e l’«interesse mitologico delle rivelazioni della cinepresa» (p. 225), alcune tecniche cinematografiche come il rallentatore, il flashback, il fermo immagine e lo schermo diviso (pp. 185-191), la relazione fra il suono e il silenzio o il rapporto fra spazio, tempo e azione nel cinema (pp. 197-204). In ogni caso, la molteplicità dei temi affrontati in Il mondo visto (e, quindi, la notevole versatilità della riflessione cavelliana sul cinema) non contrasta affatto con la grande unitarietà e coerenza di tale riflessione, garantita dal rigore con cui Cavell pone e ripropone quella che, sia su un piano strettamente estetico sia su un piano epistemologico, gli appare la questione decisiva e centrale della filosofia del cinema: ovvero, la succitata questione relativa al fatto che «il cinema [sa] riprodurre magicamente il mondo» ed è in grado di farlo «[n]on presentandoci letteralmente il mondo, ma permettendoci di guardarlo senza essere visti. […] [S]iamo dislocati, esiliati dalla nostra dimora naturale nel mondo, posti a una distanza dal mondo» (pp. 82-83). «Il cinema», scrive Cavell, «ci restituisce ed estende la nostra prima fascinazione per gli oggetti, per le loro vite interiori e determinate» (p. 88); esso «soddisfa il nostro desiderio di una riproduzione magica del mondo, permettendoci di vederlo senza essere visti. Ciò che desideriamo vedere in questo modo è il mondo stesso – in altre parole: tutto» (p. 151). Se è vero che «ogni arte vuole l’espressione del mondo» (p. 199), allora il cinema, per Cavell, «promette l’esibizione del mondo in se stesso» (p. 169).

Anche nel saggio conclusivo «Ancora su Il mondo visto» Cavell ribadire con grande enfasi che «ciò che rende il medium fisico del cinema diverso da qualsiasi altra cosa sulla terra consiste nell’assenza di ciò che esso ci fa apparire dinanzi: vale a dire nella natura della nostra assenza da esso” e nel suo offrire una seria di «proiezioni della realtà in cui […] la realtà è lasciata libera di esibirsi» (p. 213). Per Cavell, infatti, «il modo in cui il cinema presenta a noi il mondo astraendoci da esso risulta essere una conferma di qualcosa che è già vero dello stadio dell’esistenza in cui ci troviamo», nel senso che il «dislocamento del mondo» che viene prodotto dal cinema «conferma […] il nostro preesistente estraniamento dal mondo. La ‘sensazione di realtà’ che il cinema fornisce è la sensazione di […] una realtà nei confronti della quale sentiamo già una certa distanza» (p. 252). Sotto questo punto di vista, per Cavell si può persino parlare, in maniera estremamente ambiziosa, di un vero e proprio «mistero epistemologico» del cinema (p. 226), nella misura in cui «la base della drammaticità del cinema […] risiede nel suo dimostrare persistentemente su che cosa si fondi la nostra certezza della realtà», ovvero nel suo dimostrare il carattere mediato (ma non per questo illusorio o fittizio) del nostro rapporto col mondo.

Mettendo la realtà sullo schermo, il cinema fa da schermo tra noi e la datità della realtà: tiene la realtà lontana da noi, la tiene davanti a noi, in altre parole la trattiene davanti a noi.

(p. 228)

Diversi decenni fa, a proposito della filosofia della musica di Theodor W. Adorno, Luigi Rognoni osservò a ragione che essa parlava «al filosofo in termini musicali e al musicista in termini filosofici, in una piena e acuta compartecipazione tecnica fra i due campi». Mutatis mutandis, nonostante le differenze in termini di background culturale e approccio filosofico tra Adorno e Cavell (e nonostante il fatto che, com’è noto, Adorno purtroppo non amasse il cinema e, in generale, tutta la popular culture…), forse si può sostenere che qualcosa di analogo possa valere anche nel caso di Cavell, nel senso della sua capacità di fornire suggestioni egualmente stimolanti sia ai filosofi che agli studiosi di cinema, «in una piena e acuta compartecipazione tecnica fra i due campi» (per riprendere l’efficace formula coniata a suo tempo da Rognoni per la «musicologia filosofica» di Adorno). Come scrive Donatelli all’inizio del suo saggio introduttivo, Il mondo visto di Cavell è infatti «un libro affascinante, denso ed enigmatico», in cui il cinema viene interpretato filosoficamente come «un fatto dell’esperienza che ci riconduce alla dimensione esistenziale primordiale di individui spaesati di fronte al mondo che ci scorre davanti» (p. 9). Gli fa eco Manzoli, nella succitata Postfazione al libro, là dove osserva che Cavell, vero e proprio «filosofo in sala», prende le mosse dalla propria «esperienza di spettatore cinematografico» e, sulla base delle categorie centrali del proprio pensiero (e, in particolare, sulla base di quelle che Manzoli definisce «le due grandi ossessioni del volume: il tema del realismo, definito come l’attitudine a ‘fare i conti con la realtà’ e quello della natura di questa realtà depurata dal peso dell’ego, rivelatoria e capace di attivare l’io per offrirgli gli elementi con cui costruire un nuovo rapporto col mondo»), arriva a offrire «un grande esercizio di intelligenza spettatoriale che prende le mosse da una passione sconfinata nei confronti dei film e da un rispetto profondo per la funzione esistenziale e intellettuale di quest’arte» (pp. 259-262).

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Come gli uccelli il mulino di amleto
24 Giugno 2025

Raccontare Il Mulino di Amleto: dalla scena al libro 

Letizia Bernazza, «LiminaTeatri»

Pubblicato a dicembre 2024 dalla casa editrice Cue Press, il volume Raccontare Il Mulino di Amleto. Per un teatro in ascolto scritto da Ilena Ambrosio e Laura Novelli è un’opera complessa e rigorosa.
Complessa perché le autrici riescono a tracciare l’intero percorso artistico della compagnia, fondata ufficialmente nel 2009 da Marco Lorenzi, Barbara Mazzi e Maddalena Monti nel capoluogo piemontese; rigorosa perché poggia le basi su di una ricerca che analizza e ricostruisce minuziosamente la poetica e il processo creativo del gruppo.


Ambrosio e Novelli hanno saputo ‘mettersi in ascolto’, intercettare il ‘sentire’ della compagnia, proprio al pari di quanto è nella natura e nello spirito del Mulino di Amleto, il cui tratto distintivo risiede – come dichiarato nella Premessa del libro – in «(…) una capacità di ascolto: della realtà, dell’essere umano, che sia esso autore, personaggio, attore, regista o spettatore» (p. 9). Dunque, «un ascolto nell’ascolto» che, tappa dopo tappa, capitolo dopo capitolo, conduce il lettore/la lettrice ad enucleare i differenti centri propulsori del fare teatro.

L’incontro con il testo e l’analisi, il training con gli attori, la costruzione della scena e, infine, l’incontro con il pubblico: fasi di studio e lavoro che raccontano di una pratica vitale, affatto rigida o sterile, bensì aperta e sempre in ascolto.

(Ibidem)

Quello per il testo è, prima di tutto, un innamoramento. Una folgorante fascinazione impossibile da lasciar andare e alla quale si rimane aggrappati a causa di una sorta di straordinaria bellezza che incanta e che richiede con urgenza di essere messa in scena.
A tale proposito, colpisce il racconto dell’incontro con Tous des Oiseaux dello scrittore e regista libanese, direttore artistico del Théâtre National de la Colline di Parigi, Wajdi Mouawad. Tra le righe è palpabile l’emozione di Marco Lorenzi e Barbara Mazzi di fronte alla prima scena dell’opera: l’incontro tra Eitan e Wahida in una biblioteca di New York, dove la ragazza è impegnata nella stesura della sua tesi. Rappresentata in prima nazionale nel 2023 al Teatro Astra di Torino, l’opera (che è valso al Mulino il Premio Ubu 2024 per Nuovo testo straniero messo in scena da una compagnia italiana) suggella e riconferma la necessità del Mulino di dialogare costantemente con il presente. La storia d’amore tra il giovane ebreo e la giovane araba-statunitense non può non riportarci a un oggi corroso da un odio atavico e ingiustizie mai risolte che stanno portando al massacro di massa del popolo palestinese.

Passando per i classici, da Shakespeare a Goldoni, da Molière a Hugo, da Brecht a Feydeau, da Čechov a Ovidio, fino a Pasolini e al cinema di Vinterberg si arriva a Tous des Oiseaux (Come gli uccelli). È in tali continui ‘attraversamenti’ di generi e di linguaggi differenti che le due autrici definiscono «poligama» la «sensibilità drammaturgica» della compagnia, per la quale «la distanza temporale», sottolineano, non è «un limite bensì un fecondo punto di osservazione drammaturgica (…) per garantire un affondo consapevole nella sensibilità odierna» (p.15).

Il punto di forza del volume consiste, a nostro avviso, in un’indagine critico-analitica che procede per macro-temi. Dopo aver affrontato con puntualità «La scelta del testo», la ricerca nei successivi capitoli si focalizza su: «Il lavoro sul testo», «L’attore», «Il dispositivo scenico» e «Il pubblico». Macro-temi che, tuttavia, si fondono tra loro, fino a costituire una sorta di ‘mappa concettuale’ che permette a chi legge di mettere in relazione le differenti ‘diramazioni’ teorizzate, consentendogli di elaborare una propria ‘mappa’ diacronica.

Così la «sensibilità drammaturgica», sottesa alla scelta del testo, si fa lettura scrupolosa dello stesso, approfondimento della poetica dell’autore contaminata da ‘sguardi altri’ attinti dal cinema alla musica, dalla letteratura alle arti figurative, dalla cultura classica alla cultura pop. Uno ‘sguardo allargato’, dunque, vivificato dalle sollecitazioni e dalle suggestioni dei tanti materiali esplorati in quel lavorio che accompagna la fase di creazione drammaturgico-registica e attoriale. Si tratta di un processo collettivo, pur nel rispetto dell’ambito artistico di ciascun componente della compagnia, che dallo scambio reciproco approda progressivamente alla composizione della messa in scena, la quale – come fanno notare le due autrici – porterà con sé inevitabilmente l’incanto di un’immagine, un oggetto, un’azione, anche se poi tali materiali non saranno necessariamente ‘dentro’ lo spettacolo (per approfondire il lavoro condotto dal Mulino su Come gli uccelliPlatonov. Un modo come un altro per dire che la felicità è altrove Festen. Il gioco della verità rimandiamo alle pagine 26-36 del volume).

Se è la «sensibilità drammaturgica» a guidare la scelta del testo, è «l’umanità» il centro distintivo dell’attore. Un’umanità che è per l’interprete la «(…) possibilità di ‘essere’, nel presente della rappresentazione, ciò che dice e ciò che fa poiché di ciò che dice e di ciò che fa ha compreso e assunto tutte le sfaccettature e le possibili implicazioni» (p. 51). L’attore esprime sulla scena ciò che è: prima di tutto un essere umano che si fa tramite – con il suo pensiero, i suoi sentimenti, il suo corpo – del presente. Il presente della messinscena, per mezzo di un training quotidiano complesso (esercizi a corpo libero, giochi, improvvisazioni) il cui obiettivo, per citare rispettivamente due maestri fondatori del Teatro del Novecento (Peter Brook e Eugenio Barba), è quello di «rendere visibile l’invisibile» con un costante processo di sottrazione e con un allenamento che permetta di sperimentare una dimensione ‘extra-ordinaria’.
La memoria fisica conduce alla vita spirituale e il delicato compito del «direttore di attori» (così si fa chiamare Marco Lorenzi, piuttosto che «regista di spettacoli») è di disegnare, in maniera collettiva con l’intero ensemble, traiettorie che toccano le intime verità del testo, dei personaggi, degli attori e dell’impianto scenico.

Anche lo spazio teatrale nelle opere del Mulino riflette la natura più profonda del lavoro collettivo: si tratta di una creazione fatta «tutti insieme» senza alcuna «sudditanza», afferma Eleonora Diana, scenografa e videoartista che ha curato il visual concept di diverse produzioni del Mulino (p. 55).
Lo spazio (è ancora Peter Brook una delle principali fonti d’ispirazione) assume la valenza di spazio ‘vuoto’ e di spazio come ‘strumento’ ovvero di un luogo vitale dove sprigionare le potenzialità dell’energia espressiva e dove sperimentare, proprio a partire dallo spazio, le linee estetiche e poetiche delle opere rappresentate.
Ilena Ambrosio e Laura Novelli ci guidano, con un’analisi minuziosa, ad entrare nelle differenti modalità di utilizzo del dispositivo scenico: nelle prove di «spazio vuoto», in quelle di «spazio pieno» (si veda a tale proposito la parte dedicata a Kollaps/Collasso del drammaturgo contemporaneo tedesco Philipp Löhle, pp. 60-61) fino ai «nuovi approdi»: Come devi immaginarmi dedicato a Pier Paolo Pasolini e Come gli uccelli (pp. 61-64).

L’ultimo capitolo è dedicato al pubblico.
Il Teatro è incontro.
Il Mulino concepisce «(…) una visione dello spettatore fluida, non rigida né precostituita o precostituibile,» – scrivono le autrici – «che non lo ingabbia in una mera passività fruitiva; anche quando non direttamente chiamato in causa, egli costituisce comunque una delle componenti fondamentali del meccanismo drammaturgico e scenico» (p. 72).
Il Teatro, aggiungiamo, è l’incontro con l’altro. È relazione. È uno scambio vivo. E il Mulino ha scelto di tendere la mano all’umano con una ricerca votata a coinvolgere le identità, le differenze, a sentirsi ciascuno parte di un tutto. Un po’ come l’Uccello anfibio protagonista dell’opera di Wajdi Mouawad che, quando sembra non avere più speranze di vita, esclama: «Sono io! Sono uno di voi!».

Un messaggio civile e politico mai più attuale di oggi. Mentre terminiamo queste righe, il Mondo rischia di sprofondare nel caos. Basterebbe ripetersi «Sono io! Sono uno di voi!» per mettere fine a ogni guerra.

Il volume è completato da un ricco apparato iconografico; dagli scritti delle due anime fondatrici del Mulino, Marco Lorenzi e Barbara Mazzi; dalle voci della compagnia; dalle testimonianze di alcuni critici; da una dettagliata Teatrografia e una minuziosa Bibliografia.

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Lina prosa
20 Giugno 2025

Un’isola fra mito e futuro. Il testo di Lina Prosa commissionato da Corrao

Marta Occhipinti, «la Repubblica»

Tempo e silenzio sono trascorsi in quattordici anni. E in mezzo un testo teatrale rimasto nel cassetto, che fermò il suo orologio nell’estate del 2011. «Gentile e preziosa, amica, è mio desiderio riaffermare la peculiare identità siciliana, la sua molteplicità di spirito e di cultura, la stratificazione storica e poetica delle civiltà universali, la memoria ma anche l’oblio». A scrivere una lettera datata 21 aprile 2011 è l’ideatore di Gibellina Nuova, Ludovico Corrao. Il destinatario è la drammaturga Lina Prosa, che più avanti nell’epistola viene incaricata, per conto della Fondazione Orestiadi, di elaborare un testo drammaturgico che sarebbe stato rappresentato nell’edizione 2012 delle Orestiadi di Gibellina.

«Solo la scrittura poetica di Lina Prosa può tradurre la necessità della Sicilia di una sincera analisi e confessione rigenerante, progettare nuovi orizzonti per contribuire al processo di affermazione di antichi e nuovi valori nel dialogo con tutte le altre culture», aggiungeva l’ex senatore.

Il sogno di Corrao, interrotto nell’agosto del 2011 dal suo assassinio, era quello di un teatro del Mediterraneo, di un teatro che interrogando se stesso, prendendo in prestito sostrati di memorie mitiche e di vita vissuta, provasse a immaginare visioni future. E quel testo, sul quale Lina Prosa aveva iniziato a lavorare sin da subito fu interrotto proprio nell’attesa della consegna finale. L’incontro tra Prosa e Corrao iniziò nel 2008, quando andò in scena a Gibellina la versione francese di Lampedusa beach.
Una lettera, tre anni dopo quella rappresentazione, creò fra loro un ponte, dando licenza a una vicenda drammaturgica che si è risolta solo dopo quattordici anni, portando alla luce il testo commissionato da Corrao, pubblicato oggi da Cue Press, casa editrice digitale emiliana interamente dedicata alle arti dello spettacolo.

S’intitola Futuro poetico siciliano, ma a specificarne gli intenti è il sottotitolo: «Materiali vivi per un testo a venire», scelta che rivela una scrittura inconclusa «a supporto di una mia scelta di considerarlo terreno sperimentale in cui inglobare poeticamente il tempo trascorso tra la morte di Corrao e il mio presente. Ho ripreso in mano la scrittura dopo quattordici anni – racconta Prosa – perché le parole non vanno mai abbandonate soprattutto se si trovano in grammatiche sismiche come quelle della vita di Corrao».

Il mito del volo di Icaro, la Sicilia come fossa di figure mitiche che cadono nel suo mare cimitero di morte. E ancora, la ricerca di un linguaggio nuovo, che evoca figure letterarie siciliane, da «rosa fresca aulentissima» allo ’Ntoni dei Malavoglia, da Tancredi a don Fabrizio che si agitano come burattini in un’Isola dove «cambia tutto per non cambiare nulla».

Nel testo appaiono inquietanti luoghi isolani, a tratti bufaliniani, dove la Sicilia in cerca di un presente-futuro possibile si culla in un incanto. Ed è in quell’incanto la chiave del testo. «L’incanto non è magia, ma fermo-immagine, perché l’attività dell’isola si riduce al bisogno di chi la abita di vedere come si era all’ultimo minuto in cui la cosa accadde», scrive Prosa.
Protagonisti del testo sono gli ultimi abitanti di una polis rivoltata dai millenni in una terra archeologica, pista di caduta di tanti Icaro, dove in un immaginario suggestivo, un deserto di sale che cinge il mare e non lascia partire più nessuno. Prosa immagina che siano quei reperti a raccontare la loro storia tragica, mentre si dipanano in una scena, ancora solo scritta, divisa in zona bassa, la fossa di Icaro, e zona alta, occupata da una montagna di rovine accumulate a caso. Tuccio, il pescatore, Cosma, l’angelo nero, la matriarca Maria e la ribelle Tina popolano l’isola, cimitero bagnato, di Lina Prosa.

Le figure di Futuro possibile siciliano costruiscono una geografia del pensiero siciliano, quello cui Corrao reputava allora necessario dare voce, e che oggi Lina Prosa cala nel contemporaneo confuso, bellico, in cui si fa spazio il sogno del teatro, sbucato fuori come il sandalo di Empedocle dal cratere dell’Etna: ciò che resta dalla miscela magmatica dove si è disciolta la volgarità di una terra desertica, dove però un futuro poetico è possibile.

Samuel beckett
22 Maggio 2025

Aspettando Godot, dai Quaderni di regia e testi riveduti di Samuel Beckett

Adele Porzia, «ClussiCult.it»

Nel 1953 venne per la prima volta portato in scena Aspettando Godot, un’opera cui Samuel Beckett si era dedicato tra il 1948 e il 1949 e che avrebbe garantito la fama del suo ideatore e sancito la sua appartenenza al Teatro dell’assurdo. Inizialmente, non è stato lo stesso scrittore ad occuparsi della messa in scena dell’opera, sebbene sia stato sempre coinvolto nel suo allestimento. Per esempio, nel 1952 assistette alle prove dello spettacolo, sotto la regia di Roger Blin, per poi affiancarlo nel 1961.

Aiutò gli anni successivi registi come Anthony Page, nella produzione londinese al Royal Court, oppure Deryk Mendel che dirigeva la compagnia dello Schiller Theater. Per anni ha avuto a che fare con gli attori che avrebbero interpretato Vladimir ed Estragon, finché non gli fu offerto di dirigere lui stesso Waiting for Godot presso lo Schiller Theater di Berlino nel 1975.

Non era la sua prima volta alla regia, perché aveva diretto altri suoi testi come Finale di partita (1967), L’ultimo nastro di Krapp (1969) e Giorni felici (1971). Ma è la prima volta che dirige proprio Aspettando Godot.È un momento importante per comprendere la crescita di Beckett sia come regista, sia soprattutto come autore di teatro. Il suo quaderno di regia, pubblicato dalla Cuepress, è un’occasione per il lettore e per lo studioso di Beckett di comprendere il grande lavoro di revisione, rimaneggiamento e analisi che lo scrittore, nonché regista, ha operato sul testo.

Il quaderno riporta sulla destra le battute dei personaggi e sulla sinistra i calcoli, i movimenti scenici, le didascalie di Beckett e permette di comprendere il grado di studio e di ricerca dello scrittore, nonché tutti i significati metaforici e storici che l’autore intendeva dare all’opera. Grazie a questo quaderno, quindi, possiamo colmare (per quanto possibile) anche una serie di dubbi su alcuni dei significati di questa misteriosa opera. Innanzitutto, si ha la conferma della forte impronta cristologica dei due personaggi che, come i due ladroni del Vangelo di Luca, sono chiamati ad attendere Cristo e a interrogarsi sulla sua natura divina e sul significato stesso della vita.

All’interno di una strada di campagna, ambientazione della tragicommedia, i due vagabondi protagonisti, simbolo l’uno della terra e l’altro dell’aria o del cielo, sono condannati ad attendere qualcosa che non accade, l’avvento di qualcuno che non si presenterà mai in scena. E queste due figure esistono in virtù di tale eterna attesa. L’albero, presente in scena, è il simbolo proprio di una croce, intorno alla quale sono disposte le due figure, proprio come quelle dei ladroni.

E qui, nell’attesa di qualcuno che non arriva, nella consapevole mancanza di senso della vita, i due vagabondi assistono all’arrivo di Pozzo, un laido figuro, che giunge in scena con Lucky, una sorta di schiavo che tiene legato a sé da una corda. I due giungeranno sia nel primo che nel secondo atto, facendo percepire al pubblico da quanto Vladimir ed Estragon stiano attendendo Godot. E, infatti, nel secondo atto Pozzo sarà cieco e Lucky muto, segno del potere distruttivo del tempo.

Pozzo urlerà contro i due, irritato dalle loro continue domande su come e perché siano diventati l’uno muto e l’altro cieco, ma soprattutto sul quando, visto che credono di aver incontrato i due solo il giorno prima:

Ma la volete finire con le vostre storie di tempo? È grottesco! Quando! Quando! Un giorno, non vi basta, un giorno come tutti gli altri, è diventato muto, un giorno io sono diventato cieco, un giorno diventeremo sordi, un giorno siamo nati, un giorno moriremo, lo stesso giorno, lo stesso istante, non vi basta? (Calmandosi) Partoriscono a cavallo di una tomba, il giorno splende un istante, e poi è di nuovo la notte.

Samuel Beckett, Teatro, Einaudi, Torino 2014, p.91

La vita è, proprio come in Pedro Calderón de la Barca, un sogno, un’attesa ostinata di qualcosa che pian piano consuma chi attende. Beckett mette su un triangolo, ai cui vertici troviamo l’attesa, il silenzio e la mutilazione. I personaggi vivono e perciò seguono l’andamento di questo triangolo, per poi spegnersi del tutto, consumare la loro esistenza in un eterno silenzio.

E così, Beckett ricrea la società del tempo, in cui la cultura e la storia europea, che ha provocato la Shoah e la guerra, deve lasciare il passo alla modernità, al capitalismo, allo scontro tra le due nuove super potenze. E in questo scenario, l’essere umano, proprio come Vladimir ed Estragon, non ha alcun potere e può solo attendere la sua fine oppure qualcuno che rivoluzioni tutto, che porti la cessazione della sofferenza, la pace. E che ruolo può avere l’artista in questo tetro scenario? Lo spiega lo stesso Beckett proprio con il suo teatro: adoperare la scrittura per riflettere sul presente, strappare il velo di illusioni che circonda l’uomo e spronarlo a tornare a vivere. Accettare che la condizione umana è caratterizzata dall’assurdo, che è priva di logica e che nessuno può salvarci se non noi, adoperando ciò che abbiamo a disposizione.

Poter visionare e leggere il quaderno di Beckett ci permette di conoscere fino in fondo il suo pensiero e comprendere un’opera che non cessa di affascinare i lettori di ogni tempo. Una lettura che non posso che consigliare e che ha arricchito le mie conoscenze su questo affascinante ed eclettico artista.

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Kenji mizoguchi 2
13 Maggio 2025

L’ombra del ciliegio. Il cinema di Mizoguchi Kenji

Lorenzo Peroni, «ArtsLife»

Con Ozu Yasujiro, Naruse Mikio e Kurosawa Akira, Mizoguchi Kenji è considerato uno dei più importanti autori del cinema giapponese classico, un regista che, con la sua filmografia, ha accompagnato – dagli anni Venti agli anni Cinquanta, passando dal muto al sonoro, dal bianco e nero al colore – il Paese verso la modernità.
Sono i giovani critici cinefili dei «Cahiers du cinéma», negli anni Cinquanta, a capire l’importanza dell’opera di Mizoguchi:

Il suo cinema, infatti, è caratterizzato da uno stile di regia e messa in scena che si affida ai piani sequenza e ai long take, alle immagini distanziate, agli elaborati movimenti di macchina, alle inquadrature in profondità di campo e al complesso intrecciarsi e sovrapporsi di più dati iconicamente significanti. 

– spiega Dario Tomasi nell’introduzione del volume –

Si tratta di soluzioni che vanno tutte in una direzione ben precisa, in quanto evitano le forme consolidate del découpage classico, privilegiano i modi del montaggio interno, invitano lo spettatore a una lettura più attenta e a uno sguardo più critico, attivo e ‘moderno’.

In quegli anni vince tre volte il Leone d’Argento alla Mostra del Cinema di Venezia, nel 1952 con Vita di O-Haru, donna galante, nel 1953 con I racconti della luna pallida d’agosto e nel 1954 con L’intendente Sanshö.
Al centro della sua filmografia le donne, la condizione femminile nella società giapponese è per M​​izoguchi un filo rosso che si dipana attraverso gli anni, in diverse declinazioni: da una parte denuncia la condizione subordinata della donna in una società fortemente patriarcale come quella tradizionale giapponese, dall’altra la idealizza come «un oggetto, sebbene di culto e d’ammirazione». Le protagoniste dei suoi film sono donne divise tra spinte di emancipazione e spirito di sacrificio, dove sogni e aspirazioni soccombono al dovere imposto da rigide regole sociali.

L’ombra del ciliegio si configura come testo fondamentale per tutti gli amanti del cinema orientale (e non solo), il libro ricostruisce nel dettaglio la carriera di M​​izoguchi analizzandone la filmografia, titolo dopo titolo, affrontandone stili, temi e tecniche (i movimenti di macchina, la messa in scena, il montaggio), mettendo così in luce l’attualità e la modernità di film come Elegia di Osaka (1936), La Vendetta dei 47 ronin (1942), La strada della vergogna (1956).

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2 Febbraio 2025

Teatro in un volume le storie teatrali di Matteo C...

«La Piazza Avvenimenti»

I testi della produzione teatrale di Matteo Cavezzali, dal 2009 ad oggi, sono raccolti in un volume appena uscito dal titolo Teatro (Cue Press). Dalla quarta di copertina «Matteo Cavezzali, uno dei più interessanti autori contemporanei italiani. Tra intensi monologhi, grottesche parodie e audaci riscritture di classici da Shakespeare a Beckett, i personaggi di Cavezzali, […]
16 Gennaio 2025

Sesso, Sordi e ortaggi. Fellini

Federico Pontiggia, «il Fatto Quotidiano»

Dalla fellatio d’infanzia alla melanzana erotica (e indigesta), dalle catacombe di Romaall’Oscar cimiteriale, dai seni della Loren alla Masina «poverina»: tutte le prime volte di Fellini. Vengono da Raccontando di me, ovvero Federico Fellini conversa con CostanzoCostantini, che pubblicato in Francia nel 1996 torna in libreria per i tipi di Cue Press. Tra il maestro […]
15 Gennaio 2025

Pubblicato da Cue Press Tutto il teatro di Anton P...

Valeria Ottolenghi, «Sipario»

Intanto grazie! Grazie per questo bel volumone con tutto il teatro di Čechov: il ringraziamento innanzi tutto a Mattia Visani, direttore della casa editrice Cue Press, e a Fausto Malcovati e Roberta Arcelloni che l’hanno curato con tanta competenza. Quante volte capita di andare a cercare questo o quel titolo di Čechov tra i nostri libri? Passando subito lo sguardo […]
1 Gennaio 2025

Le strade non percorse

Raffaella Di Tizio, «L’Indice», XLI-1

Torna sul mercato editoriale un libro importante sul teatro italiano del Novecento, che è anche una lezione di metodo sul modo di costruirne la storia. La nuova edizione di Fra Totò e Gadda. Sei invenzioni sprecate dal teatro italiano (la prima, Bulzoni, 1987) ha il volto dell’autore in copertina, come ad avvisare che si entrerà, […]
30 Dicembre 2024

Capire il teatro? Missione possibile

Nicola Arrigoni, «Sipario»

Si crede che un’azione di diffusione e ri-considerazione dei linguaggi scenici parta anche e soprattutto dagli strumenti che si possono avere per leggere lo spettacolo dal vivo. Ecco allora che l’azione di una casa editrice può diventare protagonista di una necessità: non tanto e non solo fare il punto sugli studi delle arti performative, ma […]
29 Dicembre 2024

Altro che epoca senza maestri: in teatro esistono...

Marco De Marinis, «il Fatto Quotidiano»

È diventata ormai un luogo comune, quasi sempre soffuso di passatismo nostalgico, la lagnanza sul fatto di vivere in un’epoca ‘senza maestri’. Ma è davvero così? Molto dipende da cosa si intende per maestri e da dove andiamo a cercarli. Che si viva, da tempo, in un’età post-ideologica, orfana delle grandi narrazioni novecentesche, è un dato […]
12 Dicembre 2024

La vita di Dostoevskij

Giuseppe Costigliola, «Eurocomunicazione»

«L’incontro con uno scrittore è sempre una verifica del proprio sistema di vita»: apre così Fausto Malcovati la premessa al suo Un’idea di Dostoevskij (Cue Press, pp. 128), spigliata e conchiusa guida introduttiva alla biografia e alle opere del grande romanziere russo. Concetto fondamentale, valido non soltanto per chi, come lui, è apprezzato docente di lingua e letteratura russa, […]
1 Dicembre 2024

Combattè ogni forma di naturalismo, battendosi pe...

Andrea Bisicchia, «Libertà Sicilia»

Ci siamo più volte occupati, sulle pagine di questo giornale, di Gordon Craig, oggi aggiungiamo un nuovo tassello, in occasione della pubblicazione di: L’arte del teatro. Il mio teatro, a cura di Ferruccio Marotti, autore anche di una Premessa e di un Itinerario che ne ricostruisce la vita professionale, essendo stato egli, il primo a […]
25 Novembre 2024

Gordon Craig, e la sua Supermarionetta. La formula...

Andrea Bisicchia, «lo Spettacoliere»

Ci siamo più volte occupati, sulle pagine di questo giornale, di Gordon Craig, oggi aggiungiamo un nuovo tassello, in occasione della pubblicazione di L’arte del teatro. Il mio teatro, a cura di Ferruccio Marotti, autore anche di una Premessa e di un Itinerario che ne ricostruisce la vita professionale, essendo stato egli il primo a […]
7 Novembre 2024

Molto più che Un’idea di Dostoevskij, un saggio...

Adele Porzia, «ClassiCult.it»

Ricordo il mio primissimo libro di letteratura russa. Ero al liceo e, in un negozio dell’usato, avevo trovato un’edizione sfatta, senza copertina, con le pagine macchiate di caffè. Era un libro talmente malmesso che il proprietario me lo regalò. E, così, con Il maestro e Margheritadi Michail Afanas’evič Bulgakov me ne tornai a casa. Lo lessi […]
4 Novembre 2024

Sei protagonisti un po’ anomali. Nel tracciato d...

Andrea Bisicchia, «lo Spettacoliere»

Claudio Meldolesi (1942-2009) raccolse questi saggi nel 1987, quattro anni dopo la pubblicazione del volume che sarebbe diventato un classico, Fondamenti di teatro italiano. La generazione di registi, nel quale sono da ricercare le premesse di quel discorso che a suo avviso riguardava «il ritardo qualitativo» del nostro teatro, compreso «l’aggiornamento registico» che definiva un […]
27 Ottobre 2024

Un sorso di terra agli affamati

Alessandra Iadicicco, «Corriere della Sera»

Alzando lo sguardo non si vede che acqua, a perdita d’occhio. È il mare, ma la sua immensa distesa azzurra non suscita quiete, desiderio, ristoro, voglia di partire o di tuffarsi e nuotare. Ha divorato la terra, è un emblema di morte. Ci sono i pesci dentro, certo, ma è vietato mangiarli, perfino nominarli, come […]
30 Settembre 2024

I cinecomics senza la Marvel: un’insolita vision...

Paolo Garrone, «Lo Spazio Bianco»

Abbiamo intervistato Alessandro Mastandrea, autore di un interessante saggio sui cinecomics, caratterizzato da precise scelte e punti di vista, che approfondiremo con lo stesso autore. Il libro è un’opera che si aggiunge a una bibliografia – in espansione – sui film tratti dai fumetti, arricchendola di alcuni spunti di riflessione non banali. In questo volume l’attenzione […]
26 Agosto 2024

Alexander Moissi. Grande attore europeo (1879-1935...

Francesca Simoncini, «Drammaturgia»

Il libro di Massimo Bertoldi Alexander Moissi. Grande attore europeo (1879-1935), dedicato alla biografia artistica di Alessandro Moissi, ha il grande merito di colmare, con profondità e rigore storiografico, una lacuna della storia del teatro. Attore ‘scomodo’, difficilmente inquadrabile, ritenuto tra i più grandi dai suoi contemporanei, Moissi non era stato finora oggetto di un completo ed esaustivo […]
22 Luglio 2024

Le teorie teatrali: un campo minato, se i vari app...

Andrea Bisicchia, «lo Spettacoliere»

Nel 1988, l’Editore Zanichelli pubblicò di Patrice Pavis Dizionario del teatro, a cura di Paolo Bosisio, con cui l’autore cercava di dare delle risposte non solo a chi lavorava in ambito teatrale, ma anche al frequentatore di teatro. Si distingueva da altri dizionari per una qualità scientifica del materiale trattato che si estendeva, in particolare, […]
11 Luglio 2024

Béla Balázs, dall’arte del teatro alla guerrig...

Ilona Fried, «Criticai Lapok», XXXIII-5-6

Eugenia Casini Ropa è una delle più autorevoli studiose dell’arte della danza in Italia, fondatrice e docente del primo corso di storia della danza e del mimo, istituito nel 1992 al DAMS di Bologna. Nel corso delle sue ricerche, che riguardano più in generale la storia del teatro, si è dedicata anche a quella forma […]

La voce dei protagonisti

Storie e parole dei grandi maestri dello spettacolo

Cue Press è lieta di presentare la sua serie esclusiva di pubblicazioni, un tributo immersivo ai grandi protagonisti del cinema e del teatro. Queste opere rappresentano una collezione preziosa di interviste e scritti di prima mano direttamente dalle menti e dai cuori degli artisti che hanno plasmato l’industria dello spettacolo nel corso dei decenni. Ogni […]

I maestri russi del Novecento

La Rivoluzione teatrale russa tra estetica e sperimentazione

Un progetto ambizioso e esauriente dedicato al teatro russo, esplorando le opere e le influenze di alcuni dei più grandi maestri del Novecento. Questa iniziativa editoriale non solo celebra le opere iconiche di Anton Čechov, Vsevolod Mejerchol’d, Konstantin Stanislavskij, Nikolaj Vactangov e Aleksandr Tairov, ma anche offre una profonda analisi curata da esperti come Fausto […]

Lotte Eisner e il cinema espressionista

Le ombre e la luce del cinema: il pensiero e le opere di Lotte Eisner

Lotte Eisner, storica del cinema e critica franco-tedesca, è una figura di spicco nello studio del cinema espressionista tedesco. Nata nel 1896 e scomparsa nel 1983, ha dedicato la sua carriera all’analisi del cinema tedesco degli anni Venti e Trenta, diventando un punto di riferimento per studiosi e cineasti. La sua influenza si estende anche […]

Vittorio Gassman, più di un mattatore

Un viaggio attraverso le memorie e le riflessioni di un gigante dello spettacolo

Vittorio Gassman (1922-2000) è stato uno degli attori più celebri e poliedrici del teatro e del cinema italiano. La sua carriera, lunga e ricca di successi, ha attraversato oltre cinquant’anni, affermandolo come una figura centrale nel panorama artistico italiano. Cue Press è orgogliosa di presentare alcune opere chiave di Vittorio Gassman che offrono uno sguardo […]

…se Fosse premio Nobel?

Jon Fosse: tra profondità emotiva e riflessioni esistenziali

Jon Fosse, uno degli scrittori più influenti e prolifici della Norvegia contemporanea, ha trovato in Cue Press una piattaforma ideale per le sue opere, ben prima della vittoria del Nobel. Cue è entusiasta e onorata di presentare le sue creazioni uniche, offrendo al pubblico italiano la possibilità di esplorare una selezione curata delle sue opere […]