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Approfondimenti, interviste, recensioni e cultura: il meglio dell’editoria e delle arti da leggere, guardare e ascoltare.

Come gli uccelli il mulino di amleto
24 Giugno 2025

Raccontare Il Mulino di Amleto: dalla scena al libro 

Letizia Bernazza, «LiminaTeatri»

Pubblicato a dicembre 2024 dalla casa editrice Cue Press, il volume Raccontare Il Mulino di Amleto. Per un teatro in ascolto scritto da Ilena Ambrosio e Laura Novelli è un’opera complessa e rigorosa.
Complessa perché le autrici riescono a tracciare l’intero percorso artistico della compagnia, fondata ufficialmente nel 2009 da Marco Lorenzi, Barbara Mazzi e Maddalena Monti nel capoluogo piemontese; rigorosa perché poggia le basi su di una ricerca che analizza e ricostruisce minuziosamente la poetica e il processo creativo del gruppo.


Ambrosio e Novelli hanno saputo ‘mettersi in ascolto’, intercettare il ‘sentire’ della compagnia, proprio al pari di quanto è nella natura e nello spirito del Mulino di Amleto, il cui tratto distintivo risiede – come dichiarato nella Premessa del libro – in «(…) una capacità di ascolto: della realtà, dell’essere umano, che sia esso autore, personaggio, attore, regista o spettatore» (p. 9). Dunque, «un ascolto nell’ascolto» che, tappa dopo tappa, capitolo dopo capitolo, conduce il lettore/la lettrice ad enucleare i differenti centri propulsori del fare teatro.

L’incontro con il testo e l’analisi, il training con gli attori, la costruzione della scena e, infine, l’incontro con il pubblico: fasi di studio e lavoro che raccontano di una pratica vitale, affatto rigida o sterile, bensì aperta e sempre in ascolto.

(Ibidem)

Quello per il testo è, prima di tutto, un innamoramento. Una folgorante fascinazione impossibile da lasciar andare e alla quale si rimane aggrappati a causa di una sorta di straordinaria bellezza che incanta e che richiede con urgenza di essere messa in scena.
A tale proposito, colpisce il racconto dell’incontro con Tous des Oiseaux dello scrittore e regista libanese, direttore artistico del Théâtre National de la Colline di Parigi, Wajdi Mouawad. Tra le righe è palpabile l’emozione di Marco Lorenzi e Barbara Mazzi di fronte alla prima scena dell’opera: l’incontro tra Eitan e Wahida in una biblioteca di New York, dove la ragazza è impegnata nella stesura della sua tesi. Rappresentata in prima nazionale nel 2023 al Teatro Astra di Torino, l’opera (che è valso al Mulino il Premio Ubu 2024 per Nuovo testo straniero messo in scena da una compagnia italiana) suggella e riconferma la necessità del Mulino di dialogare costantemente con il presente. La storia d’amore tra il giovane ebreo e la giovane araba-statunitense non può non riportarci a un oggi corroso da un odio atavico e ingiustizie mai risolte che stanno portando al massacro di massa del popolo palestinese.

Passando per i classici, da Shakespeare a Goldoni, da Molière a Hugo, da Brecht a Feydeau, da Čechov a Ovidio, fino a Pasolini e al cinema di Vinterberg si arriva a Tous des Oiseaux (Come gli uccelli). È in tali continui ‘attraversamenti’ di generi e di linguaggi differenti che le due autrici definiscono «poligama» la «sensibilità drammaturgica» della compagnia, per la quale «la distanza temporale», sottolineano, non è «un limite bensì un fecondo punto di osservazione drammaturgica (…) per garantire un affondo consapevole nella sensibilità odierna» (p.15).

Il punto di forza del volume consiste, a nostro avviso, in un’indagine critico-analitica che procede per macro-temi. Dopo aver affrontato con puntualità «La scelta del testo», la ricerca nei successivi capitoli si focalizza su: «Il lavoro sul testo», «L’attore», «Il dispositivo scenico» e «Il pubblico». Macro-temi che, tuttavia, si fondono tra loro, fino a costituire una sorta di ‘mappa concettuale’ che permette a chi legge di mettere in relazione le differenti ‘diramazioni’ teorizzate, consentendogli di elaborare una propria ‘mappa’ diacronica.

Così la «sensibilità drammaturgica», sottesa alla scelta del testo, si fa lettura scrupolosa dello stesso, approfondimento della poetica dell’autore contaminata da ‘sguardi altri’ attinti dal cinema alla musica, dalla letteratura alle arti figurative, dalla cultura classica alla cultura pop. Uno ‘sguardo allargato’, dunque, vivificato dalle sollecitazioni e dalle suggestioni dei tanti materiali esplorati in quel lavorio che accompagna la fase di creazione drammaturgico-registica e attoriale. Si tratta di un processo collettivo, pur nel rispetto dell’ambito artistico di ciascun componente della compagnia, che dallo scambio reciproco approda progressivamente alla composizione della messa in scena, la quale – come fanno notare le due autrici – porterà con sé inevitabilmente l’incanto di un’immagine, un oggetto, un’azione, anche se poi tali materiali non saranno necessariamente ‘dentro’ lo spettacolo (per approfondire il lavoro condotto dal Mulino su Come gli uccelliPlatonov. Un modo come un altro per dire che la felicità è altrove Festen. Il gioco della verità rimandiamo alle pagine 26-36 del volume).

Se è la «sensibilità drammaturgica» a guidare la scelta del testo, è «l’umanità» il centro distintivo dell’attore. Un’umanità che è per l’interprete la «(…) possibilità di ‘essere’, nel presente della rappresentazione, ciò che dice e ciò che fa poiché di ciò che dice e di ciò che fa ha compreso e assunto tutte le sfaccettature e le possibili implicazioni» (p. 51). L’attore esprime sulla scena ciò che è: prima di tutto un essere umano che si fa tramite – con il suo pensiero, i suoi sentimenti, il suo corpo – del presente. Il presente della messinscena, per mezzo di un training quotidiano complesso (esercizi a corpo libero, giochi, improvvisazioni) il cui obiettivo, per citare rispettivamente due maestri fondatori del Teatro del Novecento (Peter Brook e Eugenio Barba), è quello di «rendere visibile l’invisibile» con un costante processo di sottrazione e con un allenamento che permetta di sperimentare una dimensione ‘extra-ordinaria’.
La memoria fisica conduce alla vita spirituale e il delicato compito del «direttore di attori» (così si fa chiamare Marco Lorenzi, piuttosto che «regista di spettacoli») è di disegnare, in maniera collettiva con l’intero ensemble, traiettorie che toccano le intime verità del testo, dei personaggi, degli attori e dell’impianto scenico.

Anche lo spazio teatrale nelle opere del Mulino riflette la natura più profonda del lavoro collettivo: si tratta di una creazione fatta «tutti insieme» senza alcuna «sudditanza», afferma Eleonora Diana, scenografa e videoartista che ha curato il visual concept di diverse produzioni del Mulino (p. 55).
Lo spazio (è ancora Peter Brook una delle principali fonti d’ispirazione) assume la valenza di spazio ‘vuoto’ e di spazio come ‘strumento’ ovvero di un luogo vitale dove sprigionare le potenzialità dell’energia espressiva e dove sperimentare, proprio a partire dallo spazio, le linee estetiche e poetiche delle opere rappresentate.
Ilena Ambrosio e Laura Novelli ci guidano, con un’analisi minuziosa, ad entrare nelle differenti modalità di utilizzo del dispositivo scenico: nelle prove di «spazio vuoto», in quelle di «spazio pieno» (si veda a tale proposito la parte dedicata a Kollaps/Collasso del drammaturgo contemporaneo tedesco Philipp Löhle, pp. 60-61) fino ai «nuovi approdi»: Come devi immaginarmi dedicato a Pier Paolo Pasolini e Come gli uccelli (pp. 61-64).

L’ultimo capitolo è dedicato al pubblico.
Il Teatro è incontro.
Il Mulino concepisce «(…) una visione dello spettatore fluida, non rigida né precostituita o precostituibile,» – scrivono le autrici – «che non lo ingabbia in una mera passività fruitiva; anche quando non direttamente chiamato in causa, egli costituisce comunque una delle componenti fondamentali del meccanismo drammaturgico e scenico» (p. 72).
Il Teatro, aggiungiamo, è l’incontro con l’altro. È relazione. È uno scambio vivo. E il Mulino ha scelto di tendere la mano all’umano con una ricerca votata a coinvolgere le identità, le differenze, a sentirsi ciascuno parte di un tutto. Un po’ come l’Uccello anfibio protagonista dell’opera di Wajdi Mouawad che, quando sembra non avere più speranze di vita, esclama: «Sono io! Sono uno di voi!».

Un messaggio civile e politico mai più attuale di oggi. Mentre terminiamo queste righe, il Mondo rischia di sprofondare nel caos. Basterebbe ripetersi «Sono io! Sono uno di voi!» per mettere fine a ogni guerra.

Il volume è completato da un ricco apparato iconografico; dagli scritti delle due anime fondatrici del Mulino, Marco Lorenzi e Barbara Mazzi; dalle voci della compagnia; dalle testimonianze di alcuni critici; da una dettagliata Teatrografia e una minuziosa Bibliografia.

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Lina prosa
20 Giugno 2025

Un’isola fra mito e futuro. Il testo di Lina Prosa commissionato da Corrao

Marta Occhipinti, «la Repubblica»

Tempo e silenzio sono trascorsi in quattordici anni. E in mezzo un testo teatrale rimasto nel cassetto, che fermò il suo orologio nell’estate del 2011. «Gentile e preziosa, amica, è mio desiderio riaffermare la peculiare identità siciliana, la sua molteplicità di spirito e di cultura, la stratificazione storica e poetica delle civiltà universali, la memoria ma anche l’oblio». A scrivere una lettera datata 21 aprile 2011 è l’ideatore di Gibellina Nuova, Ludovico Corrao. Il destinatario è la drammaturga Lina Prosa, che più avanti nell’epistola viene incaricata, per conto della Fondazione Orestiadi, di elaborare un testo drammaturgico che sarebbe stato rappresentato nell’edizione 2012 delle Orestiadi di Gibellina.

«Solo la scrittura poetica di Lina Prosa può tradurre la necessità della Sicilia di una sincera analisi e confessione rigenerante, progettare nuovi orizzonti per contribuire al processo di affermazione di antichi e nuovi valori nel dialogo con tutte le altre culture», aggiungeva l’ex senatore.

Il sogno di Corrao, interrotto nell’agosto del 2011 dal suo assassinio, era quello di un teatro del Mediterraneo, di un teatro che interrogando se stesso, prendendo in prestito sostrati di memorie mitiche e di vita vissuta, provasse a immaginare visioni future. E quel testo, sul quale Lina Prosa aveva iniziato a lavorare sin da subito fu interrotto proprio nell’attesa della consegna finale. L’incontro tra Prosa e Corrao iniziò nel 2008, quando andò in scena a Gibellina la versione francese di Lampedusa beach.
Una lettera, tre anni dopo quella rappresentazione, creò fra loro un ponte, dando licenza a una vicenda drammaturgica che si è risolta solo dopo quattordici anni, portando alla luce il testo commissionato da Corrao, pubblicato oggi da Cue Press, casa editrice digitale emiliana interamente dedicata alle arti dello spettacolo.

S’intitola Futuro poetico siciliano, ma a specificarne gli intenti è il sottotitolo: «Materiali vivi per un testo a venire», scelta che rivela una scrittura inconclusa «a supporto di una mia scelta di considerarlo terreno sperimentale in cui inglobare poeticamente il tempo trascorso tra la morte di Corrao e il mio presente. Ho ripreso in mano la scrittura dopo quattordici anni – racconta Prosa – perché le parole non vanno mai abbandonate soprattutto se si trovano in grammatiche sismiche come quelle della vita di Corrao».

Il mito del volo di Icaro, la Sicilia come fossa di figure mitiche che cadono nel suo mare cimitero di morte. E ancora, la ricerca di un linguaggio nuovo, che evoca figure letterarie siciliane, da «rosa fresca aulentissima» allo ’Ntoni dei Malavoglia, da Tancredi a don Fabrizio che si agitano come burattini in un’Isola dove «cambia tutto per non cambiare nulla».

Nel testo appaiono inquietanti luoghi isolani, a tratti bufaliniani, dove la Sicilia in cerca di un presente-futuro possibile si culla in un incanto. Ed è in quell’incanto la chiave del testo. «L’incanto non è magia, ma fermo-immagine, perché l’attività dell’isola si riduce al bisogno di chi la abita di vedere come si era all’ultimo minuto in cui la cosa accadde», scrive Prosa.
Protagonisti del testo sono gli ultimi abitanti di una polis rivoltata dai millenni in una terra archeologica, pista di caduta di tanti Icaro, dove in un immaginario suggestivo, un deserto di sale che cinge il mare e non lascia partire più nessuno. Prosa immagina che siano quei reperti a raccontare la loro storia tragica, mentre si dipanano in una scena, ancora solo scritta, divisa in zona bassa, la fossa di Icaro, e zona alta, occupata da una montagna di rovine accumulate a caso. Tuccio, il pescatore, Cosma, l’angelo nero, la matriarca Maria e la ribelle Tina popolano l’isola, cimitero bagnato, di Lina Prosa.

Le figure di Futuro possibile siciliano costruiscono una geografia del pensiero siciliano, quello cui Corrao reputava allora necessario dare voce, e che oggi Lina Prosa cala nel contemporaneo confuso, bellico, in cui si fa spazio il sogno del teatro, sbucato fuori come il sandalo di Empedocle dal cratere dell’Etna: ciò che resta dalla miscela magmatica dove si è disciolta la volgarità di una terra desertica, dove però un futuro poetico è possibile.

Samuel beckett
22 Maggio 2025

Aspettando Godot, dai Quaderni di regia e testi riveduti di Samuel Beckett

Adele Porzia, «ClussiCult.it»

Nel 1953 venne per la prima volta portato in scena Aspettando Godot, un’opera cui Samuel Beckett si era dedicato tra il 1948 e il 1949 e che avrebbe garantito la fama del suo ideatore e sancito la sua appartenenza al Teatro dell’assurdo. Inizialmente, non è stato lo stesso scrittore ad occuparsi della messa in scena dell’opera, sebbene sia stato sempre coinvolto nel suo allestimento. Per esempio, nel 1952 assistette alle prove dello spettacolo, sotto la regia di Roger Blin, per poi affiancarlo nel 1961.

Aiutò gli anni successivi registi come Anthony Page, nella produzione londinese al Royal Court, oppure Deryk Mendel che dirigeva la compagnia dello Schiller Theater. Per anni ha avuto a che fare con gli attori che avrebbero interpretato Vladimir ed Estragon, finché non gli fu offerto di dirigere lui stesso Waiting for Godot presso lo Schiller Theater di Berlino nel 1975.

Non era la sua prima volta alla regia, perché aveva diretto altri suoi testi come Finale di partita (1967), L’ultimo nastro di Krapp (1969) e Giorni felici (1971). Ma è la prima volta che dirige proprio Aspettando Godot.È un momento importante per comprendere la crescita di Beckett sia come regista, sia soprattutto come autore di teatro. Il suo quaderno di regia, pubblicato dalla Cuepress, è un’occasione per il lettore e per lo studioso di Beckett di comprendere il grande lavoro di revisione, rimaneggiamento e analisi che lo scrittore, nonché regista, ha operato sul testo.

Il quaderno riporta sulla destra le battute dei personaggi e sulla sinistra i calcoli, i movimenti scenici, le didascalie di Beckett e permette di comprendere il grado di studio e di ricerca dello scrittore, nonché tutti i significati metaforici e storici che l’autore intendeva dare all’opera. Grazie a questo quaderno, quindi, possiamo colmare (per quanto possibile) anche una serie di dubbi su alcuni dei significati di questa misteriosa opera. Innanzitutto, si ha la conferma della forte impronta cristologica dei due personaggi che, come i due ladroni del Vangelo di Luca, sono chiamati ad attendere Cristo e a interrogarsi sulla sua natura divina e sul significato stesso della vita.

All’interno di una strada di campagna, ambientazione della tragicommedia, i due vagabondi protagonisti, simbolo l’uno della terra e l’altro dell’aria o del cielo, sono condannati ad attendere qualcosa che non accade, l’avvento di qualcuno che non si presenterà mai in scena. E queste due figure esistono in virtù di tale eterna attesa. L’albero, presente in scena, è il simbolo proprio di una croce, intorno alla quale sono disposte le due figure, proprio come quelle dei ladroni.

E qui, nell’attesa di qualcuno che non arriva, nella consapevole mancanza di senso della vita, i due vagabondi assistono all’arrivo di Pozzo, un laido figuro, che giunge in scena con Lucky, una sorta di schiavo che tiene legato a sé da una corda. I due giungeranno sia nel primo che nel secondo atto, facendo percepire al pubblico da quanto Vladimir ed Estragon stiano attendendo Godot. E, infatti, nel secondo atto Pozzo sarà cieco e Lucky muto, segno del potere distruttivo del tempo.

Pozzo urlerà contro i due, irritato dalle loro continue domande su come e perché siano diventati l’uno muto e l’altro cieco, ma soprattutto sul quando, visto che credono di aver incontrato i due solo il giorno prima:

Ma la volete finire con le vostre storie di tempo? È grottesco! Quando! Quando! Un giorno, non vi basta, un giorno come tutti gli altri, è diventato muto, un giorno io sono diventato cieco, un giorno diventeremo sordi, un giorno siamo nati, un giorno moriremo, lo stesso giorno, lo stesso istante, non vi basta? (Calmandosi) Partoriscono a cavallo di una tomba, il giorno splende un istante, e poi è di nuovo la notte.

Samuel Beckett, Teatro, Einaudi, Torino 2014, p.91

La vita è, proprio come in Pedro Calderón de la Barca, un sogno, un’attesa ostinata di qualcosa che pian piano consuma chi attende. Beckett mette su un triangolo, ai cui vertici troviamo l’attesa, il silenzio e la mutilazione. I personaggi vivono e perciò seguono l’andamento di questo triangolo, per poi spegnersi del tutto, consumare la loro esistenza in un eterno silenzio.

E così, Beckett ricrea la società del tempo, in cui la cultura e la storia europea, che ha provocato la Shoah e la guerra, deve lasciare il passo alla modernità, al capitalismo, allo scontro tra le due nuove super potenze. E in questo scenario, l’essere umano, proprio come Vladimir ed Estragon, non ha alcun potere e può solo attendere la sua fine oppure qualcuno che rivoluzioni tutto, che porti la cessazione della sofferenza, la pace. E che ruolo può avere l’artista in questo tetro scenario? Lo spiega lo stesso Beckett proprio con il suo teatro: adoperare la scrittura per riflettere sul presente, strappare il velo di illusioni che circonda l’uomo e spronarlo a tornare a vivere. Accettare che la condizione umana è caratterizzata dall’assurdo, che è priva di logica e che nessuno può salvarci se non noi, adoperando ciò che abbiamo a disposizione.

Poter visionare e leggere il quaderno di Beckett ci permette di conoscere fino in fondo il suo pensiero e comprendere un’opera che non cessa di affascinare i lettori di ogni tempo. Una lettura che non posso che consigliare e che ha arricchito le mie conoscenze su questo affascinante ed eclettico artista.

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Kenji mizoguchi 2
13 Maggio 2025

L’ombra del ciliegio. Il cinema di Mizoguchi Kenji

Lorenzo Peroni, «ArtsLife»

Con Ozu Yasujiro, Naruse Mikio e Kurosawa Akira, Mizoguchi Kenji è considerato uno dei più importanti autori del cinema giapponese classico, un regista che, con la sua filmografia, ha accompagnato – dagli anni Venti agli anni Cinquanta, passando dal muto al sonoro, dal bianco e nero al colore – il Paese verso la modernità.
Sono i giovani critici cinefili dei «Cahiers du cinéma», negli anni Cinquanta, a capire l’importanza dell’opera di Mizoguchi:

Il suo cinema, infatti, è caratterizzato da uno stile di regia e messa in scena che si affida ai piani sequenza e ai long take, alle immagini distanziate, agli elaborati movimenti di macchina, alle inquadrature in profondità di campo e al complesso intrecciarsi e sovrapporsi di più dati iconicamente significanti. 

– spiega Dario Tomasi nell’introduzione del volume –

Si tratta di soluzioni che vanno tutte in una direzione ben precisa, in quanto evitano le forme consolidate del découpage classico, privilegiano i modi del montaggio interno, invitano lo spettatore a una lettura più attenta e a uno sguardo più critico, attivo e ‘moderno’.

In quegli anni vince tre volte il Leone d’Argento alla Mostra del Cinema di Venezia, nel 1952 con Vita di O-Haru, donna galante, nel 1953 con I racconti della luna pallida d’agosto e nel 1954 con L’intendente Sanshö.
Al centro della sua filmografia le donne, la condizione femminile nella società giapponese è per M​​izoguchi un filo rosso che si dipana attraverso gli anni, in diverse declinazioni: da una parte denuncia la condizione subordinata della donna in una società fortemente patriarcale come quella tradizionale giapponese, dall’altra la idealizza come «un oggetto, sebbene di culto e d’ammirazione». Le protagoniste dei suoi film sono donne divise tra spinte di emancipazione e spirito di sacrificio, dove sogni e aspirazioni soccombono al dovere imposto da rigide regole sociali.

L’ombra del ciliegio si configura come testo fondamentale per tutti gli amanti del cinema orientale (e non solo), il libro ricostruisce nel dettaglio la carriera di M​​izoguchi analizzandone la filmografia, titolo dopo titolo, affrontandone stili, temi e tecniche (i movimenti di macchina, la messa in scena, il montaggio), mettendo così in luce l’attualità e la modernità di film come Elegia di Osaka (1936), La Vendetta dei 47 ronin (1942), La strada della vergogna (1956).

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rafael spregelburd
26 Aprile 2025

«Il palco è magia, rito e catastrofe»

Rafael Spregelburd, «il Fatto Quotidiano»

Pubblichiamo uno stralcio di Sul mio teatro (Cue Press), raccolta di scritti di uno dei più influenti drammaturghi viventi: Rafael Spregelburd.

Delle diverse materie di cui è fatto il teatro, il tempo è senza dubbio una delle più ostinatamente misteriose. Addirittura mi piacerebbe azzardare che il teatro sia un esperimento pseudoscientifico sulla natura del tempo. Non solo è fatto di tempo, un tempo artificiale, ma oltretutto unifica in un tempo la storia sociale con quella individuale, e nel morire e rinascere a ogni replica mette in discussione la dispersione degli accadimenti nell’etere della casualità. Il teatro è una scodella di tempo da cui si beve un brodo primordiale. Da cui, ecco che molte definizioni di conformità teatrale si fanno strada brandendo un qualche concetto tecnico di tempo: ciò che la musica stessa fa con rigore (perché altrimenti non esiste), il teatro lo fa con ironia e imprecisioni. Nonostante ciò, la nostra stessa concezione del tempo, dei suoi utilizzi e addomesticamenti, cambia costantemente e, in quest’era di postumanizzazione e di reset delle condizioni di sfruttamento (ossia, dell’uso del nostro tempo in mani altrui), è probabile che i problemi ci risultino al contempo del tutto sconosciuti e radicalmente eterni…

In Tradimenti , Harold Pinter inaugura un esercizio formidabile. Racconta la storia di un matrimonio che comincia a sfaldarsi quando la moglie inizia a vedersi di nascosto con il migliore amico del marito. Pinter decide di raccontare questa storia ‘banale’ al contrario. La prima scena è quando gli amanti decidono di smettere di vedersi, risultato della noia e dell’entropia che ha usurato quell’amore fugace che li ha portati a eludere tutti i presupposti. Poi vediamo quando affittano un appartamento per potersi vedere senza che il marito sospetti eccetera. E così fino al finale, forse la scena più commovente mai scritta in lingua inglese, la scena in cui l’amico del marito, ubriaco il giorno stesso del suo matrimonio, dichiara il suo amore alla donna, senza sapere che abbiamo già visto tutte le tristi conseguenze di quest’atto umano, inesplicabile e palese. Cosa c’è di tanto commovente? L’argomento? L’amore, il matrimonio, il tradimento? No. Gli argomenti sono sempre gli stessi in teatro: la morte, l’amore, la pulsione sessuale. L’aspetto davvero commovente è che percepiamo il tempo come qualcosa di corrotto, capovolto, nuovo. E quando si capovolge il tempo, accade quanto di più affascinante per la mente razionale: la catastrofe. Siamo animali di ragione, per questo ci seduce tanto la catastrofe, diceva Eduardo del Estal. Quando si altera l’ordine degli accadimenti, semplicemente causa ed effetto agiscono in modo avvelenato; la freccia del tempo, la dispersione entropica delle nostre decisioni, sta al contrario, e allora disconosciamo tutto ciò che credevamo di conoscere: l’amore, il matrimonio, il tradimento, la morte del desiderio, ergo: la morte… Nel teatro lottano l’effimero contro l’eterno. L’attore nasce, vive e muore in ogni replica. La respirazione che precede il buio finale è sempre allegoria dell’ultimo respiro, la luce che graffia l’oscurità dell’inizio è analoga al parto e alla nascita. E poi, si ricomincia. Si può nascere e morire migliaia di volte? No. Solo in teatro. Per questo lo continuiamo a fare. È l’unica forma di dominio sul tempo che ci hanno regalato gli dèi prima dell’uscita di scena.

0413 becket
22 Aprile 2025

Condannato alla fama: la vita di Samuel Beckett, saggio di James Knowlson

Adele Porzia, «ClussiCult.it»

Qualche giorno fa, ho terminato di leggere un libro denso come quello di James Knowlson, edito da CuePress, col titolo Condannato alla fama: una vita di Samuel Beckett. Un saggio lungo seicento pagine e di una certa complessità, in grado di far entrare il lettore nella vita di questo geniale drammaturgo, traduttore, poeta, romanziere e finanche cineasta, rivelando quegli aspetti che solitamente non si studiano all’università o che comunque io non avevo mai incontrato nei miei studi.

Questo drammaturgo irlandese, che per l’intera durata della sua vita ha cercato di sperimentare e rappresentare le trasformazioni del suo presente, viene soprattutto ricordato per un nuovo genere teatrale, nonché filosofico, conosciuto con il nome di Teatro dell’assurdo, di cui è uno dei principali esponenti. Non è, naturalmente, il suo solo ideatore e rappresentate di questo nuovo modo di fare teatro, ma spesso viene associato ai due drammaturghi francesi Eugène Ionesco e Arthur Adamov, nonché al britannico Harold Pinter.

Ma che cos’è il teatro dell’assurdo? Innanzitutto, il termine è stato coniato da Martin Esslin nel saggio del 1961, intitolato proprio Teatro dell’assurdo, e tale denominazione indicherebbe una serie di opere teatrali, scritte tra gli anni quaranta e gli anni sessanta, nelle quali viene abbandonato ogni procedimento narrativo e razionale, sino al rifiuto di adottare un linguaggio logico e consequenziale. Questo tipo di teatro, quindi, consiste nel portare in scena dialoghi senza un apparente filo logico, tenuti insieme da un linguaggio atipico.

Le stesse trame non sembrano seguire un criterio logico-razionale, ma sembrano immerse e avvolte da un alone di sogno. Questo sia per poter sfuggire alla censura e al perbenismo imperante in quell’epoca (e che Beckett aveva sperimentato sulla sua pelle) sia per trasmettere un messaggio sulla guerra, sull’epoca corrente, sul potere dominante e sulla condizione umana, senza le trappole della razionalità e della logica. L’esigenza era quella di sfuggire alle regole del tempo, ma anche di creare qualcosa di totalmente diverso, che riflettesse l’atmosfera di quegli anni e la loro apparente mancanza di senso.

Sicuramente, come nota lo stesso James Knowlson nel saggio sulla vita di Beckett, molto della formazione di questo nuovo teatro è dovuto ai numerosi contatti che l’autore ha avuto con gli intellettuali e artisti di Parigi, dove si recava spesso da Roussillon, luogo in cui si era rifugiato dopo la Seconda Guerra Mondiale. Ed è proprio qui che tra il 9 ottobre 1948 e il 29 gennaio del 1949, influenzato dal teatro parigino e dalle sperimentazioni letterarie di Parigi, iniziò la stesura di Aspettando Godotin francese, per poi riprendere la stesura di quella che lo stesso autore definì una tragicommedia in due atti nel 1954, stavolta in inglese.

Per ricostruire tutto questo periodo, James Knowlson, professore emerito presso l’Università di Reading di Londra, ha recuperato i due massicci volumi di lettere che sono state pubblicate dalla Cambridge University Press tra il 2009 e il 2016. Ha usato questo vasto supporto cartaceo per ricostruire eventi della vita privata e dell’opera di Beckett che non era mai stati resi noti dalla critica. Un lavoro certosino, insomma, che ci rivela anche il metodo di questo eclettico artista, sempre presente alle prove fatte a teatro e pronto a dire la sua per quanto riguarda l’allestimento e la messa in scena delle sue opere, finché nel 1975 non si occupò lui stesso della regia tedesca di Aspettando Godot (Warten auf Godot) presso lo Schiller Theater di Berlino e, poi, di altre sue opere teatrali.

Knowlson, inoltre, ha anche curato una serie, pubblicata sempre dalla Cuepress, di Quaderni di regia e testi riveduti di Samuel Beckett, in cui mostra il modo in cui l’artista scriveva le sue opere, metodo che viene ricordato perfino da Francesco Piccolo in un libro edito da Einaudi nel 2024, che si intitola Scrivere è un tic. I metodi degli scrittori, pp. 24-25: «il drammaturgo usava un quaderno di scuola a quadretti e sulla pagina destra scriveva il testo. Sulla pagina sinistra, invece, faceva delle aggiunte, inseriva qualche suo commento, annotava delle cifre e i movimenti scenici degli attori. Segno di come ogni cosa nel modo di fare teatro di Beckett fosse studiata a tavolino».

Scrive Ruby Cohn, a proposito della messa in scena berlinese che:

Non si tratta di una regia in un senso tradizionale, ma di attenzione a chi guarda dove in ogni momento, con la vittoria, passaggio per passaggio, di ciascun attore sull’immobilità, con il disegno generale dei movimenti sul palco, con il contrasto di parole e gesti, con echi visivi, simmetrie e opposizioni.

R. Cohn, Just play: Beckett’s theater, Princeton University Press, Princeton 1973, p.7

Con Condannato alla fama: una vita di Samuel Beckett, James Knowlson ha scritto un saggio ricco e complesso, che può rivelarsi un valido strumento di comprensione e analisi dell’opera di Beckett e che rivela la stretta connessione tra la sua vita, le vicende storiche che ha vissuto e il modo in cui questo straordinario drammaturgo vede e intende l’opera d’arte.

Quando è stato insignito del premio Nobel per la letteratura nel 1969, perché ha raccontato secondo la forma del dramma e del romanzo la condizione dell’uomo moderno, Beckett ha ritenuto che questa sarebbe una catastrofe, la fine della sua tranquillità. Infatti, racconta il professor Knowlson che il drammaturgo si nascose, per sfuggire alle interviste e alle foto dei giornalisti in un albergo a Nabeul. Sarebbe rimasto lì, finché non si fossero calmate le acque. Poi, fu avvistato nella hall dell’albergo qualche giorno più tardi, con un sigaro in bocca e i capelli cortissimi, e la stampa non gli diede tregua.

Era una delle persone più famose dell’epoca e riteneva, timido e geloso com’era della sua privacy, che fosse una condanna, più che una gioia. E, in quella circostanza, aveva sperimentato la forma peggiore di una condizione, quella della fama, di cui aveva già parlato nel suo unico lungometraggio, che si intitola proprio Film e che risale al 1965.

In questo suo lavoro, indagava sull’occhio della telecamera, che insegue il protagonista, interpretato da Buster Keaton, ovunque: in strada e perfino sulle scale di casa e nel suo appartamento, rendendone impossibile la fuga. E quello che voleva rappresentare attraverso l’occhio implacabile della telecamera, che stana ovunque le sue vittime, non era semplicemente il mezzo cinematografico, ma la fama, la gloria e quel desiderio degli altri di possedere chi è oggetto della fama.

A questa condizione Beckett sarà sempre condannato, sia quando sfuggirà alla morte durante la guerra, sia quando otterrà i suoi primi successi come scrittore, al punto che James Knowlon ha ritenuto di dover inserire tale condanna proprio nel titolo di questo straordinario volume, che consiglio agli addetti ai lavori e a chiunque voglia cimentarsi in una lettura complessa su uno dei più grandi drammaturghi del nostro tempo, che ha cambiato il nostro modo di concepire il teatro.

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Teatro ribalta
27 Marzo 2025

I primi dieci anni del Teatro la Ribalta in un libro

Floriana Gavazzi, «RaiNews»

Un libro fresco di stampa raccoglie i primi dieci anni di storia del Teatro la Ribalta – Arte della diversità, che ha fatto di Bolzano un centro di eccellenza per la ricerca teatrale con persone in situazione di disagio psichico.

Ne abbiamo parlato con il fondatore e regista Antonio Viganò. Il primo spettacolo manifesto è stato Impronte dell’anima, sulla follia nazista che pianificò l’eliminazione sistematica delle persone con disabilità. Uno spettacolo che, in una nuova versione, va in scena ancora oggi.

Impronte dell’anima è stato il primo di 17 spettacoli prodotti e messi in scena tra il 2013 e il 2023 dal Teatro la Ribalta – Kunst der Vielfalt in «dieci anni straordinariamente normali», come dice il sottotitolo del libro appena uscito, edito da Cue e curato dal compianto Massimo Bertoldi. Lo storico del teatro dell’Alto Adige morì improvvisamente il 31 agosto 2024, pochi giorni dopo la chiusura del libro.
Oggi la cooperativa sociale di tipo B del Teatro la Ribalta dà lavoro a 16 persone, di cui 11 svantaggiate. La sede T.RAUM, in zona industriale a Bolzano, è diventata troppo piccola.

Con un’ottantina di repliche all’anno, tournée in 9 paesi europei e 4 extraeuropei, diverse coproduzioni e un proprio cartellone teatrale – Corpi eretici – il Teatro la Ribalta si è affermato in Alto Adige come una realtà culturale di grande vitalità e ha ottenuto una serie di prestigiosi premi nazionali. Vogliamo essere parte del teatro e non un teatro a parte, ci ha detto Viganò.

Il libro sui primi dieci anni del Teatro la Ribalta sarà presentato il 9 aprile alle 18 alla libreria Cappelli di Bolzano.

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Michael mann 800x400 jpg
25 Marzo 2025

Cacciatori di Mann

Andrea Pirruccio, «FilmTv»

Il libro MannHunters curato da Alessandro Borri — esaustiva bibbia dedicata a scandagliare l’opera e la personalità di Michael Mann e preziosa fonte di informazioni per questo articolo — riporta una citazione del critico John Wrathall secondo cui «Mann è il miglior regista d’architettura dai tempi di Antonioni». Proviamo a dare credito a questa affermazione prendendo in esame solo uno dei suoi capolavori Manhunter. Che si apre sulle immagini amatoriali di una delle case della suburbia di Atlanta ripresa dal serial killer Dollarhyde (soprannominato ‛dente di fata’ nell’adattamento italiano) mentre ne sta violando gli ambienti.
All’autore bastano pochi secondi per restituire la normalità ‛familiare’ dell’alloggio: i gradini rivestiti di moquette su cui campeggia il peluche di un pinguino (la traccia di un bambino), la stanza dei figli riconoscibile dal caos di indumenti appallottolati su una moquette blu, poi la camera da letto in cui riposa una donna e, sullo sfondo, una porta a vetri che lascia intravedere un giardino.

Dopo i titoli di testa si passa a un’altra abitazione: quella, magnifica, dell’agente Graham e che all’epoca era la villa sull’isola di Captiva, al largo della Florida, in cui viveva l’artista neo-dada Robert Rauschenberg. Al progetto originale Rauschenberg aveva apportato delle modifiche, chiudendo il piano terra e aggiungendo porte scorrevoli vista mare. Questa necessità architettonica di aprirsi verso l’esterno, già resa volutamente visibile (nelle inquadrature manniane nulla è casuale) nella casa profanata dal maniaco, è in Manhunter indizio di equilibrio, tensione verso un ricercato contatto col prossimo.

Definita da volumi di mirabile essenzialità e purezza, la costruzione affacciata sul golfo del Messico è presentata da un movimento all’indietro della macchina da presa: il piano che mostra l’agente e il figlio intenti a costruire un recinto si allarga a includere la villa, dove la moglie del protagonista si gode la vista dal terrazzo del piano superiore, retto da quattro agili pilastri collocati davanti al portico e alle vetrate del livello inferiore.

Poco dopo, una scena straordinaria mostra di spalle le sagome della donna e del collega del marito dall’interno della residenza davanti a un tramonto mozzafiato. Segue un altro momento in cui la coppia, ancora davanti alle vetrate, è immersa in quel blu che tutti gli amanti del regista conoscono bene, e che sembra provenire contemporaneamente dal mare e dal cielo, lasciando pensare che non possa esserci niente di più bello. Sempre nel libro di Borri trovo questa dichiarazione del direttore della fotografia, Dante Spinotti, che a proposito di questa sequenza ricorda: «C’era questa vetrata sull’oceano e cominciai a inserire una serie di gelatine blu e dei neutri molto pesanti. Attraverso le gelatine si vedeva il mare con il sole in controluce e mi venivano in mente quelle scene in effetto notte girate sui piroscafi negli anni Trenta, con la luna che scintilla nel mare. Rauschenberg entrò e disse ‘Ah, ci andate giù pesanti col romanticismo’».

Dopo aver visitato la casa del massacro ripercorrendo i passi di Dollarhyde, Graham sa cosa dovrà affrontare: ha visto la moquette blu nella stanza dei bambini intrisa di rosso, ha visto il bianco della camera da letto macchiato del sangue delle vittime e poi si è guardato allo specchio, sentendosi sopraffatto. Un senso di soffocamento che Mann sottolinea appena dopo, inquadrando il detective nell’hotel in cui alloggia, l’Atlanta Marriott Marquis progettato da John C. Portman e all’epoca appena inaugurato, caratterizzato da un enorme atrio futurista alto 143 metri. Graham è ripreso all’interno del suo ascensore e dal basso, come se fosse schiacciato da una responsabilità a cui avrebbe voluto sottrarsi.

L’inquadratura seguente mostra la capsula inabissarsi fra le mura curvilinee dell’albergo, in uno spazio affascinante e insieme opprimente. Giorni dopo, in cerca d’indizi che possano aiutarlo a catturare ‛dente di fata’, il poliziotto si reca dalla sua nemesi: quel dottor Lecktor (Lecter nel romanzo di partenza e nei film successivi) che lui stesso ha contribuito a rinchiudere in un carcere di massima sicurezza. La sua cella è un incubo bianco: bianchi sono i mattoni alle pareti, le sbarre che lo imprigionano, le lenzuola, la sua tenuta da detenuto. Ma bianco è anche il percorso che accompagna l’agente nella sua corsa verso l’uscita, come lo sono le rampe inquadrate dal regista mentre il suo ‛eroe’ le percorre freneticamente alla ricerca di aria, e che non possono non ricordare quelle del Guggenheim di Lloyd Wright.
Bianco, ancora, è il ponte all’esterno, in cui Graham cerca di riprendere fiato. Mann ribalta di senso quel colore simbolo di purezza, così come fa con quel luogo deputato all’arte e alla cultura che nella finzione diventa la prigione di un killer seriale. Si tratta dell’High Museum of Arty di Atlanta firmato Richard Meier, eletto tra le dieci migliori opere di architettura americana degli anni Ottanta: dodicimila metri quadri di pura ‛bianchezza’ (il candore è la cifra progettuale di Meier), rivestiti di pannelli d’acciaio smaltato e il cui accesso è affidato a una lunga rampa che raccorda indoor e outdoor. Rispetto al Guggenheim, dove le rampe sono anche gallerie espositive, le pareti dell’High Museum presentano finestre atte a illuminare gli ambienti e offrire una vista sulla città. Meier sottolinea il valore della luce parlandone come di «un simbolo del ruolo del museo come luogo di estetica illuminazione e di valori culturali liberi da pregiudizi». Valori che Mann sadicamente capovolge, facendo dell’opera una scatola chiusa attorno a tutto ciò che di maligno esiste al mondo.

Al termine di questo viaggio nel bianco, è curioso notare come sulla scrivania del direttore del penitenziario si stagli una lampada da tavolo Tizio di Richard Sapper, capolavoro di equilibrismo progettuale e meccanico, qui ovviamente in versione total white. Il libro di Borri riporta ancora una dichiarazione in cui Spinotti racconta come tra le fonti di ispirazione per arredare l’appartamento di Dollarhyde ci fosse il lavoro di Raymond Loewy, fortunatissimo industrial designer la cui cifra estetica più riconoscibile è data dalla linea curva e dell’aerodinamicità delle sue creazioni. A Loewy potrebbe far pensare la morbidezza della poltrona visibile nella prima scena ambientata chez ‛dente di fata’, mentre il gigantesco assassino si prende cura del giornalista che ha sequestrato e alle loro spalle si staglia una delle fotografie spaziali di cui abbonda l’abitazione.
A proposito del significato da attribuire alle case (nel cinema di Mann in generale e in Manhunter in particolare) Daniele Dottorini, nel libro di Borri, scrive che «gli spazi domestici possono aprirsi o proiettarsi all’esterno, come la casa di Will Graham […] o chiudersi in loro stesse, come trappole mortali o segno dello squilibrio di chi le abita. Se la casa non apre alla visione, non permette agli spazi di proiettarsi sul mondo esterno, allora questa diventa labirinto, prigione, luogo mentale e a volte contorto, come la casa del serial killer di Manhunter». L’analisi è corretta: contrariamente alla villa di Graham e agli alloggi delle vittime di Dollarhyde, l’appartamento di quest’ultimo non presenta vetrate scorrevoli, ma pareti di mattoni di vetro smerigliato (materiale utilizzato per celare, non certo per mettere in relazione) e una serie di finestre a bilico semichiuse, che sembrano minacciosamente pronte a chiudersi come ghigliottine su chi volesse utilizzarle come vie di fuga.

Non è un caso che Graham, per avere ragione del criminale, si serva di una di quelle finestre schiantandovisi contro e riducendola in frantumi, portando con sé una boccata di ‛esterno’ nella tana del mostro. Quest’ultimo è sconfitto, la sua organizzazione spaziale va a pezzi in parallelo a quella mentale, e Mann lo sottolinea con un uso del montaggio che non ha eguali e che — ultimo prelievo dal volume di Borri — i critici Aaron Aradillas e Matt Zoller Seitz descrivono così: «combinati con improvvisi cambiamenti di velocità e di direzione, gli stacchi disturbanti fanno sembrare che il film si stia disintegrando sotto i nostri occhi, andando a brandelli nel proiettore. Questo film sta avendo un esaurimento nervoso». È quello che succede quando uno spazio da sempre concepito come introiettato e introflesso subisce la brutale irruzione del suo contrario. Però nessuno avrebbe saputo metterlo in scena come Mann.

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Michael mann main
20 Marzo 2025

MannHunters: Michael Mann a 360 voci

«Salotto Monogatari»

In una puntata di Special Monogatari Marco Grifò e Simone Malaspina dialogano con Alessandro Borri curatore di MannHunters: Michael Mann a 360 voci, un volume che racchiude un lavoro pluridecennale di riflessione sul cinema e sulla figura del regista di Chicago.

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