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Approfondimenti, interviste, recensioni e cultura: il meglio dell’editoria e delle arti da leggere, guardare e ascoltare.

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13 Maggio 2022

Firmato Koltès. Drammaturgo maledetto

Angelo Molica Franco, «Il Venerdì di Repubblica»

A circa metà del dramma Roberto Zucco, l’ultimo scritto da Bernard-Marie Koltès (1948-1989) – ispirato alle vicende del serial killer veneziano Roberto Succo – in uno dei monologhi più toccanti della rappresentazione, dopo aver scaraventato il padre giù dalla finestra e strozzato la madre, il protagonista dice: «Io non sono un eroe. Gli eroi sono dei criminali. Non c’è eroe i cui abiti non siano inzuppati di sangue, e il sangue è la sola cosa al mondo che non possa passare inosservata».

Sempre vicino alle esistenze dei déraciné, degli emarginati, degli ultimi, certo non stupisce tale antieroismo da parte del drammaturgo francese che, sebbene in patria sia stato ormai aureolato maestro, fuori dai confini nazionali è sconosciuto al grande pubblico poiché fatica a essere messo in scena vista l’irriducibile letterarietà dei suoi testi. Una certa attenzione da noi se la guadagna dopo che nel 2018 Pierfrancesco Favino recita sul palco di Sanremo un monologo da La notte poco prima delle foreste, un testo tagliente e attuale di Koltès sulla solitudine degli stranieri che nessuno vede perché sono ‘il rumore di fondo’ delle nostre città.

Tuttavia, di Bernard-Marie si sa poco: che è nato a Metz e morto a Parigi, che era un bohémien, un viaggiatore frenetico, un omosessuale, che morì di Aids a soli 41 anni. Soprattutto, che era bellissimo: labbra piene, incarnato niveo, occhi tristi e cesellati. A raccontarci, allora, il carnevale nero che è stata la via dell’autore di capolavori quali Nella solitudine dei campi di cotone e Il ritorno al deserto ci pensa la sua corrispondenza raccolta in Lettere, (Cue Press, a cura di Stefano Casi, traduzione di Giorgia Cerruti). Scopriamo, così, che si è sempre considerato «un povero ragazzino sbrindellato». Solo una certezza lo mandava avanti, l’essere «un teatrante». Agli amanti non si negava mai: «Ogni due giorni ho complicate storie d’amore, e più d’una alla volta» confessa bramoso. Ed è attratto fatalmente da una pasoliniana vita violenta: «Non desidero che una cosa: di correre dei rischi». I corrispondenti fidati sono pochi amici – tra cui l’attrice Maria Casarès e il regista Patrice Chéreau -, nonché la famiglia. Con la madre, presenza «indispensabile» delle missive, Bernard-Marie è ineditamente dolcissimo: si sente «un cucciolo gentile», adombrato da questo gigante di donna «che non si spaventa mai». Come spiega il curatore Casi nella prefazione, proprio a lei a vent’anni rivela di voler vivere «a servizio del teatro», il solo territorio dove rischia di essere felice.

Sprecheremmo del tempo, però, a chiederci chi sia stato davvero Koltès, se il genio maledetto o il figlio devoto, se il teatrante del margine o l’uomo libertino. Persino lui, alla sera della vita, di fronte a una sua foto sfocata si domanda: «Con così tanti riflessi mescolati attraverso lo specchio, cosa resta dell’uomo?». Ma alla fine, rinuncia a rispondere.

Pasolini
6 Maggio 2022

I teatri di Pasolini

Cinzia Colzi, «ArteArti.net»

Il 5 marzo 1922 nasceva a Bologna Pier Paolo Pasolini la cui eclettica produzione di intellettuale e artista viene declinata tra cinema, letteratura, dibattito pubblico e impegno politico. Figura tra le più emblematiche rappresenta, ancora oggi, un punto fermo della cultura italiana e internazionale per la sua capacità di leggere, e anticipare, le trasformazioni della società contemporanea. Un autore originale, sempre di straordinaria attualità e studiato mettendo in risalto ora la produzione poetica, ora la prosa e la saggistica mentre, il suo teatro, viene considerato minore.

In occasione del centesimo anniversario della nascita, crediamo utile segnalare I teatri di Pasolini di Stefano Casi – edito nel 2019 con Cue con una presentazione di Luca Ronconi – volto a sradicare tale interpretazione focalizzando proprio sulla centralità del teatro nel pensiero e nell’opera pasoliniana.

Partendo dall’adolescenza in Friuli vissuta alla ricerca di una drammaturgia sperimentale e di una lingua nuova che la potesse reggere, al di là della meticolosa analisi degli scritti, anche giovanili, destinati alle scene e a un riesame minuzioso degli allestimenti, il volume evidenzia, attraverso una fitta serie di carteggi, appunti, note a margine e documenti autografi spesso inediti, l’autentica vocazione teatrale rovesciando un troppo semplicistico luogo comune della critica.

I teatri di Pasolini si divide in cinque parti: Teatri della formazione (Bologna, 1938-43), Teatro della polis, Teatro dell’io (Casarsa, 1943-49), Teatri capitali (Roma, 1950-65), Un nuovo teatro: le tragedie (1965-66), Un nuovo teatro: la teoria e la pratica (1966-69), Teatri dell’esistenza (1970-75) a cui seguono due sezioni su Pasolini in scena e sulla Teatrografia pasoliniana.

Stefano Casi integra – con chiarimenti formali, concettuali e aggiornamenti sulle messinscene italiane delle opere di Pasolini (fino al gennaio 2019) – l’omonimo volume del 2005, che a sua volta aveva portato a compimento uno studio del 1990 contenuto in Pasolini un’idea di teatro.

Già dal primo capitolo, l’autore accompagna alla scoperta di come la fascinazione del teatro in Pasolini risalga all’infanzia e, per lasciare al lettore il piacere della scoperta individuale, solo due annotazioni.

Nel suo teatro individuerà l’incontro fra la parola dell’autore, la parola interpretata dall’attore e l’ascolto dello spettatore, esperienze tra le più originali della scena europea del Novecento in quanto percepisce nettamente la necessità di una recitazione intesa come il mezzo con cui la parola si stacca dalla pagina per arrivare a chi assiste per mezzo della voce, e del corpo, di chi sta sul palco. Per Pasolini non esiste la folgorazione derivante dell’azione scenica, per lui il teatro esiste nello spazio dove autore, attore e spettatore ribadiscono le loro identità attraverso il confronto diretto.

Altro aspetto è la nascita della tragedia borghese proprio attraverso il recupero del concetto di tragicità perduto nella drammaturgia del Novecento bloccata dal vuoto, il non sviluppo narrativo. Il tragico recupera allora la lezione del teatro del grottesco, nel quale l’uomo non trova rimedio in quanto la pena, non avendo conforto al dolore, ride come un pagliaccio e si dilania l’anima e urla. Da qui il suicidio per mancanza di consolazione a un dolore che è la consapevolezza di non aver vissuto la propria vita.

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30 Aprile 2022

Vita, amori e miracoli di un mattatore narrati da lui stesso

Massimo Bertoldi, «Centro di Cultura dell'Alto Adige»

Rileggere oggi Un grande avvenire dietro le spalle di Vittorio Gassman, opportunamente rieditato da Cue Press, non trasmette il sapore della banale riesumazione magari pensando alla ricorrenza del centenario della nascita del grande attore; permette piuttosto di (ri)scoprire anche la vena letteraria del suo sorprendente autore che diventa «freddo e rigoroso cronachista dei fatti andati», attivando una sorta di sottile sfida tra sé e il lettore al quale suggerisce la giusta chiave di lettura: «la verità va cercata nel non detto».

Gassman pubblicò il libro nel 1981 presso Longanesi, in un periodo infelice segnato dalla depressione con la quale conviverà per gli ultimi venti anni della sua vita. Alla scrittura – applicata anche alla stesura di poesie, un romanzo e articoli vari – diede un valore e una funzione quasi terapeutica, tanto che dichiarò: «Scrivere questo libro mi ha se non altro aiutato a guarire».

Tra le pieghe del testo si riconosce un impianto narrativo costruito sui perni ormeggianti una sceneggiatura cinematografica incentrata sulle imprese di un grande mattatore che, mescolando la finzione e la realtà, alzano il sipario, attraverso i continui flashback, su un mondo in cui si annodano storie di tradimenti e grandi amori – come i matrimoni improvvisi con Nora Ricci, Shelley Winters, Diletta D’Andrea – e all’epoca materia di rotocalchi popolari, con luminosi frammenti della carriera di attore teatrale e cinematografico.

Divisa in capitoli dai titoli spiritosi e accattivanti, questa sorta di confessione autobiografica segue un taglio cronologico. Si inizia con il ricordo degli anni vissuti da bambino a Genova e dei periodi calabresi e romani segnati dalla morte del padre; si prosegue con i primi innamoramenti, la rocambolesca parentesi militare con uno sguardo a Roma nei giorni della Liberazione, i trionfi come cestista (Gassman ha giocato nella nazionale di basket). E poi si arriva al teatro, prima con l’iscrizione all’Accademia Nazionale di Arte Drammatica di Roma, poi con i debutti al fianco di attori carismatici quali Lyda Borelli e la compagnia Adani-Calindri.

A queste esperienze fondamentali a livello artistico, pur condizionate da difficoltà economiche che costrinsero il giovane e intraprendete attore ad alloggiare in squallide e malfamate pensioni, seguono i clamorosi successi, tra cui l’indimenticabile Amleto del 1952 al fianco di Elena Zareschi e Anna Proclemer e, in successione, le grandi interpretazioni degli anni Sessanta e Settanta in parallelo all’intensificarsi del rapporto, pur controverso, con il cinema lavorando, tra i tanti, con De Sica, Risi, Monicelli, Scola.

Si incontrano poi episodi assai significativi per meglio inquadrare i progetti artistici cullati da Gassman. Indicativo in merito è il Teatro Tenda concepito nel 1960 di cui l’attore-scrittore racconta il complicatissimo montaggio del tendone per tre volte scoperchiato da impetuosi temporali che continuavano a rinviare il debutto con Adelchi di Manzoni capace di coinvolgere in scena trenta attori e decine di comparse, nonché sei cavalli veri.

Così la miniera di informazioni quale è Un grande avvenire dietro le spalle, in cui sottotitolo è verosimilmente emblematico (Vita, amori e miracoli di un mattatore narrati da lui stesso) diventa anche un prezioso e luminoso serbatoio di traiettorie culturali che disegnano significativi segmenti di storia del coevo teatro italiano, con le sue luci e ombre, cui Gassman ha dato un consistente contributo per la sua crescita.

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Volonte
27 Aprile 2022

Il progetto esistenziale di Gian Maria Volonté, tra arte e impegno

Giuseppe Costigliola, «Globalist»

Nel panorama del cinema italiano non sono numerosi gli attori che hanno interpretato il proprio ruolo sotto il segno di un impegno politico e sociale fattivo, fondendo professionalità assoluta ed etica, la persona pubblica a quella privata. Tra essi, per qualità e ampiezza di risultati, incisività e impronta nell’immaginario collettivo, spicca senz’altro Gian Maria Volonté.

Al grande artista milanese, alla poliedricità della sua opera e agli insegnamenti che ha lasciato è dedicato un imperdibile volume, Gian Maria Volonté: lo sguardo ribelle, curato dai critici cinematografici Franco Montini e Piero Spila, pubblicato da Cue Press, un piccolo ma agguerrito editore lodevolmente impegnato nel recupero della preziosa tradizione culturale e artistica italiana. Apparso nel 2004, in occasione del decennale della morte, lo si riaccoglie con grande interesse, poiché anche in prospettiva conserva per intero la sua rilevanza critica e informativa.

La qualità dei contributi raccolti è notevole, una ricchezza anche dovuta ai diversi mezzi comunicativi impiegati: l’oralità dell’intervista, la naturalezza del ricordo, l’andamento meditato e analitico del saggio critico. Nella prefazione Walter Veltroni sottolinea l’imprescindibilità della memoria, e nella lucida e densa introduzione i curatori sottolineano l’importanza della riflessione sull’originalità interpretativa di Volonté, sulla sua capacità di incidere nel tempo in cui visse ed agì. Fu un artista per il quale «essere uomo o attore non ha mai fatto alcuna differenza», che non sceglieva le parti per «calcolo o interesse professionale», sempre in prima linea nelle battaglie sociali e politiche intraprese con indomita passione, che viveva il proprio ruolo come «portatore di cultura», sposando mirabilmente virtuosismo tecnico e abilità istrioniche col fervore civile: un’esperienza che ha molto da insegnarci, soprattutto in un tempo in cui tali attitudini si sono alquanto rarefatte.

Non a caso, il titolo del libro allude significativamente a due azioni – guardare e ribellarsi – che rappresentano «la prima, la base stessa del cinema» (e del teatro, si potrebbe aggiungere), «la seconda, una scelta dichiaratamente politica». Legate insieme, spiegano i curatori, tali azioni sono in grado di definire, ma anche di aprire ad ulteriori sviluppi, il senso della vita e della carriera di un uomo «che non si è mai accontentato di guardare passivamente la realtà», un attore mai pago della superficie delle cose e delle verità precostituite, ma che «nei caratteri e nelle fisiologie», è stato capace di «approfondire i sentimenti anche più segreti, insistere a cercare verità anche quando sembrava inutile o non opportuno». Un artista, insomma, che ha coniugato il proprio mestiere con la denuncia di mali sociali e ingiustizie, ipocrite regole, equilibri imposti con la forza, che ha portato avanti con caparbia convinzione un lavoro denso di impegno civile mettendo in scena un’impressionante galleria di personaggi, diversissimi tra loro ma caratterizzati da uno sguardo problematico e mai consolatorio, sempre inchiodati al contesto delle proprie responsabilità. Dunque, una sorta di «altro italiano» rispetto alla galleria dei film di Alberto Sordi, con «un’inedita consapevolezza di intendere il mestiere dell’attore» e una mirabile capacità di contribuire al processo creativo.

Il volume si apre con una sezione dedicata ai ricordi di artisti che hanno lavorato con lui, tra cui Gianni Amelio, Carlo Lizzani, Giuliano Montaldo, Ugo Pirro, Francesco Rosi, i fratelli Taviani. Seguono tre parti dedicate agli approfondimenti critici, divise per le forme d’arte praticate da Volonté – cinema, teatro, televisione – con scritti di consolidati critici quali Maurizio Grande, Alberto Crespi, Mauro Sesti, Morando Morandini ed altri, di figure come Angelo Guglielmi e artisti come Giorgio Albertazzi, che nell’insieme compongono un pregevole quadro analitico, gravido di spunti di riflessione. Una sezione illumina fondamentali aspetti del vissuto privato (tra i contributi, c’è quello della figlia Giovanna Gravina), un’altra ricostruisce la biografia, con una concisa ma esaustiva panoramica delle attività e della sfera privata di uno dei più grandi attori italiani di sempre. Non poco suggestiva è la parte dedicata ai personaggi memorabili da lui creati e incarnati, con le battute e le scene madri dei film in cui compaiono, e di particolare interesse è quella che ne raccoglie interviste e interventi. Il libro è inoltre corredato di una filmografia, una teatrografia, l’elenco delle apparizioni in tv, nonché di una bibliografia essenziale. Si segnala infine l’apparato iconografico, con numerose e suggestive fotografie scattate sui set.

Ricordare Gian Maria Volonté a quasi trent’anni dalla scomparsa, tramandarne la vivida e feconda testimonianza nel rispetto del suo progetto esistenziale, stimolare riflessioni e approfondimenti non è una semplice operazione culturale. Nel rivitalizzarne la vita e il percorso artistico, lo spirito di ribellione, la pervicace resistenza all’omologazione, l’avvertita esigenza di porsi fuori dal coro, l’inesausta ricerca di una verità sempre rimossa, si stimola la curiosità delle nuove generazioni di critici e di artisti, si indica loro una via poco battuta: è dunque anche un modo di intervenire civicamente sulla realtà contemporanea.

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27 Aprile 2022

Vittorio Gassman, il mattatore di casa nel nostro teatro greco

Andrea Bisicchia, «Libertà Sicilia»

Le biografie e le autobiografie di attrici e di attori hanno permesso agli storici del teatro di ricostruire la nascita dei loro spettacoli, il momento storico in cui sono stati realizzati, e le difficoltà economiche, le ansie dei capocomici e dei produttori, i successi e gli insuccessi. All’interno si trovano memorie, segreti, manie, bugie, autoreferenzialità, pagine poetiche, allarmismi, depressioni, insomma tutto quello che fa parte della vita di un uomo e di un artista.

L’editore Cue Press ha pubblicato Un grande avvenire dietro le spalle, con prefazione di Emanuele Trevi, nel centenario della nascita di Vittorio Gassman, mentre a Roma, in aprile, verrà organizzata una grande mostra a lui dedicata.

La prima edizione del volume risale al 1981, edita da Longanesi. Lo stesso pubblicherà, successivamente, Bugie sincere, ovvero il copione dello spettacolo su Edmond Kean, messo in scena da Gassman nel 1955, diventato un terreno di battaglia in edizioni successive e, persino, in televisione, a cui, in Un grande avvenire dietro le spalle, sono dedicate molte pagine, ricordando gli eccessi, le passioni, le sbruffonate, gli scatti d’ira, le menzogne, ma anche le verità dell’attore «divino», molto simile a lui.

Definire il genere in cui collocare Un grande avvenire dietro le spalle non è semplice, essendo un misto di confessioni, di aneddoti, di relazioni, di analisi dei propri spettacoli, di amicizie, di ansie, di indagini sulla figura dell’attore. Gassman lo scrive in un periodo non molto felice che coincide con l’inizio della depressione che accompagnerà gli ultimi vent’anni della sua vita, durante i quali non ha smesso di scrivere poesie, un romanzo, articoli, dimostrando una vera e propria attitudine per la scrittura.

Egli era solito dire: «Quando uno scrittore muore, la sua opera resta, ma se è un attore che muore si apre un buco irrimediabile». Potrebbe essere questo un motivo per spiegare la volontà di raccogliere, in volumi, la sua storia. La struttura del libro non è dissimile da quella di una sceneggiatura cinematografica, trattandosi della vita di un mattatore, ma anche dei suoi tanti amori e tradimenti, si potrebbe ricavarne un film con l’uso del flashback, perché scritto senza un preciso ordine cronologico, bensì logico, anche quando utilizza i voli pindarici.

La biografia di un grande attore la si può anche leggere come un romanzo d’avventura, con tutti gli avvenimenti e gli eccessi che la caratterizzano.

Il volume inizia con la nascita a Genova, con l’infanzia errabonda per seguire l’attività del padre ingegnere, gli anni dell’Accademia, i debutti con la Borelli, con l’Adani-Calindri, insieme a Carraro, le difficoltà economiche degli inizi, quando doveva accontentarsi di squallide pensioni, i primi successi da protagonista, in particolare con Amleto, gli amori sempre difficili, i matrimoni improvvisi, come quelli con Nora Ricci, Shelly Winters, Juliette Mayniel, Diletta D’Andrea, i tradimenti con belle donne poco conosciute, i sette anni con Annamaria Ferrero, la cotta per Annette Stroyberg, moglie di Vadim.

Molte di queste storie sono ben note, essendo diventate pagine di rotocalchi; meno note sono quelle che riguardano alcuni spettacoli, oltre che i difficili rapporti con i critici, specie con coloro che gli rimproveravano certi eccessi nella recitazione. A tale proposito veniamo a conoscenza di un episodio che riguarda il Prometeo, realizzato al Teatro Greco di Siracusa, che interpretò «su misura per i critici», ovvero con una recitazione limpida, lenta, poco effettistica o declamatoria, solo che, per raggiungere un simile risultato, escogitò di recitare senza imparare la parte, ma ripetendo le battute del suggeritore che si trovava dietro le sue spalle, grazie a una scenografia costruita appositamente.

Sempre a Siracusa nacque una polemica con Nicola Chiaromonte, in occasione dell’Edipo Re, perché il critico lo aveva accusato di aver soppresso il primo monologo della tragedia, cosa non vera, visto che Chiaramonte fece le sue scuse.

Ancora a Siracusa va registrato lo scandalo dell’Orestiade, per la traduzione di Pasolini che vide scagliarsi contro tutti gli antichisti filologi che sottolineavano le «libertà» che il traduttore si era concesse.

Altre pagine, importantissime, sono quelle che ricostruiscono l’avventura del Teatro Tenda (1960), di cui vengono raccontati episodi inediti, sulla messinscena dell’Adelchi del Manzoni, come la difficilissima costruzione del tendone, ben tre volte scoperchiato, a causa dei temporali, in attesa del debutto che vedeva in scena trenta attori, altrettanti tecnici, duecento costumi, decine di comparse, sei cavalli veri. Uno spettacolo rimasto nella nostra memoria, visto da trecentocinquantamila spettatori, di cui centoventimila solo a Milano. Seguiranno Otello, con Salvo Randone, «la più bella voce di teatro che abbia mai sentito», O Cesare o nessuno, altra autobiografia e, ancora, i riferimenti agli oltre cento film da lui interpretati. Una lettura davvero affascinante.

Koltes
26 Aprile 2022

Bernard-Marie Koltès, Lettere

Gianni Poli, «Drammaturgia.it»

La raccolta delle Lettres, uscita nel 2009, forniva una fonte autobiografica su molti aspetti sconosciuti di Bernard-Marie Koltès, autore di Le nuit juste avant les forêts, Combat de nègre et de chiens e Roberto Zucco. La traduzione permette ora anche al lettore italiano di scoprire certi caratteri più intimi e segreti del drammaturgo, a confronto con l’opera teatrale. Nella Premessa, il fratello François Koltès garantisce che «non c’è biografia più giusta di quella che possiamo leggere in questo libro. Ciò che Bernard-Marie ha scritto è chiaro e sufficiente. Ciò che non c’è scritto invece gli appartiene. […] Ha affidato ai suoi cari delle lettere che non erano destinate alla pubblicazione […]. Non era un uomo pubblico alla stregua di come potrebbero esserlo altri scrittori. Gli importava solamente che di lui si conoscessero le opere» (p. 13). Ad esse sole affidava il valore, dall’inizio e per sempre, di una ricompensa all’impegno assoluto dedicato alla ricerca artistica. Scrive all’amica Bichette nel 1969: «Concepisco una cosa del genere solo se devo farla: intendo dire solo se si ha davvero bisogno di me a teatro. Non voglio essere di troppo, detesto la mediocrità nell’arte. […] Farò questo solo se le mie idee saranno realmente ed effettivamente interessanti e nuove» (p. 69).

Dal 1955 al 1989, sono in tutto cinquecentotrenta le lettere spedite ai genitori, ai parenti, agli amici e (più raramente) alle istituzioni. Scritti in cui prevale la funzione informativa su quella riflessiva e creativa, propria di note considerate effimere eppure necessarie. Impressionano la delicatezza, l’umorismo e l’autoironia; la sincerità e il pudore, la lealtà e la riservatezza nei confronti dell’interlocutore ai diversi livelli di relazione. La madre riceve il tributo maggiore di un sentimento incondizionato, più dolente nel bisogno di non tacerle l’essenziale di una vita tormentata, che deraglia dalla tradizione di famiglia benestante e cattolica che lo accoglie, ultimo di tre figli. I viaggi e i luoghi frequentati assumono dimensioni esistenziali che si riflettono nei drammi. Gli incontri umani perdono la connotazione psicologica immediata, per incarnarsi in figure mitizzate e comunque inventate, secondo un’operazione poetica che dal personaggio si estende all’ambiente dell’azione scenica. Processo più evidente nelle note per Combat de nègre et de chiens, dramma sorto dal primo soggiorno in Africa ed elaborato in Sudamerica. E anche la scrittura di Sallinger produce appunti pertinenti alla concezione e allo sviluppo del testo, nella lettera a Bruno Boëglin del settembre 1977.

Dalla fine degli anni Sessanta aspira a frequentare la Scuola della Comédie de l’Est (poi Théâtre National de Strasbourg) per formarsi adeguatamente alla sua arte d’elezione. In ciò aiutato da Hubert Gignoux che riconosce il talento dell’aspirante regista e drammaturgo. Sorge allora il bisogno di «un atto poetico», testimoniato in una lettera programmatica e appassionata a Maria Casarès: «Alla vigilia di una vita che voglio consacrare al teatro, è necessario commettere un atto ambizioso, spontaneo, anarchico forse, libero dagli imperativi esterni della vita professionale, poetico insomma» (p. 75). Lo ripeterà a Gignoux, nell’elaborare la composizione dei primi personaggi, mirati a «far intravedere al pubblico una parte di quella tensione poetica, evitando la tentazione e la deriva psicologica o intellettuale» (p. 77). Più tardi sarà Lucien Attoun, di Théâtre Ouvert, a promuoverne alla radio le prime prove. Sensibile alla lotta di classe, nel 1975 entra nel partito comunista. Alla festa dell’Humanité gode di gioia esaltante, in «un’atmosfera indescrivibile, l’impressione di vivere un momento storico» (p. 193).

Confidenze alla madre (settembre 1977) svelano il senso della specificità del proprio linguaggio (in La nuit juste avant les forêts, 1977, Avignon) in rapporto a quello della donna, «erede d’una tradizione giudeo-cristiana risolta ella separazione tra la carne e lo spirito». Lo iato rende ancor più arduo il tentativo del figlio di spiegarsi sul protagonista solitario del monologo che molto lo rappresenta: «Non sentirai mai dire a qualcuno che soffre di solitudine ‘sono solo’ […] egli ti parlerà di cose insignificanti […]. Quando tu mi dici ‘non c’è solo il sesso nella vita e il tuo testo non parla che di questo’, io ti rispondo che il mio personaggio parla di tutto, tranne che di quello […] è proprio di quello che si serve per parlare del resto» (p. 194).

E forse già si avverte coscienza della condizione irreversibile che lo stato di salute impone al destino incombente del giovane.

Nel 1978, un viaggio in Nigeria, presso i cantieri di una multinazionale, offre lo spunto per Combat, che trova appunto i suoi moventi, ideologici, nel razzismo «alla rovescia», nell’avversione dichiarata al bianco, ed emotivi, in esperienze dirette, quali la morte accidentale di un operaio. Così riferisce della novità estetica al fratello François: «Ho iniziato un lavoro in cui invento un modo di scrivere assolutamente rivoluzionario» (ottobre 1978, p. 248). Dopo l’incontro con Patrice Chéreau, in una lettera del giugno 1982, discute alla pari con l’autore del film L’uomo che piange (poi, L’Homme blessé), ancor prima di assistere alla sua regia per Combat de nègre allestito a Nanterre.

La frequenza delle missive si rarefà all’insorgere della malattia, con la scoperta nella sieropositività all’AIDS nel 1983. Nell’ansia e nell’urgenza per la realizzazione dei progetti in corso, l’autore sembra ridurre la riflessione sul suo lavoro per promuoverne l’esito immediato. Scandito in periodi, anche brevi e non omogenei (vedi Indice), la vicenda personale prevale su quella dell’artista. Le prime pubblicazioni (La fuite à cheval, Minuit, 1984) comportano rapporti anche venali con gli editori e richieste di sovvenzioni al Centre National des Lettres. Si susseguono i viaggi attraverso i quali è ormai in fuga costante dal mondo e dalla vita «normale». Il fascino di New York, ad esempio, si rafforza nel 1981: «La amo, la amo da perdere l’appetito, da non avere più tempo per dormire» (a Michel Guy, p. 287). E a Madeleine: «Giù fino al mio bar preferito, Peter Rabbit… Ubriaco di Coca-Cola, di whisky, di sorrisi… vado in riva all’acqua, banchine a destra e a sinistra… I bar dei delinquenti sono di una dolcezza da farti tremare, e io tremo» (p. 289). Gennaio 1986: «Ecco il Triangolo delle Tenebre – New York-Lagos-Salvador de Bahia, luoghi in cui ho voglia di morire» (p. 327). Clausola finale, a François, da Lisbona, aprile 1989: «In God we trust / Do we?» (p. 338).

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19 Aprile 2022

Come gli alberi cambiamo le foglie, ma conservando le nostre radici

Andrea Bisicchia, «Libertà Sicilia»

Parecchi di noi hanno conosciuto Barba al tempo dei suoi spettacoli al CRT di Via Dini o al Teatro Quartiere, in occasione di «Milano Aperta», parecchi di noi posseggono i «Manifesti» di quel periodo, dove veniva teorizzato, dallo stesso Barba, come il «Terzo Teatro» e, da Sisto Dalla Palma, come il «Teatro dei mutamenti».

Erano gli anni Settanta, ricchi di fermenti e di idee rivoluzionarie, durante i quali il concetto di scena andò moltiplicandosi perché si coniugava con interessi sociologici o politici, con tensioni ideali e utopiche, fino a concepire un teatro da intendere non più come rappresentazione del mondo ma come rigeneratore del mondo, col ricorso a una serie di avventure iniziatiche, parola, questa, che faceva pensare al rito delle origini, accompagnato dalla musica e dalle danze. Parecchi di noi hanno visto Ferai, Talabot, Judith, Il Vangelo di Oxyrhinco, e hanno vissuto le contaminazioni tra scena occidentale e scena orientale, che stavano a base degli spettacoli dell’Odin e di Barba, dopo i suoi viaggi in Cina, in Giappone, in Perù, nelle Americhe del Sud e del Nord, in Venezuela, sempre in cerca di comunità diverse e di forme, altrettanto diverse, di teatralizzazione. Momenti indimenticabili che hanno lasciato tracce, per le nuove generazioni, in volumi come Il libro dell’Odin di Ferdinando Taviani, Feltrinelli 1975, e dello stesso Barba con La canoa di carta, Il Mulino, 1993, Le terre di cenere e diamanti, Il Mulino 1998, Teatro, solitudine, mestiere, rivolta, Ubu Libri 1996, solo per citare i più noti.

L’Editore Cue Press ha appena pubblicato, con la traduzione di Leonardo Mancini, Eugenio Barba. L’albero della conoscenza dello spettacolo di due docenti di nazionalità diverse, Annelis Kuhlmann dell’Università della Norvegia e Adam J. Ledger dell’Università di Birmingham, entrambi con esperienze nel campo performativo. Punto di partenza del loro studio è L’Albero, ultimo spettacolo che Barba realizzò in occasione del suo ottantesimo compleanno. L’Albero diventa, per i due studiosi, metafora della conoscenza che, proprio per fortificarsi, ha bisogno delle radici e delle estensioni. Le radici rimangono quelle dell’Odin, le estensioni sono quelle della multiculturalità, molto simili a quelle della vita di una pianta.

Il volume è diviso in dieci brevi capitoli nei quali vengono esaminati il concetto di regia da intendere, non in maniera tradizionale, ma come il risultato di studi, di laboratori, di seminari, di azioni fisiche, di energia, di vita comunitaria, il cui esito dovrebbe essere di tipo sensoriale e non intellettuale.

Un altro momento della loro analisi riguarda la drammaturgia d’attore, ben diversa da quella testuale, e il concetto di riscrittura, col suo debito a Grotowski, improntata al simbolismo e all’uso delle metafore, a dire il vero, non sempre comprensibili, tanto che si può dire che, se Carmelo Bene teorizzò il teatro senza spettacolo, Barba teorizzò il «teatro incomprensibile», essendo frutto di riflessioni teoriche, di mappe concettuali, non sempre decifrabili, di lingue diverse.

Lo stesso Barba ha affermato di aver passato metà della vita sforzandosi di apprendere e l’altra metà lottando per andare oltre ciò che ha imparato, ammettendo di essere andato alla ricerca di forme sempre nuove e di aver cambiato più volte idee, motivo per cui si sente di appartenere alla famiglia degli alberi che cambiano le foglie, conservando le radici.

Beckett endgame cue
18 Aprile 2022

Torna Godot, con la regia di Beckett l’inedito director’s cut arriva in Italia

Laura Caretti, «Hystrio»

Quando nel 1997 Peter Hall mise in scena all’Old Vic di Londra il Revised Text di Waiting for Godot, non erano in tanti, soprattutto in ambito teatrale, a conoscere quell’ultima versione, «riveduta» da Beckett, che accoglieva molti dei cambiamenti che lo stesso autore aveva operato sul testo, già a partire dal copione diretto da Roger Blin.
A distanza di decenni dalla propria regia del 1955 (la prima in Inghilterra), Peter Hall si opponeva con forza all’idea che esistesse un originale assoluto da rispettare fedelmente. Affermava e rivendicava la mobilità dell’opera di Beckett. E gli sembrava «una tragedia» che quel «testo riveduto» si trovasse «solo» in un libro di più di quattrocento pagine – Theatrical Notebooks of Samuel Beckett: Waiting for Godot (pubblicato da Faber and Faber nel 1993), e non fosse ancora «in any popular paperback or playing text». Aveva capito che quel volume – curato da James Knowlson e Dougald McMillan, frutto di un’esemplare ricerca di filologia teatrale – non conteneva una statica edizione critica, ma un organismo vivo, modificato dallo stesso Beckett nel corso degli anni, nel passaggio da una lingua all’altra, da un palcoscenico all’altro, da una performance all’altra.

Eppur si muove!

«Niente può mai veramente dirsi definitivo a teatro…», così inizia l’introduzione di Knowlson a quel volume, fondamentale nella storia del teatro di Beckett – uscito trent’anni fa e ristampato in paperback solo nel 2019 – che ora l’intrepida Cue Press pubblica nella versione italiana curata da Luca Scarlini. E già prossimamente si annunciano i libri dedicati a Endgame, Krapp’s Last Tape e The Shorter Plays che contengono i «testi riveduti» di queste opere insieme agli appunti e agli inediti «quaderni di regia». Un’iniziativa editoriale di forte impatto sulla visione e la conoscenza della drammaturgia di Beckett, vista appunto nel suo viaggio attraverso il tempo.
Ma non solo! Come nel caso di Peter Hall e di altri registi, questi «testi riveduti» possono diventare copioni di nuove messinscene anche in Italia. Rappresentano infatti l’ultima fase della creazione di Beckett, ritessuta dai curatori, James Knowlson e Stanley Gontarski, sulla base di una lunga ricerca fatta in costante dialogo con l’autore. «Beckett ha avuto un ruolo attivo in ogni decisione riguardo a quale testo usare, cosa includere e cosa escludere – mi scrive Knowlson –. Ho avuto la fortuna di essere sempre in contatto con lui per lettera, incontrandolo regolarmente, e anche assistendo in sua compagnia agli spettacoli. È stato vitale consultarlo. I testi sono come voleva che venissero presentati». E sappiamo, leggendo la premessa di Gontarski al volume di Endgame, come Beckett sia stato coinvolto nel ‛progetto’, generoso del suo tempo, pronto a mettere a disposizione i suoi appunti, e poi a suggerire, correggere, e «revisionare» la stesura finale per la pubblicazione. Fondamentale dunque vedere questi libri nella prospettiva della partecipazione attiva dello scrittore, e della sua volontà di stampare quelle sue opere, iscritte nella loro storia pregressa, come fosse la placenta che le ha nutrite. I Revised Texts sono infatti un punto di approdo: eccezionali composizioni in cui le varianti, messe in evidenza, mostrano la duttilità della sua drammaturgia quando si fa scrittura scenica. Sfogliandone le pagine, i segni tipografici invitano a scoprire i suoi interventi, le aggiunte, i tagli… E se le modifiche nelle battute appaiono meno frequenti (ma sempre emblematiche), le didascalie svelano la visione che Beckett ha della scena: i personaggi si animano, i loro corpi si materializzano, e ne vediamo i gesti, le azioni, i movimenti…
In Aspettando Godot, sentiamo più forte la solitudine di Didi e Gogo, e insieme l’urgenza vitale di tenersi uniti, secondo un’alternanza prossemica di allontanamenti e ricongiunzioni che risponde al loro ritmo esistenziale. Impossibile pensare che siano piccoli ritocchi! Ogni volta si scopre che anche il minimo cambiamento agisce su tutta la partitura orchestrata da Beckett.
Così accade subito nella metamorfosi visiva dell’inizio, con la presenza di Vladimir (prima messo fuori scena) e ora in piedi, «nell’ombra» vicino all’albero, che «ascolta» Estragon, piegato su se stesso, seduto su un «sasso» (il low mound è diventato stone passando per il tedesco stein, mentre era pierre nel francese, e di conseguenza pietra in italiano). In questa breve ouverture ci sono già alcune delle innovazioni che percorrono la revisione del testo: il «lungo silenzio» che tende e dilata l’attesa, la simbiosi di Didi con l’albero e di Gogo con il sasso, l’immobilità che sospende l’azione e crea degli improvvisi tableaux vivants: una trama di segni, che possiamo decifrare in tutta la loro polivalenza di senso con l’aiuto dell’apparato di note che accompagna questo testo riveduto. Qui si dispiega la ricerca compiuta sulle diverse edizioni di Aspettando Godot (in francese, inglese e tedesco), sugli appunti manoscritti, aggiunti in margine ai testi stampati, sui copioni delle regie dirette in prima persona (allo Schiller Theater di Berlino nel 1975, e con il San Quentin Drama Workshop nel 1984), su quelli a cui ha solo collaborato e soprattutto sui suoi «quaderni di regia».

Il quaderno rosso: Godot Berlin 1975 II

Nella seconda parte del volume, la stampa in copia anastatica del secondo di questi Production Notebooks apre le porte del laboratorio di regia di Beckett: una copertina rossa (su cui si legge: Godot Berlin 1975 II) fa da sipario alle 109 pagine a quadretti con gli appunti manoscritti, sia prepara- tori che presi durante le prove, della sua regia di Warten auf Godot allo Schiller Theater di Berlino, quando lo scrittore entra nel vivo del processo di messinscena. I cambiamenti fatti in precedenza, ora confluiscono in una revisione radicale del testo.
La traduzione tedesca si modifica e, in una solitaria, personalissima, rilettura anatomica di tutta l’opera, Beckett prefigura il passaggio alla scena. Ecco cosa si trova in questo quaderno, e l’emozione è indescrivibile. Ogni pagina una rivelazione! Scopriamo l’ossatura delle scansioni interne, le sequenze correlate, i temi ricorrenti, i punti d’attesa… Vediamo muoversi i personaggi su sintetici diagrammi; sentiamo risuonare più volte le stesse battute, le richieste di aiuto, le canzoni.Verso la fine si illuminano le luci. E appare l’albero con «due rami soltanto» – non tre («non era giusto», scrive) – e «due foglie», con l’ultima folgorante spiegazione: «Terza coppia».

Aspettando un nuovo Godot…

Sappiamo che a Berlino questa immagine non fu realizzata. Arriva quindi attraverso il tempo a chi voglia portarla in scena. Questo libro è infatti anche una miniera di idee di regia. Come scriveva Knowlson nella premessa – fatta propria dalla redazione italiana – i «testi riveduti», gli appunti, i quaderni di regia di Beckett non intendono limitare «la libertà» dei registi. Ognuno si regolerà secondo la propria «visione artistica».
Aspettiamo dunque di vedere cosa succederà sulle nostre scene. Intanto si sa che sono state fatte due traduzioni di questo ultimo Waiting for Godot. Una inedita, non autorizzata dagli eredi di Beckett e rifiutata dall’editore, di Angelo Romagnoli, tesa a cogliere la musicalità e il ritmo della partitura vocale e scenica di Beckett. E quella, con la traduzione pubblicata in questo volume, di Luca Scarlini, che affronta in presa diretta «l’enorme complessità» di questo testo, mirando a innovare la tradizione italiana. «Ho voluto veramente partire da zero – mi dice –, dimenticando per quanto possibile la versione classica di Carlo Fruttero che avevo in mente, e cercando di seguire il testo revisionato nei suoi numerosi cambiamenti, nelle sue numerose varianti. Avevo letto anni fa questo volume, ma non con l’approfondimento che ora mi ha permesso di entrare nel meccanismo di cambiamento che Beckett aveva agito, quando a Berlino aveva cominciato effettivamente a maneggiare la scena». Una nuova lettura di Beckett che ci auguriamo contribuisca a far rivedere questo nuovo Godot anche in Italia, a settant’anni dalla sua nascita in Francia.

Cover serata a colono 1
17 Aprile 2022

Il libro che spiega il legame fra luce e teatro e non solo

Mauro Petruzziello, «Artribune»

Il filosofo José Xavier Zubiri Apalategui è in un’aula dell’Universidad Central de Madrid e sta spiegando le categorie di Aristotele. Alla lezione è presente Maria Zambrano, da poco uscita dalla tubercolosi e in lotta con una crisi, altrettanto feroce, che vorrebbe spingerla ad abbandonare lo studio della filosofia. A un tratto, un raggio di luce penetra dalle cortine nere. Scrive: «In un attimo io mi ritrovai non tanto presa da una rivelazione folgorante, quanto pervasa da qualcosa che si è sempre rivelato più adatto al mio pensiero: la penombra toccata d’allegria. E allora, in silenzio – nella penombra, più che della mente, direi dell’animo, del cuore, si dischiuse poco a poco, come un fiore, la netta sensazione che non avevo forse alcun motivo per abbandonare la filosofia» (Maria Zambrano, Verso un sapere dell’anima, Raffaello Cortina Editore, Milano 1996, pag. 4).

Luce e teatro nel libro di Grazioli e Mari

Quel tenue gioco di luce rischiara anche il titolo, Dire luce. Scritti sulla pittura, di una preziosa raccolta di saggi, curata da Carmen Del Valle ed edita nel 2013 da Rizzoli, che la filosofa spagnola dedica alla pittura. Con soave gusto citazionista Cristina Grazioli e Pasquale Mari intitolano Dire luce. Una riflessione a due voci sulla luce in scena il loro libro, frutto di un lavoro congiunto, un pas de deux fra una studiosa e un light designer e direttore della fotografia che preferisce essere chiamato «operaio della luce». Grazioli insegna Storia ed Estetica della Luce in Scena e Teatri di Figure: Storie ed Estetiche all’Università di Padova. Pasquale Mari lavora fra teatro, cinema e musica e ha collaborato con Toni Servillo, Carlo Cecchi, Marco Bellocchio, Paolo Sorrentino, Ferzan Ozpetek, Ivano Fossati e Avion Travel.

Accomunati dalla vocazione a «dar voce» alla luce e a trovare le parole per «dire luce», i due autori si pongono, in primis, una preoccupazione legata al «come dire» la luce, ovvero a come accerchiare un oggetto instabile, evanescente, inedito. Ecco quindi la necessità di arginare il pensiero e stabilire punti fermi attraverso l’edificazione di un lessico, organizzato come un poetico abbecedario scandito in «dodici voci»: invisibilità, materia, scrittura, polvere, buio, colore, movimento, voce, trasparenza, atmosfera, botanica, aria.

Non solo teatro nel libro di Grazioli e Mari

Termini correlati alla luce – spettro, prisma, gamma, led, incandescenza, infrarossi, ultravioletti – si alternano a parole d’ordine dell’orizzonte teatrale – scena, sipario, drammaturgia. Tuttavia esse abitano la stessa pagina di termini quali pigmento, tela, linea, contorno, che, pur essendo mutuati dal lessico degli storici dell’arte, rivelano, in questo caso, una straordinaria consustanzialità con quello utilizzato dagli studiosi di teatro. Non una questione da poco visto che, in filigrana, Grazioli e Mari mostrano la volontà di eccedere un metodo d’indagine che sia solamente teatrale, nonostante il sottotitolo del libro restringa l’uso della luce alla scena. Infatti, per abbracciare nella sua pienezza la luce, i due autori volutamente dimenticano un’esplicita referenzialità al loro oggetto di studio, lo forzano e lo aprono facendovi transitare considerazioni su nuvole, giardini, polvere, molecole di clorofilla, vento, in un proficuo movimento di allargamento che progredisce man mano che si avanza nella lettura.

Il libro, quindi, schianta qualsiasi impostazione dicotomica: così come la consueta contrapposizione luce/ombra viene fluidificata, ammettendo che ciascuno dei due poli è motivo di emersione e condizione di esistenza dell’altro, anche in queste pagine ciò che abitualmente e in maniera stereotipata viene giustapposto – il pensiero e la prassi – diventa condizione di germinazione dell’altro.

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