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Approfondimenti, interviste, recensioni e cultura: il meglio dell’editoria e delle arti da leggere, guardare e ascoltare.

Woodyallen3 1
27 Giugno 2025

Woody Allen su Woody Allen: quella bellissima chiacchierata con Stig Björkman

Adele Porzia, «ClassiCult.it»

Ogni volta che penso a Woody Allen mi sembra di essere più felice. E ultimamente sono particolarmente felice perché sto leggendo tantissimo su di lui. Non solo ho riletto l’autobiografiaA proposito di niente, pubblicata in italiano da La nave di Teseo nel 2020, ma anche diversi saggi, tra cui quello di Roberto Escobar,Il mondo di Woody, per Il Mulino (2020), e quello di Natalio Grueso,Woody Allen. L’ultimo genio, pubblicato nel 2015 da Salani Editore.

E non solo: ho recuperato la conversazione tra Allen ed Eric Lax, critico ed esperto del suo cinema, pubblicata in Italia da La nave di Teseo nel 2024.

Insomma, sono in piena fase Woody Allen e non ho potuto fare a meno di alternare alle tante letture la visione dei suoi quasi cinquanta lavori, tra film, corti, uno sceneggiato per la televisione e una serie tv per Prime Video.

E in questa fase — che, in un certo senso, continua da tutta una vita — mi sono resa conto che Allen dà il meglio di sé quando conversa con qualcun altro. E non con Eric Lax, che ha il grande difetto di adularlo e quindi non lo mette mai in difficoltà, ma con un altro regista. Un suo pari, col quale possa parlare, alla pari, di cinema, letteratura, teatro e, naturalmente, di vita.

Grazie alla CuePress, ho potuto recuperare la conversazione che Allen ha avuto con Stig Björkman, critico e regista svedese, nato solo tre anni dopo Woody Allen.

Nel 1993, Björkman ha intrattenuto un lungo dialogo con il regista di Brooklyn, toccando alcuni punti fondamentali del suo cinema. La conversazione è poi proseguita nel 2005, spingendosi fino a Match Point. Ed è proprio qui che si conclude anche il volume pubblicato dalla casa editrice di Imola, dal titolo Woody Allen su Woody Allen. Woody Allen conversa con Stig Björkman, nella traduzione di Giampiero Cara, Giovanni Gorla e Luca Taglinetti, pubblicato nel 2022.

Quello che maggiormente mi ha sorpreso di questa lettura è che, dalla conversazione tra questi due registi, sono emersi temi e argomenti di cui Allen non aveva mai parlato prima. Battute inedite, segreti non solo sui film che ha girato, ma anche sulla sua stessa concezione dell’arte.

Dichiarazioni di prima mano, che a mio parere sono emerse grazie alla grande abilità di Björkman, il quale non si è mai limitato a porre domande — come in una classica intervista — ma ha approfittato dell’occasione per uno scambio autentico di opinioni. È stato grazie a questo clima amicale che Woody Allen si è tanto aperto con lui.

All’inizio, per esempio, quando parlano di Ingmar Bergman, regista preferito da entrambi, allargano il campo all’intera cinematografia di Bergman, al cinema europeo e americano, a quando Allen era ragazzo e marinava la scuola per chiudersi nei cinema con i suoi compagni di classe. Ho avuto anche l’impressione, nel corso di questo bel botta e risposta, che Allen si stesse divertendo, che non volesse più smettere di parlare. Ha perfino chiesto l’opinione di Stig Björkman su alcune pellicole, su libri, sul teatro. E non è una cosa che fa spesso.

È un libro prezioso, perché permette non solo di conoscere meglio Allen, ma anche il suo interlocutore. Mi ha fatto venire voglia di vedere i film di Björkman e di leggere le altre interviste che ha condotto nel corso della sua vita, come quella a Lars von Trier.

Mi ha ricordato un’altra celebre conversazione, che era anche un passaggio di testimone da un cineasta all’altro: quella tra François Truffaut e Alfred Hitchcock (Il cinema secondo Hitchcock, edizione più recente quella de Il Saggiatore, 2014).

Mentre leggevo la conversazione tra Allen e Björkman, speravo che non finisse più, che si protraesse ancora per qualche pagina. E oggi che l’ho terminata, non nascondo di avvertire un vuoto dentro di me. Come se mi fossi congedata da due amici di vecchia data. Una sensazione che, ne sono certa, il lettore sperimenterà a sua volta, insieme a quel malcelato desiderio di chiudersi in un cinema e non uscirne mai più.

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Cavell
27 Giugno 2025

Tra filosofia e cinema: a proposito di Il mondo visto di Stanley Cavell

Stefano Marino, «Mimesis–Scenari»

Da qualche anno il pensiero versatile e multiforme di Stanley Cavell (1926-2018) sembra essere al centro di una significativa riscoperta, soprattutto sul versante dell’impegno di Cavell come filosofo estremamente interessato alle arti. Senza alcuna pretesa di completezza, come segni di questa recente opera di riscoperta è possibile citare qui, ad esempio, i volumi di Rex Butler, Stanley Cavell and the Arts (2021), David LaRocca, Music with Stanley Cavell in Mind (2024), Paola Marrati, Understanding Cavell, Understanding Modernism (2025), tutti editi da Bloomsbury, o anche il volume antologico di W. Rothman, Cavell on Film (2005¹; 2025²), edito da SUNY Press. Rientra all’interno di una tale operazione, indubbiamente significativa e meritoria, anche la recente pubblicazione in italiano, da parte della casa editrice CUE Press, di due importanti scritti Cavell dedicati al cinema, ovvero Alla ricerca della felicità. La commedia hollywoodiana del rimatrimonio (ed. it. a cura di P. Donatelli; con contributi di P. Donatelli, G. Manzoli, E. Morreale, 2022) e Il mondo visto. Riflessioni sull’ontologia del cinema (ed. it. a cura di P. Donatelli; Postfazione di G. Manzoli, 2023). È precisamente su quest’ultimo testo, ovvero Il mondo visto, che mi concentrerò in questa recensione, al fine di tentare di far emergere sinteticamente alcune linee guida dell’originale e stimolante approccio filosofico al cinema delineato da Cavell.

Uscito in prima edizione inglese nel 1971, e successivamente in una seconda edizione inglese ampliata nel 1979 (con l’aggiunta dell’importante saggio conclusivo «Ancora su Il mondo visto», meritoriamente incluso nell’edizione italiana del libro), Il mondo visto di Cavell viene presentato ai lettori e alle lettrici del nostro paese in una ricca edizione che comprende anche un’Introduzione di Piergiorgio Donatelli (pp. 8-21) e una Postfazione di Giacomo Manzoli (pp. 258-262). I due testi degli studiosi italiani risultano perfettamente bilanciati e complementari fra loro, riuscendo a far emergere in modo immediato e molto chiaro come l’ontologia del cinema di Cavell possa risultare egualmente stimolante per gli studiosi e le studiose di filosofia con un interesse per il cinema come possibile oggetto di indagine, da un lato, e per gli studiosi e le studiose di cinema con un interesse per la filosofia come possibile metodo di indagine, dall’altro lato.

Passando ora a una rapida analisi della forma e dei contenuti principali del libro di Cavell, possiamo dire, per prima cosa, che Il mondo visto si struttura in 19 capitoli di differente lunghezza, preceduti da una Prefazione, una Prefazione all’edizione ampliata e un saggio conclusivo intitolato «Ancora su Il mondo visto». Nella Prefazione (1971) Cavell prende le mosse dall’importanza del «bisogno di intrattenimento» (pur aggiungendo che esso «non è mai stato tutto, o la parte importante, di ciò che i film fornivano, così come non è tutto ciò che i romanzi o la musica forniscono») e dal proprio rapporto intimo, personale, essenziale con il cinema: più precisamente, con un certo tipo di cinema, ovvero con la «continuità con i film di Hollywood» che viene analizzata in Il mondo visto proprio in un’epoca in cui, come scrive Cavell, «Hollywood stessa [la] stava perdendo» (p. 31). È, quest’ultimo, un presupposto fondamentale alla base dell’intera indagine di Cavell, il quale, in Il mondo visto, si interroga filosoficamente sul cinema anche al fine di «rendere conto della [sua] esperienza del cinema» e del modo in cui «i ricordi del cinema si intrecciano per filo e per segno con quelli della [sua] vita» (pp. 31, 33).

Nella Prefazione all’edizione ampliata (1979) Cavell si ricollega a tale questione, accennando all’«‘onere immediato ed enorme’ che grava sulla nostra capacità di descrizione critica, quando rendiamo conto della nostra esperienza cinematografica» nel tentativo di «comprendere il medium cinematografico in quanto tale» (p. 27), e specificando come «un tema del Il mondo visto che è esplicito e guida tutta la [sua] riflessione successiva sul cinema» sia quello per cui ad «assegnare significato alle possibilità e alle necessità specifiche del medium fisico del cinema […] sono gli atti fondamentali, rispettivamente, del regista di un film e del critico (o del pubblico) del cinema», al pari dell’idea secondo cui «ciò che costituisce un ‘elemento’ del medium cinematografico non è conoscibile prima di queste scoperte della regia e della critica»(p. 27). Si tratta di un aspetto che Cavell chiama, in modo indubbiamente suggestivo, «circolo cinematografico» (in riferimento alla «reciprocità tra elemento e significato» [p. 27]) e che si collega spontaneamente, fra le altre cose, alla questione di «che cosa costituisca, o che cosa esprima, il fatto di ‘conoscere un’opera’»(p. 25).

Tutto ciò, a sua volta, non può non condurre la riflessione verso la questione del rapporto fra il cinema e altre forme artistiche, e dunque anche verso il problema, citato esplicitamente da Cavell, di «concedere al cinema lo status di soggetto che incoraggia e premia la speculazione filosofica, al pari delle grandi arti», accettando quindi «il cinema come un’arte» e, conseguentemente, non tirandosi indietro di fronte al compito di «una modifica del concetto di arte», né di fronte al compito, d’altra parte, di tracciare distinzioni tra alto e basso, o tra maggiore e minore, […] all’interno del corpo stesso del cinema» (p. 28), così come avviene spesso nel caso della pittura, della poesia, della musica o ancora altre arti. Tali questioni, a conferma della loro importanza per Cavell, vengono esplicitamente riprese anche nel succitato saggio conclusivo «Ancora su Il mondo visto” (derivante da alcuni testi presentati a un convegno dell’American Society for Aesthetics nel 1972 e poi pubblicati nel 1974), là dove Cavell spiega come «la più chiara delle [sue] intenzioni», durante la stesura di Il mondo visto, fosse quella di «dimostrare che si può scrivere sui film […] con la stessa serietà che ogni opera d’arte merita» (p. 211). Come dicevo, però, ciò non spinge Cavell a eliminare l’idea di una differenza qualitativa fra ciò che possiamo chiamare genericamente ‘buona’ e ‘cattiva’ arte anche nel caso del cinema (così come facciamo spesso nel caso della pittura, della poesia, della musica e della stessa filosofia, per differenziare i contributi di autori e autrici eminenti dalle opere meno riuscite o talvolta meramente ripetitive e standardizzate): «non tutti i film sono di fatto degni di tale attenzione», afferma infatti Cavell (p. 212), il quale si sofferma varie volte, non a caso, su categorie come ‘grandi registi’, ‘cinema serio’ e ‘film brillanti’ (pp. 227, 248), là dove questi ultimi sono quei film che «scoprono con la massima chiarezza e la massima profondità i poteri del medium stesso» (p. 248).

Prendendo le mosse da domande classiche come «Che cos’è l’arte?» o «Qual è l’importanza dell’arte?», nel primo capitolo del libro Cavell si chiede: «Perché il cinema è importante?» (p. 39) Da ciò ne scaturisce una riflessione, già accennata nella Prefazione e destinata poi a essere ripresa e approfondita varie volte nel corso del libro, sul rapporto fra il cinema e le altre arti – per esempio, allorché Cavell riflette sul fatto che «gli standard di rigore e di cultura che abbiamo imparato a dare per scontato [o a criticare] quando diamo o ci vengono date letture di libri, sono ignorati o inaccessibili quando diamo o ci vengono date letture di film» (p. 42), oppure là dove si sofferma sui rapporti fra cinema e teatro (pp. 65-66). Oltre a ciò, dalla succitata domanda iniziale scaturisce una riflessione su determinati tratti caratteristici e unici del cinema, come ad esempio il fatto che «tutti si interessano ai film», per cui «il cinema sembra esistere naturalmente in una condizione in cui i suoi esempi più alti e quelli più ordinari attirano lo stesso pubblico», laddove invece «le persone che si interessano alla musica seria non si interessano alla musica d’ambiente o, diciamo, alla musica da film» (p. 40) (sebbene si possa forse obiettare che tale situazione, riguardo alla musica, fosse probabilmente più usuale negli anni in cui Cavell lavorò alla stesura di Il mondo visto rispetto allo scenario musicale attuale, in cui alcune barriere fra stili e generi diversi sono state almeno in parte superate).

Ora, poiché «una nuova opera», secondo Cavell, «nasce, in una civiltà, dai poteri dell’arte stessa» (p. 42), e poiché la situazione artistica generale in cui nacque il cinema come forma d’arte fu la «condizione dell’arte modernista» (p. 45), a suo giudizio ne scaturisce logicamente il quesito su quale rapporto debba vigere fra cinema e modernismo. «Si dice spesso», osserva infatti Cavell, «che il film è l’arte moderna, quella a cui l’uomo moderno reagisce naturalmente», ma a suo giudizio sussistono diverse buone ragioni per «diffidare di questa idea», fra cui, primariamente, il fatto che, «se il cinema deve essere preso minimamente sul serio come forma d’arte, allora bisogna spiegare come possa aver evitato il destino del modernismo» (dato che, per Cavell, perlomeno per molti decenni è proprio questo ciò che è avvenuto): ovvero, bisogna spiegare come il cinema «possa aver mantenuto le sue continuità in termini di pubblico e di generi, come possa essere preso sul serio senza essersi assunto il peso della serietà. […] [I]l fatto ovvio del cinema», secondo Cavell, è infatti che, «se è arte, è l’unica arte tradizionale vivente, l’unica che può dare per scontata la sua tradizione» (p. 46). La questione del rapporto fra il cinema e il modernismo, posta nel primo capitolo del libro, sarà poi ripresa e sviluppata da Cavell innumerevoli volte nel corso di Il mondo visto (cfr. pp. 152-153; 169-171; 191-192; 245-248), sempre con l’aggiunta di nuovi stimoli e nuovi approfondimenti – ad esempio, in relazione a ciò che è avvenuto dagli anni Sessanta in poi, quando «il cinema si è gradualmente trasferito nell’ambiente modernista che le altre grandi arti hanno abitato per generazioni e dove ogni forma d’arte ha dovuto lottare per la propria sopravvivenza» (p. 111), oppure in relazione al grande tema del rapporto fra l’arte moderna e la poetica ottocentesca del realismo nelle sue varie forme (pp. 81, 232), che naturalmente non ha mancato di incidere anche sulla delineazione della peculiare estetica del cinema.

Nei capitoli immediatamente successivi Cavell introduce un altro tema fondamentale, se non proprio il tema fondamentale del libro, cioè quello del rapporto fra la realtà e la dimensione per così dire sui generis del mondo che viene dischiuso dai film. Il tema (estetico e, al contempo, rigorosamente epistemologico) del «fare i conti con la realtà» è già racchiuso nella domanda posta da Cavell nel primo capoverso del secondo capitolo: «che cosa succede alla realtà quando viene proiettata su uno schermo?» (p. 51). Per affrontare tale tema, Cavell si premura in primo luogo di definire il rapporto tra cinema e fotografia, evidenziando come quest’ultima, a differenza della pittura, «non ci presenta una ‘somiglianza’ delle cose», bensì «le cose stesse», e come, nonostante ciò, essa sia qualcosa che «non sappiamo come definir[e] ontologicamente», nella misura in cui, guardando una fotografia, «vediamo cose che non sono presenti» (pp. 51-52). A partire da qui, sottolineando come «le fotografie sono fotografie del mondo, della realtà nel suo insieme» (cosicché «quello che succede in una fotografia è che il mondo trova un termine»), Cavell sposta il focus della propria attenzione sul cinema e giunge alla definizione del film come «mondo [che] viene proiettato», in cui «lo schermo è una barriera» che «mi nasconde dal mondo che mi contiene – mi rende infatti invisibile. […] Che il mondo proiettato non esiste (ora)», scrive Cavell, «è la sua unica differenza dalla realtà» (p. 59). «La promessa del cinema», come si legge finanche negli ultimi capoversi di Il mondo visto, è quella di «esibire il mondo» e, come spiega Cavell, al fine di «soddisfare il desiderio di esibizione del mondo» si deve essere disposti a «lasciare apparire il mondo in quanto tale» (p. 205). Si tratta di ciò che Cavell, unendo in una maniera estremamente originale il registro filosofico dell’estetica con quello dell’epistemologia, definisce «il desiderio di totale intelligibilità» (p. 205); a tal proposito, dunque, risulta quanto mai affascinante notare come una fra le principali «possibilità del medium [cinematografico]», secondo Cavell, sia proprio quella di «lasciare che il mondo accada» (pp. 59-60).

La succitata questione relativa al «medium fisico del cinema in generale» viene collegata da Cavell a quella relativa «forme o ai generi specifici che questo medium ha assunto nel corso della sua storia» e alle «possibilità del medium», le quali, spiega Cavell, «non sono date», bensì si articolano e si dispiegano per l’appunto storicamente (p. 71). Così, Cavell si spinge ad argomentare come «le prime pellicole cinematografiche accettate come film» vadano intese in un certo senso come «la creazione di un medium per il fatto che questi film davano significato a delle possibilità specifiche. Solo l’arte stessa», scrive infatti Cavell, «può scoprire le sue possibilità, e la scoperta di una nuova possibilità è la scoperta di un nuovo medium», il quale può essere definito, a livello generale, come «qualcosa in cui, o per mezzo di cui, una cosa specifica viene fatta o detta in un modo particolare», nonché qualcosa che «fornisce delle modalità particolari per farsi capire da qualcuno, per essere comprensibile» (p. 72). Nel caso particolare del cinema, secondo Cavell, analizzare «le realtà concrete del medium cinematografico stesso» ci deve portare a riconoscere, ad esempio, che non sono tanto delle forme prestabilite e già date a veicolare l’espressione di determinati tipi, bensì «sono proprio i tipi a portare le forme su cui i film hanno fatto affidamento», là dove «il modo in cui i film creano degli individui» consiste nel fatto che essi «creano delle individualità» (p. 73).

Partendo da qui, oltre a sottolineare le differenze tra «un tipo nel cinema», in grado di realizzare «il mito della singolarità», e «un tipo nel teatro» (p. 74), Cavell mostra anche come la creazione di «cicli di film», lungi dal costituire un mero dato estrinseco o accidentale nella storia del cinema, rappresenti invece «una possibilità intrinseca di questo medium», nella misura in cui, a ben vedere, «un ciclo è un genere […] e un genere è un medium» (p. 75). A partire da tali premesse, quindi, si può facilmente comprendere l’enfasi e l’attenzione posta da Cavell, in alcuni capitoli importanti di Il mondo visto, su questioni quali i «miti del cinema» (pp. 87-89), i «tipi principali di personaggi» e i rapporti fra loro (pp. 95-99; 105-107), nonché le conseguenze dell’«esaurimento dei miti originari del cinema» (p. 180) che egli intravede nella storia del cinema col passare dei decenni. Questa concezione genuinamente relazionale, per così dire, dei nessi sussistenti fra la dimensione del «medium di un’arte» (l’arte cinematografica, in questo caso) e le dimensioni de «i generi, i tipi e le individualità che hanno costituito i media dei film» (p. 119) spinge Cavell, nel quinto capitolo di Il mondo visto, a citare un aspetto veramente centrale della sua filosofia del cinema: ovvero, il fatto che «con lo sviluppo di Hollywood i tipi originali si [siano] ramificati in individualità tanto diverse e sottili, tanto ampie nella loro capacità di influenzare i nostri umori e di liberare la fantasia, quanto ogni insieme di personaggi che popolavano i grandi teatri del nostro mondo. […] Hollywood è stato il teatro in cui sono apparsi» determinati tipi, singolari e unici, perché «i film di Hollywood hanno costituito un mondo» (p. 75), laddove, come si legge nel dodicesimo capitolo, in maniera piuttosto drastica Cavell decreta che «la Nuova Hollywood non è un mondo» (p. 128). È, quest’ultimo, uno degli aspetti dell’indagine sviluppata in Il mondo visto in cui il piano dell’analisi filosofica e il piano dell’esperienza personale di fruizione cinematografica (con tutto il carico di soggettività e talvolta idiosincrasia che tale esperienza inevitabilmente comporta) si saldano e si intrecciano l’uno all’altro nella maniera più stretta, per non dire inscindibile. Nel saggio conclusivo «Ancora su Il mondo visto», a tal proposito, Cavell ammetterà con grande onestà di essersi limitato, «come [suo] canone di riferimento, ai soli film sonori che avev[a] a disposizione mentre scrivev[a]» e riconoscerà che la sua «eccessiva indulgenza verso i contributi di Hollywood alla storia del cinema», da un lato, e la sua «quasi totale omissione del cinema sperimentale contemporaneo» (p. 214), dall’altro lato, potrebbero anche suscitare qualche diffidenza.

Oltre a ciò, nel corso di Il mondo visto Cavell non manca di soffermarsi con lucidità filosofica e, al contempo, con genuina passione cinematografica su molti altri argomenti, fra cui il rapporto fra il bianco e nero ed il colore (pp. 133-146), la dimensione dell’automatismo dei dispositivi tecnici e l’«implicazione della cinepresa» (pp. 177-179), se non proprio il «destino della cinepresa» e l’«interesse mitologico delle rivelazioni della cinepresa» (p. 225), alcune tecniche cinematografiche come il rallentatore, il flashback, il fermo immagine e lo schermo diviso (pp. 185-191), la relazione fra il suono e il silenzio o il rapporto fra spazio, tempo e azione nel cinema (pp. 197-204). In ogni caso, la molteplicità dei temi affrontati in Il mondo visto (e, quindi, la notevole versatilità della riflessione cavelliana sul cinema) non contrasta affatto con la grande unitarietà e coerenza di tale riflessione, garantita dal rigore con cui Cavell pone e ripropone quella che, sia su un piano strettamente estetico sia su un piano epistemologico, gli appare la questione decisiva e centrale della filosofia del cinema: ovvero, la succitata questione relativa al fatto che «il cinema [sa] riprodurre magicamente il mondo» ed è in grado di farlo «[n]on presentandoci letteralmente il mondo, ma permettendoci di guardarlo senza essere visti. […] [S]iamo dislocati, esiliati dalla nostra dimora naturale nel mondo, posti a una distanza dal mondo» (pp. 82-83). «Il cinema», scrive Cavell, «ci restituisce ed estende la nostra prima fascinazione per gli oggetti, per le loro vite interiori e determinate» (p. 88); esso «soddisfa il nostro desiderio di una riproduzione magica del mondo, permettendoci di vederlo senza essere visti. Ciò che desideriamo vedere in questo modo è il mondo stesso – in altre parole: tutto» (p. 151). Se è vero che «ogni arte vuole l’espressione del mondo» (p. 199), allora il cinema, per Cavell, «promette l’esibizione del mondo in se stesso» (p. 169).

Anche nel saggio conclusivo «Ancora su Il mondo visto» Cavell ribadire con grande enfasi che «ciò che rende il medium fisico del cinema diverso da qualsiasi altra cosa sulla terra consiste nell’assenza di ciò che esso ci fa apparire dinanzi: vale a dire nella natura della nostra assenza da esso” e nel suo offrire una seria di «proiezioni della realtà in cui […] la realtà è lasciata libera di esibirsi» (p. 213). Per Cavell, infatti, «il modo in cui il cinema presenta a noi il mondo astraendoci da esso risulta essere una conferma di qualcosa che è già vero dello stadio dell’esistenza in cui ci troviamo», nel senso che il «dislocamento del mondo» che viene prodotto dal cinema «conferma […] il nostro preesistente estraniamento dal mondo. La ‘sensazione di realtà’ che il cinema fornisce è la sensazione di […] una realtà nei confronti della quale sentiamo già una certa distanza» (p. 252). Sotto questo punto di vista, per Cavell si può persino parlare, in maniera estremamente ambiziosa, di un vero e proprio «mistero epistemologico» del cinema (p. 226), nella misura in cui «la base della drammaticità del cinema […] risiede nel suo dimostrare persistentemente su che cosa si fondi la nostra certezza della realtà», ovvero nel suo dimostrare il carattere mediato (ma non per questo illusorio o fittizio) del nostro rapporto col mondo.

Mettendo la realtà sullo schermo, il cinema fa da schermo tra noi e la datità della realtà: tiene la realtà lontana da noi, la tiene davanti a noi, in altre parole la trattiene davanti a noi.

(p. 228)

Diversi decenni fa, a proposito della filosofia della musica di Theodor W. Adorno, Luigi Rognoni osservò a ragione che essa parlava «al filosofo in termini musicali e al musicista in termini filosofici, in una piena e acuta compartecipazione tecnica fra i due campi». Mutatis mutandis, nonostante le differenze in termini di background culturale e approccio filosofico tra Adorno e Cavell (e nonostante il fatto che, com’è noto, Adorno purtroppo non amasse il cinema e, in generale, tutta la popular culture…), forse si può sostenere che qualcosa di analogo possa valere anche nel caso di Cavell, nel senso della sua capacità di fornire suggestioni egualmente stimolanti sia ai filosofi che agli studiosi di cinema, «in una piena e acuta compartecipazione tecnica fra i due campi» (per riprendere l’efficace formula coniata a suo tempo da Rognoni per la «musicologia filosofica» di Adorno). Come scrive Donatelli all’inizio del suo saggio introduttivo, Il mondo visto di Cavell è infatti «un libro affascinante, denso ed enigmatico», in cui il cinema viene interpretato filosoficamente come «un fatto dell’esperienza che ci riconduce alla dimensione esistenziale primordiale di individui spaesati di fronte al mondo che ci scorre davanti» (p. 9). Gli fa eco Manzoli, nella succitata Postfazione al libro, là dove osserva che Cavell, vero e proprio «filosofo in sala», prende le mosse dalla propria «esperienza di spettatore cinematografico» e, sulla base delle categorie centrali del proprio pensiero (e, in particolare, sulla base di quelle che Manzoli definisce «le due grandi ossessioni del volume: il tema del realismo, definito come l’attitudine a ‘fare i conti con la realtà’ e quello della natura di questa realtà depurata dal peso dell’ego, rivelatoria e capace di attivare l’io per offrirgli gli elementi con cui costruire un nuovo rapporto col mondo»), arriva a offrire «un grande esercizio di intelligenza spettatoriale che prende le mosse da una passione sconfinata nei confronti dei film e da un rispetto profondo per la funzione esistenziale e intellettuale di quest’arte» (pp. 259-262).

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Come gli uccelli il mulino di amleto
24 Giugno 2025

Raccontare Il Mulino di Amleto: dalla scena al libro 

Letizia Bernazza, «LiminaTeatri»

Pubblicato a dicembre 2024 dalla casa editrice Cue Press, il volume Raccontare Il Mulino di Amleto. Per un teatro in ascolto scritto da Ilena Ambrosio e Laura Novelli è un’opera complessa e rigorosa.
Complessa perché le autrici riescono a tracciare l’intero percorso artistico della compagnia, fondata ufficialmente nel 2009 da Marco Lorenzi, Barbara Mazzi e Maddalena Monti nel capoluogo piemontese; rigorosa perché poggia le basi su di una ricerca che analizza e ricostruisce minuziosamente la poetica e il processo creativo del gruppo.


Ambrosio e Novelli hanno saputo ‘mettersi in ascolto’, intercettare il ‘sentire’ della compagnia, proprio al pari di quanto è nella natura e nello spirito del Mulino di Amleto, il cui tratto distintivo risiede – come dichiarato nella Premessa del libro – in «(…) una capacità di ascolto: della realtà, dell’essere umano, che sia esso autore, personaggio, attore, regista o spettatore» (p. 9). Dunque, «un ascolto nell’ascolto» che, tappa dopo tappa, capitolo dopo capitolo, conduce il lettore/la lettrice ad enucleare i differenti centri propulsori del fare teatro.

L’incontro con il testo e l’analisi, il training con gli attori, la costruzione della scena e, infine, l’incontro con il pubblico: fasi di studio e lavoro che raccontano di una pratica vitale, affatto rigida o sterile, bensì aperta e sempre in ascolto.

(Ibidem)

Quello per il testo è, prima di tutto, un innamoramento. Una folgorante fascinazione impossibile da lasciar andare e alla quale si rimane aggrappati a causa di una sorta di straordinaria bellezza che incanta e che richiede con urgenza di essere messa in scena.
A tale proposito, colpisce il racconto dell’incontro con Tous des Oiseaux dello scrittore e regista libanese, direttore artistico del Théâtre National de la Colline di Parigi, Wajdi Mouawad. Tra le righe è palpabile l’emozione di Marco Lorenzi e Barbara Mazzi di fronte alla prima scena dell’opera: l’incontro tra Eitan e Wahida in una biblioteca di New York, dove la ragazza è impegnata nella stesura della sua tesi. Rappresentata in prima nazionale nel 2023 al Teatro Astra di Torino, l’opera (che è valso al Mulino il Premio Ubu 2024 per Nuovo testo straniero messo in scena da una compagnia italiana) suggella e riconferma la necessità del Mulino di dialogare costantemente con il presente. La storia d’amore tra il giovane ebreo e la giovane araba-statunitense non può non riportarci a un oggi corroso da un odio atavico e ingiustizie mai risolte che stanno portando al massacro di massa del popolo palestinese.

Passando per i classici, da Shakespeare a Goldoni, da Molière a Hugo, da Brecht a Feydeau, da Čechov a Ovidio, fino a Pasolini e al cinema di Vinterberg si arriva a Tous des Oiseaux (Come gli uccelli). È in tali continui ‘attraversamenti’ di generi e di linguaggi differenti che le due autrici definiscono «poligama» la «sensibilità drammaturgica» della compagnia, per la quale «la distanza temporale», sottolineano, non è «un limite bensì un fecondo punto di osservazione drammaturgica (…) per garantire un affondo consapevole nella sensibilità odierna» (p.15).

Il punto di forza del volume consiste, a nostro avviso, in un’indagine critico-analitica che procede per macro-temi. Dopo aver affrontato con puntualità «La scelta del testo», la ricerca nei successivi capitoli si focalizza su: «Il lavoro sul testo», «L’attore», «Il dispositivo scenico» e «Il pubblico». Macro-temi che, tuttavia, si fondono tra loro, fino a costituire una sorta di ‘mappa concettuale’ che permette a chi legge di mettere in relazione le differenti ‘diramazioni’ teorizzate, consentendogli di elaborare una propria ‘mappa’ diacronica.

Così la «sensibilità drammaturgica», sottesa alla scelta del testo, si fa lettura scrupolosa dello stesso, approfondimento della poetica dell’autore contaminata da ‘sguardi altri’ attinti dal cinema alla musica, dalla letteratura alle arti figurative, dalla cultura classica alla cultura pop. Uno ‘sguardo allargato’, dunque, vivificato dalle sollecitazioni e dalle suggestioni dei tanti materiali esplorati in quel lavorio che accompagna la fase di creazione drammaturgico-registica e attoriale. Si tratta di un processo collettivo, pur nel rispetto dell’ambito artistico di ciascun componente della compagnia, che dallo scambio reciproco approda progressivamente alla composizione della messa in scena, la quale – come fanno notare le due autrici – porterà con sé inevitabilmente l’incanto di un’immagine, un oggetto, un’azione, anche se poi tali materiali non saranno necessariamente ‘dentro’ lo spettacolo (per approfondire il lavoro condotto dal Mulino su Come gli uccelliPlatonov. Un modo come un altro per dire che la felicità è altrove Festen. Il gioco della verità rimandiamo alle pagine 26-36 del volume).

Se è la «sensibilità drammaturgica» a guidare la scelta del testo, è «l’umanità» il centro distintivo dell’attore. Un’umanità che è per l’interprete la «(…) possibilità di ‘essere’, nel presente della rappresentazione, ciò che dice e ciò che fa poiché di ciò che dice e di ciò che fa ha compreso e assunto tutte le sfaccettature e le possibili implicazioni» (p. 51). L’attore esprime sulla scena ciò che è: prima di tutto un essere umano che si fa tramite – con il suo pensiero, i suoi sentimenti, il suo corpo – del presente. Il presente della messinscena, per mezzo di un training quotidiano complesso (esercizi a corpo libero, giochi, improvvisazioni) il cui obiettivo, per citare rispettivamente due maestri fondatori del Teatro del Novecento (Peter Brook e Eugenio Barba), è quello di «rendere visibile l’invisibile» con un costante processo di sottrazione e con un allenamento che permetta di sperimentare una dimensione ‘extra-ordinaria’.
La memoria fisica conduce alla vita spirituale e il delicato compito del «direttore di attori» (così si fa chiamare Marco Lorenzi, piuttosto che «regista di spettacoli») è di disegnare, in maniera collettiva con l’intero ensemble, traiettorie che toccano le intime verità del testo, dei personaggi, degli attori e dell’impianto scenico.

Anche lo spazio teatrale nelle opere del Mulino riflette la natura più profonda del lavoro collettivo: si tratta di una creazione fatta «tutti insieme» senza alcuna «sudditanza», afferma Eleonora Diana, scenografa e videoartista che ha curato il visual concept di diverse produzioni del Mulino (p. 55).
Lo spazio (è ancora Peter Brook una delle principali fonti d’ispirazione) assume la valenza di spazio ‘vuoto’ e di spazio come ‘strumento’ ovvero di un luogo vitale dove sprigionare le potenzialità dell’energia espressiva e dove sperimentare, proprio a partire dallo spazio, le linee estetiche e poetiche delle opere rappresentate.
Ilena Ambrosio e Laura Novelli ci guidano, con un’analisi minuziosa, ad entrare nelle differenti modalità di utilizzo del dispositivo scenico: nelle prove di «spazio vuoto», in quelle di «spazio pieno» (si veda a tale proposito la parte dedicata a Kollaps/Collasso del drammaturgo contemporaneo tedesco Philipp Löhle, pp. 60-61) fino ai «nuovi approdi»: Come devi immaginarmi dedicato a Pier Paolo Pasolini e Come gli uccelli (pp. 61-64).

L’ultimo capitolo è dedicato al pubblico.
Il Teatro è incontro.
Il Mulino concepisce «(…) una visione dello spettatore fluida, non rigida né precostituita o precostituibile,» – scrivono le autrici – «che non lo ingabbia in una mera passività fruitiva; anche quando non direttamente chiamato in causa, egli costituisce comunque una delle componenti fondamentali del meccanismo drammaturgico e scenico» (p. 72).
Il Teatro, aggiungiamo, è l’incontro con l’altro. È relazione. È uno scambio vivo. E il Mulino ha scelto di tendere la mano all’umano con una ricerca votata a coinvolgere le identità, le differenze, a sentirsi ciascuno parte di un tutto. Un po’ come l’Uccello anfibio protagonista dell’opera di Wajdi Mouawad che, quando sembra non avere più speranze di vita, esclama: «Sono io! Sono uno di voi!».

Un messaggio civile e politico mai più attuale di oggi. Mentre terminiamo queste righe, il Mondo rischia di sprofondare nel caos. Basterebbe ripetersi «Sono io! Sono uno di voi!» per mettere fine a ogni guerra.

Il volume è completato da un ricco apparato iconografico; dagli scritti delle due anime fondatrici del Mulino, Marco Lorenzi e Barbara Mazzi; dalle voci della compagnia; dalle testimonianze di alcuni critici; da una dettagliata Teatrografia e una minuziosa Bibliografia.

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Lina prosa
20 Giugno 2025

Un’isola fra mito e futuro. Il testo di Lina Prosa commissionato da Corrao

Marta Occhipinti, «la Repubblica»

Tempo e silenzio sono trascorsi in quattordici anni. E in mezzo un testo teatrale rimasto nel cassetto, che fermò il suo orologio nell’estate del 2011. «Gentile e preziosa, amica, è mio desiderio riaffermare la peculiare identità siciliana, la sua molteplicità di spirito e di cultura, la stratificazione storica e poetica delle civiltà universali, la memoria ma anche l’oblio». A scrivere una lettera datata 21 aprile 2011 è l’ideatore di Gibellina Nuova, Ludovico Corrao. Il destinatario è la drammaturga Lina Prosa, che più avanti nell’epistola viene incaricata, per conto della Fondazione Orestiadi, di elaborare un testo drammaturgico che sarebbe stato rappresentato nell’edizione 2012 delle Orestiadi di Gibellina.

«Solo la scrittura poetica di Lina Prosa può tradurre la necessità della Sicilia di una sincera analisi e confessione rigenerante, progettare nuovi orizzonti per contribuire al processo di affermazione di antichi e nuovi valori nel dialogo con tutte le altre culture», aggiungeva l’ex senatore.

Il sogno di Corrao, interrotto nell’agosto del 2011 dal suo assassinio, era quello di un teatro del Mediterraneo, di un teatro che interrogando se stesso, prendendo in prestito sostrati di memorie mitiche e di vita vissuta, provasse a immaginare visioni future. E quel testo, sul quale Lina Prosa aveva iniziato a lavorare sin da subito fu interrotto proprio nell’attesa della consegna finale. L’incontro tra Prosa e Corrao iniziò nel 2008, quando andò in scena a Gibellina la versione francese di Lampedusa beach.
Una lettera, tre anni dopo quella rappresentazione, creò fra loro un ponte, dando licenza a una vicenda drammaturgica che si è risolta solo dopo quattordici anni, portando alla luce il testo commissionato da Corrao, pubblicato oggi da Cue Press, casa editrice digitale emiliana interamente dedicata alle arti dello spettacolo.

S’intitola Futuro poetico siciliano, ma a specificarne gli intenti è il sottotitolo: «Materiali vivi per un testo a venire», scelta che rivela una scrittura inconclusa «a supporto di una mia scelta di considerarlo terreno sperimentale in cui inglobare poeticamente il tempo trascorso tra la morte di Corrao e il mio presente. Ho ripreso in mano la scrittura dopo quattordici anni – racconta Prosa – perché le parole non vanno mai abbandonate soprattutto se si trovano in grammatiche sismiche come quelle della vita di Corrao».

Il mito del volo di Icaro, la Sicilia come fossa di figure mitiche che cadono nel suo mare cimitero di morte. E ancora, la ricerca di un linguaggio nuovo, che evoca figure letterarie siciliane, da «rosa fresca aulentissima» allo ’Ntoni dei Malavoglia, da Tancredi a don Fabrizio che si agitano come burattini in un’Isola dove «cambia tutto per non cambiare nulla».

Nel testo appaiono inquietanti luoghi isolani, a tratti bufaliniani, dove la Sicilia in cerca di un presente-futuro possibile si culla in un incanto. Ed è in quell’incanto la chiave del testo. «L’incanto non è magia, ma fermo-immagine, perché l’attività dell’isola si riduce al bisogno di chi la abita di vedere come si era all’ultimo minuto in cui la cosa accadde», scrive Prosa.
Protagonisti del testo sono gli ultimi abitanti di una polis rivoltata dai millenni in una terra archeologica, pista di caduta di tanti Icaro, dove in un immaginario suggestivo, un deserto di sale che cinge il mare e non lascia partire più nessuno. Prosa immagina che siano quei reperti a raccontare la loro storia tragica, mentre si dipanano in una scena, ancora solo scritta, divisa in zona bassa, la fossa di Icaro, e zona alta, occupata da una montagna di rovine accumulate a caso. Tuccio, il pescatore, Cosma, l’angelo nero, la matriarca Maria e la ribelle Tina popolano l’isola, cimitero bagnato, di Lina Prosa.

Le figure di Futuro possibile siciliano costruiscono una geografia del pensiero siciliano, quello cui Corrao reputava allora necessario dare voce, e che oggi Lina Prosa cala nel contemporaneo confuso, bellico, in cui si fa spazio il sogno del teatro, sbucato fuori come il sandalo di Empedocle dal cratere dell’Etna: ciò che resta dalla miscela magmatica dove si è disciolta la volgarità di una terra desertica, dove però un futuro poetico è possibile.

Samuel beckett
22 Maggio 2025

Aspettando Godot, dai Quaderni di regia e testi riveduti di Samuel Beckett

Adele Porzia, «ClussiCult.it»

Nel 1953 venne per la prima volta portato in scena Aspettando Godot, un’opera cui Samuel Beckett si era dedicato tra il 1948 e il 1949 e che avrebbe garantito la fama del suo ideatore e sancito la sua appartenenza al Teatro dell’assurdo. Inizialmente, non è stato lo stesso scrittore ad occuparsi della messa in scena dell’opera, sebbene sia stato sempre coinvolto nel suo allestimento. Per esempio, nel 1952 assistette alle prove dello spettacolo, sotto la regia di Roger Blin, per poi affiancarlo nel 1961.

Aiutò gli anni successivi registi come Anthony Page, nella produzione londinese al Royal Court, oppure Deryk Mendel che dirigeva la compagnia dello Schiller Theater. Per anni ha avuto a che fare con gli attori che avrebbero interpretato Vladimir ed Estragon, finché non gli fu offerto di dirigere lui stesso Waiting for Godot presso lo Schiller Theater di Berlino nel 1975.

Non era la sua prima volta alla regia, perché aveva diretto altri suoi testi come Finale di partita (1967), L’ultimo nastro di Krapp (1969) e Giorni felici (1971). Ma è la prima volta che dirige proprio Aspettando Godot.È un momento importante per comprendere la crescita di Beckett sia come regista, sia soprattutto come autore di teatro. Il suo quaderno di regia, pubblicato dalla Cuepress, è un’occasione per il lettore e per lo studioso di Beckett di comprendere il grande lavoro di revisione, rimaneggiamento e analisi che lo scrittore, nonché regista, ha operato sul testo.

Il quaderno riporta sulla destra le battute dei personaggi e sulla sinistra i calcoli, i movimenti scenici, le didascalie di Beckett e permette di comprendere il grado di studio e di ricerca dello scrittore, nonché tutti i significati metaforici e storici che l’autore intendeva dare all’opera. Grazie a questo quaderno, quindi, possiamo colmare (per quanto possibile) anche una serie di dubbi su alcuni dei significati di questa misteriosa opera. Innanzitutto, si ha la conferma della forte impronta cristologica dei due personaggi che, come i due ladroni del Vangelo di Luca, sono chiamati ad attendere Cristo e a interrogarsi sulla sua natura divina e sul significato stesso della vita.

All’interno di una strada di campagna, ambientazione della tragicommedia, i due vagabondi protagonisti, simbolo l’uno della terra e l’altro dell’aria o del cielo, sono condannati ad attendere qualcosa che non accade, l’avvento di qualcuno che non si presenterà mai in scena. E queste due figure esistono in virtù di tale eterna attesa. L’albero, presente in scena, è il simbolo proprio di una croce, intorno alla quale sono disposte le due figure, proprio come quelle dei ladroni.

E qui, nell’attesa di qualcuno che non arriva, nella consapevole mancanza di senso della vita, i due vagabondi assistono all’arrivo di Pozzo, un laido figuro, che giunge in scena con Lucky, una sorta di schiavo che tiene legato a sé da una corda. I due giungeranno sia nel primo che nel secondo atto, facendo percepire al pubblico da quanto Vladimir ed Estragon stiano attendendo Godot. E, infatti, nel secondo atto Pozzo sarà cieco e Lucky muto, segno del potere distruttivo del tempo.

Pozzo urlerà contro i due, irritato dalle loro continue domande su come e perché siano diventati l’uno muto e l’altro cieco, ma soprattutto sul quando, visto che credono di aver incontrato i due solo il giorno prima:

Ma la volete finire con le vostre storie di tempo? È grottesco! Quando! Quando! Un giorno, non vi basta, un giorno come tutti gli altri, è diventato muto, un giorno io sono diventato cieco, un giorno diventeremo sordi, un giorno siamo nati, un giorno moriremo, lo stesso giorno, lo stesso istante, non vi basta? (Calmandosi) Partoriscono a cavallo di una tomba, il giorno splende un istante, e poi è di nuovo la notte.

Samuel Beckett, Teatro, Einaudi, Torino 2014, p.91

La vita è, proprio come in Pedro Calderón de la Barca, un sogno, un’attesa ostinata di qualcosa che pian piano consuma chi attende. Beckett mette su un triangolo, ai cui vertici troviamo l’attesa, il silenzio e la mutilazione. I personaggi vivono e perciò seguono l’andamento di questo triangolo, per poi spegnersi del tutto, consumare la loro esistenza in un eterno silenzio.

E così, Beckett ricrea la società del tempo, in cui la cultura e la storia europea, che ha provocato la Shoah e la guerra, deve lasciare il passo alla modernità, al capitalismo, allo scontro tra le due nuove super potenze. E in questo scenario, l’essere umano, proprio come Vladimir ed Estragon, non ha alcun potere e può solo attendere la sua fine oppure qualcuno che rivoluzioni tutto, che porti la cessazione della sofferenza, la pace. E che ruolo può avere l’artista in questo tetro scenario? Lo spiega lo stesso Beckett proprio con il suo teatro: adoperare la scrittura per riflettere sul presente, strappare il velo di illusioni che circonda l’uomo e spronarlo a tornare a vivere. Accettare che la condizione umana è caratterizzata dall’assurdo, che è priva di logica e che nessuno può salvarci se non noi, adoperando ciò che abbiamo a disposizione.

Poter visionare e leggere il quaderno di Beckett ci permette di conoscere fino in fondo il suo pensiero e comprendere un’opera che non cessa di affascinare i lettori di ogni tempo. Una lettura che non posso che consigliare e che ha arricchito le mie conoscenze su questo affascinante ed eclettico artista.

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Kenji mizoguchi 2
13 Maggio 2025

L’ombra del ciliegio. Il cinema di Mizoguchi Kenji

Lorenzo Peroni, «ArtsLife»

Con Ozu Yasujiro, Naruse Mikio e Kurosawa Akira, Mizoguchi Kenji è considerato uno dei più importanti autori del cinema giapponese classico, un regista che, con la sua filmografia, ha accompagnato – dagli anni Venti agli anni Cinquanta, passando dal muto al sonoro, dal bianco e nero al colore – il Paese verso la modernità.
Sono i giovani critici cinefili dei «Cahiers du cinéma», negli anni Cinquanta, a capire l’importanza dell’opera di Mizoguchi:

Il suo cinema, infatti, è caratterizzato da uno stile di regia e messa in scena che si affida ai piani sequenza e ai long take, alle immagini distanziate, agli elaborati movimenti di macchina, alle inquadrature in profondità di campo e al complesso intrecciarsi e sovrapporsi di più dati iconicamente significanti. 

– spiega Dario Tomasi nell’introduzione del volume –

Si tratta di soluzioni che vanno tutte in una direzione ben precisa, in quanto evitano le forme consolidate del découpage classico, privilegiano i modi del montaggio interno, invitano lo spettatore a una lettura più attenta e a uno sguardo più critico, attivo e ‘moderno’.

In quegli anni vince tre volte il Leone d’Argento alla Mostra del Cinema di Venezia, nel 1952 con Vita di O-Haru, donna galante, nel 1953 con I racconti della luna pallida d’agosto e nel 1954 con L’intendente Sanshö.
Al centro della sua filmografia le donne, la condizione femminile nella società giapponese è per M​​izoguchi un filo rosso che si dipana attraverso gli anni, in diverse declinazioni: da una parte denuncia la condizione subordinata della donna in una società fortemente patriarcale come quella tradizionale giapponese, dall’altra la idealizza come «un oggetto, sebbene di culto e d’ammirazione». Le protagoniste dei suoi film sono donne divise tra spinte di emancipazione e spirito di sacrificio, dove sogni e aspirazioni soccombono al dovere imposto da rigide regole sociali.

L’ombra del ciliegio si configura come testo fondamentale per tutti gli amanti del cinema orientale (e non solo), il libro ricostruisce nel dettaglio la carriera di M​​izoguchi analizzandone la filmografia, titolo dopo titolo, affrontandone stili, temi e tecniche (i movimenti di macchina, la messa in scena, il montaggio), mettendo così in luce l’attualità e la modernità di film come Elegia di Osaka (1936), La Vendetta dei 47 ronin (1942), La strada della vergogna (1956).

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rafael spregelburd
26 Aprile 2025

«Il palco è magia, rito e catastrofe»

Rafael Spregelburd, «il Fatto Quotidiano»

Pubblichiamo uno stralcio di Sul mio teatro (Cue Press), raccolta di scritti di uno dei più influenti drammaturghi viventi: Rafael Spregelburd.

Delle diverse materie di cui è fatto il teatro, il tempo è senza dubbio una delle più ostinatamente misteriose. Addirittura mi piacerebbe azzardare che il teatro sia un esperimento pseudoscientifico sulla natura del tempo. Non solo è fatto di tempo, un tempo artificiale, ma oltretutto unifica in un tempo la storia sociale con quella individuale, e nel morire e rinascere a ogni replica mette in discussione la dispersione degli accadimenti nell’etere della casualità. Il teatro è una scodella di tempo da cui si beve un brodo primordiale. Da cui, ecco che molte definizioni di conformità teatrale si fanno strada brandendo un qualche concetto tecnico di tempo: ciò che la musica stessa fa con rigore (perché altrimenti non esiste), il teatro lo fa con ironia e imprecisioni. Nonostante ciò, la nostra stessa concezione del tempo, dei suoi utilizzi e addomesticamenti, cambia costantemente e, in quest’era di postumanizzazione e di reset delle condizioni di sfruttamento (ossia, dell’uso del nostro tempo in mani altrui), è probabile che i problemi ci risultino al contempo del tutto sconosciuti e radicalmente eterni…

In Tradimenti , Harold Pinter inaugura un esercizio formidabile. Racconta la storia di un matrimonio che comincia a sfaldarsi quando la moglie inizia a vedersi di nascosto con il migliore amico del marito. Pinter decide di raccontare questa storia ‘banale’ al contrario. La prima scena è quando gli amanti decidono di smettere di vedersi, risultato della noia e dell’entropia che ha usurato quell’amore fugace che li ha portati a eludere tutti i presupposti. Poi vediamo quando affittano un appartamento per potersi vedere senza che il marito sospetti eccetera. E così fino al finale, forse la scena più commovente mai scritta in lingua inglese, la scena in cui l’amico del marito, ubriaco il giorno stesso del suo matrimonio, dichiara il suo amore alla donna, senza sapere che abbiamo già visto tutte le tristi conseguenze di quest’atto umano, inesplicabile e palese. Cosa c’è di tanto commovente? L’argomento? L’amore, il matrimonio, il tradimento? No. Gli argomenti sono sempre gli stessi in teatro: la morte, l’amore, la pulsione sessuale. L’aspetto davvero commovente è che percepiamo il tempo come qualcosa di corrotto, capovolto, nuovo. E quando si capovolge il tempo, accade quanto di più affascinante per la mente razionale: la catastrofe. Siamo animali di ragione, per questo ci seduce tanto la catastrofe, diceva Eduardo del Estal. Quando si altera l’ordine degli accadimenti, semplicemente causa ed effetto agiscono in modo avvelenato; la freccia del tempo, la dispersione entropica delle nostre decisioni, sta al contrario, e allora disconosciamo tutto ciò che credevamo di conoscere: l’amore, il matrimonio, il tradimento, la morte del desiderio, ergo: la morte… Nel teatro lottano l’effimero contro l’eterno. L’attore nasce, vive e muore in ogni replica. La respirazione che precede il buio finale è sempre allegoria dell’ultimo respiro, la luce che graffia l’oscurità dell’inizio è analoga al parto e alla nascita. E poi, si ricomincia. Si può nascere e morire migliaia di volte? No. Solo in teatro. Per questo lo continuiamo a fare. È l’unica forma di dominio sul tempo che ci hanno regalato gli dèi prima dell’uscita di scena.

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22 Aprile 2025

Condannato alla fama: la vita di Samuel Beckett, saggio di James Knowlson

Adele Porzia, «ClussiCult.it»

Qualche giorno fa, ho terminato di leggere un libro denso come quello di James Knowlson, edito da CuePress, col titolo Condannato alla fama: una vita di Samuel Beckett. Un saggio lungo seicento pagine e di una certa complessità, in grado di far entrare il lettore nella vita di questo geniale drammaturgo, traduttore, poeta, romanziere e finanche cineasta, rivelando quegli aspetti che solitamente non si studiano all’università o che comunque io non avevo mai incontrato nei miei studi.

Questo drammaturgo irlandese, che per l’intera durata della sua vita ha cercato di sperimentare e rappresentare le trasformazioni del suo presente, viene soprattutto ricordato per un nuovo genere teatrale, nonché filosofico, conosciuto con il nome di Teatro dell’assurdo, di cui è uno dei principali esponenti. Non è, naturalmente, il suo solo ideatore e rappresentate di questo nuovo modo di fare teatro, ma spesso viene associato ai due drammaturghi francesi Eugène Ionesco e Arthur Adamov, nonché al britannico Harold Pinter.

Ma che cos’è il teatro dell’assurdo? Innanzitutto, il termine è stato coniato da Martin Esslin nel saggio del 1961, intitolato proprio Teatro dell’assurdo, e tale denominazione indicherebbe una serie di opere teatrali, scritte tra gli anni quaranta e gli anni sessanta, nelle quali viene abbandonato ogni procedimento narrativo e razionale, sino al rifiuto di adottare un linguaggio logico e consequenziale. Questo tipo di teatro, quindi, consiste nel portare in scena dialoghi senza un apparente filo logico, tenuti insieme da un linguaggio atipico.

Le stesse trame non sembrano seguire un criterio logico-razionale, ma sembrano immerse e avvolte da un alone di sogno. Questo sia per poter sfuggire alla censura e al perbenismo imperante in quell’epoca (e che Beckett aveva sperimentato sulla sua pelle) sia per trasmettere un messaggio sulla guerra, sull’epoca corrente, sul potere dominante e sulla condizione umana, senza le trappole della razionalità e della logica. L’esigenza era quella di sfuggire alle regole del tempo, ma anche di creare qualcosa di totalmente diverso, che riflettesse l’atmosfera di quegli anni e la loro apparente mancanza di senso.

Sicuramente, come nota lo stesso James Knowlson nel saggio sulla vita di Beckett, molto della formazione di questo nuovo teatro è dovuto ai numerosi contatti che l’autore ha avuto con gli intellettuali e artisti di Parigi, dove si recava spesso da Roussillon, luogo in cui si era rifugiato dopo la Seconda Guerra Mondiale. Ed è proprio qui che tra il 9 ottobre 1948 e il 29 gennaio del 1949, influenzato dal teatro parigino e dalle sperimentazioni letterarie di Parigi, iniziò la stesura di Aspettando Godotin francese, per poi riprendere la stesura di quella che lo stesso autore definì una tragicommedia in due atti nel 1954, stavolta in inglese.

Per ricostruire tutto questo periodo, James Knowlson, professore emerito presso l’Università di Reading di Londra, ha recuperato i due massicci volumi di lettere che sono state pubblicate dalla Cambridge University Press tra il 2009 e il 2016. Ha usato questo vasto supporto cartaceo per ricostruire eventi della vita privata e dell’opera di Beckett che non era mai stati resi noti dalla critica. Un lavoro certosino, insomma, che ci rivela anche il metodo di questo eclettico artista, sempre presente alle prove fatte a teatro e pronto a dire la sua per quanto riguarda l’allestimento e la messa in scena delle sue opere, finché nel 1975 non si occupò lui stesso della regia tedesca di Aspettando Godot (Warten auf Godot) presso lo Schiller Theater di Berlino e, poi, di altre sue opere teatrali.

Knowlson, inoltre, ha anche curato una serie, pubblicata sempre dalla Cuepress, di Quaderni di regia e testi riveduti di Samuel Beckett, in cui mostra il modo in cui l’artista scriveva le sue opere, metodo che viene ricordato perfino da Francesco Piccolo in un libro edito da Einaudi nel 2024, che si intitola Scrivere è un tic. I metodi degli scrittori, pp. 24-25: «il drammaturgo usava un quaderno di scuola a quadretti e sulla pagina destra scriveva il testo. Sulla pagina sinistra, invece, faceva delle aggiunte, inseriva qualche suo commento, annotava delle cifre e i movimenti scenici degli attori. Segno di come ogni cosa nel modo di fare teatro di Beckett fosse studiata a tavolino».

Scrive Ruby Cohn, a proposito della messa in scena berlinese che:

Non si tratta di una regia in un senso tradizionale, ma di attenzione a chi guarda dove in ogni momento, con la vittoria, passaggio per passaggio, di ciascun attore sull’immobilità, con il disegno generale dei movimenti sul palco, con il contrasto di parole e gesti, con echi visivi, simmetrie e opposizioni.

R. Cohn, Just play: Beckett’s theater, Princeton University Press, Princeton 1973, p.7

Con Condannato alla fama: una vita di Samuel Beckett, James Knowlson ha scritto un saggio ricco e complesso, che può rivelarsi un valido strumento di comprensione e analisi dell’opera di Beckett e che rivela la stretta connessione tra la sua vita, le vicende storiche che ha vissuto e il modo in cui questo straordinario drammaturgo vede e intende l’opera d’arte.

Quando è stato insignito del premio Nobel per la letteratura nel 1969, perché ha raccontato secondo la forma del dramma e del romanzo la condizione dell’uomo moderno, Beckett ha ritenuto che questa sarebbe una catastrofe, la fine della sua tranquillità. Infatti, racconta il professor Knowlson che il drammaturgo si nascose, per sfuggire alle interviste e alle foto dei giornalisti in un albergo a Nabeul. Sarebbe rimasto lì, finché non si fossero calmate le acque. Poi, fu avvistato nella hall dell’albergo qualche giorno più tardi, con un sigaro in bocca e i capelli cortissimi, e la stampa non gli diede tregua.

Era una delle persone più famose dell’epoca e riteneva, timido e geloso com’era della sua privacy, che fosse una condanna, più che una gioia. E, in quella circostanza, aveva sperimentato la forma peggiore di una condizione, quella della fama, di cui aveva già parlato nel suo unico lungometraggio, che si intitola proprio Film e che risale al 1965.

In questo suo lavoro, indagava sull’occhio della telecamera, che insegue il protagonista, interpretato da Buster Keaton, ovunque: in strada e perfino sulle scale di casa e nel suo appartamento, rendendone impossibile la fuga. E quello che voleva rappresentare attraverso l’occhio implacabile della telecamera, che stana ovunque le sue vittime, non era semplicemente il mezzo cinematografico, ma la fama, la gloria e quel desiderio degli altri di possedere chi è oggetto della fama.

A questa condizione Beckett sarà sempre condannato, sia quando sfuggirà alla morte durante la guerra, sia quando otterrà i suoi primi successi come scrittore, al punto che James Knowlon ha ritenuto di dover inserire tale condanna proprio nel titolo di questo straordinario volume, che consiglio agli addetti ai lavori e a chiunque voglia cimentarsi in una lettura complessa su uno dei più grandi drammaturghi del nostro tempo, che ha cambiato il nostro modo di concepire il teatro.

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Teatro ribalta
27 Marzo 2025

I primi dieci anni del Teatro la Ribalta in un libro

Floriana Gavazzi, «RaiNews»

Un libro fresco di stampa raccoglie i primi dieci anni di storia del Teatro la Ribalta – Arte della diversità, che ha fatto di Bolzano un centro di eccellenza per la ricerca teatrale con persone in situazione di disagio psichico.

Ne abbiamo parlato con il fondatore e regista Antonio Viganò. Il primo spettacolo manifesto è stato Impronte dell’anima, sulla follia nazista che pianificò l’eliminazione sistematica delle persone con disabilità. Uno spettacolo che, in una nuova versione, va in scena ancora oggi.

Impronte dell’anima è stato il primo di 17 spettacoli prodotti e messi in scena tra il 2013 e il 2023 dal Teatro la Ribalta – Kunst der Vielfalt in «dieci anni straordinariamente normali», come dice il sottotitolo del libro appena uscito, edito da Cue e curato dal compianto Massimo Bertoldi. Lo storico del teatro dell’Alto Adige morì improvvisamente il 31 agosto 2024, pochi giorni dopo la chiusura del libro.
Oggi la cooperativa sociale di tipo B del Teatro la Ribalta dà lavoro a 16 persone, di cui 11 svantaggiate. La sede T.RAUM, in zona industriale a Bolzano, è diventata troppo piccola.

Con un’ottantina di repliche all’anno, tournée in 9 paesi europei e 4 extraeuropei, diverse coproduzioni e un proprio cartellone teatrale – Corpi eretici – il Teatro la Ribalta si è affermato in Alto Adige come una realtà culturale di grande vitalità e ha ottenuto una serie di prestigiosi premi nazionali. Vogliamo essere parte del teatro e non un teatro a parte, ci ha detto Viganò.

Il libro sui primi dieci anni del Teatro la Ribalta sarà presentato il 9 aprile alle 18 alla libreria Cappelli di Bolzano.

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La voce dei protagonisti

Storie e parole dei grandi maestri dello spettacolo

Cue Press è lieta di presentare la sua serie esclusiva di pubblicazioni, un tributo immersivo ai grandi protagonisti del cinema e del teatro. Queste opere rappresentano una collezione preziosa di interviste e scritti di prima mano direttamente dalle menti e dai cuori degli artisti che hanno plasmato l’industria dello spettacolo nel corso dei decenni. Ogni […]

I maestri russi del Novecento

La Rivoluzione teatrale russa tra estetica e sperimentazione

Un progetto ambizioso e esauriente dedicato al teatro russo, esplorando le opere e le influenze di alcuni dei più grandi maestri del Novecento. Questa iniziativa editoriale non solo celebra le opere iconiche di Anton Čechov, Vsevolod Mejerchol’d, Konstantin Stanislavskij, Nikolaj Vactangov e Aleksandr Tairov, ma anche offre una profonda analisi curata da esperti come Fausto […]

Lotte Eisner e il cinema espressionista

Le ombre e la luce del cinema: il pensiero e le opere di Lotte Eisner

Lotte Eisner, storica del cinema e critica franco-tedesca, è una figura di spicco nello studio del cinema espressionista tedesco. Nata nel 1896 e scomparsa nel 1983, ha dedicato la sua carriera all’analisi del cinema tedesco degli anni Venti e Trenta, diventando un punto di riferimento per studiosi e cineasti. La sua influenza si estende anche […]

Vittorio Gassman, più di un mattatore

Un viaggio attraverso le memorie e le riflessioni di un gigante dello spettacolo

Vittorio Gassman (1922-2000) è stato uno degli attori più celebri e poliedrici del teatro e del cinema italiano. La sua carriera, lunga e ricca di successi, ha attraversato oltre cinquant’anni, affermandolo come una figura centrale nel panorama artistico italiano. Cue Press è orgogliosa di presentare alcune opere chiave di Vittorio Gassman che offrono uno sguardo […]

…se Fosse premio Nobel?

Jon Fosse: tra profondità emotiva e riflessioni esistenziali

Jon Fosse, uno degli scrittori più influenti e prolifici della Norvegia contemporanea, ha trovato in Cue Press una piattaforma ideale per le sue opere, ben prima della vittoria del Nobel. Cue è entusiasta e onorata di presentare le sue creazioni uniche, offrendo al pubblico italiano la possibilità di esplorare una selezione curata delle sue opere […]

Un nuovo Beckett, partendo dai suoi quaderni

Appunti, revisioni, annotazioni e traduzioni del genio beckettiano

I quaderni di regia e testi riveduti di Samuel Beckett arrivano in Italia! Un’immensa quantità di materiali inediti, affiancati dalle edizioni critiche di James Knowlson e Stanley E. Gontarski, massimi esperti mondiali di Beckett. I quaderni di regia gettano una nuova luce sull’autore di Aspettando Godot e sui suoi capolavori, offrendo un prezioso strumento per […]
17 Giugno 2024

Arlecchino. Vita e avventure di Tristano Martinell...

Siro Ferrone, «Drammaturgia»

«Prima dell’apparire di Arlecchino, nelle piazze e sui palcoscenici improvvisati dei teatri effimeri c’erano stati… gli zanni. Personaggi rappresentativi di un’umanità animalesca, nascosti da maschere bestiali e grifagne, talvolta incorniciate da ispide barbe, vestivano panni di tela grezza, a imitazione degli abiti da lavoro dei facchini, degli operai del porto, o dei campi: erano questi […]
15 Giugno 2024

Chi ha paura dei premi Nobel? Tre piccoli gioielli...

Alessandra Calanchi, «Girodivite»

Ho trovato questi tre piccoli gioielli contestualmente – mea culpa – alla scoperta di una piccola e formidabile casa editrice di nicchia (CUE Press). I tre volumetti in questione riguardano Jon Fosse, norvegese, premio Nobel per la Letteratura 2023, passato quasi inosservato ai più, anche se considerato dai critici il nuovo Ibsen o il nuovo […]
12 Maggio 2024

Il dolce stil no

Federico Platania, «SamuelBeckett.it»

È indicata come ‘avvertenza’ nel volume, quasi un voler mettere le mani avanti, l’informazione che le pagine che abbiamo tra le mani non sono nate da un progetto autonomo bensì prendono vita in forma di ‘resto’, di ‘avanzo’ del poderoso Meridiano dedicato a Beckett uscito solo pochi mesi fa. Sto parlando del volume Il dolce stil no di Gabriele […]
3 Maggio 2024

Jon Fosse a Ravenna, il premio Nobel per la Letter...

Piero Di Domenico, «Corriere di Bologna»

Premi Nobel per la Letteratura in visita in Emilia-Romagna. Una prassi che negli ultimi anni sta trovando una certa continuità, dalla francese Annie Ernaux, nel 2022 ospite a Bologna del festival «Archivio Aperto» di Home Movies, al tanzaniano Abdulrazak Gurnah, l’anno scorso al «Festival delle Culture» di Ravenna. La città romagnola quest’anno concede anche il […]
20 Aprile 2024

Il teatro è il momento in cui un angelo attravers...

Simone Sormani, «Proscenio», IX-4

Non era di certo tra gli autori più conosciuti in Italia, Jon Fosse. Almeno fino al 5 ottobre scorso, quando è stato proclamato vincitore del Nobel per la Letteratura 2023. Quel giorno le richieste di suoi volumi alla Cue Press sono schizzate da circa uno o due all’anno a duemila cinquecento in un’ora. Lo ha […]
19 Aprile 2024

La violenza del potere. Eterna. Come le vicende um...

Andrea Bisicchia, «lo Spettacoliere»

L’idea del libro Perché il Teatro? è di Milo Rau, il regista svizzero, molto impegnato socialmente, con spettacoli ambientati in Amazzonia o a Monsul, in Kurdistan, utilizzando personaggi del mito, alquanto famosi, come Oreste e Antigone, facendoli diventare, attraverso le loro storie tragiche, emblemi dei giovani d’oggi che vivono, drammaticamente, gli stessi problemi, come a […]
15 Aprile 2024

Why Theatre?/Perché il teatro?

Massimo Bertoldi, «Centro di cultura dell’Alto Adige — Il Cristallo»

È da quando esiste il teatro che si sollevano domande intorno al suo motivo di essere e al suo relazionarsi al mondo. Le risposte, ovviamente tante e diverse, derivano dal tempo storico e dal contesto socioculturale, cha alimentano anche sogni, utopie, progetti su quello che lo stesso teatro potrebbe diventare e trasformarsi in una prospettiva […]
7 Aprile 2024

La parola, come viaggio nella deriva. Dialogo con...

Tiziana Bonsignore, «Teatro e Critica»

Raggiungiamo Lina Prosa al telefono poco dopo il suo ritorno dall’America Latina: «Un’esperienza straordinaria, magari si potesse più spesso». Prima autrice italiana a entrare nel repertorio della Comédie Française, con la sua Trilogia del Naufragio sulle migrazioni nel Mediterraneo, ha scritto testi legati al recupero contemporaneo di moduli e temi della drammaturgia classica. Assieme ad Anna Barbera è fondatrice del Centro […]
30 Marzo 2024

Madri e attori: i piccoli eroi di Lina Prosa in un...

Guido Valdini, «la Repubblica»

La drammaturgia di Lina Prosa, radicata nel mito classico (è nata a due passi dal tempio dorico di Segesta), ambisce a fare scivolare le profondità degli archetipi nel moderno (o post moderno); combina, così, l’eroico col minimale e la metafora con la denuncia politico-sociale, in una struttura linguistica antiletteraria e fratturata che aggira l’oggettività del […]
30 Marzo 2024

Top Girls di Caryl Churchill

Andrea Pocosgnich, «Teatro e Critica»

La produzione di Top Girls del Teatro Due di Parma ha prodotto non solo uno spettacolo che nella regia di Monica Nappo è un oggetto molto interessante e inaspettato, ma anche la pubblicazione del testo di Caryl Churchill. Opera drammaturgica del 1982 che squaderna sul palco prima un gruppo di «signore del passato» (come le […]
30 Marzo 2024

Edoardo Fadini, Scritti sul teatro, a cura di Arma...

Andrea Pocosgnich, «Teatro e Critica»

«Uno sguardo fortemente politico ma mai piegato a ragioni semplicemente ideologiche, segnato in profondità dal metodo dialettico eppure molto netto nel giudizio. Un punto di vista che si sviluppa compiutamente all’interno delle dinamiche, delle tensione e delle contraddizioni del tempo che attraversa e per questo ancora più interessante per noi lettori ormai inevitabilmente distanti da […]
26 Marzo 2024

Condannato alla fama: la vita di Samuel Beckett

Massimo Bertoldi, «Centro di Cultura dell’Alto Adige»

Nel catalogo dell’imolese Cue Press il nome di Samuel Beckett è una sorta di fiore all’occhiello tanti sono i libri inediti per l’Italia pubblicati in questi anni, dai fondamentali Un canone di Ruby Cohn Capire Samuel Beckett di Alan Astro cui si affianca la serie Quaderni di regia e testi riveduti curata da Luca Scarlini finora […]
22 Marzo 2024

Condannato alla fama: chi se non Beckett?

Anna Maria Sorbo, «Limina Teatri»

Grazie alla Cue Press, casa editrice specializzata in teatro, cinema e arti, di stanza a Imola e di larghe vedute riguadagniamo una delle più appassionanti biografie letterarie dei nostri tempi, incredibilmente da noi fuori catalogo da anni: Condannato alla fama: la vita di Samuel Beckett di James Knowlson, riproposta con la cura di Gabriele Frasca e la […]
18 Marzo 2024

Per il Nobel Jon Fosse è difficile riconciliarsi...

Andrea Bisicchia, «lo Spettacoliere»

L’investitura del Nobel è molto simile all’investitura di un Papa, nel senso che, grazie alla popolarità raggiunta, anche gli scritti, che si tenevano nel cassetto, trovano immediata pubblicazione. In Italia, Jon Fosse non vantava certo una grande popolarità, si deve a case editrici che hanno scelto di pubblicare solo teatro, sia per quanto riguarda i […]
11 Marzo 2024

I supereroi al cinema

Alessandro Mastandrea, «fantascienza.com»

Dopo decenni in cui erano poco più che macchiette, dalla fine degli anni Settanta, lentamente ma costantemente, i supereroi si sono ricavati spazi e attenzione sempre maggiori nel mondo del cinema. Prima il Superman di Donner, poi il Batman di Burton, poi via via Iron Man, 300 e Watchmen di Zack Snyder, il Batman di […]