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Approfondimenti, interviste, recensioni e cultura: il meglio dell’editoria e delle arti da leggere, guardare e ascoltare.

Beckett graffito
31 Gennaio 2024

Beckett e l’arte seria dell’ironia

Giancarlo Visitilli, «Corriere del Mezzogiorno»

Com’è difficile parlare di uno dei più grandi drammaturghi, scrittori, poeti, traduttori e sceneggiatori del secolo scorso, Samuel Beckett. Difficile come parlare della luna, sosteneva lo stesso: «È così scema la luna. Dev’essere proprio il culo quello che ci fa sempre vedere». E sembra che Enzo Mansueto abbia fatto sue le parole e tutto il senso di un autore che non ha mai dismesso l’arte seria dell’ironia, curando lo straordinario Beckett: un canone di Ruby Cohn, in libreria per i tipi di Cue Press.

Mansueto, anch’egli scrittore, poeta, critico letterario e musicale, docente di lettere, dagli anni Ottanta impegnato negli studi sull’opera del drammaturgo irlandese, della monumentale opera di Cohn, oltre a curare la meticolosa traduzione, scrive la prefazione. Il volume è un vero e proprio scrigno che conserva studi accurati, esperienze teatrali e lezioni critiche, con un’analisi acuta e completa delle opere di Samuel Beckett. C’è tanto di poco o per nulla conosciuto, specie delle poesie degli esordi. Ma la bellezza di questa pubblicazione consta nell’avere fra le mani le opere beckettiane, con accanto un’approfondita ricerca filologica sulle stesse, mai disgiunta da narrazioni e aneddoti legati alla grande esperienza di amicizia fra Ruby e l’artista.

Ruby Cohn è stata una studiosa di teatro e docente di Comparative Drama presso la University of California. Nel 1953, ancora dottoranda alla Sorbona di Parigi, assistette alla prima di Aspettando Godot, un’esperienza che la spinse a dedicare la propria carriera allo studio delle opere di Beckett. Con il passare del tempo, sviluppò un legame intimo con lo scrittore irlandese diventandone un’amica stretta. Sin dal titolo di questo importante e completo studio sull’artista irlandese, ci si impressiona, trattandosi della proposta di un canone. «Mantenendo nel titolo l’articolo indeterminativo voluto dall’autrice –Mansueto fa riferimento alla Cohn – a rimarcare l’instabilità dell’opera complessiva, il rifiuto di ogni monologico schema esegetico, così come la provvisorietà di ogni rilettura, a fronte di un vaglio cronologico che indugia, inciampa, riflette su false partenze, fiaschi e opere abbandonate». Quasi a sottolineare anche l’impossibilità di racchiudere l’opera e la stessa poetica di un autore che si rinnova di lettura in lettura, di scena in scena.

È inquieto il pensiero di Mansueto rispetto a un autore poco amato dal «bel paese là dove’l sì suona». La storia della messa in scena di opere teatrali di Beckett in Italia, scrive il critico nella sua prefazione, «è alquanto contrastata e la frequenza si fa via via più esigua, anche per responsabilità dirette, in verità, di chi ne gestisce, con miope burocrazia questurina, i diritti». Straordinarie le pagine in cui si ammette il percorso singolare di Beckett nel comico: «La riduzione sintattica e verbale, lo scetticismo ingenuo e profondo sono tali che a volte la commedia sembra nascere solo dal ritmo. Poi afferriamo frammenti di senso, solleviamo un velo dopo l’altro, sbattiamo il cervello sulla finzione ancora e ancora, e torniamo al punto di partenza della risata isterica, forse per la nostra situazione. Se non fosse così patetico, potrebbe essere tragico».

E Mansueto scrive di una gamma del comico come «controparte del tragico». Con uno stile saggistico «umanistico», le pagine tradotte da Mansueto «hanno anche uno spiccato carattere didascalico e introduttivo, per quanto, soprattutto per i riferimenti ellittici a opere meno frequentate e per la trattazione alquanto allusiva dell’opera in versi, si richieda una conoscenza o, quantomeno, la consultazione, durante la lettura, dei testi trattati». Essendo la produzione beckettiana di vasta portata, è naturale che la stessa Cohn si accorga del sovvertimento dei generi, delle stesse gerarchie linguistiche, sempre messi a soqquadro e completamente reinventati. Leggendo (senza l’imprescindibile matita) Beckett: un canone, si ha l’impressione di trovarsi dinanzi a un libro che non è saggio, ma conserva le emozioni del romanzo, facendo della vita dell’immenso artista irlandese la sua stessa opera d’arte.

Emozionano le parole di Mansueto, alla fine della sua prefazione: «Faceva freddo, quella sera di gennaio, nel 1953, a Parigi. La guerra non era lontana. Neanche oggi. Ma siamo sotto un sole che brucia, come in Giorni felici». Beckett aspetta un tempo che si rinnovi, e non sempre nel bene, ma fiducioso che Go- dot, nonostante tardi ad arrivare, lasci gli umani almeno vigili.

Samuel beckett
31 Gennaio 2024

Un estratto dalla prefazione «Faceva freddo a Parigi»

Enzo Mansueto, «Corriere del Mezzogiorno»

Quella del 5 gennaio 1953 fu una serata fredda, a Parigi. Questo, almeno, è ciò che riferiscono le memorie di chi c’era, nonché qualche vecchio giornale, oltre ai registri meteorologici. La mattina del nuovo anno la città s’era risvegliata sotto un inusuale manto di neve, a seguito di una tempesta che aveva spazzato il nord-ovest di Francia. Quella settimana nevicò persino in Costa Azzurra. Un tempo di tregenda, che andava avanti da giorni e giorni e sarebbe perdurato per alcuni giorni ancora. […]

Ruby Cohn era una studentessa americana di trent’anni, a Parigi solo da alcuni mesi. Nell’Europa del secondo dopoguerra, in una capitale di rovine, il contributo di Uncle Sam non si palesava soltanto coi dollari del piano Marshall per la ripresa, evidentemente. Dottoranda in letterature comparate alla Sorbona, Ruby […] alloggiava in una stanzetta, non riscaldata, di Rue Huysmans, quella via breve e residenziale del 6e arrondissement, che dagli anni Dieci sbuca sul Boulevard Raspail, oggi perfettamente in asse con la Tour Montparnasse, il controverso grattacielo inaugurato nel 1973. Quel monolite mastodontico, scuro e solitario nello skyline della Parigi da cartolina, non c’era ancora.

Una di quelle gelide mattine di inizio gennaio del 1953, risalendo di pochi passi il Boulevard Raspail, la dottoranda dell’Ohio, appassionata frequentatrice di teatri e bistrò, fu improvvisamente attratta da una locandina affissa al civico 38, all’ingresso del Théâtre de Babylone, teatro piccolo e non riscaldato, che annunciava la prima rappresentazione di un’opera scritta da un misconosciuto autore irlandese ‘compagnon de James Joyce’. Il debutto di En attendant Godot, meno clamoroso di quanto le bocche magnificanti della storiografia postuma e l’ornamento della leggenda non raccontino […], avrebbe impresso una svolta significativa all’opera e alla vita di Samuel Beckett (condannato alla fama!), così come agli sviluppi del teatro contemporaneo, nonché, in modo davvero determinante, alla vicenda, tanto privata quanto accademica, di Ruby Cohn…

Gabriele frasca foto dino ignani
30 Gennaio 2024

Intervista a Gabriele Frasca

Matteo Marelli, «Film TV», XXXII-5
L’occasione di dedicarci a Samuel Beckett e di confrontarci con Gabriele Frasca, poeta, massimo studioso italiano, curatore e traduttore del recentissimo Meridiano dedicato all’autore (Beckett – Romanzi, teatro e televisione), ci è offerta dall’uscita in sala di Prima danza poi pensa – Alla ricerca di Beckett, fantasioso biopic di James Marsh. «Fantasioso» perché il film si apre su un episodio mai accaduto, ma capace d’inquadrare il tormentato rapporto che Beckett ebbe con il trionfo: lo vediamo all’Accademia reale svedese commentare la vittoria del Nobel con un lapidario «Che catastrofe!». Nella realtà, non andò a ritirare quel premio. Perché, cosa temeva della «condanna alla fama»?

Temeva la disattenzione dall’opera. Comunque a esclamare «Quelle catastrophe!» fu la moglie, Suzanne Dechevaux-Dumesnil. Poi, come dici, Beckett non ritirò il premio, cosa che fece Jérôme Lindon, il suo editore francese. Decise comunque di presentarsi a patto di non rispondere a nessuna domanda e d’intrattenersi per le foto di rito il tempo necessario a fumare un sigaro. La scena, che venne poi replicata a favore di un’emittente svedese, la si trova su YouTube. Beckett non era contro il Nobel, anche se, attenzione, fu veramente tentato di rifiutare, ma per un motivo ben diverso da quello prospettato dal biopic: a rivelarcelo è stato uno dei suoi attori preferiti, nonché suo grande amico, Jack MacGowran – il professor Abronsius di Per favore, non mordermi sul collo! – che racconta di quanto Beckett si ritenesse ‘indegno’ di ricevere un’onorificenza che a James Joyce non venne mai data; quel Joyce col quale ebbe un rapporto molto più importante di quanto tratteggiato da Marsh nel suo film.

Nel saggio introduttivo del Meridiano riflette sulla «lenta inesorabile sparizione dell’opera» dal mercato editoriale italiano, ma non dell’autore, diventato una sorta di icona pop. Come si spiega quest’attenzione schizofrenica nei confronti di Beckett? Pensa ci sia qualcosa nella sua arte che oggi si preferisce rimuovere? Penso a quando scrive «in una società a trazione immaginaria il personaggio divenuto autocosciente è come se ci venisse a stanare».

Sicuramente è così. Quando Beckett apparve sulla scena francese con i suoi primi romanzi – perché è lì che si afferma – è stato immediatamente tradotto in italiano e le case editrici, pur vendendo poco le sue opere, si vantavano di averlo tra i loro autori, consapevoli della sua importanza sulla scena europea. Poi, a partire dagli anni Ottanta, è successo qualcosa che lo ha fatto progressivamente sparire dalle librerie italiane e questo qualcosa – che non ha interessato soltanto l’Italia – è la nascita dei grandi monopoli editoriali che, politicamente, hanno investito su tutto ciò che era semplice. Intendiamoci, è così ovunque, ma nelle altre nazioni la cultura considerata ‘alta’ viene comunque protetta. È triste per un autore che ha amato oltremisura l’Italia; l’autore che forse ha maggiormente letto e ‘usato’ Dante nel Novecento, tanto che una sua amica irlandese in una lettera gli scriveva: «Tu sei il più italiano dei nostri autori».

Un aspetto fondamentale è la natura intermediale dell’opera beckettiana: dalla poesia-narrativa alla drammaturgia, poi la radio (i lavori commissionati dalla Bbc per Third Programme) e, infine, la televisione. Per Beckett però non si è mai trattato di ‘tradurre’ la sua poetica per il diverso formato, ma di ripensare ogni volta il proprio fare a seconda delle specificità del mezzo con cui si andava a confrontare.

Qualcuno potrebbe pensare che si tratti di committenze. Per la radio è stato così: la Bbc lo ha chiamato per chiedergli esplicitamente un radiodramma e Beckett, invece di spaventarsi, reagì super positivamente. Ma la cosa incredibile è che alla televisione Beckett è arrivato per i fatti suoi: è lui a scrivere un testo per la tv e solo dopo lo manda alla Bbc. Per questo Deleuze ha detto che la televisione lo aspettava come un destino, perché ci è arrivato autonomamente. A un certo punto ha avuto un’idea che non poteva essere per il teatro, ed è stato esattamente quando il suo teatro ha cominciato a utilizzare delle formule che sono tipiche della rappresentazione audiovisiva; basti pensare a Mica io dove sul palcoscenico si vede solo una bocca: quello che in tv sarebbe come un normale primissimo piano a teatro invece ci sconvolge. Beckett ha sentito che la televisione poteva diventare il mezzo della nuova realtà quotidiana e quindi bisognava ripensarsi in relazione a questo strumento, da qui le sue regie – firmate prima di diventare regista teatrale – per la rete televisiva tedesca Sdr. E questo succede in un momento in cui le televisioni dell’epoca, per spinta interna, sono rivolte a sperimentare il mezzo – in Italia succede con Carmelo Bene. Quando Beckett scrive L’ultimo nastro di Krapp coglie nell’utilizzo domestico del nastro magnetico quella tendenza, ora esplosa, di conservare memoria di sé («torna ancora, torna ancora», ripete Krapp), di scannerizzare ogni attimo della nostra vita. Intuisce che quei mezzi che inizialmente ‘subivamo‘ ci avrebbero poi abitato.

Tra i molti mezzi coi quali Beckett si è confrontato c’è anche il cinema, mi riferisco all’esperienza di Film. A riguardo di questo lavoro lei scrive una cosa molto interessante: che Beckett arriva a eludere il montaggio per costringere la macchina a divenire personaggio persecutore.

In quello stesso periodo realizza una messa in scena che si intitola Commedia in cui, grazie all’uso di un riflettore che s’illumina e si spegne inquadrando tre personaggi diversi, crea il montaggio a teatro e poi fa Film, comica tremenda e stralunata (che richiama i versi di una sua poesia: «il peggio/di faccia/finché/ridere faccia») in cui elimina il montaggio e trasforma in incubo l’atto della ripresa (un incubo di cui siamo complici poiché se quella ripresa si compie è perché c’è qualcuno che la guarderà). Oltre a essere un grande appassionato di slapstick comedy – oltre a Chaplin e Keaton, anche di Laurel e Hardy, come si intuisce da Aspettando Godot, perché Estragone e Vladimiro sono chiaramente Stanlio e Ollio – Beckett amava tutto il grande cinema, conosceva benissimo per esempio la scuola sovietica, tanto che nel 1936, non sapendo come condurre l’esistenza, scrive addirittura una lettera a Ejzenštejn per proporsi come aiuto regista. L’unico motivo poi per cui va in America è quello di poter realizzare il suo progetto cinematografico e a infiammarlo, più che la regia di Alan Schneider, è l’idea di lavorare non solo con Keaton ma anche, come direttore della fotografia, con Boris Kaufman, fratello minore di Vertov, che collaborò alla realizzazione di opere per lui fondamentali come Zero in condotta e L’Atalante di Vigo, ma anche di La parola ai giurati di Lumet.

Proprio a riguardo del cinema, ci sono autori che hanno saputo far tesoro della lezione beckettiana?

Sicuramente Losey, attraverso la mediazione di Pinter; Polanski: L’inquilino del terzo piano senza Beckett non si può immaginare. Polanski poi, che avrebbe voluto fare un film su Aspettando Godot ma venne dissuaso dallo stesso autore, ha interpretato nel 2012 il personaggio di Lucky per i sessant’anni della pièce. Poi, i volti di pietra del cinema di Kaurismäki. Ma se vogliamo andare oltre le situazioni, le suggestioni tematiche e le temperature emotive, citerei i Dardenne per l’uso della macchina da presa: la mdp che pedina i personaggi nei primi loro lavori ricorda quella che inseguiva Keaton in Film.

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30 Gennaio 2024

Silenzio si legge!

Roy Menarini, «Film TV», XXXII-5

Con un po’ di cinismo si potrebbe dire che, in tempo di vacche magre per le serie tv, quelle culturalmente rilevanti si riconoscono perché meritano un libro. Stranger Things è una di queste e il densissimo volume internazionale a più voci, appena tradotto in italiano da Ludovica Peruzzi ed Elisa Pezzotta, esplora l’universo dei fratelli Duffer in lungo e in largo. Dal citazionismo alla cultura pop, dalla rappresentazione femminile alle interpretazioni politiche, sono numerosi i temi affrontati dal gruppo di studiosi (non solo critici e accademici ma anche scrittori e professionisti del cinema). Certo, la serie non ha ancora concluso il proprio corso, eppure questo volume ha tutta l’aria di essere completo e quasi definitivo.

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24 Gennaio 2024

Juan Mayorga, Ellissi. Saggi 1990-2022, a cura di Enrico di Pastena

Veronica Orazi, «Artifara»

Il volume raccoglie conferenze, articoli, riflessioni e recensioni del drammaturgo Juan Mayorga, figura di assoluto rilievo nel panorama spagnolo attuale, come sottolinea in apertura del volume Enrico Di Pastena, nella sua introduzione Un drammaturgo filosofo per uno spettatore critico (pp. 10-19). Il titolo scelto dall’autore rimanda ai due elementi chiave della sua formazione e dei suoi interessi, la matematica da un lato e dall’altro la filosofia. Il libro riverbera il ruolo di Juan Mayorga attraverso testi di concezione e formato diversi, di carattere teorico e non finzionale, ascrivibili alla categoria letteraria del saggio. Redatti nell’arco temporale che comprende l’ultimo decennio del secolo scorso fino agli inizi della seconda decade del nuovo millennio, essi rivelano il legame col testo Rivoluzione conservatrice e conservazione rivoluzionaria. Politica e memoria in Walter Benjamin.

La raccolta propone diversi ambiti di lettura ed è articolata in sei sezioni distinte: Fuochi, Assi, Intersezioni, Tangenti, Duo ed Ellissi di ellissi. Nella prima, sono presenti scritti che non trovano la loro origine nel teatro; la seconda, come in parte anche la prima, espone gli aspetti portanti dell’estetica mayorghiana; la terza tocca tratti connessi con la produzione teatrale dell’autore; la quarta descrive la coincidenza, per l’autore, di filosofia e teatro; la quinta raccoglie le riflessioni scaturite dal confronto col critico letterario Ignacio Echevarria; mentre la sesta si concentra su due opere teatrali brevi mayorghiane. Tutte riflettono il prisma di osservazione privilegiato attraverso il quale l’autore indaga la realtà: filosofia, critica, binomio cultura versus barbarie, Europa, campi di concentramento, memoria e teatro. Le prime quattro sezioni raccolgono contributi scritti nell’arco di trenta anni, fatto che permette di cogliere l’evoluzione dell’autore, transitato da uno stile ermetico e una maggiore limpidezza. Alcuni dei pezzi antologizzati conservano l’impronta dell’oralità, poiché si tratta di testi concepiti per la presentazione orale, che Mayorga ha scelto di lasciare invariati, senza modificarli nel momento in cui ha deciso di inserirli nella silloge qui presentata. Completano questa raccolta di materiali la trascrizione di una conversazione con Ignacio Echevarria e due piezas brevi inserite nell’ultima sezione, Ellisse di ellissi, che suggerisce la contiguità tra i contenuti concettuali del volume e la produzione drammatica dell’autore: si tratta di 581 mappe, basata sulla metafora cartografica, riproposta analiticamente in Cartografia teatrale degli spazi di eccezione, e connessa, in particolare, con l’opera teatrale Il cartografo, di cui mantiene la concezione meta-testuale; e Tre anelli, legata alla tradizione e incentrata sulle dinamiche ‘evento-interpretazione’ e ‘creazione-analisi’. Con andamento chiastico, lo stesso accadeva nella raccolta antologica delle opere teatrali di Mayorga, comprensiva di venti opere scritte tra il 1989 e il 2014, chiusa da Mio padre legge a voce alta, un contributo non drammaturgico inserito nel volume recensito (pp. 211-12).

Il volume tratta temi variegati, come la libertà, la violenza e le sue manifestazioni, la cultura e la sua negazione, la storia e la memoria, l’Europa, Auschwitz e il teatro, quest’ultimo inteso come espressione artistica dell’incontro e dell’immaginazione, come uno spazio in cui esprimere la critica e concretizzare l’utopia. Insomma, il libro presenta contenuti vari, stratificati, compositi, ricchi di riecheggiamenti interni e temi e sotto-temi che, nel corso della lettura, riemergono con andamento carsico. Tutto ciò profila una riflessione profonda, manifestazione di un pensiero e di interrogativi che vertebrano l’intera opera drammatica di Mayorga, influenzate dall’inclinazione all’esattezza e alla sintesi, che l’autore assume dalla matematica ma anche dall’astrazione e dalla concettualizzazione desunte dalla filosofia, supportate da intuizioni che travalicano epoche e accidenti e nutrono la sua scrittura teatrale.

L’esito è rappresentato da questo tomo pervaso di passione e costellato di spunti per la riflessione, che mette il lettore di fronte a quesiti ineludibili. Al contempo, però, la raccolta rivela anche gli autori con cui Mayorga dialoga e che si indovinano dietro alla sua attività di autore di teatro: Aristotele, Benjamin, Bulgakov, Calderón, Lope, Kantor, Kraus, Pasolini, Pinter e Tabori, tra i molti che si potrebbero menzionare. Questo aspetto è stato alimentato e consolidato dall’attività di adattatore di classici di Mayorga, che coniuga la fedeltà al passato con lo spirito del proprio tempo, meccanismo che traspare anche nelle sue piezas originali. La raccolta, però, richiama anche l’attività di registra teatrale del drammaturgo, a partire dall’allestimento delle sue stesse opere (si veda il saggio intitolato l’autore regista), ruolo che egli inizia ad assumere a partire dalla presentazione de La lingua in pezzi (2012). Nel teatro di Mayorga, dunque, lo si intende anche solo dalle brevi considerazioni precedenti, la parola risulta centrale, in linea con la teoria della ricezione e della riflessione postdrammatica, ossia, come uno spazio per il dibattito, per la critica, che coinvolge lo spettatore, svincolato ormai dalle costrizioni della mimesi. Insomma, un teatro che è esperienza condivisa, processo, manifestazione e impulso.

Mayorga, però, si concentra anche sull’osservazione (dell’artista, dello storico, del matematico, del filosofo…) che associa il visibile all’invisibile, stabilendo nessi inediti. Per questo, l’ellissi viene presentata come dialogo potenziale, dialettica individuale e, al tempo stesso, collettiva, particolarmente evidente nel teatro. Il pezzo di apertura, Le ellissi di Benjamin, quindi, potrebbe essere considerato come una sorta di chiave di lettura dell’intero volume, l’idea che ne costituisce il nucleo centrale che si irradia sul resto dei contributi antologizzati come, del resto, sull’intera drammaturgia mayorghiana. L’approccio ellittico alla realtà e alla conoscenza, caratteristico dell’autore, testimonia il rilievo della filosofia e della figura di Walter Benjamin, di cui egli assume la visione della storia, la rivisitazione del passato e la percezione degli eventi che nega l’idea di continuum per rifarsi al frammento, ma che investe anche il concetto di traduzione con i suoi vuoti, il rapporto fra arte e politica, il potere di profonda rigenerazione riconosciuto al discorso critico, la dialettica fra cultura e barbarie, immagini concettuali come quelle di costellazione e di sciame, simboli come le cicatrici o le ceneri e molto altro ancora. Allo stesso modo, risulta assolutamente significativa l’interazione con la riflessione filosofica dello spagnolo Reyes Mate, per esempio attraverso la partecipazione al gruppo di ricerca su La filosofìa del Holocausto e al seminario Memoria y pensamiento en el teatro contemporàneo.

Un altro aspetto chiave della raccolta è costituito dalla concezione del dubbio, a partire dallo stesso atto creativo, dal prendere la parola, atti potenzialmente esposti ai condizionamenti più svariati (si veda il contributo dal titolo Chi scrive queste parole?). È così che l’autore sprona il pubblico a interrogarsi su questioni delicate o scottanti, che lo vedono in realtà direttamente implicato, forse più come oppressore che come vittima, contribuendo idealmente a stimolare il pensiero critico negli spettatori e, dxmque, nei cittadini contemporanei.

Rispetto all’edizione spagnola originale, la raccolta recensita integra Silenzio. testo letto dall’autore in occasione dell’ingresso nella Real Academia Española, in cui enfatizza e chiarisce il peso semantico del silenzio, dal valore materico oltre che ritmico. La carrellata proposta parte dall’Iliade e dai tragici greci per arrivare al teatro di Federico Garcìa Lorca, tra i quali sono intercalati esempi tratti da Kafka, Büchner, Calderón, Dostoevskij, Čechov, Beckett, tutti maestri di scrittura ellittica a creatori di figure che non dicono (perché non sono in grado o non osano). Ed è proprio questo che Mayorga ricrea in scena sfruttando la tensione di opposti.

Vi è poi il pezzo intitolato La ragione del teatro, che si potrebbe quasi considerare emblema della poetica dell’autore. In esso, Mayorga articola la propria visione dell’atto teatrale, fondata sul patto stabilito col pubblico, che diventa quindi complice, più che compartecipe. Il teatro, infatti avviene nello spettatore, nonostante la dimensione assembleare dell’atto performativo della rappresentazione. Da qui, la rilevanza morale e politica del linguaggio teatrale, che potenzia la sensibilità e lo sguardo dello spettatore ma al contempo ne destabilizza le certezze, attraverso la spinta alla riflessione che ne rafforza la capacità critica. È così che Mayorga costruisce la propria estetica, a partire dagli apporti di Benjamin ma anche di Brecht, Cormann e Sanchis Sinisterra, tra gli altri.

Un altro nucleo chiave della riflessione condensata nella raccolta è costituito dal teatro storico, inteso come preziosa rappresentazione di un’epoca destinata a un’altra epoca, che trascende dunque le proprie coordinate spazio-temporali per farsi ponte con altri spazi e altri tempi, in sostanza, con altri momenti contingenti. Ciò si concretizza nella rappresentazione del passato in un presente che la realizza, la attualizza e la offre al futuro in chiave di interpretazione risemantizzata. Sono riflessioni che investono anche il Teatro della Memoria, che parla del proprio tempo attraverso il recupero del passato. Come La rappresentazione teatrale dell’olocausto (p. 129), di cui Mayorga denuncia anche le mancanze (la manipolazione sentimentale del dolore, l’esibizione della violenza, ecc.) ma anche lI teatro storico spagnolo e Il teatro storico. Con Pasolini, invece, Mayorga concide sul concetto espresso dall’italiano nel suo Manifesto per un nuovo teatro, relativo al rinnovamento del linguaggio scenico, il Teatro di Parola, dall’azione contenuta e ridotta, popolato dalle idee. Con Silenzio e clamore in Gigi dell’Aglio, poi, l’autore rende omaggio all’artista scomparso, cui si devono alcuni allestimenti delle sue opere, per esempio di Himmelweg e di Hamelin, e di otto piezas brevi tratte da Teatro para minutos.

In sostanza, nelle sei sezioni di Ellissi, il lettore reperirà spunti di riflessione civile, filosofica e anche estetica, che riflettono il profilo del Juan Mayorga drammaturgo ma anche e specialmente pensatore. Secondo le parole dell’autore, per quanto i testi raccolti nel volume siano stati scritti o pronunciati in momenti diversi della sua traiettoria di pensatore e creatore, egli non ha mai ceduto alla tentazione di riscriverli, per lasciare attraverso di essi testimonianza diretta e fedele di un determinato momento della sua esperienza esistenziale o artistica. Al contrario, la scelta relativa all’ordine interno al volume di questi materiali riflette l’attualità dell’autore, in un rapporto di collaborazione con il curatore, il cui obiettivo ultimo di dare vita a una sorta di conversazione, a un dialogo col lettore.

Beckett
22 Gennaio 2024

Beckett, il genio che spaventa

Sandra Petrignani, «Il Foglio»

Samuel Beckett morì il 22 dicembre 1989 a ottantaquattro anni non ancora compiuti (era nato nell’aprile del 1906) e fu sepolto al cimitero di Montparnasse, il quartiere parigino dove viveva, accanto alla moglie Suzanne Deschevaux-Dumesnil, morta cinque mesi prima. La sua tomba fu per settimane ricoperta di fiori e biglietti improvvisati in tante lingue diverse del mondo, cinese e giapponese comprese, a testimoniare un amore planetario che può stupire per uno scrittore schivo, solitario e poco letto quale è sempre stato. Ma se non fu mai un eroe dei botteghini, né come autore teatrale né per le scarse vendite dei suoi libri, era però circonfuso di un’aura particolare che le persone avvertivano anche solo contemplandone in fotografia la figura ascetica e i formidabili occhi celesti. «Occhi impassibili, ma luminosissimi e stellari» li definì la pittrice Giosetta Fioroni che da giovane lo conobbe a Parigi rimanendone affascinata, come inevitabilmente accadeva a chi riusciva ad avvicinarlo, donne o uomini che fossero. E’ uno dei paradossi che accompagnano la vita di un autore cui sono state attribuite etichette certo non invoglianti, come ‘cantore dell’incomunicabilità’, e del silenzio e della morte e dell’assurdo, ma che, libero da qualsivoglia ideologia letteraria, si è sempre preoccupato unicamente di tradurre in parole il suo personale disagio di essere nato per morire. Parole scarne ed essenziali, questo sì, e più procedeva nell’età più le parole si facevano scarne ed essenziali. Con una coerenza estrema rispetto al suo carattere, in stretta sintonia con ciò che intendeva esprimere. Ed è questa radicalità a vincere sul tempo che passa, sulle mode che cambiano e persino sulla disaffezione attuale verso scrittori considerati ‘difficili’. Ma il vecchio Sam non è difficile, è inflessibile. E chi arriva a cogliere questo, finisce con l’amarlo sfrenatamente. Come accadde quando, il 19 maggio 1983, la televisione tedesca mandò in onda la breve pièce Nacht und Träume modulata sulle ultime sette battute dell’omonimo Lied di Schubert e ispirata con grande probabilità al quadro Orazione nell’orto del fiammingo Jan Gossaert che Beckett aveva visto a Berlino rimanendone impressionato. Furono circa due milioni gli spettatori che, altrettanto impressionati, quella notte rimasero incollati allo schermo scuro in cui affioravano in dissolvenza i volti pallidissimi dei protagonisti.

La figura ascetica e i formidabili occhi celesti, «impassibili, ma luminosissimi e stellari» li definì la pittrice Giosetta Fioroni

Potrebbe essere un’occasione in più adesso, per avvicinare uno scrittore tanto sconcertante, il biopic Dance First, distribuito dal primo febbraio. In italiano: Prima danza, poi pensa. Scoprendo Beckett di James Marsh, con Gabriel Byrne nella parte del protagonista, Sandrine Bonnaire nei panni di Suzanne e Aidan Gillen in quelli di Joyce. Anche se già il titolo appare una forzatura, una citazione vagamente ribaltata da Aspettando Godot. Ma staremo a vedere. Intanto si legge nel lancio pubblicitario: «Beckett rievoca gli eventi salienti della sua vita in un dialogo immaginario con la personificazione della sua coscienza, lasciando emergere i temi e le riflessioni che hanno reso grandi le sue opere. Ne risulta un ritratto poco conosciuto della sua personalità: buongustaio, solitario, marito infedele, combattente della Resistenza francese e anche grande amico di James Joyce». Il film si apre sulla catastrofica notizia del Nobel assegnatogli nel 1969. La comunicazione gli arrivò mentre era con Suzanne in vacanza in Tunisia e sembra fosse lei a rispondere al telefono e a reagire alla notizia con un che catastrofe!»interpretando perfettamente i sentimenti del marito, il quale – come al solito – si rifiutava di incontrare i giornalisti. Jérôme Lindon, l’editore dei suoi libri in Francia per Minuit e suo amico, è costretto a precipitarsi in Tunisia all’Hotel Riadh, ormai assediato dai cronisti, e patteggiare con loro: niente interviste, solo qualche fotografia. Sarà poi Lindon a ritirare il premio a Stoccolma. Del resto, Sam aveva stabilito con i suoi principali editori, pensiamo all’americano Barney Rosset della Grove o al tedesco Peter Suhrkamp per dirne due, un rapporto particolare di fiducia e amicizia: loro non potevano contare su di lui né per le vendite, sempre poco entusiasmanti, né su nessun tipo di pubblicità, ma si sentivano speciali e orgogliosi di essere i suoi editori.

Il lancio del biopic Dance First, «un ritratto poco conosciuto della sua personalità: buongustaio, solitario, marito infedele»

Gabriele Frasca, curatore e traduttore del Meridiano dedicato a Samuel Beckett uscito di recente da Mondadori, parla nell’introduzione al volume di «galassia Beckett»: «Perché nessun autore – così tanto intransigente nella sua fedeltà all’arte – è mai riuscito al pari del nostro a raccogliere in vita intorno alla propria opera lo stesso numero sorprendente di entusiasti editori, e poi registi, attori, funzionari radiotelevisivi, e naturalmente critici, accademici o no. Un vero e proprio miracolo». Perché poi, dietro alla sua irriducibile intransigenza, Sam era una persona gentile, affettuosa, attenta a non ferire, presente quando una persona aveva bisogno di aiuto. Le tante lettere che scrisse nella sua vita ne sono la prova. Sono raccolte in quattro volumi a cura di Franca Cavagnoli per l’Adelphi. Già usciti i primi due, relativi agli anni 1929-1940 e 1941-1956, mentre è attualmente in preparazione il terzo: 1957-1965, testimonianza preziosissima di un momento cruciale nella vita dello scrittore che mentre compone opere teatrali fondamentali quale L’ultimo nastro di Krapp, Giorni felici, Play (che sarà poi musicata da Philip Glass) ha una grossa gatta da pelare sul piano sentimentale. Fedele non era mai stato, ma era di quelli che riescono a tenere in piedi relazioni parallele senza scontentare nessuno. Solo che, improvvisamente, la sua amante fissa ormai da qualche anno, Barbara Bray, funzionaria della Bbc, vedova e madre di due bambine, decide di trasferirsi da Londra a Parigi. Per stargli più vicino? Per forzare la situazione e costringerlo a lasciare Suzanne? Nelle lettere Sam s’interroga se rompere con Barbara, ma alla fine trova una soluzione migliore, una soluzione tipica di uomini del suo stampo, che vivono sulla corda, sempre in procinto di precipitare riuscendo a non farlo mai. Farà contente entrambe le sue donne: sposerà Suzanne, più vecchia di lui di sette anni, per assicurarle l’eredità dei diritti d’autore nel caso della propria morte, e aiuterà Barbara a sistemarsi a Parigi continuando la doppia relazione anche più tranquillamente di prima e per il resto dei suoi giorni. Scontentando tutte e due in realtà, ma senza rendersene apparentemente conto. E non è un caso di certo che in Giorni felici ci sia una coppia: Winnie, interrata fino alla cintola e poi fino al collo in una montagnola di terra accanto al marito, il taciturno Willie, e lei non fa che parlare ottenendo da lui, intento a leggere il giornale, rare risposte distratte che non sono vere risposte, ma interlocuzioni rapidissime, punti interrogativi, grugniti. E’ questo il ritratto di una coppia felice secondo Beckett?

La moglie, l’amante e «Giorni felici», con Winnie, interrata fino fino al collo, e il taciturno Willie. E’ questo il ritratto di una coppia felice?

La famosissima commedia è naturalmente compresa nella scelta di Frasca per il Meridiano. Il titolo Romanzi, teatro e televisione indica quanto al curatore interessi l’impegno multimediale dello scrittore irlandese che trovava radio e televisione, e anche il cinema una volta – con Film del 1965, interpretato da uno strepitoso Buster Keaton – congeniale alla propria espressività visiva e sonora. Con Quad del 1981, «pièce per quattro interpreti, luci e percussioni», arriva ad abolire le parole per sostituirle con un complesso congegno di movimenti degli attori in scena, costretti camminando a disegnare un quadrato e le sue traiettorie interne, mentre fanno vibrare ognuno uno strumento: un tamburo, un gong, un triangolo, un woodblock. E se dalla scelta di Gabriele Frasca mancano i saggi (persino il famoso Proust della giovinezza) e mancano alcuni testi forse non proprio minori e manca interamente la poesia, un testo poetico c’è a chiudere il libro, perché cronologicamente ultimo. Si tratta di Comment dire (in inglese, per volere dello stesso autore, What Is the Word) in cui Sam si interroga ancora e sempre: «…qual è la parola – / vedere – / intravedere / credere d’intravedere – / voler credere d’intravedere…»
E certo non è stato un lavoro semplice nemmeno la ritraduzione, dello stesso curatore, beckettiano della prima ora, di tutti i testi compresi nel Meridiano che vanno dai romanzi alle più famose opere teatrali da Murphy all’Innominabile, da Aspettando Godot a L’ultimo nastro di Krapp a tanti testi brevi e brevissimi. Beckett aveva studiato lingue al Trinity College di Dublino. Sapeva perfettamente il francese, e infatti decise a un certo punto di rinunciare all’inglese per il francese in parte per complicarsi la vita misurandosi con una lingua non perfettamente padroneggiata, almeno all’inizio, ma soprattutto – e ancora una volta – per la stretta relazione in cui metteva letteratura e vita. In Francia, durante la guerra, si era impegnato nella Resistenza (e ne avrebbe avuto anche una medaglia). Scrive Frasca: «Eleggendo per la propria opera il francese a guerra conclusa, Beckett ha scelto in verità di dare seguito alla lingua del suo impegno, intellettuale e politico. La ‘frenesia di scrivere’ che lo colse fu allora quasi una reazione immunitaria scatenata dalla lingua fraterna che gli aveva infettato la propria, e che lo avrebbe condotto, come ha ribadito Maurice Blanchot, ‘oltre i limiti della letteratura’».

Uno dei suoi paradossi è di non essere minimamente intellettuale e di riuscire a dire l’essenziale con un pathos che per sua natura invade il terreno del comico

Ma Sam non conosceva solo il francese. Leggeva l’adorato Dante in italiano, parlava il tedesco, si intendeva anche di spagnolo, studiato da autodidatta. Quando un suo testo composto in francese doveva uscire in Inghilterra se ne occupava in prima persona. Ma in inglese l’opera non restava la stessa, perché la tentazione di riscrivere era troppo forte. E un traduttore che fa? Salta da una lingua all’altra, assimila, sceglie, interpreta… E quando si trattava di un testo teatrale, c’era da impazzire. Beckett partecipava al lavoro di messinscena, arrivando a un certo punto a occuparsi lui stesso della regia. Naturalmente, nel passaggio dalla pagina al palcoscenico, il testo veniva rivisto, corretto, riscritto. Quale sarà allora la versione definitiva? La prima, le successive? Se si sfoglia l’interessante Quaderni di regia e testi riveduti (relativi a Aspettando Godot e curato da Luca Scarlini per Cue Press nel 2021) si ha l’idea precisa e vertiginosa di come Beckett lavorasse sulle sue creazioni. Era preciso, maniacale, spesso indeciso. Torna e ritorna su un particolare, cambia, ripristina, cambia di nuovo, per riposizionarsi, magari, al punto di partenza. E’ attento a ogni piccolo gesto dei personaggi in scena, alle luci e alle ombre che dovranno investirli. Coglie il dettaglio come dovesse ritagliarne ogni volta i contorni dentro un’inquadratura. Come scrive James Knowlson nell’introduzione a questi Quaderni, la struttura letteraria di Beckett è sempre poetica, «costruita sui principi di eco, equilibrio, ritmo». Knowlson fu amico di Sam per più di vent’anni e ne divenne l’unico biografo autorizzato pubblicando qualche anno dopo la sua morte il bellissimo ritratto Damned to Fame, una biografia che in italiano fu tradotta da Einaudi, ormai disponibile solo su eBay. Condannato alla celebrità sì, mentre non chiedeva altro che di essere lasciato in pace fra le sue parole finali e i suoi fantasmi, magari ad annotare il dialogo fra Estragone e Vladimiro come fosse una poesia: «Tutte le voci morte. / Che fanno un rumore d’ali. / Di foglie. / Di sabbia. / Di foglie. Silenzio. Parlano tutti insieme. / Ognuno a sé stesso. Silenzio. Secondo me sussurrano. / Frusciano. / Mormorano. / Frusciano».

Chi si avvicinasse a Beckett per la prima volta potrebbe, dopo tali premesse, allontanarsene subito spaventato. Ma un altro dei paradossi di questo scrittore unico e irripetibile è di non essere minimamente intellettuale e di riuscire – nella cancellazione di trame tradizionali e nella riduzione all’osso del comunicabile – a dire tutto l’essenziale con un pathos, una disperazione, una radicalità estreme che per loro intima natura, inevitabilmente, spesso, invadono il terreno del comico. Leggerlo è un’esperienza dello spirito, più che della mente. Senza significati reconditi, senza simbologie o rimandi ad altro che non sia il qui e ora della parola scelta. «Simboli non ci sono dove non c’è intenzione» è la frase finale di Watt. E in Worstward Ho: «Dire un corpo. In cui niente. Niente mente. In cui niente. Almeno questo. Un luogo. In cui niente. Per il corpo. Per esservi. Per muovervisi. Andarne. Tornarne. No. Niente andate. Niente ritorni. Solo esservi. Restarvi. Ancora. Fermo».

Il miracolo poi è che tanta immobilità ottenga nel lettore e nello spettatore sensibili una risposta emotiva forte, davvero come in una danza (e qui riabilitiamo il titolo del film in arrivo) o come riesce a suscitare soltanto la musica oppure l’uso originale della lingua. La lingua di cui già nel 1937 scriveva a un amico: «Scavarci dentro un buco dopo l’altro finché ciò che vi sta acquattato dietro, che sia qualcosa oppure niente, non comincia a filtrare – per lo scrittore di oggi non so immaginare un fine più alto. Oppure la letteratura deve restare indietro da sola lungo il vecchio e fetido cammino abbandonato ormai da tempo da musica e pittura?». Aveva trent’anni e già chiara la linea che avrebbe dato al suo lavoro, sulle orme di Joyce in un primo momento, ma per distaccarsene radicalmente e diventare soltanto sé stesso.

Si trova in rete un raro filmato amatoriale che gli è stato rubato a Berlino nel 1969. Lo si vede procedere dondolante sulle lunghe gambe, chiedere informazioni per strada, leggere il giornale seduto al bar avvicinando molto le pagine agli occhi in un modo buffo da miope, accompagnarsi sorridente e ciarliero a una giovane donna piccola e bruna, Barbara forse, o una delle tante che corteggiava e a cui non sapeva resistere. E’ un uomo qualsiasi, leggero, persino felice di vivere, di passeggiare, di sorridere. Un Beckett umano dentro la divinità austera che si tramanda.

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Ultimo tango a parigi 2018 1
19 Gennaio 2024

«Il cinema, questione di vita o di morte: spezzai Brando»

Bernardo Bertolucci, «Il Fatto Quotidiano»

Anticipiamo stralci di Scene madri, il memoir di Bernardo Bertolucci con Enzo Ungari, in libreria con Cue Press.

«Vorrei poter parlare di cinema senza paura di raccontare aneddoti, usando molto la prima persona, senza vergogna e con molto affetto per qualche non sense a cui sono affezionato. So che la cosa può risultare oltraggiosa, perché in Italia il desiderio segreto ma evidente dei critici è un regista muto, che faccia film e se ne stia zitto. Personalmente trovo appassionanti le riflessioni dei cineasti sul proprio lavoro, così primarie a volte da sfiorare il sublime, così magnificamente riduttive, deliranti o imbarazzanti da far arrossire, ma così complementari ai film, parole liquide che risciacquano i corpi dei film. Per me, comunque, il cinema è questione di vita o di morte.
Giorni fa io e mia moglie siamo andati al cinema, a vedere un vecchio Hitchcock, Murder! (1930). Improvvisamente mi sono ricordato che Herbert Marshall, il protagonista, era morto e che anche la maggior parte degli attori del film probabilmente non ci sono più. Vedo vecchi film molto più spesso che non film nuovi, ma non avevo mai provato questa emozione così disarmante. Forse è stata l’eleganza di Marshall, lo spleen del suo stile, la sua andatura lievemente claudicante, a farmi questo effetto. Murder! parla di un delitto miracolosamente in bilico tra uno spettacolo teatrale e quello che avviene dietro le quinte, ma a me parlava soprattutto dello scandalo del cinema che sottrae la vita al suo scorrere. Bazin scrive che il cinema è come l’arte egizia dell’imbalsamazione, Cocteau lo chiama «la morte al lavoro». Sono modi diversi di alludere a quell’imbarazzante segreto che tutti i cineasti conoscono benissimo: un piano-sequenza è un pezzo di vita, che fingendo di informare lo spettatore lo interroga per manipolarlo meglio, lo invade e lo rende complice e correo di un crimine…
Ho sempre desiderato incontrare una donna in un appartamento deserto, che non si sa a chi appartiene, e fare l’amore con lei senza sapere chi è, e ripetere questo incontro all’infinito, continuando a non sapere niente. Ultimo tango è lo sviluppo di questa ossessione molto personale (e forse banale). La sceneggiatura era costruita nei minimi dettagli. Soltanto a partire da una costruzione estremamente elaborata posso abbandonarmi all’improvvisazione. Ultimo tango in fondo è un film completamente hollywoodiano, è cinema-verità ricco. Poco dopo l’inizio delle riprese, se dovevo parlare dei due personaggi, non dicevo più Paul e Jeanne, dicevo Marlon [Brando, N.d.R.] e Maria [Schneider, N.d.R.]. Il contributo che hanno dato al film è stato enorme, incalcolabile, perché non sono stati loro ad aderire ai personaggi, sono stati i personaggi a diventare loro… Nel corso delle riprese, Marion e Maria si sono sostituiti ai personaggi scritti sulla pagina, ne hanno integralmente preso il posto. Quando Marion racconta la sua infanzia, è la sua vera infanzia, con sua madre sempre ubriaca, e l’ombra di un padre virile e violento, in qualche posto nel Nebraska.
Brando, fin dall’inizio, si è reso conto che aveva la possibilità di abbandonarsi e di andare aldilà di quello che gli veniva solitamente richiesto, e che lui sa ripetere così bene: la lezione dell’Actors’ Studio. All’Actors’ Studio aveva imparato a sentirsi un altro, a diventare un uccello o un albero, e quello che il cinema di solito chiede a un attore è proprio di entrare nella pelle di un altro. Io invece gli ho chiesto di portare dentro il film tutta la sua esperienza, tutto il suo vissuto di uomo e di attore. Diventare Paul non doveva significare smettere di essere Brando. E quando mi sono reso conto che capiva, ho chiesto a Paul di essere Marlon, e non viceversa. Alla fine del film mi ha detto più o meno: ‘Non farò mai più un altro film come questo. Non mi piace fare l’attore ma questa volta è stato peggio. Mi sono sentito violentato dall’inizio alla fine, ogni giorno, in ogni momento. Ho sentito che tutta la mia vita, le mie cose più intime, i miei figli, tutto mi è stato strappato fuori’. Poche settimane dopo la fine delle riprese aveva riguadagnato i dieci chili che gli avevo fatto perdere. Non sono sicuro che abbia visto il film finito…
Brando all’inizio è un personaggio brutale e aggressivo, che subisce lentamente un processo di devirilizzazione, fino a farsi sodomizzare dalla ragazza. Così ‘mettere in scena’ è ‘mettere in culo’, ‘prendere coscienza’ è ‘prendere in culo’. Brando precipita indietro fino alla morte, a una morte che è una nascita paradossale. Quando giace morto sul balcone, la sua posizione è quella di un feto».

Fosse portrait
15 Gennaio 2024

Con Jon Fosse, dentro quel buio luminoso

Roberto Canziani, «Hystrio», XXXVII-1

Ne hanno parlato così tanto i giornali, che era poi logico veder schizzare Jon Fosse, Premio Nobel 2023 per la letteratura, nei posti alti delle classifiche nelle librerie. Alti se confrontati con lo spazio residuo che il teatro occupa oggi nell’editoria italiana. Ha fatto quindi bene Cue Press a rimettere velocemente in circolazione tre lavori teatrali dell’autore norvegese (Jon Fosse: Teatro. E non ci separeremo mai, Qualcuno verrà, Il nome, a cura di Vanda Monaco Westerståhl, Imola (Bo), Cue Press, 2023, pagg. 144, euro 22,99). I primissimi. Quelli datati anni Novanta. Quelli in cui più puro si manifesta il dettato freddo, aurorale, della sua scrittura per il teatro. «Jon Fosse merita di figurare tra i cento geni viventi in tutto il mondo» spara la quarta di copertina del volume. Anche se è ben più ridotto il numero dei direttori e programmatori teatrali italiani che alla proposta di mettere in cartellone un suo testo risponderebbero con un sì. Il sistema teatrale italiano è diffidente, e il teatro di Fosse dovrebbe essere introdotto omeopaticamente nelle nostre programmazioni, per potersi manifestare, anni dopo, in tutta la sua potenza.

Era ciò che aveva tentato di fare chi ora scrive questa nota, quando vent’anni fa propose ad AstiTeatro 2003 l’allestimento di alcuni testi dell’allora sconosciutissimo norvegese. La fortunata prima versione italiana di Inverno con Valter Malosti e Michela Cescon, collocò per la prima volta il nome di Fosse nell’albo d’oro dei Premi Ubu. Lo fece aprendo al pubblico la cappa dei suoi silenzi, delle sue sospensioni, di quei cieli grigi e boreali. Un ‘buio luminoso’ (così dice il bel titolo di uno scritto che il critico Leif Zern gli aveva dedicato) che si ritrova facilmente in questa nuova edizione, curata e tradotta da Vanda Monaco Westerståhl. Dalle solitudini di Qualcuno verrà (nella vecchia casa in rovina immaginata da registi come Sandro Mabellini prima e Valerio Binasco poi), a E non ci separeremo mai e Il nome, con personaggi che sembrano schizzati fuori da un quadro di Edward Hopper. Già nel 2006 Editoria&Spettacolo, per la cura di Rodolfo di Giammarco, e più tardi Titivillus avevano tentato l’impresa. Forse non era stato sufficiente. Ora, con il Nobel e il rientro in libreria, il lavoro di diffusione delle opere teatrali di Fosse, cui si è votata Cue Press, potrebbe dare risultati più sostanziosi. E più soddisfazioni.

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15 Gennaio 2024

Premio della Critica 2023, un parterre d’eccellenza

Alice Strazzi, «Hystrio», XXXVII-1

Il 20 novembre il Teatro Gobetti di Torino ha accolto gli undici premiati dell’edizione 2023 dell’Associazione Nazionale dei Critici di Teatro: Natale in casa Cupiello, spettacolo per attore cum figuris, di Vincenzo Ambrosino e Luca Saccoia, con la regia di Lello Serao; Arturo Cirillo, Laura Curino, Fabrizio Ferracane, Manuela Mandracchia, Tindaro Granata (nuovamente vincitore del premio a dodici anni di distanza, questa volta segnalato anche per la direzione artistica di Tindari Festival) e Danio Manfredini. E poi ancora Crest di Taranto, per l’intervento in un’area di criticità ambientale; Edizioni Cue Press di Mattia Visani per la sua attenzione alla nuova drammaturgia; Mercurio Festival di Palermo diret- to da Giuseppe Provinzano; e la compagnia Stivalaccio Teatro di Vicenza per il riadattamento degli stilemi della Commedia dell’arte.

Altri premi sono arrivati dalle due riviste gemellate: Catarsi-Teatri della diversità ha scelto di segnalare il coreografo Vito Alfarano, direttore di AlphaZTL Compagnia d’Arte dinamica; mentre Paolo Cantù (foto: Luigi De Palma), direttore artistico e generale presso la Fondazione I Teatri di Reggio nell’Emilia, è il vincitore del Premio Hystrio-Anct per «la lucida follia» con cui ha saputo «attraversare i più diversi campi dell’organizzazione, ampliando il proprio sapere con estensione pari alla profondità, con la consapevolezza di avere una missione culturale e civile». È andato infine a Ferruccio Soleri, maestro indiscusso della Commedia dell’Arte, il Premio Poesio alla carriera.

1 Ottobre 2022

Renato Palazzi, Esotici, erotici, psicotici

Gigi Giacobbe, «Teatro Contemporaneo e Cinema», XIV-44

Delizioso, divertente, delicato il libro di Renato Palazzi, critico teatrale del «Sole 24 Ore», scomparso il 7 novembre del 2021, un mese prima di vedere pubblicato questo volume edito da Cue Press, il cui titolo è tratto dal film Esotika, Erotika, Psicotika del regista tedesco Radley Metzger con gli aggettivi posti al plurale. Avvisa Palazzi […]
1 Ottobre 2022

Bob Wilson in Italia

Gianni Poli, «Teatro Contemporaneo e Cinema», XIV-43

Nella lunga militanza di critico teatrale, Gigi Giacobbe ha maturato la paziente ricerca dei moventi e delle estetiche tipiche dei soggetti da lui studiati. Dalle prime rappresentazioni in Italia, ha seguito con passione l’artista statunitense, rilevando l’originalità geniale delle sue creazioni, come nota Dario Tomasello nell’Introduzione. La «fedeltà» del critico offre un bilancio sull’opera scenica […]
22 Settembre 2022

Paolo Grassi e cento anni teatro

«Il Teatro di Radio 3 — Rai Radio 3»

Biblioteca teatrale con Antonio Audino: Paolo Grassi. Cento anni di palcoscenico a cura di Isabella Gavazzi, edizioni Cue Press. Collegamenti
10 Settembre 2022

Letto per voi… Tennessee Williams

Chiara Ricci, «riccichiara.com»

La trama Tennessee Williams. Modernismo in t-shirt e i rinnovamenti del teatro di Stanley E. Gontarski un saggio monografico dedicato alla poetica, alla struttura stilistica, letteraria ed emotiva di uno dei più grandi drammaturghi del Novecento. Un semplice e reale omaggio nonché un vero e proprio studio dedicato a chi, scavalcando oltre convenzione, convinzione, pregiudizio […]
5 Settembre 2022

La prestigiosa storia dell’uomo più potente del...

Andrea Bisicchia, «Libertà Sicilia»

Nel 2019 fu organizzato un convegno su Paolo Grassi presso l’Università Statale di Milano, in occasione del centenario della nascita, col supporto della Fondazione a lui dedicata. Con un po’ di ritardo vengono pubblicati gli Atti da Cue Press, a cura di Isabella Gavazzi, a cui spetta anche il compito di ricostruirne la figura storica […]
22 Agosto 2022

A kind of magic. Salman Rushdie spettatore di Oz

Matteo Columbo, «Duels»

Il singolare e prezioso libretto che Salman Rushdie dedica al film di Victor Fleming Il mago di Oz ha ormai trent’anni, e fa parte della serie BFI Film Classics, analisi d’autore delle pietre miliari della storia del cinema. Ma forse è venuto il momento debito di riaprirlo (tradotto da Giuseppe Strazzeri per Mondadori, recentemente ripubblicato […]
21 Agosto 2022

Vittorio Gassman e la letteratura oltre cinema e t...

Massimo Bertoldi, «Alto Adige»

Si moltiplicano le iniziative per il centenario della nascita di Vittorio Gassman, indimenticato e fondamentale attore e regista capace di spaziare, sempre offrendo prove di indelebile bellezza, dal teatro al cinema, dalla tv alla poesia e narrativa. Al Palazzo Ducale di Genova, dove nacque il 1 settembre, è in corso la mostra Vittorio Gassman. Il […]
7 Agosto 2022

In scena una nuova versione della Locandiera

Andrea Bisicchia, «Libertà Sicilia»

In occasione della diciottesima edizione del Premio Enriquez, il Centro Studi, diretto da Paolo Larici, ha contribuito alla pubblicazione del libro di Pietro Corvi: La Locandiera nella messinscena di Franco Enriquez. Uno studio prezioso, non soltanto per la ricostruzione filologica dello spettacolo, ma anche per l’attività di ricerca, svolta dall’autore che l’ha trattato come un […]
5 Agosto 2022

Vittorio Gassman attore multimediale

Massimo Bertoldi, «Il Cristallo On Line»

Pubblicato in occasione del centenario della nascita di Vittorio Gassman, il libro essenziale e dettagliato di Arianna Frattali pennella un ritratto del grande Mattatore con colori assai poco enfatici e celebrativi; illuminano, invece, con rigore scientifico e analitico la personalità di attore multimediale quale «ultimo erede della tradizione mattatoriale ottocentesca», come solitamente Gassman viene considerato, […]
4 Agosto 2022

All you need is… Pirandello

Gabriella Congiu, «La Sicilia»

Pirandello Luigi, lettore della realtà dove non c’è posto per l’ideologia e nemmeno per la poesia ma soltanto l’istintivo inoltrarsi nell’epicità quasi magica, paradossale, dove l’intuizione si sfrangia nella parola riscattata da ogni aridità. Per ridurre ogni possibilità di arbitraria interpretazione. Pirandello Stefano, sulle orme del padre brucia rapidamente le tappe della violenta, irreversibile trasformazione […]
3 Agosto 2022

Bob Wilson. La magia del teatro totale

«la Repubblica»

Dice di considerarsi «soltanto un artista», rifiutando tutti gli sforzi di etichettature e di distinzione tra regista, pittore, scenografo. Bob Wilson, nell’intervista che apre il libro di Gigi Giacobbe, ribadisce che «il teatro è la somma di tutte le arti». Era il 1994 quando il grande regista texano portava al teatro Vittorio Emanuele di Messina, […]
31 Luglio 2022

Dai grandi ai piccoli Festival. Qual è la loro ve...

Andrea Bisicchia, «Libertà Sicilia»

Siamo reduci dal Festival di Santarcangelo, quest’anno sotto la direzione del polacco Tomasz Kirenczuk, che, tra rito e documento, ha cercato di dare una svolta a un Festival che, per anni, era stato punto di riferimento anche per i critici dei grandi quotidiani che ormai da tempo lo disertano, come disertano altri Festival un tempo […]
28 Luglio 2022

Bernard-Marie Koltès, Lettere

Massimo Bertoldi, «Il Cristallo On Line»

«Ho scoperto il dramma della mia vita: sono scisso tra il sogno di una vita comoda – con una biblioteca, una trapunta, un quartetto d’archi, la vista sul paesaggio – e violente visioni metaforiche, come una scala maya che sale vertiginosamente, sotto una luna piena». Questo estratto epistolare di Bernard-Marie Koltès, datato 1878 e scritto […]
25 Luglio 2022

Bob Wilson in Italia, Giacobbe e la costruzione di...

«Gazzetta del Sud»

Quale funzione può avere il ritratto di un regista teatrale texano ottantantunenne che ha lavorato per molti anni in Italia? È questa la domanda che ha posto il giornalista Franco Cicero nell’introdurre il critico teatrale Gigi Giacobbe alla presentazione della sua ultima fatica, Bob Wilson in Italia, edito dalla Cue Press, sabato scorso nello spazio […]
20 Luglio 2022

Wipes dream away with hand

Mel Gussow, «New York Times»

In our many conversations over the years, Samuel Beckett was always reluctant to discuss the meaning and philosophy behind his work, preferring to stand on the principle of no exegesis where none intended. When pressed, he would talk about the genesis of individual plays and about production and performance. As it turns out, production and […]
17 Luglio 2022

Revisioni, pentimenti e correzioni. I Quaderni di...

Andrea Bisicchia, «lo Spettacoliere»

Sulle pagine di questo giornale, ci siamo occupati dei Quaderni di regia di Beckett, a proposito di Aspettando Godot, un lavoro certosino, di profondo impegno filologico, il medesimo che contraddistingue la pubblicazione dei Quaderni di regia di Finale di partita, a cura di Luca Scarlini, edito da Cue Press. Si tratta del testo più filosofico […]
8 Luglio 2022

Laura Wade, Teatro

Massimo Bertoldi, «Il Cristallo On Line»

Laura Wade, commediografa sconosciuta in Italia, riproduce fedelmente il modello del new writer: svolti gli studi universitari a Bristol, matura importanti esperienze formative nella cerchia dei giovani drammaturghi nella fucina del londinese Royal Court Theatre, debuttando quasi ventenne con Limbo nel 1996. Alla proficua collaborazione con la BBC Radio, segue al Royal Court Upstairs la […]
5 Luglio 2022

Sergio Blanco, Teatro II

Massimo Bertoldi, «Il Cristallo On Line»

Anche la scena italiana, a piccoli passi, sta considerando il repertorio di Sergio Blanco, drammaturgo e regista teatrale franco-uruguaiano pluripremiato e da anni presente in pianta stabile nei quartieri alti del panorama internazionale. Altri segnali di marcato interesse provengono soprattutto dal mondo dell’editoria, segnatamente dall’intraprendente Cue Press di Imola che ha recentemente pubblicato Teatro II […]
28 Giugno 2022

Quaderni di regia e testi riveduti. Aspettando God...

Gigi Giacobbe, «Sipario»

Samuel Beckett ha fatto quel che ha voluto del suo Aspettando Godot dopo essere andato in scena la prima volta nel gennaio del 1953 al Théâtre de Babylone di Parigi con la regia di Roger Blin, anche quello di dirigerlo personalmente in tedesco (col titolo Warten auf Godot) il 7 marzo 1975 allo Schiller Theater […]
27 Giugno 2022

Le varie forme della comicità nel teatro dell’a...

Andrea Bisicchia, «Libertà Sicilia»

Sulle pagine di questo giornale, ci siamo interessati di Nel nome di Dioniso di Umberto Albini, dedicato, in particolare, all’analisi dei grandi tragici e delle tecniche spettacolari utilizzate nel V secolo a. C. Sempre di Umberto Albini, l’Editore Cue Press, ha pubblicato Riso alla greca. Aristofane e la fabbrica del comico, in cui l’autore analizza […]
20 Giugno 2022

Renato Palazzi. Il critico traumatizzato

Giuseppe Costigliola, «Pulp Libri»

Metti un giovane aspirante critico teatrale, un tetragono caporedattore del maggiore quotidiano nazionale che lo costringe, forse con una punta di sadismo, a visionare il peggio delle uscite cinematografiche del momento; metti l’esplosivo e mutevole contesto degli anni Settanta, un universo cinematografico in continua fioritura ma già indelebilmente avvelenato dal decadimento morale e dal cattivo […]