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Approfondimenti, interviste, recensioni e cultura: il meglio dell’editoria e delle arti da leggere, guardare e ascoltare.

Puppapolo
20 Dicembre 2022

Finzione & morale

Andrea Ottieri, «succedeoggi»

Storico del teatro tra i più prestigiosi in Italia, Paolo Puppa da tempo è anche – come dire? – un performer che mette in scena la sua perizia critica. Si può sostenere a buona ragione, anzi, che abbia inventato un nuovo genere di derivazione saggistica, ma di fatto pienamente teatrale, poiché Puppa i suoi «testi» (fiction scenica con un solido aggancio alla critica delle idee) li mette in scena in prima persona, esponendosi come attore. O performer, appunto, come è meglio affermare.

La casa editrice Cue Press ora raccoglie una serie di questi testi, che sono «monologhi, dialoghi interrotti, frammenti ‘apocalittici’», sotto il titolo La fine del mondo: una vita in serie (86 pagine, € 19.99). E si tratta di testi sostanzialmente di due tipi.

Da un lato, ci sono fantasie rabbiose nelle quali l’Io narrante sottolinea i caratteri di una società che ha smarrito senso (compreso quello della misura). Come in Tatuaggi, per esempio, dove la voce immagina di attrarre giovani provinanti non per abusare di loro ma per distruggere i loro telefonini, cancellandone – per qualche tempo almeno – la loro dipendenza dal dio selfie. E, del resto, è pur vero che proprio questa pervasività dello schermo, della dimensione virtuale, è ciò che ci ha condotto «alla fine del mondo», impedendoci di riconoscere l’unicità delle nostre esperienze: tutto affoga in una serialità coatta priva di qualsivoglia accensione.

Ed ecco, allora, che nel «diario» che, chiudendolo, dà titolo al volume, Paolo Puppa accatasta esperienze autentiche ancorché minimali (una passeggiata al mercato, la visione di uno spettacolo, una serata davanti alla TV, ecc.) per cercare lì dentro lo scampo al vuoto nel quale tutti quanti siamo precipitati. Confondendo il vero dal contraffatto, e per ciò stesso incapaci di cogliere il senso della metafora: tutto è squadernato su una galleria di schermi dove le immagini rimandano solo a se stesse. E invece l’Io narrante de La fine del mondo: una vita in serie vorrebbe distinguere, vorrebbe non perdersi, vorrebbe annotare quel che c’era e non c’è più. Perché solo nel dar vita alla finzione (vissuta come tale, il teatro, insomma) c’è spazio per la realtà, in questo nostro mondo.

Dall’altro lato, invece, ci sono testi peculiari di una mente critica: creatività di «secondo livello», applicata, come si dice in gergo. Nel senso che Puppa immagina sequel o spin off di grandi classici, da Sei personaggi in cerca d’autore di Luigi Pirandello rivisto con gli occhi del Ragazzo, a un delizioso apologo sul Mercante di Venezia di Shakespeare, nel quale Lorenzo, giovane sposo di Jessica, la figlia di Shylock, rivela i difetti della ragazza che, invece, da fidanzata «sembrava innamorata come una fanciulla, pura, una bambina, quasi. Una ragazzina inesperta di tutto». Si tratta di giochi interni ai classici, illazioni tramite le quali lo studioso duetta ora con Pirandello ora con Shakespeare, trasformando una sua intuizione critica in un gioco scenico. E portando il lettore – anche quello digiuno di Jessica o dei Sei personaggi – in una dimensione fantastica dove tutto pare noto, riconoscibile.

E, in verità, il senso di questa raccolta è proprio nella contrapposizione tra i due «generi» che la compongono: non avrebbe senso lo svago moralista (nel senso alfieriano del termine) che cerca la realtà oltre la serialità, se di fronte, contrapposto, non ci fosse il gioco di chi l’unica realtà possibile la trova nella finzione.

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Lottehe
17 Dicembre 2022

Lotte H. Eisner. Un classico della saggistica cinematografica

Giuseppe Costigliola, «Pulp Libri»

Per gli appassionati e i cultori di cinema e di teatro, l’agguerrita casa editrice Cue Press è una manna dal cielo. Il suo catalogo, tra i più interessanti nel panorama editoriale delle arti dello spettacolo per qualità ed estensione, continua ad arricchirsi di titoli. Di recente uscita è un classico della saggistica cinematografica, fondamentale per chi desideri avvicinarsi alla conoscenza di uno dei più grandi registi di sempre: Friedrich Wilhem Murnau. Si tratta del celebre lavoro di una nota studiosa del cinema novecentesco, Lotte H. Eisner. Costretta a lasciare la Germania nel 1933 in quanto ebrea, stabilitasi a Parigi dove morì nel 1983, Eisner fu caporedattrice di Cinémathèque Française, appassionata ed esperta collezionista della scenografia di Weimar, autrice di altri studi seminali come Lo schermo demoniaco (1952) e di una monografia sul suo grande amico Fritz Lang. Personaggio non poco influente, negli anni Sessanta divenne il simbolo della rinascita del cinema della Germania occidentale per registi come Werner Herzog, Wim Wenders, Margarethe von Trotta e Rainer Werner Fassbinder.

In questo volume dalla lunga gestazione (fu iniziato, apprendiamo dalla prefazione dell’autrice, nel 1957 e dato alle stampe nel 1964) la studiosa berlinese ricostruisce con acume filologico e lucida intelligenza la vita e le opere di Friedrich Wilhelm Plumpe, in arte Murnau. Con esso, l’autrice si propone di «tracciare lo sviluppo dello stile di Murnau», nonché di «dimostrare la spesso intransigente coerenza della sua volontà artistica», e lo fa attraverso la raccolta di testimonianze di artisti, collaboratori e colleghi del regista, soffermandosi sul minuzioso esame del lavoro creativo di capolavori dell’espressionismo tedesco, analizzando film e sceneggiature (alcune delle quali affidatele dal fratello di Murnau, Robert) e ricostruendo, mediante articoli, recensioni e programmi di sala, l’accoglienza delle sue opere, non sempre benevola.

Il libro si compone di quattordici capitoli; nel primo si lascia la parola a Robert Plumpe, che traccia un profilo biografico attraverso i ricordi familiari, in cui rivive vividamente un’epoca remota di grande suggestione. Seguono uno studio particolarmente interessante sul rapporto tra il cineasta e i suoi sceneggiatori (tra i quali il leggendario Carl Mayer), la testimonianza del suo scenografo e arredatore Robert Herlth, una sezione dedicata all’uso delle luci e alla tecnica di ripresa, capitoli che analizzano i singoli film, da quelli prodotti in Germania (tra cui Nosferatu), a quelli realizzati negli Stati Uniti (Aurora, I quattro diavoli e Il nostro pane quotidiano) e l’ultimo (Tabù, opera della maturità), girato in un’isola del Pacifico.

Non manca una parte dedicata ai film smarriti (nove su ventuno produzioni) e ai progetti irrealizzati, una sul periodo hollywoodiano e un capitolo sulla morte di Murnau, avvenuta nel 1931 e circondata da «storie e dettagli inverosimili», qui ricostruita con il piglio realistico dello storico e con trascinante empatia, con i dettagli dell’incidente automobilistico, l’ultimo addio nel funeral saloon cui erano presenti «poche coraggiose persone», tra cui la divina Greta Garbo («donna sola quanto lo fu lui»), il trasporto pieno di intoppi della salma fino a Berlino e la cerimonia funebre, durante la quale il grande antagonista di Murnau, Fritz Lang, tenne un toccante discorso di commemorazione, concedendo l’onore delle armi al geniale collega. È l’unico capitolo in cui Eisner tocca, con garbo estremo, il tema dell’omosessualità di Murnau, che in qualche modo si legò al tragico epilogo della sua vita.

Imperdibile la raccolta di fotografie d’epoca che chiudono il volume, insieme a una necessaria filmografia, che permette di orientarsi nella produzione del grande regista tedesco prematuramente scomparso, la cui opera, è indubbio, «resta intramontabile».

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Molinari cesare foto autore
12 Dicembre 2022

La fortuna di un gesto. I mille volti di Salomè di Cesare Molinari

Chiara Molinari, «Theatron 2.0»

I mille volti di Salomè di Cesare Molinari – professore emerito dell’Università di Firenze, nonché tra i fondatori della disciplina di Storia del Teatro e dello Spettacolo e autore dell’ormai canonica Storia del teatro (Mondadori, 1972) – intende essere, secondo le parole introduttive dello studioso, «in primo luogo un testo di compilazione, cioè di memoria», che tenta di ricostruire la «fortuna» del personaggio di Salomè, inseguendo la sua «danza» attraverso le sue innumerevoli apparizioni nelle arti figurative, nella letteratura, nel teatro e nel cinema nell’arco di due millenni.

Nella vastissima e articolata opera di ricognizione edita da Cue Press nel 2015 – arricchita da un apparato iconografico comprensivo di cento illustrazioni – Molinari evidenzia come la storia della principessa giudea, raccontata primariamente dai Vangeli di Matteo e Marco, possa ridursi a un unico e iconico «gesto»: la richiesta al tetrarca Erode Antipa di ottenere la testa del predicatore Giovanni Battista come premio per la sua danza. La pretesa crudele e spiazzante della ragazza viene però – originariamente – suggerita dalla madre Erodiade, che del re è moglie «incestuosa» e che si è attirata l’odio del profeta proprio per aver violato la legge mosaica.

Secondo un’analisi di tipo attanziale, la fanciulla non riveste dunque il ruolo di protagonista nell’episodio biblico, in quanto la sua azione si delinea come meramente funzionale al progetto di un’iniziativa altrui: è tuttavia proprio la «marginalità» di questa dinamica ad aver reso possibile – a parere di Molinari – l’«estrapolazione» della vicenda dal suo contesto, e dunque la costruzione di un modello autonomo, «forte e ambiguo», che nei secoli ha potuto essere reinterpretato nelle sfumature più contrastanti con il variare, di epoca in epoca, della sensibilità storica e sociale.

L’ambiguità del personaggio appare evidente sin dalla difficoltà che si riscontra nel tentare di identificarlo precisamente nelle prime fonti di cui disponiamo: a partire dai racconti evangelici – fino al racconto di Giuseppe Flavio – Salomè rimane infatti «senza nome», venendo addirittura confusa e sovrapposta alla figura della madre Erodiade, essendo entrambe associate ai «motivi di seduzione e della lussuria», caricati del loro significato di «eterno contrasto e di lotta per il potere». Sarà Flaubert nel suo Herodias (1877) a tentare di sciogliere e giustificare la sovrapposizione tra la figura della madre e quella della figlia, affermando che la donna apparsa ad Erode «era Erodiade quale era stata nella sua gioventù, non un’altra donna che le somigliava, ma una riapparizione della stessa».

La danza, intesa come ostentazione del corpo e dunque come espressione peccaminosa, si configura nei suoi caratteri spiccatamente teatrali sin dalla narrazione di San Giovanni Grisostomo (III-IV secolo d. C.), in quanto eseguita in quello che è definito un «teatro satanico», di fronte a «spettatori corrotti» e in un’atmosfera immersa nell’«ubriachezza e nella vacuità del godimento». La spettacolarità insita nella scena è tuttavia intimamente connessa anche a un altro elemento: l’esibizione della morte violenta e la rappresentazione del macabro, tanto gradita alla civiltà romana quanto lo sarà al mondo ottocentesco.

Quello di Salomè, nelle sue infinite stratificazioni e declinazioni, può – secondo l’autore – definirsi un mito principalmente «moderno», che trova la sua sistemazione definitiva nella tragedia «sperimentale» di Oscar Wilde: una tragedia scritta in francese, formalmente perfetta, e soprattutto un «successo di scandalo», andato in scena per la prima volta a Parigi nel 1896, dopo il divieto di Lord Chamberlain – esteso al Regno Unito – di rappresentare soggetti biblici a teatro, e dopo l’incarcerazione dello scrittore per sodomia.

La Salomè di Wilde si ispira alla dimensione classica della tragicità, e nel suo personaggio è possibile rintracciare «la passione di Fedra come l’intransigenza di Antigone, la furia vendicativa di Medea, la bellezza fatale di Elena come la decisione spietata di Clitemnestra e il rovesciamento dell’appartenenza di Elettra». Al tempo stesso, però, la protagonista si propone come estremamente moderna nella propria «imprendibilità» e ambivalenza, e soprattutto nel riferire «le sue parole e le sue azioni esclusivamente a sé stessa», intenta soltanto ad «esprimere e realizzare il suo desiderio e la sua passione», senza il riferimento a ideali che la trascendano.

In quella che si potrebbe definire una «tragedia dello sguardo», in un triangolo di desideri che «si rincorrono senza potersi incontrare», la fanciulla passa allora dall’essere desiderata (rappresentando l’oggetto al quale sono rivolte le pulsioni del «patrigno» Erode) all’essere «desiderante»: Salomè assume infatti su di sé l’iniziativa erotica, corteggiando apertamente il profeta, che però può amare soltanto «il Figlio dell’Uomo».

Nell’interpretazione di Molinari, l’agire di Salomè nel testo wildiano tende allora a sfumare la linea di confine tra alcune categorie di pensiero tradizionalmente dicotomiche, in primis quella che – in particolare nell’Inghilterra vittoriana – separa la dimensione della «femminilità» da quella della «virilità». La ragazza è infatti pienamente consapevole del proprio potere seduttivo, che viene esplicitato nella danza, tesa a condizionare la volontà del tetrarca Erode nel perseguimento strumentale dei propri fini. Ma è proprio nell’esibirsi artisticamente che Salomè diventa «da puramente fisica anche spirituale. Così come la realizzazione del suo desiderio coincide con la morte dell’amato e la sua stessa morte, che è anche un annullamento».

La Salomè wildiana prosegue poi la propria vita nell’opera di Strauss, andata in scena per la prima volta a Dresda nel 1906, ed è significativo notare come la traduzione tedesca di Hedwig Lachmann (realizzata a partire da quella inglese attribuita a Lord Alfred Douglas) insista fortemente sul motivo della «musica», oltre che su quello dello sguardo. «Se mi avessi guardata, mi avresti amata», dice Salomè nel testo di Wilde, rivolgendosi alla testa mozzata di Giovanni Battista: ma, come ricorda Molinari, è della voce del predicatore – che giunge alle orecchie della giovane come «musica piena di mistero» – che la giovane si innamora dal primo istante.

La voce – così come la stessa testa – simboleggiano un oggetto d’amore non del tutto «carnale», ma connesso sottilmente alla dimensione intellettuale e della spiritualità: è a partire da queste considerazioni che l’autore pone in costellazione molteplici frammenti drammaturgici per restituire l’intricata complessità del personaggio, interpretata di volta in volta come «casta» o come «fatale».

Se nell’opera di Giovanni Testori la protagonista rivendica infatti il proprio diritto all’amore sensuale, «paradossalmente rinnegato da una fede il cui Dio si è fatto carne e sangue», in un poemetto di Mallarmé – recuperato poi da un balletto di Martha Graham nel 1944 – la giovane appare invece «chiusa in una sofferta contemplazione di sé, nel rifiuto di qualsiasi forma di contatto fisico», nella «fierezza» e nell’«orrore» della propria verginità.

Tra le numerosissime rappresentazioni citate dallo studioso, vale forse la pena di ricordare almeno il sontuoso allestimento di Peter Brook dell’opera di Strauss – con la scenografia di Salvador Dalì – (1949), in cui la danza di Salomè si sviluppa in una sostanziale immobilità; o lo spettacolo diretto da Carmelo Bene (1964), in cui la principessa giudea appare grottescamente deformata in una scena fatta di drappi e stracci. O ancora, la Salomè proposta da Al Pacino nel 2006 – ultima di tre versioni teatrali – in cui la protagonista varia di continuo la propria tonalità espressiva nella recitazione, come per riassumere «tutte le emozioni, gli impulsi e le passioni che possono vivere nell’anima di una donna». O il «balletto parlato» della Compagnia Ratavùla portato in scena nel 2003, in cui la giovane è interpretata da un intero gruppo di cinque danzatrici, il cui ballo non si differenzia dal resto dell’azione, e si codifica come «pura espressione di un sentimento agito e continuamente mutevole pur nella sua sostanziale omogeneità».

Cesare Molinari intercetta allora il moltiplicarsi e il mutare dei volti di Salomè, proprio come in quest’ultima danza: è infatti a partire dall’apparentemente irremovibile condanna veterotestamentaria del femminile – «con la donna il male è entrato nel mondo», secondo le parole del Giovanni Battista wildiano – che nei secoli possono emergere anche le infinite potenzialità eversive di questo personaggio, capace di «rovesciare l’ordine naturale delle cose per ottenere, attraverso la seduzione (e quindi la bellezza e la lussuria) il potere e soprattutto il dominio sugli uomini».

«Pure, la fortuna di Salomè trae origine da una storia che ha le dimensioni di un episodio, se non di un gesto. E questo la avvicina – come detto all’inizio – ai grandi personaggi femminili del mito classico: Fedra, Medea o Antigone, le quali tutte si incontrano con molto minore frequenza nelle arti figurative. Fors’anche perché i testi fondanti non ne descrivono l’aspetto né ne sottolineano la bellezza: ricordo solo che Antigone viene chiamata ‘piccola’ (σμικρά) nell’Edipo a Colono e quindi in un testo che non ne racconta il gesto fondativo. Per quanto immediatamente, e ovviamente, condannato sotto il profilo morale, quel gesto (o quell’azione) ha fatto sì che la figura di Salomè potesse diventare un simbolo forte e ambiguo, che comprende anche la constatazione che, certo, esistono donne cattive o capaci di azioni crudeli: Lady Macbeth può certamente essere avvicinata a Riccardo III, ma il catalogo delle bad girls andrebbe forse confrontato non tanto con quello dei bad boys, quanto a quello delle vittime di don Giovanni che solo in Spagna, come è noto, sono già milletrè. E questo simbolo, naturalmente, le diverse epoche, le diverse culture e i diversi autori lo hanno interpretato alla luce della propria sensibilità, più o meno consciamente avvicinando Salomè a Jezabel oppure a Medea, la prima e la più grande paladina della liberazione delle donne, il cui proclama va avvicinato a quello in cui Shylock rivendica l’umanità e la dignità degli Ebrei. Un proclama che, da solo, è capace di riscattare il personaggio negativo».

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Koltes
5 Dicembre 2022

Alla ricerca di Koltès segreto

Nicola Arrigoni, «Sipario»

«Carissimi genitori, è difficile alla mia età fare un complimento carino! Sono ancora così piccolo. Che il mio primo complimento potrebbe stare dieci volte in una pagina. Vi amo tanto e chiedo al Signore che vi dia sempre gioia e felicità. Bernard».

Bernard Marie Koltès ha sette anni e scrive ai genitori il 1 gennaio 1955. È il biglietto con cui si apre il volume Lettere, a cura di Stefano Casi e pubblicato da Cue Press. «In God we trust? Do We. B», solo sei parole scritte a Lisbona nell’aprile 1989, pochi giorni prima di morire. Si ha quasi l’impressione di violare un cassetto chiuso con all’interno carte segrete, ma poi la lettura delle Lettere di Bernard Marie Koltès restituisce un dialogo con l’autore della Solitudine nei campi di cotone che trasforma la vergogna in piacere. Alpha e Omega, una vita raccontata in presa diretta, con i piccoli fatti del quotidiano: lettere che non arrivano, dubbi, amori infranti, paure e speranze, frammenti di quotidiano di un uomo e intellettuale in fuga, inquieto, in cerca di un altrove che è, ovviamente, al di là da venire e spinge al movimento. E allora è quasi con una sorta di impudicizia – a tratti ci si sente un po’ voyeur – che ci si avvicina, si ficcano gli occhi fra le parole e le righe di quelle carte che restituiscono «l’uomo Koltès con tutte le sue omissioni e contraddizioni. [Il punto di forza di questo epistolario] è il fatto di non essere letterario e di non essere stato scritto per i posteri, ma per la reale e concreta esistenza, spesso relativa a questioni spicciole, di comunicare con i suoi interlocutori» scrive Stefano Casi nella prefazione. I fratelli e tutta la sua famiglia, ma soprattutto i genitori, anzi la madre: è lei la destinataria privilegiata a cui si rivolge Bernard con maggiore trepidazione, con immutato amore per oltre trent’anni, ma soprattutto con immutato atteggiamento di confidenza».

La lettura dell’epistolario – meritoriamente pubblicato da Cue Press – restituisce l’uomo, «ci offre gli elementi per farci strada tra i riflessi che mascherano l’uomo, e in definitiva l’autore», continua Casi. «Ce lo mostrano nelle sue fragilità di giovane artista alla ricerca di un posto al sole e di giovane uomo per il quale il mondo è troppo piccolo per la sua infinita sete di vita e di conoscenza».

Le lettere di Koltès sono istantanee di vita. In un tempo in cui il documentare in presa diretta il vivere di tutti giorni è diventato naturale, appaiono a distanza come dei reperti di vita che ancora dicono per la loro freschezza e immediatezza e restituiscono al lettore e all’appassionato di Koltès un dialogo intimo con l’uomo che sta dietro o dento l’autore. Nel leggere le lettere in più punti si ha la sensazione di violare un segreto, di aprire, non visti, un cassetto di un mobile lasciato in soffitta per decenni. E questo senso di vergogna è reso ben chiaro da quanto scrive il fratello François Koltès nella premessa al volume: «Bernard-Marie Koltès non era un uomo pubblico alla stregua di come potrebbero esserlo altri scrittori. Gli importava che solamente di lui si conoscessero le opere. A ogni modo, se oggi ci ha lasciato un’opera in gran parte pubblicata, è altresì vero che ha affidato ai suoi cari delle lettere che non erano destinate alla pubblicazione. Vengono pubblicate oggi, a trent’anni dalla sua scomparsa, perché è parso interessante capportasse lui stesso luce sulla sua opera». E allora è questa la chiave con cui avvicinarsi all’epistolario di Koltès, la possibilità di andar cercando le premesse, il vissuto da cui sono scaturite le opere.

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Samuel beckett boulevard st jacque, paris, 1985
1 Dicembre 2022

Samuel Beckett, Quaderni di regia

Antonio Tedesco, «Proscenio», VII-2

Uno scoop editoriale. Una scelta di pubblicazione raffinata dal punto di vista culturale, ma anche estetico. Preziosi tesori che solo la piccola e media editoria, con logiche di mercato diverse da quelle dei colossi editoriali, ci può a volte riservare. Erano rimasti inediti in Italia i Quaderni di regia di Samuel Beckett, preziosa testimonianza del lavoro «sul campo» che lo scrittore e drammaturgo irlandese fece su alcuni dei suoi testi.
Ora sono disponibili anche da noi, pubblicati dalla valorosa Cue Press, che continua così il suo lavoro di ricerca, recupero e riproposizione di importanti testi di storia e critica dello spettacolo, spesso rimasti fuori commercio o di difficile reperibilità. Questi «quaderni» dove Beckett annotava appunti, revisioni e varianti dei lavori portati in scena, ci pongono di fronte ad una delle grandi questioni del teatro e nello specifico della drammaturgia teatrale, e cioè il confronto-divario tra scrittura letteraria e scrittura scenica. Un confronto, ma a volte un conflitto, che Beckett sentì fortissimo. Dopo una prima fase in cui non nascondeva una certa insoddisfazione per le scelte operate dai registi che portavano in teatro i suoi lavori, fu coinvolto sempre più spesso negli allestimenti in qualità di consulente, finché, nel 1967, lo Schiller Theater di Berlino gli propose di curare direttamente la regia di una sua opera. Beckett scelse Finale di partita, testo al quale, per vari motivi si sentiva particolarmente legato. Si trovò così a impegnarsi in una sorta di corpo a corpo con la sua stessa scrittura, sentendosi in dovere di riplasmarla sulla concretezza degli spazi, degli attori, della lingua utilizzata (si occupò personalmente delle versioni inglesi, francesi e tedesche delle sue opere), così come poi succederà per le successive regie, sempre allo Schiller, quella di Aspettando Godot e L’ultimo nastro di Krapp.

Cimentarsi con la messa in scena fu quindi per Beckett occasione non solo di verificare, ma anche di proseguire, per così dire, «dal vivo» il suo lavoro creativo, apportando, dove necessario, cambiamenti e modifiche, rifinendo e modellando direttamente sul palcoscenico la sua scrittura.

I volumi che si avvalgono della cura critica di James Knowlson, autore della più completa biografia disponibile su Beckett, di Stanley Gontarski, e di Luca Scarlini per quanto riguarda l’edizione italiana, sono curatissimi, ricchi di apparati e di note esplicative, impreziositi dalla ristampa anastatica delle pagine scritte di pugno dall’autore irlandese. Il tutto a comporre una importante testimonianza non solo del lavoro di Beckett, ma più in generale del complesso processo che intercorre tra la scrittura drammaturgica e la sua realizzazione scenica.

Teatro.it tarantino antonio
1 Dicembre 2022

Barabba. In scena l’opera di Tarantino a metà strada tra commedia e tragedia

Andrea Jelardi, «Proscenio», VII-2

Al Nest – Napoli Est Teatro – il 21 e 22 gennaio va in scena Barabba di Antonio Tarantino, esponente della drammaturgia contemporanea. Ombroso e solitario, ma anche poliedrico e innovativo, Tarantino è scomparso a ottantadue anni nel 2020 ed è autore di vari testi teatrali, tutti scritti in età matura dopo una lunga esperienza come artista figurativo.

Nella sala partenopea – allestita con quasi cento posti in una scuola abbandonata – la stagione 2022-2023 è stata denominata Vieni a scoprire i nostri assi, e non è dunque casuale la scelta di Tarantino tra gli autori rappresentati, così come non lo è quella dell’opera, composta nel 2010 ma rimasta inedita fino alla pubblicazione postuma nel 2021 per le edizioni Cue Press e la prefazione di Andrea Porcheddu.

Lo spettacolo, interpretato da Michele Schiano di Cola con allestimenti e luci di Vincent Longuemare, è diretto da Teresa Ludovico, che già in passato ha rappresentato altri rilevanti testi del Maestro come La casa di Ramallah, Namur, Cara Medea e Piccola Antigone. Tutti accomunati da personaggi che – come la stessa regista ha dichiarato – sono «portatori di mitiche ferite, chiedono all’attore di essere incarnati così come si presentano: nudi e crudi, senza nessun giudizio», e dei quali spicca soprattutto «la voce, magari rauca, di quell’umanità che ha paura dell’altro, che si sente continuamente minacciata e che vive di doppiezza».

In Barabba però Tarantino, come nei drammi d’esordio – tra cui il monologo Stabat Mater e i testi della cosiddetta Tetralogia delle Cure – riporta sul palcoscenico un personaggio evangelico, rendendolo protagonista di un’opera quasi integralmente in versi e a metà strada tra commedia e tragedia, facendo emergere con tutta la sua forza l’anima tormentata del protagonista come tramandato dalla tradizione dei quattro vangeli canonici, che lo identificano già dal suo nome come letteralmente «Figlio del Padre» o «Gesù Barabba».

Ebreo detenuto dai Romani a Gerusalemme assieme ad alcuni ribelli e negli stessi giorni della passione di Cristo, Barabba, com’è noto, venne liberato da Ponzio Pilato per volontà del popolo, chiamato a scegliere chi rilasciare tra lui e Gesù di Nazareth, trovandosi così a vivere un dramma personale che diventa poi dramma collettivo e fatto storico.

Nel suo teatro di emozioni e di pathos, fondato sulla forza dirompente della parola e del linguaggio spesso crudo e contemporaneo, Tarantino tratteggia in maniera netta la storia di un uomo solo, che si snoda in uno spazio chiuso ma che al tempo stesso è il riflesso dell’esterno e delle vicissitudini di tutta l’umanità. Barabba, isolato nella sua cella, si trova infatti ad essere involontario testimone della condanna e del martirio di Gesù, anch’egli Figlio del Padre, e si interroga allora alla ricerca di una verità superiore ed evidentemente distante da quella terrena, talvolta ingannevole, che si concretizzerà difatti in forme diverse: nella crocifissione dell’uno e nella salvezza dell’altro. Lo stesso nome, ma due destini opposti.

Barabba si tormenta nel suo meditare rabbioso e incontrollato finché Cristo, pur essendo in procinto di morire sulla croce, impartisce la benedizione urbis et orbis. Comprenderà così solo allora che la verità divina non conosce alcuna contraddizione ed è talmente avulsa dalle miserie terrene da sembrare persino folle, potendo così finalmente raggiungere la fede e la serenità:

«Se lui mi ha assicurato che me la caverò allora vuol dire che ci devo credere perché è venuto qualcuno che mi ha voluto bene. Roba da matti».

Immagine di fine volume gigi e bob al palazzo dei congressi di taormina per il v premio europa per il teatro assegnato a wilson 3 6 gennaio 1997
25 Novembre 2022

Gigi Giacobbe, Bob Wilson in Italia

Massimo Bertoldi, «Il Cristallo On Line»

Mancava un libro dedicato allo spettacolo di Bob Wilson capace di darne ampia visibilità divulgativa, in aggiunta agli interventi critici di sapore specialistico e accademico. La lacuna è colmata da questo lavoro, agile e assai interessante, di Gigi Giacobbe, che ricostruisce gli allestimenti di Bob Wilson in Italia realizzati dal 1994 al 2022.

Dichiara il regista texano: «Il Teatro? È la somma di tutte le arti». In questa idea di teatro totale si incontrano e coesistono il movimento del corpo, la parola, la luce, il suono, le immagini, disponendosi e interagendo su un piano narrativo che supera la centralità del testo letterario per trasportare lo spettatore in una dimensione di incanto atemporale in un universo di bizzarra fantasia. In merito all’alchimia dei colori e dei movimenti coreografici dei suoi spettacoli, Wilson sottolinea che l’attore in scena «è estremamente formale, non deve essere spontaneo, deve essere immediatamente riconoscibile in quanto movimento artificiale creato per il teatro». Altri e simili intenti d’arte, basilari per inquadrare la ricerca sperimentale condotta da questo straordinario regista, tra i maggiori e innovativi della scena mondiale contemporanea, si leggono nella prima parte del volume di Giacobbe.

Dal discorso teorico si passa alla verifica della sua materializzazione sul palcoscenico attraverso l’occhio critico di osservatori eccellenti. Achille Bonito Oliva riconosce nella struttura del Teatro–totale–immagine l’architettura creativa di uno «smontaggio, di un’atomizzazione del gesto» definito nel rallentamento e nella ripetizione, talvolta con effetti dilatati, dell’azione dell’attore, secondo uno schema che in parte rinvia alle suggestioni esercitate dal Teatro Nō giapponese o si avvicina alle composizioni musicali di John Cage.

Il sipario sullo spettacolo wilsoniano Giacobbe lo apre accorpando, in ordine cronologico, le sue stesse recensioni, scritte con competenza e minuzia critica. È come entrare nel mondo delle meraviglie, a partire dall’iniziale Alice del 1994 e da Hamlet a monologue, presentato alla Biennale Teatro di Venezia nel 1995, interpretato dallo stesso Wilson in uno spazio scenico che si colorava di azzurro e di rosso. Oppure Woyzeck di Georg Büchner visto a RomaEuropaFestival nel 2002 e «recitato e cantato da formidabili attori-cantanti danesi», sottolinea Giacobbe, che poi ricorda la magistrale prova di Adriana Asti nel beckettiano Giorni felici al Festival dei Due Mondi di Spoleto nel 2009. Alle spalle dell’attrice, con il «viso bianchissimo interrotto dal rosso del rossetto e dal suo generoso decolleté su un vestito grigio-azzurro», c’è un fondale bianco accecante e interrotto talvolta da effetti azzurri e rosa.

Se memorabili rimangono I Sonetti di Shakespeare allestiti ancora a Spoleto nel 2010, altrettanto vale per Lulu di Wedekind, accompagnata dalle musiche di Lou Reed, con la protagonista caratterizzata da «immutabile, […] faccia infarinata e pesante trucco», come se fosse sul set di un film in bianco e nero.

Altro spettacolo-manifesto della cifra stilistica di Wilson è Odyssey al Piccolo Teatro di Milano nel 2013: è un susseguirsi di magie illuminotecniche che avvolgono i personaggi omerici calati in un ambiente scenografico e sonoro in continua trasformazione. Grandi emozioni e suggestioni visive sprigiona la messinscena di Hamletmachine di Heiner Miller, ancora a Spoleto nel 2016. In merito, Giacobbe evidenzia la performance di 35 giovani attori dell’Accademia Silvio d’Amico, simili ad «aure metafisiche senza tempo».

Si tratta di spettacoli di grande eleganza stilistica e formale, declinata da Wilson in una sintassi drammaturgica sempre mutevole, di continua ricerca, tanto che lo stesso regista afferma: «spesso la gente mi chiede di cosa tratta il mio teatro; generalmente rispondo che non lo so. […] per me l’interpretazione non spetta al regista, all’attore o all’interprete: l’interpretazione spetta al pubblico».

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Pirandello famiglia
1 Novembre 2022

Un padre ci vuole

Gabriella Congiu, «Pirandelliana»

Ci sono scritti che risuonano come un dialogo mai avviato, un complesso insieme di relazioni che riguardano le infinite realtà, i tanti rimpianti, le parole mai dette di una dialettica sospesa. Luigi Pirandello e Stefano, il figlio primogenito, ovvero Stefano Pirandello, il figlio paterno. Come da titolazione del saggio di Sarah Zappulla Muscarà ed Enzo Zappulla, in cui i due studiosi siciliani ricompongono la drammaticità del rapporto familiare, caratterizzato da un’imprescindibile intensità e da un’autentica tensione etica.

Lo scritto apre la pubblicazione del testo di Stefano Pirandello Un padre ci vuole (Cue Press) interamente giocato sull’inversione dei rapporti fra un padre, Ferruccio, e un figlio, Oreste, un legame conflittuale e indissolubile tale «da rendere volutamente fallimentare qualunque tentativo di fuga», come avvertono i curatori. Volume prezioso perché risponde alle aspettative di quanti oltralpe manifestano un non effimero interesse per il dialogo umano ed intellettuale al fondo di ogni successiva indicazione critica. Nel suo non volersi sottrarre alla spietata complessità del rapporto padre-figlio sostanziato d’immedicabili ferite dell’anima, Stefano mette a nudo tutta la sua poderosa fragilità; che, se per un verso lo induce ad un contrasto drammatico, per l’altro ne sottolinea, all’origine, la volontà di non volersi fare da parte e retrocedere dalle tante private aspettative. La commedia appare nella doppia versione in italiano ed in inglese All You Need is a Father (Cue Press), con traduzione di Enza De Francisci e Susan Bassnett. Si tratta dell’ulteriore tassello della preziosa operazione di circolazione plurilingue avviata da Sarah Zappulla Muscarà ed Enzo Zappulla, da anni impegnati nel recupero storico e filologico di Stefano Pirandello.

Già tradotti in più lingue, i testi, per mantenere inalterato il sapore corretto della vis espressiva, necessitano di una traduzione che superi lo steccato del bello/brutto, infedele/fedele, operando piuttosto nel mantenimento della ratio testuale. Con l’attuale, le due traduttrici hanno condotto un’operazione di vasta portata, assicurando al testo una pregnanza linguistica e storica di ampia gittata. Il risultato è stato il recupero della reale essenza del prodotto testuale grazie all’accuratezza linguistica e storica inserita in una linea traduttiva che restituisce al testo la sua essenza.

Enza De Francisci, dell’Università di Glasgow, direttrice del programma internazionale di Translations Studies in collaborazione con l’Università di Nankai in Cina, è titolare della complessa operazione di traduzione insieme a Susan Bassnet, già lettrice alla Sapienza – Università di Roma e all’Università di Lancaster, e docente di Letterature comparate all’Università di Glasgow, nel recupero di nessi storici e linguistici magari desueti. Con un lavoro prezioso che è facile riconoscere quale modello di come oggi si dovrebbe fare una traduzione.

Diversi e compositi gli elementi che costituiscono la globalità di una traduzione e tali da sottolineare l’importanza del traduttore in quanto mediatore linguistico. Ma anche voce dialogante con il testo, che accompagna il lettore nella comprensione dello scritto, con la capacità di rendere nella lingua di arrivo il messaggio dell’autore, compensando con la propria esperienza e abilità le differenze a volte profonde che esistono tra le due lingue, sia a livello sintattico sia terminologico. E tutto questo sottolinea senza dubbio l’importanza culturale del ruolo del traduttore; il suo difficile compito è di trasmettere il testo originale a un nuovo pubblico che ha lingua, cultura e conoscenze differenti, mantenendo il rispetto sia per la lingua di partenza sia per la lingua di arrivo.

La traslazione di un testo da un contesto linguistico-culturale a un altro è operazione delicata che comporta innanzitutto il rispetto per il testo originale e per il messaggio da veicolare. Ecco perché la traduzione testuale deve essere un’attività collaborativa tra lo scritto e chi lo traduce. Fondamentale è che il traduttore stabilisca un registro stilistico non univoco ma per ogni singolo personaggio, ed è quanto hanno fatto le due traduttrici, affrontando financo il problema di come attualizzare una lingua che per forza di cose rimane ancorata al tempo dell’ideazione e della resa progettuale.

Il diffuso interesse per l’opera di Stefano Pirandello si segnala all’estero grazie al numero non indifferente di traduzioni nelle più svariate lingue. Non mera operazione di traslazione linguistica, ma un’autentica mediazione e negoziazione culturale, un interagire costante con il testo di riferimento, di cui è prioritario fornire la dimensione di autenticità, pur nella complessità del rendere nel paese della traduzione la reale cifra dello scritto.

Si legge nell’introduzione: «Stefano molto deve, e non potrebbe essere altrimenti, al magistero paterno rimanendo tuttavia schiacciato dal peso di una dittatura famigliare e letteraria», da cui è giunto il momento di affrancarlo e da cui il fratello Fausto, invece, si era sottratto scegliendo una via artistica differente, quella della pittura.

Sarah Zappulla Muscarà mette a fuoco il personaggio di Stefano scrittore e drammaturgo, del tutto autonomo pur nell’apparente similarità tematica che lo accosta al padre. Una vita dolente e travagliata quella di Stefano, vittima di un dramma destinato a ricomporsi soltanto negli anni. Affrontando la disamina dell’odierna operazione culturale, la studiosa accademica evidenzia innanzitutto la necessità di rispondere alla curiosità che all’estero si registra intorno ai nomi dei due Pirandello. Già tradotti in più lingue, i testi, per mantenere inalterato il senso della scrittura, si avvalgono di un intervento mai arbitrario; al contrario, in assoluta consonanza con il pensiero dello scrittore. Ci dice Sarah Zappulla Muscarà: «Quella di oggi in inglese è una traduzione di pregio per la quale le due traduttrici hanno impiegato accuratezza linguistica e storica, inserendosi in una linea traduttiva che restituisca al testo la sua essenza».

I canali di attualizzazione filologica, la declinazione del rapporto dimidiato padre/figlio, il recupero di nessi storici e linguistici, oltre che leggersi come un lavoro egregio, diventano, afferma Enzo Zappulla, Presidente dell’Istituto di Storia dello Spettacolo Siciliano: «Un modello di come oggi si dovrebbe fare una traduzione».

La commedia Un padre ci vuole, curata da Sarah Zappulla Muscarà ed Enzo Zappulla, è apparsa nella traduzione in francese di Myriam Tanant (Parigi, L’avant-scène théàtre, 2008); in quella greca di Anteos Chrisostomides (Atene, ed. Kastaniotis, 2012); in quella bulgara di Daniela Ilieva (Sofia, 2014); in quella serba di Dusica Todorovic Lakava («Revue de philologie», Filoloski fakulter, Belgrado, xliii, 2, 2016); in quella araba di Amer El Alfi e Naglas Waly (Cairo, Akhbar Al Yourn, 2016 con testo italiano a fronte, Catania, Edizione Ho.u.se, 2017); in quella spagnola di Vincente González Martín (Ediciones de la Universidad de Salamanca, Salamanca, 2017); in quella inglese di Barbara McGilvray, introduzione di Donatella Cannova (Wellington, New Zeland, in association with Istituto Italiano di Cultura, Sydney, Australia,2017). Cfr. al riguardo Sergio Sciacca, Stefano Pirandello e i suoi traduttori: «Un padre ci vuole», «Pirandello Studies», 41, 2021, pp. 154-169.

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