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Approfondimenti, interviste, recensioni e cultura: il meglio dell’editoria e delle arti da leggere, guardare e ascoltare.

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15 Aprile 2024

Why Theatre?/Perché il teatro?

Massimo Bertoldi, «Centro di cultura dell’Alto Adige — Il Cristallo»

È da quando esiste il teatro che si sollevano domande intorno al suo motivo di essere e al suo relazionarsi al mondo. Le risposte, ovviamente tante e diverse, derivano dal tempo storico e dal contesto socioculturale, cha alimentano anche sogni, utopie, progetti su quello che lo stesso teatro potrebbe diventare e trasformarsi in una prospettiva lungimirante.

Affiancato da Kaatja De Geest e Carmen Hornbostel si muove in questa direzione Milo Rau – illuminato regista svizzero ideatore di spettacoli ambientati in Amazzonia, Kurdistan e a Mosul e incentrati su personaggi mitici letti in chiave moderna – raccogliendo nel 2022, quando anche lo spettacolo era fermo per il Covid, risposte di centoventi artisti internazionali alla domanda: «Why Theatre?/Perché il teatro», poi diventata titolo dell’interessante volume edito da Cue Press curato da Andrea Porcheddu che ne seleziona circa la metà.

Si tratta di un coro di voci variegate nel codice narrativo ma concordi sia nella funzione del teatro quale specchio del nostro tempo e testimone delle tragedie storiche planetarie, che nella necessità di superare i confini geopolitici e dilatare il linguaggio performativo, connesso alla sua funzione comunicativa, nell’orizzonte di nuovi spazi di pensiero e di relazione comunitaria. Di fronte alle guerre, ai populismi, all’emergenza ambientale e alle violenze quotidiane, «il teatro – sottolinea Porcheddu – non può sconfiggere questa realtà, e forse tanto meno la poesia: eppure possono suggerire altri modi di pensare, altre parole. Più caute, più gentili, più umane».

Così nel bel volume di Cue Press – impreziosito dalla postfazione di Giacomo Bisordi – si susseguono i contributi di importanti protagonisti della scena contemporanea, da Nora Chipaumire («I poveri – Ecco cos’è il teatro, e perché il teatro non potrà mai scomparire, perché avremo sempre i poveri se avremo l’Africa») a Stefan Kaegi («Perché tutti sanno cos’è il teatro/Perché nessuno lo sa. /Perché tutto ciò che accade può diventare teatro»); da Angélica Liddell («Non smetteremo di lottare per la bellezza. La ricerca della bellezza è la tortura dell’anima») a Luc Perceval («il teatro rappresenta il tocco umano dell’oscurità»). Lo stesso Rau scrive: «Una vittoria dell’umanità mi interessa più a teatro che altrove: perché è soggetta alle regole della realtà, come nessun’altra».

Non manca il contributo italiano offerto da Ermanna Montanari e Marco Martinelli di Teatro delle Albe («Il teatro nasce rivelando il fondamento violento della società, il sacrificio di tutte le Ifigenie della storia […], è un’arte di rivelazione, di smascheramento attraverso il mascheramento») e di Daniele Nicolò e Enrico Casagrande di Motus («Il teatro è qualcosa di stupefacente. […] ha la capacità atletica di reinventarsi, è una fenice che risorge dalle proprie ceneri»).

Tra crisi e catastrofi provocate dall’uomo, il teatro radica la sua esistenza e si rigenera sempre nel linguaggio drammaturgico e nelle forme estetiche assolvendo il ruolo di cantastorie e di contenitore delle contraddizioni della nostra vita, raccontata anche in una prospettiva diversa, di cambiamento: è questo il messaggio fondamentale del volume Why Theatre?/Perché il teatro.  

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Prosa lina
7 Aprile 2024

La parola, come viaggio nella deriva. Dialogo con Lina Prosa

Tiziana Bonsignore, «Teatro e Critica»

Raggiungiamo Lina Prosa al telefono poco dopo il suo ritorno dall’America Latina: «Un’esperienza straordinaria, magari si potesse più spesso». Prima autrice italiana a entrare nel repertorio della Comédie Française, con la sua Trilogia del Naufragio sulle migrazioni nel Mediterraneo, ha scritto testi legati al recupero contemporaneo di moduli e temi della drammaturgia classica. Assieme ad Anna Barbera è fondatrice del Centro Amazzone, a Palermo, dove si svolgono attività laboratoriali rivolte alle donne vittime di tumore al seno. A partire dall’uscita della sua ultima raccolta, abbiamo fatto il punto su come il presente, «tempo alla deriva», possa entrare nel teatro, risignificandolo.

Cominciamo dalla tua nuova pubblicazione, e dai testi che la costituiscono.

Ci sono nove testi all’interno del libro, che io ho suddiviso in due parti complementari: ‘testi‘ e ‘sottotesti‘. I primi sono legati alla città, i secondi alla campagna. I testi hanno un rapporto con il paesaggio più maturo e strutturato. Sono anche più conosciuti: ad esempio La carcassa è stato allo Stabile di Catania, mentre Ingrid e Lothar è stato rappresentato al Teatro Due di Parma. I sottotesti invece conservano ancora un’immaturità, una sincerità, un senso di malinconia, che sono quelli dell’autore nel rapporto con la parola. Si presentano come un sottotesto dell’anima. Ci sono dei segreti, in questi lavori, legati più alla mia vita che al teatro. Uno rimanda alla morte di mia madre, per dire. Un altro sottotesto riguarda il mio rapporto con l’Africa, la mia esperienza in quel continente fino alla pandemia – per la quale sono dovuta tornare perché si chiudevano le frontiere. Ho vissuto profondamente questa separazione, questo desiderio di essere in un mondo a cui guardavo da lontano. Tutto ciò rientrava e rientra ancora nel progetto che porto avanti: lavorare sulla distanza e sull’avvicinamento, questione che nella drammaturgia classica è presente ad esempio nella vicenda di Elettra e Oreste. La scrittura mi consente di attraversare territori e spazi che la realtà, quella in cui viviamo ogni giorno, non mi consente di attraversare. È come se le parole avessero le gambe e mi portassero a vedere le giostre, a salire su un cavallo: tutto può indurti a guardare con stupore al mondo. La scrittura vive, vive insieme a me. Domani, un altro giorno, sarà un altro giorno della scrittura. È un aggiornamento dell’anima, quello che compio. Io davvero scrivo in maniera innocente. Ho messo insieme questi lavori perché volevo che avessero una vita in comune.

Mi sembra che questi tuoi lavori vogliano anzitutto colmare il senso di una mancanza, per mezzo della parola e del teatro.

Qui dobbiamo fare un passo indietro. Non solo quando scrivo, ma anche quando mi avvicino alla scena, lavoro moltissimo sul livello del laboratorio, dimensione che mi si confà di più. Il mio alter-ego è sempre l’attore, non è mai il regista. Quindi, per tornare al tuo discorso sul senso della mancanza, per me la scrittura è desiderio del corpo dell’attore, di una fisicità al di fuori di me. È la ricerca di un avvicinamento, un desiderio verso la storia – non la storia legata al mio testo, alla mia parola, ma la storia intesa come quella parte di me al di là di me. È tensione verso qualcosa che non esiste, che ancora non è là. E allora io intraprendo un viaggio per raggiungerlo. La parola, nel momento in cui si confronta con una diversa accezione dell’esistenza, cerca un appoggio fisico: per me quell’appoggio fisico è l’interprete. Non intendo tanto l’attore in scena, quanto la testimonianza palpabile di qualcosa che io, noi tutti viviamo come assenza. Sai, credo che in fondo il mistero della vita sia legato all’assenza. Ogni volta che facciamo teatro, ogni volta che scriviamo, noi cerchiamo di decostruirla, di compensarla, questa assenza. Per questo la scrittura deve creare una nuova visione del mondo, più che una realtà effettiva: un avamposto reale, fisico, dentro il mistero della nostra condizione.

In che modo la parola può addentrarsi, secondo quanto dici, nella realtà?

Ti faccio l’esempio del mio lavoro su Medea, non compreso nell’ultima raccolta: stavo iniziando questo progetto di ricerca in Francia, con un gruppo di attrici. Proprio il giorno in cui cominciamo, scoppia la guerra in Ucraina. E lì che fai? Il presente non può colpirti come un colpo di vento, che attraversandoti ti asciuga. Allora è chiaro che quella guerra è entrata subito nel testo, modificandolo, accogliendo il mio vissuto, la mia indignazione. Tutto diviene linguaggio poetico, ma prima c’è l’impatto con qualcosa che cambia completamente la tua visione e ti costringe ad attrezzarti di nuovo, a lottare. Per me un testo è sempre un’esperienza di rivolta. Certo la rivolta spesso è un’esperienza solitaria – mentre la rivoluzione è sempre collettiva – ma rimane comunque un atto di partecipazione al cambiamento. Quando scrivo metto in discussione anche la forma teatrale, il senso e la funzione del teatro, perché mettere in crisi il teatro significa mettere in crisi anche la società, la realtà. Per me il teatro non è solo pratica teatrale (qui è la lezione della drammaturgia greca che mi accompagna). Il teatro è il coraggio di poter guardare, così com’è nell’origine della parola – da theaomai, vedere. Guardare nel buio, nel conflitto che ci segue ovunque, è un atto in grado di cambiare la parola nel suo viaggio verso l’interpretazione. La scrittura, il teatro, non possono dare soluzioni, ma possono far aprire gli occhi, guardando fisso nel nodo conflittuale dell’esistenza. E quando dico esistenza, parlo anche della dimensione politica, della forma politica dell’esistenza. Dobbiamo essere fastidiosi: il teatro non può essere connivente. Per me, la scrittura deve essere un meccanismo di allerta sulla deriva in atto.

Penso alla Trilogia del Naufragio, dove presente e senso mitico si confondono in una nuova visione della realtà.

La Trilogia del naufragio è una grande macchina di allerta. Parliamo di persone distrutte da un viaggio disumano: è il grande tema su cui dovremmo tenere gli occhi aperti, perché lì si gioca la nostra facoltà di sentirci umani. Su questo si riversa non solo la mia sensibilità di autrice, ma anche di siciliana. Io come faccio a sentirmi umana quando so che delle persone si bruciano la pelle sui barconi, muoiono di inedia e la loro sepoltura consiste nell’essere buttati a mare dai propri cari? È lì che manca il rispetto dell’umanità, ed lì che dobbiamo lottare. Io posso farlo con le mie armi naturali, le parole. Ma ci sono associazioni, persone che fanno un grande lavoro. Che stanno in allerta, appunto. La migrazione è l’ultima occasione per recuperare la nostra umanità. Noi abbiamo perduto il valore mitico del viaggio: ci spostiamo per vacanza, turismo, lavoro. Così abbiamo smarrito l’ultima possibilità di scommettere su una vita diversa. Di andare oltre il confine, il limite. Noi non siamo più in grado di compiere un percorso rivoluzionario. Soltanto i migranti oggi ci danno l’esempio del viaggio come valore assoluto verso un cambiamento. Tutto ciò riporta al mito, ad Ulisse: c’è chi arriva a Itaca, c’è chi non arriverà mai. Per questo la parola deve muoversi, consentendoci di mettere in gioco facoltà che altrimenti sono negate: quelle dell’esplorazione di un altro territorio, non solo della realtà, ma anche dell’anima, della mente. Il teatro non va soltanto fatto, ma anche pensato, sentito, attraversato, viaggiato appunto. Non siamo fatti per essere residenziali, siamo fatti per essere nomadi. Abbiamo questa necessità di muoverci, di andare oltre.

In che modo queste tue concezioni si trasformano in prassi, al Centro Amazzone?

Il Centro Amazzone è un po’ il cuore di quello che ho detto. Il principio è quello di guardare a un’esperienza traumatica, se vuoi di frontiera (quella del tumore al seno) da un altro punto di vista. Al centro adottiamo un approccio multidisciplinare che unisce mito, scienza e teatro. Dal momento in cui il nostro lavoro si concentra sulla questione del corpo, il teatro ha nelle nostre attività un ruolo centrale. Noi spesso viviamo per categorie: ma in realtà per me tra il fare teatro e prendersi cura di qualcosa non c’è differenza. Non a caso a partire dalla pandemia, momento di rottura straordinario, si è parlato molto di «teatro come cura». La cura non è solo una terapia medica, ma anche il sentimento integrale della tua persona. Anche, soprattutto nella condizione di crisi.

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Clinteastwood
6 Aprile 2024

Raymond Bellour / L’imperituro fascino del cinema western

Giuseppe Costigliola, «Pulp Libri»

L’immaginario western americano ha sempre esercitato un’attrazione magnetica, a ogni latitudine. Era dunque fatale che il cinema, arte visionaria per eccellenza, sin dagli esordi costituisse su quell’immaginario uno dei suoi generi di maggior fortuna. Nel Paese in cui esso originò si venne a creare una poderosa industria cinematografica che propagò nel mondo il mito del West, grazie a icone immortali – John Wayne, James Stewart, Glenn Ford, Henry Fonda, Gary Cooper e numerosissimi altri – che incarnavano personaggi reali e frutto di fantasia, alle prese con storie che affondavano nelle strutture profonde della creatività umana, opera di abilissimi sceneggiatori e messe in pellicola da straordinari registi e direttori della fotografia.

Sul finire degli anni Cinquanta del secolo scorso, e soprattutto nel decennio successivo, anche l’industria cinematografica europea – e in particolare quella italiana – cominciò a sfornare pellicole di genere western, amplificando a dismisura il mercato, sfaccettandone i temi e ampliandone la ricezione da parte degli spettatori. Il fenomeno fu di vastissima portata – sociologica, antropologica, politica – e dalla metà degli anni Sessanta gli studiosi più avvertiti si lanciarono in indagini più sistematiche, anche con la scorta di nuovi strumenti metodologici. Tra i vari studi, nel 1966 (e riedito nel 1993) in Francia apparve un lavoro collettaneo curato da Raymond Bellour, studioso e critico cinematografico di livello, che raccoglieva acuti contributi che affrontavano il discorso da varie prospettive. Curato e tradotto da Gianni Volpi, con la prefazione di Goffredo Fofi, quel lavoro è stato pubblicato da Cue Press, editore che continua la preziosa opera di ricerca e riscoperta di testi fondamentali del discorso teorico e critico – ma anche biografico – del teatro e del cinema mondiali. Già dal titolo, il volume si presenta come temerario tentativo di esaustività della ricerca, e certo non si rimane delusi: siamo davanti a uno degli studi più completi sull’argomento, un’analisi metodica del western con i suoi relati mitici, i fondamenti storici, i risvolti sociologici ed ideologici, i rapporti con le varie arti che se ne sono nutriti.

Nella sagace prefazione, Fofi ricrea l’accesissimo dibattito sul tema che originò in Italia negli anni Sessanta – anche in risposta alla proliferazione di un genere autoctono, il western all’italiana, che rivoluzionò il mercato cinematografico del nostro Paese, sovrapponendosi alla matrice originaria –, le diatribe tra l’affilata critica nostrana e quella d’Oltralpe. Nella prima parte del volume si affronta il cinema western americano da diverse angolature critiche; nel suo saggio, il curatore parte dalla «seduzione» suscitata dal «più antico e il più giovane» dei generi, considerandolo – e titolando l’articolo – come «un grande gioco», una «arte ludica» e dunque perpetua e immortale, ma riconducendolo all’alba della storia e della civiltà americane, e leggendolo quale veicolo di miti e valori: un acuto discorso ‘giocato’ tra storia e utopia. Roger Tailleur sofferma la sua analisi sul contesto da cui il western generò e si diffuse, analizzando «il retroterra sociale, storico, letterario, musicale, figurativo, etnografico, linguistico»: insomma, una «navigazione perigliosa» che si propone di «risalire dall’oceano Western ad alcune sorgenti». Bernard Dort focalizza l’attenzione sulla «nostalgia dell’epopea», rintracciando il sostrato epico del western, ritenendolo l’equivalente moderno dell’epopea. André Glucksmann preferisce invece indagarlo come forma di tragedia, tracciando una differenza tra «western classico», che rivelava un mondo epico, e «nuovo western», memoria dolorosa di quel mondo divenuto passato, metamorfosi che mette in atto un processo di storicizzazione di un sostrato mitico e valoriale fondativo. Il nostro Gianni Volpi affronta la crisi che il genere attraversò nel Paese in cui vide la luce, a partire dagli anni Sessanta, segno della crisi dei valori-guida del West – l’individuo e la libertà, il canto dell’azione, dei grandi spazi aperti, il mito di una sempre nuova frontiera – che a lungo hanno operato come mitologema culturale di una società, autentico «retroterra storico e ideologico» di una nazione – il liberalismo –, e in tal ottica analizza il «nuovo western», sottolineando le differenze intervenute: il modo diverso di considerare ‘l’altro’ per eccellenza, cioè l’indiano, la creazione di nuove leggende e la diversa interpretazione di quelle antiche, il Messico quale metafora di rivoluzione, e così via.

Nella seconda parte del volume, Miti, si passano in rassegna una profusione di figure e topoi del western – alcolici, armi da fuoco, banditi, bestiame, carovana, cimitero, città deserta, duello, indiano, treno, strada, violenza e così via: ben 51 nuclei tematici. V’è poi una sezione (Un tomahawk dissepolto) in cui è riportato il discorso letto alla cerimonia di consegna per gli Oscar del 1973 da una donna Apache (Sacheen Littlefeather, ‘Piccola Piuma’), delegata dal vincitore del premio quale migliore attore di quell’anno, Marlon Brando (per l’interpretazione di Don Vito Corleone ne Il padrino di Francis Ford Coppola), che rifiutò il riconoscimento per protesta contro il modo in cui l’industria cinematografica rappresentava l’americano indiano; a cui seguono altre parti dedicate ai registi e agli attori, un indice dei western citati e una biografia essenziale. Insomma, siamo in presenza di un testo teorico e di repertorio fondamentale sull’immaginifico universo del western, destinato a chi voglia partire per successivi approfondimenti, o a chi intenda acquisire le coordinate principali per muoversi nelle sconfinate praterie reali e metaforiche dell’Ovest del continente nordamericano, popolate da eroi e antieroi, dense di avventure e peripezie, sogni e incubi vecchi quanto la prodigiosa facoltà mitopoietica dell’essere umano.

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Linaprosa
30 Marzo 2024

Madri e attori: i piccoli eroi di Lina Prosa in un mondo ai margini

Guido Valdini, «la Repubblica»

La drammaturgia di Lina Prosa, radicata nel mito classico (è nata a due passi dal tempio dorico di Segesta), ambisce a fare scivolare le profondità degli archetipi nel moderno (o post moderno); combina, così, l’eroico col minimale e la metafora con la denuncia politico-sociale, in una struttura linguistica antiletteraria e fratturata che aggira l’oggettività del reale, sfumando in un fascinoso canto lirico.

Autrice fra le più interessanti del contemporaneo e, in un’epoca dominata dalla performance, saldamente ancorata al valore della scrittura, esce ora peri tipi di Cue Press (coraggiosa casa editrice in digitale e su carta) un volume dal semplice titolo Teatro che raccoglie le sue più recenti creazioni (123 pagine, 19,99 euro). Si tratta di cinque testi e quattro sottotesti – così definiti dall’autrice – scritti in prevalenza nel periodo pandemico. E che costituiscono, per certi versi, una sorpresa, in quanto si allontanano dai temi di forte impatto critico contro le iniquità delle sue produzioni più note (vedi quelli sulle migrazioni o sulla rivolta del corpo e della centralità femminile). Possiedono come comune filo sottile il sussurro del vento che corre verso l’ignoto, e sviluppano il conflitto tra desiderio e confine, tra la ricerca dell’identità smarrita e l’angoscia della coscienza, ma soprattutto sono dotati di delicatezza di toni e sensibilità di sfumature che manifestano una intimistica vibrazione d’affetti per un’umanità violata.

Di fatto, i testi hanno un’articolazione prettamente scenica, mentre i sottotesti (più brevi) sono dei racconti-monologhi che talvolta hanno il tenore della missiva. Ed è fra questi ultimi che si ritrovano alcuni dei momenti più felici. Come in Popolo-19 (numero ricorrente che rammenta il Covid), commosso percorso degli ultimi brandelli di vita di una madre di antiche virtù colpita dal virus e – come diffusamente accaduto – morta nella solitudine di un ospedale: dolorosa testimonianza immaginaria, eppure drammaticamente autentica. O in Scavo di fossa nel bianco, ambientato nel gelo artico, dove per seppellire i morti bisogna scavare nella crosta polare: qui la voce della narratrice racconta le fasi della pietosa operazione alla moglie cieca del defunto, svelandosi infine come amante del marito, in un’affermazione di piacere, sacrificio e amore. Mentre di delirio incalzante è la metamorfosi di Nunù in Antoniuccia e Peppino, che, dopo la morte della madre, durante una folle corsa va perdendo pezzi del suo corpo.

Fra i testi propriamente detti, pervaso di tenebroso humour è La carcassa: due scalcinati agenti di pubblica sicurezza sul ciglio di un burrone, dove «si riparano le anime in pena», provano ad immaginare in un dialogo surreale la vita che si svolse intorno a un’auto distrutta. Di argomento metateatrale sono Ingrid e Lothar, nel quale, tramite un’azione scenica, un regista si esibisce in una sorta di lezione agli spettatori sulla sofferenza del teatro, e Actor Studio-19: in un’epoca postbellica, un attore tenta le prove di un improbabile spettacolo sotto le indicazioni di un ambiguo maestro; in un mondo di macerie che non prevede Amleto e nel quale bisogna adattarsi con gli oggetti di scena rimasugli di mercati abusivi, incombono la frustrazione dell’attore, ora marionetta, ora emigrante e naufrago, e la sua malinconica stanchezza, condannato a rischiare la sua fantasia per l’intramontabile sfruttamento delle trappole del potere. Completano la raccolta Il muro ha due lati, enigmatico paradigma dell’esclusione, con un muratore che ha l’ordine di dividere la stanza di una donna reclusa in una residenza per disagiate, e che, dopo avere sperimentato l’illusione dello sguardo, finisce per murarsi da sé. E infine l’utopia fallimentare nel chiuso di un carcere di Voglio fare la rivoluzione con te e in Africa-Mis-en-espace, una provocazione elegiaca sull’impossibilità di rappresentare i miti dell’Orestea, che conduce al grado zero del teatro.

Topgirls
30 Marzo 2024

Top Girls di Caryl Churchill

Andrea Pocosgnich, «Teatro e Critica»

La produzione di Top Girls del Teatro Due di Parma ha prodotto non solo uno spettacolo che nella regia di Monica Nappo è un oggetto molto interessante e inaspettato, ma anche la pubblicazione del testo di Caryl Churchill. Opera drammaturgica del 1982 che squaderna sul palco prima un gruppo di «signore del passato» (come le chiama Luca Scarlini nel suo contributo all’edizione Cue Press con la traduzione da Margaret Rose) e poi una moderna e contraddittoria realtà lavorativa al femminile. Il primo quadro è una dissacrante, divertente e assurda cena in cui si incontrano iconiche presenze femminili della storia o della leggenda. Dalla Papessa Giovanna alla protagonista di un quadro di Bruegel, passando per una cortigiana di un imperatore giapponese del tredicesimo secolo, fino a una ricca viaggiatrice inglese del diciannovesimo secolo. Tutte sono state convocate dalla protagonista dell’opera, Marlene, per festeggiare la sua nuova posizione lavorativa. Il prosieguo è invece, per gran parte, al chiuso degli uffici, tra i colloqui dell’agenzia di collocamento di Marlene, le colleghe, la carriera e una ragazza, una nipote che potrebbe rompere gli equilibri. La questione centrale non è solo femminile, Churchill affronta anche il mondo del lavoro, le aspettative e le sofferenze subite dopo anni passati ad essere infelici. È quello che capita a Louise in uno dei colloqui più toccanti, la donna vuole cambiare lavoro e afferma: «Nessuno si accorge di me, non lo pretendo. Non attiro mai l’attenzione perché sbaglio, è scontato per tutti che il mio lavoro sia perfetto. Si accorgeranno di me quando non ci sarò più».

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Fadini
30 Marzo 2024

Edoardo Fadini, Scritti sul teatro, a cura di Armando Petrini e Giuliana Pititu

Andrea Pocosgnich, «Teatro e Critica»

«Uno sguardo fortemente politico ma mai piegato a ragioni semplicemente ideologiche, segnato in profondità dal metodo dialettico eppure molto netto nel giudizio. Un punto di vista che si sviluppa compiutamente all’interno delle dinamiche, delle tensione e delle contraddizioni del tempo che attraversa e per questo ancora più interessante per noi lettori ormai inevitabilmente distanti da quelle temperie».

Così Armando Petrini e Giuliana Pititu, i due curatori del volume edito da Cue Press, fotografano, nell’introduzione, lo sguardo di Edoardo Fadini, critico teatrale, importante osservatore del nostro teatro tra gli anni Sessanta e Settanta. La raccolta di scritti (interventi, recensioni e saggi) si concentra sul decennio 1965-75, quello in cui pubblicava su «l’Unità», poi su «Rinascita», «il Contemporaneo» e «Sipario». Il libro comincia con un resoconto di un Recital di Valeria Moriconi e Glauco Mauri, era il 28 settembre 1965 e l’articolo è preceduto da qualche riga con cui «l’Unità» salutava il passaggio di testimone dal precedente critico Giorgio De Maria. E poi il Carignano esaurito per O’Neill diretto da Squarzina; i cinquant’anni di teatro di Renzo Ricci; del ’66 la recensione a Mysteries and Smaller Pieces del Living, ‘mutilata’ per ragioni di spazio con tanto di risposta il giorno successivo in cui il critico rivolgendosi al direttore del giornale precisava la sua posizione nei confronti dell’opera. Sotto gli occhi di Fadini passano le generazioni del teatro italiano, ma anche problemi e questioni di politica culturale, con uno sguardo privilegiato sul Teatro Stabile della sua Torino.

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Condannato alla fama beckett
26 Marzo 2024

Condannato alla fama: la vita di Samuel Beckett

Massimo Bertoldi, «Centro di Cultura dell’Alto Adige»

Nel catalogo dell’imolese Cue Press il nome di Samuel Beckett è una sorta di fiore all’occhiello tanti sono i libri inediti per l’Italia pubblicati in questi anni, dai fondamentali Un canone di Ruby Cohn Capire Samuel Beckett di Alan Astro cui si affianca la serie Quaderni di regia e testi riveduti curata da Luca Scarlini finora rivolti ad Aspettando Godot,Finale di partita, L’ultimo nastro di Krapp e ai cosiddetti Testi brevi.
A questo ambizioso progetto divulgativo di grande spessore scientifico appartiene anche Condannato alla fama: la vita di Samuel Beckett di James Knowlson per la cura di Gabriele Franca e la traduzione di Giancarlo Alfano. Si tratta di un libro imponente, sontuoso, necessario per conoscere la vita dell’uomo e dello scrittore-drammaturgo in tutte le sue sfaccettature pubbliche e private che l’autore conosce molto bene essendo stato amico e suo eccellente studioso.

Contenuta in ventisei capitoli ordinati in senso cronologico e basati su molteplici e preziose fonti – lettere e taccuini, appunti e manoscritti dello stesso Beckett, nonché testimonianze di collegi e amici – la biografia filtra la miriade di notizie in un tessuto prosaico ordinato e fluido, più vicino alla narrativa che alla saggistica, sempre lontano da effetti agiografici. Emerge una relazione strettissima tra letteratura e vita, soprattutto nelle opere giovanili in cui lo scrittore irlandese attinge «dalle proprie esperienze personali». Il timido e riservato giovane Beckett ama l’alcool, il rugby, il tennis; a Parigi frequenta i teatri, frequenta Joyce e conosce Breton, si innamora. Non pochi sono i dissapori con gli editori soprattutto londinesi.

Se Beckett è stato talvolta criticato per mancanza di impegno civile e politico, il libro di Knowlson offre un’indiscutibile smentita: durante un soggiorno nella Germania nazista (1936-1937) annota nei suoi diari che i tedeschi «devono combattere presto (o scoppiano)», dopo aver ascoltato per radio gli «apoplettici» discorsi di Hitler e Goebbels. Affiora l’antinazismo che si materializza nel 1941 quando il drammaturgo partecipa alla Resistenza aderendo alla cellula Gloria SMH attiva nella regione parigina, presto colpita da arresti che lo costringono a rifugiarsi a Roussillon (1942-1945).
Sono esperienze destinate a incidere nella «tempesta creativa» del dopoguerra perché – sottolinea Knowlson – «una cosa era provare intellettualmente la paura, il pericolo, l’angoscia e la privazione, un’altra viverle nella propria persona, come gli era successo quando era stato accoltellato, oppure quando si era dovuto nascondere».         

«Frenesia di scrivere» ovvero il periodo 1946-1953, durante il quale nascono, tra l’altro, la trilogia romanzesca con MollyMalore muore e L’innominabile, e soprattutto Aspettando Godot allestito da Roger Blin con effetti da circo e music hall, per poi emigrare da Parigi ai teatri tedeschi. Il successo europeo è in parte annebbiato dai consensi altalenanti ottenuti negli Stati Uniti e dalle difficoltà incontrate nella stesura di Finale di partita. Beckett entra in depressione creativa in merito alla comunicazione teatrale. Si illumina con i successi radiofonici segnatamente ottenuti con L’ultimo nastro di Krapp.

Altro momento cruciale è lo scontro con la censura irlandese e inglese, ben evidenziata dalla stampa, a proposito di alcune scene di Finale di partita. E difficoltà non trascurabili emergono anche nella messinscena di Giorni felici curata dallo stesso Beckett che «non fu mai un regista di attori».
Samuel invecchia, ha problemi di salute, non si ferma fino alla fine: aveva capito sulla propria pelle che a monte del successo c’è l’esperienza cruciale dell’insuccesso come molti personaggi disegnati da questo indiscusso signore della scena del Novecento, segretamente ci rivelano.

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22 Marzo 2024

Condannato alla fama: chi se non Beckett?

Anna Maria Sorbo, «Limina Teatri»

Grazie alla Cue Press, casa editrice specializzata in teatro, cinema e arti, di stanza a Imola e di larghe vedute riguadagniamo una delle più appassionanti biografie letterarie dei nostri tempi, incredibilmente da noi fuori catalogo da anni: Condannato alla fama: la vita di Samuel Beckett di James Knowlson, riproposta con la cura di Gabriele Frasca e la traduzione di Giancarlo Alfano, ma con l’intrigante titolo originario (Damned to Fame. The Life of Samuel Beckett).
E non è l’unico suggerimento – cue di Cue Press in lingua inglese significa appunto battuta d’entrata, suggerimento, segnale – che la compagine fondata e diretta da Mattia Visani già editrice tra gli altri di Jon Fosse molto prima del Nobel per la Letteratura 2023 lancia sul mercato librario riguardo all’autore irlandese. Nel suo catalogo, in anticipo su un ritorno che ha interessato anche altri e magari più blasonati marchi, hanno già trovato posto gli inediti per l’Italia Beckett: un canone di Ruby Cohn e Capire Samuel Beckett di Alan Astro, a fianco della serie curata da Luca Scarlini Quaderni di regia e testi riveduti, finora dedicati ad Aspettando GodotFinale di partitaL’ultimo nastro di Krapp e ai ‘cosiddetti’ Testi brevi.
Ancora prima di addentrarsi nella lettura dei ventisei capitoli che attraversano l’intera esistenza di un autore-mito o feticcio, racchiusa nei limiti solo cronologici 1906-1989 tra le Immagini dell’infanzia e il Viaggio d’inverno, fin dal ‘paratesto’ si apprezza la monumentale – nell’accezione migliore del termine – opera di Knowlson. Concepita a ridosso dell’assegnazione a Beckett del Premio Nobel per la Letteratura nel 1969, una ‘catastrofe’ che lo sconvolse al punto da «correre a nascondersi per il tempo necessario a far calmare la confusione», la biografia sarà ultimata e data alle stampe da Bloomsbury solo nel 1996. Un tempo nient’affatto vuoto, anzi necessario a coltivare la frequentazione tra Knowlson e Sam e di lì a superare le resistenze dello scrittore – notoriamente riluttante perfino nel concedere semplici interviste – il quale «aveva sempre sperato che sotto il microscopio venisse posta la sua opera non già la sua vita», tanto da ‘autorizzare’ personalmente la composizione del volume e presentare Knowlson come il suo biografo ufficiale.
E tuttavia è proprio in un libro come questo di Knowlson, che unisce la cura del dettaglio a una prosa agile e gradevole, sincero e mai agiografico nel far luce anche su aspetti del privato e della personalità meno noti di Beckett, che si svela la strettissima relazione tra letteratura e vita, le influenze, le ossessioni, l’assoluta centralità per esempio dell’esperienza «di incertezza radicale, di disorientamento, esilio, fame, bisogno» vissuta durante gli anni del secondo conflitto mondiale (Beckett, malgrado la nazionalità irlandese gli consentisse di restare neutrale, decise di aderire a una cellula della Resistenza britannica, la Gloria SMH) nel sollecitare le storie, i romanzi e i drammi capolavori prodotti «nella tempesta creativa» dell’immediato dopoguerra. Perché «una cosa era provare intellettualmente la paura, il pericolo, l’angoscia e la privazione, un’altra viverle sulla propria persona, come gli era successo quando era stato accoltellato, oppure quando si era dovuto nascondere o era stato costretto a scappare», in fuga dalla Gestapo in una Francia devastata.
Tanto ci sarebbe da aggiungere, ma come avverte lo stesso Knowlson «il libro deve parlare per se stesso» e dunque lasciamo al lettore il piacere della scoperta continua che Condannato alla fama riserva. Nella sterminata messa a punto di fonti e documenti utilizzati da Knowlson – appunti, taccuini e manoscritti dello stesso Beckett, materiali concessi dagli eredi o da altri studiosi, le testimonianze e le tantissime lettere recuperate attraverso amici e corrispondenti vari – spiccano le preziose sette ore di conversazione che il nostro ebbe il privilegio di intrattenere con Beckett, fortunatamente realizzate prima dell’improvvisa scomparsa di questi nel 1989. Rappresentano il ‘pilastro’ maggiore che sostiene l’edificio knowlsoniano. Non a caso Gabriele Frasca, nella sua postfazione, parla e fa «l’elogio» di un «metodo Knowlson». Un lavoro di stratificazioni, più anatomico giustamente che invero architettonico, nel suo «procedere da un primo apparato scheletrico, rimpolpato via via di muscoli e nervi, fino a quello tegumentario che dovrebbe restituirci, in uno, l’autore nell’uomo, l’uomo nel sociale, e il sociale nella storia». È ciò che consente al Knowlson biografo di farsi tramite empatico e non mero osservatore/dissezionatore di un oggetto di indagine e alle sue pagine di ‘vivere’, letteralmente, del respiro dell’artista ritratto, immortale come la fama cui era predestinato, chiamandosi Samuel Beckett.

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18 Marzo 2024

Per il Nobel Jon Fosse è difficile riconciliarsi con la vita. Dopo che questa ci ha condannati a soffrire. E a smarrirci

Andrea Bisicchia, «lo Spettacoliere»

L’investitura del Nobel è molto simile all’investitura di un Papa, nel senso che, grazie alla popolarità raggiunta, anche gli scritti, che si tenevano nel cassetto, trovano immediata pubblicazione.

In Italia, Jon Fosse non vantava certo una grande popolarità, si deve a case editrici che hanno scelto di pubblicare solo teatro, sia per quanto riguarda i testi che per quanto riguarda i saggi, la pubblicazione di commedie o drammi, come Variazioni di morte, Sonno, Io sono il vento, editi da Titivillus, o delle sue prime composizioni, come E non ci separeremo mai, Qualcuno verrà, Il nome, edite da Cue Press, a cui dobbiamo anche la pubblicazione dei suoi Saggi, dove sono raccolti gli scritti sulla Concezione del dramma, sulla Linea Ibsen-Joyce-Beckett-Bernhard, oltre che sul rapporto tra scrittura e gnosi.

Sempre a Cue Press dobbiamo lo studio di Leif Zern: Quel buio luminoso. Sulla drammaturgia di Jon Fosse, con una Premessa di Vanda Monaco Westerståhl che lo inquadra come un autore schivo che, come scritto nella motivazione del Nobel, dava «voce all’indicibile», o, meglio, a un linguaggio privato che, però, sapeva tradurre in linguaggio universale. Per Leif Zern, a cui dobbiamo anche una monografia su Bergman, il compito del teatro per Fosse è quello di esplorare l’invisibile, l’ignoto, oltre che l’indicibile e, per dimostrarlo, crea dei parallelismi con altri autori, da Xaver Kroetz, da lui definito il «Foucault della scena», benché i suoi drammi fossero degli studi sull’alienazione e l’esclusione sociale, a Beckett, per i suoi silenzi, a Pinter, per i suoi personaggi anonimi.

Solo che Fosse, a suo avviso, preferisce le categorie di «smarrimento», di «misticismo che sa di gnosi» che gli permette di alternare l’esplorazione del rapporto tra il limite e l’illimitato, con lo stare sulla soglia ed entrare nella vita. Per Fosse, siamo tutti sostituibili, essendo diventati delle identità sconosciute, non solo a noi stessi, ma anche agli altri, dato che tutto si muove verso una degradazione o una perdita, tanto che appare difficile riconciliarsi con la vita, dopo che questa ci ha condannato a soffrire e ad essere puniti per colpe reali o immaginarie. Come gli uomini politici non hanno saputo imparare dalla Storia, così gli uomini comuni non hanno saputo imparare dalla Vita.

Molto importante è l’analisi che Zern fa dei testi di Fosse, avendo seguito tutte le messinscene europee, a cominciare da quelle di Ostermaier, per finire a quelle di Patrice Chereau. Il suo saggio ha inizio con le interpretazioni di E non ci separeremo mai, di Qualcuno verrà, per continuare con Il nome, Barnet, Sogno d’autunno, opere nelle quali egli ha individuato un tema ricorrente, quello del trasloco, nel senso che gli esseri umani sono sempre alla ricerca di luoghi solitari, dove non vogliono attendere nessuno, perché in loro l’attesa non ha alcun valore ontologico.

Altri temi affrontati sono quelli della precarietà del vivere come dinanzi a una soglia, con la paura di attraversarla. Cosa resta, allora? Abbandonarsi al tempo, in attesa che accada qualcosa o che non accada. Forse, la drammaticità dei testi di Fosse nasce proprio da questa incertezza, oppure dalla assenza di alternative, che diventano linfa vitale di tensioni senza conflitti, anzi è proprio la vitalità delle incertezze che crea la tensione scenica, nel senso che i personaggi non sono l’uno contro l’altro, ma uno accanto all’altro, versione diversa da quella dei personaggi pirandelliani, nel Giuoco delle parti, quando Leone Gala rimprovera la moglie per non essergli mai stata accanto, ma sempre contro.

Mentre stiamo scrivendo, a Torino ha debuttato La ragazza sul divano, pubblicato da Einaudi, dopo una prima pubblicazione fatta da Editoria & Spettacolo, con la regia di Valerio Binasco, con un cast d’eccezione, che si potrà vedere successivamente al Piccolo Teatro Strehler. Binasco è certamente il principale interprete di Fosse, avendo messo in scena E la notte canta, Un giorno d’estate, Sonno e Sogno d’autunno. La storia di La ragazza sul divano è quella di una pittrice che dipinge una giovane che forse è sempre se stessa.

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1 Aprile 2023

Umberto Orsini, Le memorie di Ivan Karamazov

Antonio Tedesco, «Proscenio»

Può un attore trovare se stesso, la propria storia artistica, e forse umana, in un personaggio che lo ha particolarmente segnato? E nel quale gli pare di specchiarsi, provando al tempo stesso attrazione e repulsione? Un personaggio che si trasforma in un universo da esplorare e del quale non si riesce mai a vedere la […]
1 Aprile 2023

Kore’eda cinema della memoria

Matteo Boscarol, «Alias — Il Manifesto»

Nei più di trent’anni di carriera e specialmente nell’ultimo decennio, dopo cioè la conquista della Palma d’Oro con Un affare di famiglia nel 2018, Hirokazu Kore’eda si è affermato come una delle voci più importanti eseguite nel panorama cinematografico internazionale. Il suo ultimo lavoro, Monster, il primo tratto da un soggetto non suo, sarà con […]
31 Marzo 2023

Un romanzo di santi e buffoni. Intervista a Franco...

Ludovico Cantisani, «Mimesis-Scenari»

Franco Perrelli, professore ordinario, ha insegnato Discipline dello Spettacolo nelle Università di Torino e di Bari. Ha vinto il Premio Pirandello 2009 per la saggistica teatrale ed è stato insignito dello Strindbergspris della Società Strindberg di Stoccolma nel 2014. Fra le sue recenti pubblicazioni si segnalano: Le origini del teatro moderno (2016), Poetiche e teorie […]
30 Marzo 2023

Il Romanzo teatrale di Bulgakov e Elogio del disor...

«Il Teatro di Radio 3 — Rai Radio 3»

Due pubblicazioni di Cue Press: Romanzo teatrale di Bulgakov, nel quale il romanziere traccia in modo ironico il profilo di Konstantin Stanislavskij, e Elogio del disordine di Louis Jouvet, con le sue considerazioni sull’arte dell’attore e sul teatro. Collegamenti
19 Marzo 2023

Potere mediceo e teatro negli studi di Zorzi

Luca Scarlini, «Corriere Fiorentino»

Ludovico Zorzi (1928-1983) dalla natìa Venezia giunse a Firenze negli anni Settanta, dopo una lunga esperienza nelle attività culturali Olivetti, avendo svolto compiti come recensore e introducendo numerosi volumi della prestigiosa collezione di teatro Einaudi, da La Veniexiana, a Ruzante, a Goldoni. Fondatore in Italia della storia dello spettacolo, insieme a Cesare Molinari ed altri […]
18 Marzo 2023

Stanley Gontarski, Tennessee Williams

Massimo Bertoldi, «Il Cristallo On Line»

Mancava in Italia un saggio monografico dedicato a Tennessee Williams, fondamentale autore noto per commedie accompagnate da allestimenti importanti come Lo zoo di vetro, Un tram che si chiama desiderio, Improvvisamente l’estate scorsa e La rosa tatuata. Colma la lacuna Cue Press, con la pubblicazione di un volume molto interessante a appassionante, Tennessee Williams. Modernismo […]
6 Marzo 2023

Ridurre la distanza. Breve storia del teatro socia...

Francesca Lupo, «Theatron 2.0»

«Le pratiche di teatro sociale sembrano anche svolgere una funzione di mediazione politica, in particolare nelle relazioni tra le istituzioni e gli individui e i piccoli gruppi, con specifico riferimento a soggetti marginali e fragili. Una funzione che nutre il capitale sociale e riduce la distanza e la possibile conflittualità, generando occasioni di contatto e […]
4 Marzo 2023

L’America di Elio De Capitani

Maria Dolores Pesce, «Dramma.it»

L’interesse, o meglio la sensibilità, che da molto tempo contraddistingue gli studi di Laura Mariani nei confronti dell’attorialità, torna ad incontrare e ad intersecarsi con l’attività ormai ultratrentennale di uno degli attori che, meglio di tanti altri, ha saputo interpretare non soltanto i singoli e innumerevoli personaggi che ha incarnato, quanto il «Teatro» tout court, […]
3 Marzo 2023

Guillem Clua, Teatro

«Queerographies»

Uno Stato immaginario scomparso a causa dei cambiamenti climatici, una misteriosa epidemia globale, un giudice che nasconde la propria omosessualità: pur trattando gli argomenti più disparati, il lavoro di Clua riesce ad affrontare in maniera originale ed eclettica il tema della diversità e della complessità del mondo contemporaneo. Il volume raccoglie il meglio della produzione […]
1 Marzo 2023

Bob Wilson e l’Italia: l’omaggio di Giacobbe

Sergio Di Giacomo, «Moleskine Rotocalco»

Durante la presentazione del libro del critico e storico del teatro Gigi Giacobbe Bob Wilson in Italia abbiamo percepito una grande passione, quella passione per il grande teatro che anima il nostro critico teatrale, tra le firme di «Moleskine» e per decenni collaboratore delle pagine culturali del «Giornale di Sicilia». Attualmente collabora anche a «Sipario» […]
1 Marzo 2023

Quaderni scritti a penna di un futuro Premio Nobel...

Andrea Porcheddu, «Gli Stati Generali»

Ma insomma Samuel Beckett si può toccare o no? Si sa: il burbero premio Nobel scriveva testi teatrali che erano delle partiture, misurate al secondo. Tra didascalie, parole e pause vi è una tensione continua e il dettato beckettiano è stato a lungo ritenuto – e ancora lo è – per l’appunto, intoccabile. Complice anche […]
28 Febbraio 2023

Pino Tierno. Il teatro nell’esistenza umana

Giancarlo Mancini, «Pulp Libri»

Molti hanno riflettuto sulla natura effimera dell’evento teatrale, il suo accadere qui e ora, cosa che rende difficile, se non impossibile, la sua trasmissione al di là del ricordo soggettivo. Spesso sono state proprio quelle che vengono chiamate le «prime», ovvero le occasioni nelle quali un testo ha debuttato sulla scena, ad offrire un concentrato […]
27 Febbraio 2023

Nel 1960, L’«Orestiade», tradotta da Pasolini...

Andrea Bisicchia, «Libertà Sicilia»

Cercare una catalogazione nella quale includere il libro di Pino Tierno pubblicato da Cue Press potrebbe sembrare difficile, non potendolo inserire in un «genere», poiché non appartiene né alla saggistica né alla storiografia teatrale da intendere in senso tradizionale. Anche se, al suo interno, si può trovare l’una e l’altra, lo si potrebbe inserire in […]
20 Febbraio 2023

La fine del mondo: una vita in serie

Alfredo Sgroi, «Mangialibri»

La sfilata dell’ordinaria follia comincia. In un ambiente asettico, cioè un anonimo ufficio, si consuma il dramma a distanza di un’anziana costretta da familiari cinici a lasciare la sua abitazione… Ancora più violenta è la vita di un mostro che si cela sotto i panni di un placido pensionato precoce: costui confessa con sconcertante distacco […]
12 Febbraio 2023

La sfida di Achab

Elisabetta Raimondi, «Fata Morgana Web»

Nell’occuparsi di tutti gli aspetti relativi al complicato intreccio di relazioni interne ed esterne al lavoro registico e attoriale, il grande maestro Peter Brook parla di «rappresentazione nascosta» per definire «la rete invisibile di rapporti tra personaggi e temi» che gli attori sviluppano nelle fasi di prove degli spettacoli, creando dentro di sé forme autonome […]
11 Febbraio 2023

Kracauer, teoria del film

Rolando Vitali, «Alias — Il Manifesto»

Allo spettatore smaliziato, avvezzo all’odierno paesaggio multimediale, la tesi secondo cui al medium cinematografico apparterrebbe costitutivamente un rapporto privilegiato con la realtà materiale apparirà, se non ingenua – o tout court scorretta – quanto meno invecchiata. Sono lontani i dibattiti sul realismo e ben poca parte della produzione audiovisiva contemporanea pare rispondere a tale «principio […]
6 Febbraio 2023

Le visioni spietate. Il Premio Nobel della Lettera...

Luca Scarlini, «La Falena», VI-2

Gli onori non sono mancati a Jon Fosse, assai prima del Premio Nobel gli è stato concesso l’onore di risiedere come artista nazionale nel castello di Grotten dalla corona di Norvegia e nel 2007 il governo francese gli ha assegnato il cavalierato per l’Ordre National du Mérite. Proprio Parigi è stata la città che gli […]
1 Febbraio 2023

Bernard-Marie Koltès, Lettere

Gianni Poli, «Teatro Contemporaneo e Cinema», XIV-44

Dal 1955 al 1989 Koltès ha tenuto una fitta corrispondenza con i famigliari e gli amici: mezzo di comunicazione e soprattutto d’espressione di sentimenti intimi, sinceri, a volte censurati. Inventore d’una mitologia tortuosa in uno stile classicamente sorvegliato, sui temi d’una ricerca esistenziale tormentata, ha scritto lettere (cinquecento trenta invii) di profondo significato umano e […]
30 Gennaio 2023

Sono gli allestimenti trasgressivi a tenere in vit...

Andrea Bisicchia, «Libertà Sicilia»

Ci siamo occupati, sulle pagine di questo giornale, del Teatro Postdrammatico di Hans-Thies Lehmann, il volume più venduto e più adottato dalle Università italiane, edito da Cue Press, che ora ci propone Tragedia e Teatro drammatico, un saggio complementare al primo e, pertanto, necessario per meglio conoscere che cosa intendesse Lehmann per Teatro Postdrammatico, e […]
20 Gennaio 2023

Il laboratorio creativo di Beckett nei Quaderni di...

Nicola Arrigoni, «Sipario»

È forse una delle operazioni editoriali più interessanti degli ultimi anni, senza dubbio un contributo alla conoscenza del drammaturgo novecentesco per eccellenza, Samuel Beckett; è un’occasione per rivedere e ripensare l’autore di Aspettando Godot, Finale di partita e L’ultimo nastro di Krapp, attraverso i quaderni di appunti registici, per la prima volta pubblicati in Italia. […]
15 Gennaio 2023

Il mio amato Beckett

Antonio Borriello, «La Tófa della Domenica», XVIII-337

L’intera produzione beckettiana è colma di un immenso fascino drammaturgico, di una bellezza della parola che anticipa un orizzonte di profonda suggestione scenica: tutto è incredibilmente consueto… «Non succede niente, nessuno viene, nessuno va, è terribile». Samuel Beckett, raffinato architetto della parola, lavora su una sola nota, immaginifica ed inesauribile, proiettandola in riverberi di pensieri […]