Logbook

Approfondimenti, interviste, recensioni e cultura: il meglio dell’editoria e delle arti da leggere, guardare e ascoltare.

Teatro la ribalta
25 Agosto 2025

Teatro delle Diversità. Quando la differenza è un valore, anche i ‘diversi’ diventano professionisti uguali agli altri

Andrea Bisicchia, «lo Spettacoliere»

Massimo Bertoldi, ideatore e curatore del volume pubblicato da Cue Press: Teatro La Ribalta. Kunst der Vielfalt (arte della diversità) 2013-2023, ci ha lasciati prima di vedere stampato il suo lavoro.


È stato per anni collaboratore di Alto Adige, sulle orme di Umberto Gandini, ed ha collaborato col Teatro Stabile di Bolzano, in particolare per gli approfondimenti storico-culturali. Basterebbe leggere il suo saggio che apre il volume, dopo una premessa che ha firmato insieme ad Antonio Viganò, per capire la qualità delle sue conoscenze e della sua scrittura. Si è parecchio dedicato al Teatro La Ribalta di Bolzano che ha una sua specificità diventata, lungo un percorso decennale, sempre più professionale, ma che va ricercata in quello che viene anche definito Teatro della Diversità o Teatro Inclusivo con lo scopo di coinvolgere persone con disabilità, evitando, però, di trattarle come categorie liminali o marginali rispetto al teatro di tradizione.

C’è da dire che alla guida della Compagnia troviamo un vero professionista di teatro come Antonio Viganò che è riuscito a creare un ensemble dove convivono non-attori con attori professionisti con una espressività che non ha nulla da invidiare a quella dei professionisti.
Il lavoro di Viganò è abbastanza simile a quello di Nanni Garella di cui ho visto messe in scena esemplari, da Fantasmi ai Giganti della montagna di Pirandello, fino all’ultimo spettacolo su Pasolini, Porcile, visto all’Arena del Sole, nei quali, i suoi attori, provenienti dal reparto di igiene mentale della USL di Bologna, recitavano insieme ad attori professionisti con risultati eccellenti. La capacità di valorizzare le differenze, per promuovere l’inclusione, non è da tutti e non la si può improvvisare. Fare in modo che la diversità diventi una forza lavoro è alquanto difficile, ma Viganò, come Garella, è riuscito in maniera straordinaria.


Il volume di cui ci stiamo occupando è, quindi, molto prezioso per capire la scelta fatta da questi registi, contiene degli interventi e delle testimonianze che sollecitano un diverso discorso sulla presenza del corpo in scena, sul suo potere performativo, sulla forza della sua verità, trattandosi di un corpo fragile che, agli occhi di molti, potrebbe apparire come «un corpo eretico». Anzi, proprio a questa categoria, è stato dedicato un Festival omonimo, durante il quale, vengono rappresentati spettacoli che hanno, come denominatore comune, la devianza o il disordine sociale conseguenza della diversità.

A dire il vero, il teatro, da tempo, si occupa di questo disagio, esiste una vasta bibliografia sui luoghi di disperazione, come manicomi, carceri che sono stati luoghi di spettacoli esemplari, come quelli del Teatro della Fortezza di Volterra, diretto da Armando Punzo o quelli di Lenz Rifrazioni di Parma, con attori down, o quelli del Teatro Patologico, diretto da Dario D’Ambrosi, con dei malati mentali, diventati sempre più attori che sono andati in tournée persino in America. È chiaro che attorno a questi spettacoli ci sono anni di lavoro, durante i quali sono stati affrontati, drammaturgicamente, i temi delle disabilità cognitive e sensoriali, per i quali si sono inventati un linguaggio scenico capace di rappresentarli.


Il volume contiene l’analisi degli spettacoli realizzati tra il 2013-2023, si va da Minotaurus a Fratelli, visto al Teatro la Cucina di Milano, in occasione del Festival ‘Da vicino nessuno è normale’, a Otello Circus, di cui si può leggere l’analisi fatta da Antonio Attisani, il quale sostiene che la Ribalta più che concetti porti in scena gli affetti.
Il lavoro registico di Viganò è oggetto di studio, oltre che da Bertoldi, anche da Stefano Masotti, per il quale, Viganò dà molta importanza al corpo, da intendere come corpo poetico, argomento a cui si interessa Ugo Morelli consapevole che esista un momento in cui il sipario possa aprirsi agli «altri».
Guido Di Palma ci parla del Teatro Sociale e pedagogico, con gli occhi dell’etnoantropologo, mentre Paolo Grossi ci racconta la sua storia di attore all’interno della Compagnia.
Un ricordo affettuoso è quello di Maria Clara Pagano che fa un breve ritratto del marito Massimo Bertoldi.
Il volume contiene una notevole iconografia e le locandine di tutti gli spettacoli.

Daniele timpano
8 Agosto 2025

Poemi Focomelici: il verbo si è fatto carne, poi si è rotto

Roberto Stagliano, «Theatron 2.0»

Natale 1980 non è un’origine, ma una frattura. Non un parto, ma un inciampo genetico. Così si apre Poemi Focomelici. Selezione ragionata 1980–2024, l’ultimo lavoro di Daniele Timpano, attore e autore tra i più radicali e disturbanti della scena teatrale contemporanea. Pubblicato nel 2025 da Cue Press e curato da Dario Tomasello, il volume raccoglie oltre quarant’anni di scrittura, performatività, rovina e reinvenzione.

È un libro che è anche un corpo: autobiografia poetica, ma anche bestemmia, monologo, atto mancato, gesto irreparabile. Le sue prime incarnazioni pubbliche – al Suq Festival di Genova e al festival La Punta della Lingua di Polverigi – non si sono limitate a presentare un testo, ma lo hanno messo in scena, letteralmente. Il verbo si è fatto carne e la carne si è disfatta davanti al pubblico.

Il 19 giugno 2025, sul palco galleggiante dell’Isola delle Chiatte di Genova, Timpano ha sviscerato i suoi versi per il Suq Festival, che promuove il dialogo interculturale. Tre giorni dopo, a Villa Nappi di Polverigi, ha replicato la performance nell’ambito del festival itinerante dedicato alla poesia e poi il 19 luglio al Festival Teatro e Colline di Calamandrana Alta (Asti). In tutte queste occasioni, la scrittura si è fatta carne e gesto, corpo e contraddizione. Una performance che è anche lingua-cicatrice che non cerca di rimarginarsi, ma di restare aperta.

La ‘focomelia’ come paradigma poetico


La focomelia non è solo un’anomalia clinica. È qui concetto estetico, metafora fondativa, condizione ontologica della scrittura. Il termine – che indica una malformazione congenita degli arti – è usato da Timpano come chiave poetica: scrivere dalla frattura, con e nella deformazione.

Non c’è un Eden da cui l’autore è caduto: non c’è mai stato un intero, un corpo compiuto, una lingua illesa. L’origine è già ferita, la parola è già zoppicante. In ciò risuona la lezione della crisi del linguaggio del Novecento da Beckett a Carmelo Bene.

La scrittura nasce dalla menomazione come condizione originaria del linguaggio. E in questo senso, Timpano compie un gesto profondo e arcaico: riportare il dire al dolore, al corpo, alla rottura originaria.
La poesia non è edificazione, ma smottamento. Non rivela un senso, lo disarticola. La focomelia diventa allora il paradigma epistemico e poetico di una lingua che cammina su un campo minato. Il linguaggio non è più strumento trasparente, ma carne che si lacera nel tentativo di nominare il reale.

Il testo è un’odissea catabatica – si scende, sempre, verso un io frantumato, un corpo sezionato, una storia personale che si mescola con quella collettiva fino a perdere ogni confine. Le immagini – formiche, cemento, vasche, soffitti – sono ancore di un’immaginazione che sfarina la psiche in continuo loop. Ogni immagine è carne, ogni carne è simbolo.

Un deserto ipercinetico di immagini e contrasti


La scena – che sia palco o pagina – è un deserto ipercinetico in cui si scontrano archetipi e detriti contemporanei tra Paura e delirio a Las Vegas e Duel, dove il monologo interiore si frantuma in sabbia, spari, occhi chiusi per sempre e silenzi hitchcockiani. Sisifo abita i moderni cavalcavia. L’Egitto è un parcheggio notturno. Le pietre polverizzano i piedi polverizzati come in una tragedia senza pubblico. È metafisica dell’urbano degenerato, un’epica degli scarti: l’eroismo dei perdenti, degli zoppi, dei bambini che tirano dadi con ossa rotte.

Timpano abita un’estetica del collasso, dove ogni immagine implode e contraddice la successiva. Il risultato è una scrittura spaesante, convulsiva, che somiglia a un attacco epilettico con la forma di una composizione lirica.

Non c’è un io stabile: il soggetto è un assemblaggio di traumi e fantasmi. Il lettore non è spettatore distaccato, ma inchiodato – «con gli occhi cuciti aperti», come nel celebre esperimento di Arancia Meccanica. Non c’è distanza, né interpretazione: c’è esposizione forzata alla carne del linguaggio.

Il teatro qui non è ornamento della parola, ma la sua materializzazione estrema. Non c’è finzione, ma un realismo brutale che usa l’immaginario per sezionare la realtà. Ogni metafora è un colpo, ogni verso una frattura aperta.

Famiglia, femminilità, Dio e linguaggio come ferita


I temi classici della biografia – la famiglia, la fede, il sesso – sono qui rivoltati come un guanto. La famiglia è un campo operatorio. Padre come reliquia dimezzata, madre come matrice e trappola sacra. Bambini abortini, poetici. A amici, amati e uccisi, messi sottovuoto. Il cuore parla come un dio bambino. È autobiografia mutata in teologia del vuoto.

E la femminilità? Non musa, ma margine. Carne viva, ferita, orgasmo e abisso. Il piacere non consola: è un atto conoscitivo, un’epistemologia dell’orgasmo. Non è manifesto, è scherno. Una risata brechtiana che deforma tutto e che fa crollare il potere.

Materia e spirito si prendono a schiaffi: preservativi e ostie, assorbenti e santi deformi, autofellatio e preghiere. Il sacro si sporca, il corpo si eleva, e l’esito è una teopoetica dell’abiezione dove Dio forse è solo un bambino disabile dimenticato in un frigorifero. Il verbo si è fatto carne. Poi si è rotto. Non c’è consolazione. Il linguaggio si rompe per dire l’indicibile.

Timpano si muove in un territorio che ricorda l’estetica del trauma: una zona in cui l’identità è disgregata, la narrazione impossibile, e l’unica forma di racconto è la deformazione: «Tu sei qua, non là. Dalla mia parte della soglia ma». Questo verso – monco, interrotto è emblema di un’intera poetica. La soglia è il luogo del poeta deformato, non il ponte verso l’altro.

Linguaggio come carne che sanguina


Il linguaggio, per Timpano, è un corpo che sanguina. La lingua non è più mediazione: è lacerazione.

Sul piano linguistico si manifesta una guerriglia semantica. Neologismi come smorzancrolla, babbocazzuto, nano bicefalo non sono giochi stilistici: sono le suture verbali di un mondo che si reinventa attraverso la deformità. La lingua si ammala per dire ciò che il linguaggio sano non può. Una patologia del verbo, nel senso più alto e sacro. Non è barocco: è linguaggio che implode su sé stesso, in un’eco del Teatro della Crudeltà di Antonin Artaud che si contorce nudo sul palco gridando «Je suis né à crier».

È impossibile non cogliere l’influenza di Beckett, di Artaud, di Genet, ma anche quella di certa performance art, di Bataille, di Cioran. Ma qui le influenze non sono citate, sono digerite e vomitate. Questo non è omaggio: è cannibalismo. E il cannibalismo – letterario, simbolico, viscerale – è la spina dorsale di questa opera. Il corpo diventa cibo, il sogno supposta, l’infanzia omeostasi digestiva. «Finiremo per vivere, felici, mangiando soltanto di noi?»

Poesia e teatro: un’alleanza carnale


Poemi Focomelici non è un testo teatrale in senso canonico, ma è teatro vivente. La scrittura è orale, fonica, pensata per essere detta, incarnata, eseguita. Ogni parola si fa suono, corpo, vibrazione. In questo paesaggio sonoro si innesta perfettamente la ricerca musicale di Marco Maurizi che attraversa il testo con trame oblique, disegnando scenari acustici che sfuggono alla linearità, aprendo spazi di ascolto nuovi e profondi.

Timpano non legge i suoi versi: li partorisce. La scena non è trasposizione del testo, ma la sua origine. Il corpo è pagina viva. Il fiato è punteggiatura. Il ritmo è architettura drammaturgica. Qui si afferma un’idea radicale: la poesia non è solo da leggere, ma da attraversare fisicamente. La parola è gesto, sangue, sputo.

Timpano raccoglie l’eredità di Carmelo Bene, la destruttura e la sporca. Si confronta con l’erotismo simbolico di Claude Cahun e con la furia dadaista di Elsa von Freytag-Loringhoven. Ma, a differenza loro, non sacralizza la differenza: la getta nel fango. Non celebra l’alterità, la disossa.

La poesia come atto estremo


Alla fine, Timpano ci pone una domanda che non ha bisogno di essere pronunciata: è ancora possibile scrivere poesia oggi senza essere stati rotti?
La scrittura nasce da una lacerazione che non si ricompone. Poemi Focomelici è opera necessaria: non consola, non redime. È grido, gesto, urlo incarnato. È una poesia per chi ha smesso di cercare risposte, ma continua a gridare. Un atto di sopravvivenza ostinata.
Si scrive solo se si è stati rotti. E se si ha il coraggio di restare rotti.

Quindi sì, è poesia. Ma è anche molto di più.
È carne.
È sangue.
È febbre.
È focomelia dell’anima.
È l’assurdo che si infila nei calzini ogni mattina.
È ciò che resta quando non resta nulla.

Igor esposito
7 Agosto 2025

Esposito: teatro per voci assolute

Marco Ciriello, «Il Mattino»

Avere una voce è difficilissimo, essere memorabile e non scadere nei memorabilia è ancora più complicato soprattutto scrivendo, per questo Igor Esposito, drammaturgo e poeta, può sentirsi affrancato dalla massa.


La prova è la lateralità del suo teatro che discende dal classico per farsi postmoderno, che approfitta della Storia per diventare ri-Storia per voci assolute come accade per il suo Caravaggio. Che è sempre Caravaggio solo un po’ più in là in una storia non storia, in una vicenda non vicenda, credibile come la vita reale di Caravaggio.


Una piccola parte dei suoi testi da recitare viene ora raccolta in Teatro (Cue Press) come esempio di un lungo percorso di ricerche e ritrovamenti. Una relazione archeologica dopo venti anni e fischia di scavi teatrali.


La scrittura di Esposito è piena di echi, una polifonia che cerca l’accordo con la realtà scavalcando i tempi, fino a sospendersi sulla pagina e sul palco. È figlio della lezione di Harold Pinter il teatro di Esposito che cerca il nodo tra autore e personaggio, l’assolutismo di un nodo amoroso che è riuscita o morte. Un tremendismo letterario che richiede sforzo e adesione, perché nasce da un grande dispendio di vita. In più Esposito è napoletano, ma non recita la parte dell’artista napoletano e questa è la sua forza: nutrirsi di una cultura teatrale enorme senza illustrarsi.

Goffredo fofi
15 Luglio 2025

L’arte di leggere il presente: Goffredo Fofi, la critica e la militanza culturale

Negli ultimi anni della sua vita Goffredo Fofi aveva scelto Cue Press come uno dei suoi editori di riferimento. Lo dimostrano le numerose opere pubblicate e i contributi che ci ha lasciato.

Fofi è stato la figura che, forse più di altre, ha incarnato un possibile modello della professione del critico. Impegnato in prima persona in battaglie sociali (ha accompagnato Danilo Dolci in Sicilia all’inizio degli anni Cinquanta), si è occupato inizialmente di immigrazione; solo in seguito si è dedicato alla critica militante, costruendo quel terreno critico che permette all’arte di diffondersi e venire conosciuta, inventando e dirigendo premi e riviste, da La terra vista dalla luna a Lo straniero, fino agli ultimi Gli asini, anche casa editrice.

C’è una lezione di metodo che con più nitore emerge scorrendo i suoi titoli per Cue Press: la persuasione di chi si fa interprete del presente usando come specchio la produzione artistica, al contempo incalzando le opere e gli artisti alla luce di una frequentazione instancabile dei fatti dell’attualità, delle persone, dei gruppi. Fofi ha sempre operato da una posizione quasi ai margini, come lui stesso ha affermato, e dunque vicino ai deboli, alle minoranze emarginate e agli ‘ultimi’, sferzando però anche chi occupa i diversi centri di potere.

Cinema e teatro del Fronte Popolare (2020), sul teatro e il cinema francese degli anni Trenta, è quasi un romanzo di formazione, è il racconto di un approccio che interroga la politica attraverso l’arte e viceversa, facendoci riscoprire figure come l’uomo di teatro Léon Moussinac, ma interrogando anche le produzioni di maestri come Jean Renoir e Jean Vigo.

A proposito di quest’ultimo, Cue Press, con la cura e introduzione di Fofi, ha tradotto e portato in Italia sempre nel 2020 l’inedito Jean Vigo. Vita e opere di un regista anarchico di Paulo Emìlio Sales Gómes (prima ed. Editions du Seuil, 1957). Si legge nell’introduzione: «del film di Jean Vigo Zero in condotta Elsa Morante, quando glielo citavo dopo aver letto Il mondo salvato dai ragazzini, aveva un ricordo vago, anche se la scena della guerra a colpi di cuscini tra i bambini nella camerata di un collegio, quella sì, ricordava di averla vista e amata».

Sempre dal tenore critico, storiografico e biografico è la monografia dedicata a Vittorio De Seta (Vittorio De Seta. Il mondo perduto, scritta con Gianni Volpi, prima ed. Lindau, 1999, riedita da Cue Press nel 2020), con una lunga conversazione e diversi materiali sulle sue produzioni cinematografiche, compresa una fondamentale introduzione di Franco Maresco dove si parla di uno «snobismo verso la realtà» del cineasta, uno sguardo capace di calarsi nel reale per trasfigurarlo.

Più stelle che in cielo. Il libro degli attori e delle attrici (2020, prima ed. 1995 E/O), è uno di quei volumi che dovrebbero stare nella biblioteca di tutti. Un catalogo dei divi del cinema (con schede critico-biografiche di 43 artisti, da Gary Cooper a Ingrid Bergman, da Anna Magnani a Massimo Troisi) che finisce per divenire anche un’indagine socio-antropologica sul nostro bisogno di riconoscerci, di distanziarci, di rispecchiarci nell’arte: «attraverso il fenomeno del ‘protagonismo di massa’ dei tardi anni Sessanta e, col ‘riflusso’, del narcisismo di massa, abbiamo chiesto presenza, espresso soggettività, e oggi affermiamo prepotentemente la nostra aggressività e le nostre difficoltà. Se era vero che nel volto del divo investivamo la nostra frustrata libido, oggi preferiamo chi ci somiglia, e non siamo disposti a fissarci, nel nostro procedere incerto, su nessuna faccia stabile e sicura».

Conclude il percorso nel cinema e teatro secondo Fofi una pubblicazione dal valore storiografico fondamentale e che raccoglie gli sketch, i frammenti di testi, i dialoghi usati da Totò nel suo periodo ‘teatrale’, nei decenni di apprendistato e consolidamento del mestiere prima della sua fama cinematografica e televisiva (Il teatro di Totò. 1932-1946). Quella che lo storico Claudio Meldolesi considerava un’invenzione sprecata (la vocazione teatrale di Totò, poi confluita nel cinema), grazie a questa pubblicazione trova nuova diffusione e trasmissione anche per le giovani generazioni di teatranti e comici.

L’ultimo contributo di Goffredo Fofi per Cue Press è stata la prefazione dell’autobiografia di Josef von Sternberg, Avventure in una lavanderia cinese.

Antoine de Baecque
15 Luglio 2025

La politique des cinéphiles

Roy Menarini, «Fata Morgana Web»

La prima affermazione implicita del volume La cinefilia. Invenzione di uno sguardo, storia di una cultura 1944-68 (finalmente tradotto in Italia da CuePress, dopo l’uscita originaria del 2004, con la consulenza e la prefazione di Emiliano Morreale) è che la cinefilia è un fatto francese. Questa affermazione, intorno alla quale per tanti anni ci si è trovati d’accordo, appare oggi meno scontata. Mentre la critica cinefila – e la nascita della critica moderna, che significa quasi la stessa cosa – è di certo un esperimento parigino, la cinefilia in generale potrebbe avere altre madri e altri padri, dalla cultura cinematografica italiana degli anni trenta alla Hollywood degli anni quaranta. Tutto sta a decidere che cosa sia la cinefilia, questione assai problematica, che per di più poggia su fonti effimere e instabili – la cinefilia è una pratica, non una teoria né un settore della scrittura editoriale, e come tale spesso è singolare, solipsistica, comportamentale.

De Baecque, invece, è uno storico che desidera interrogare le fonti (ha lavorato su Robespierre, la Rivoluzione Francese, il Terrore) e dunque immagina la cinefilia come un prodotto originale di un’epoca (il secondo dopoguerra) di cui si può ricostruire la fisionomia a partire dai documenti – che sono principalmente riviste e quotidiani, ma anche epistolari, memorie, programmi, paratesti e così via. Ovviamente va bene così, e nel caso francese è più che giusto, perché la gigantesca battaglia culturale che va dalla fine della Seconda guerra mondiale al 1968 (date sufficientemente evocative per non dover essere giustificate) non si limita a una nicchia per appassionati ma assume connotati politici, sociali e istituzionali molto forti.

Come spiega Morreale,

La storia della cinefilia è anche un capitolo del rapporto tra Europa e Stati Uniti, di un’immagine degli Stati Uniti che, a partire da un gruppo piccolo e minoritario di intellettuali francesi, viene restituito di là dall’Oceano a costituire un’autorappresentazione da parte di una generazione di critici e registi (senza la politique des auteurs non sarebbe quella prima generazione di registi cinefili che dà l’assalto a Hollywood dalla fine degli anni Sessanta, da Scorsese a Spielberg…).


In effetti, l’alleanza tra la cinefilia dei Giovani Turchi, e poi dei radicalissimi MacMahonisti, con Hollywood va oltre l’apprezzamento estetico e la rivolta contro il contenutismo della critica comunista ortodossa, e diventa anche strategia industriale.

L’anti-comunismo dei «Cahiers» del periodo giallo è conclamato e si sviluppa principalmente a partire dal 1954 in poi, con l’influenza sempre più marcata di Truffaut e Godard. Dentro alla rivista, mostra De Baecque (autore anche di una storia dei «Cahiers» altrettanto appassionante, Assalto al cinema), vivono tante anime, da quella cattolica di Bazin a quelle più vicine alla cultura ufficiale di Sartre. Ma è proprio uscendo dalle pur avventurose vicende dei «Cahiers» (con la battaglia di Rohmer e poi contro Rohmer, con la contraddittoria risposta alla Nouvelle Vague, con la politicizzazione di metà anni sessanta), che La cinefilia prende il volo. È nella minuziosa ricostruzione della cosmogonia di riviste e bollettini, di terze pagine dei quotidiani e di dibattiti pubblici, di frequentazioni poco note (Truffaut con i collaborazionisti) e di firme meno celebrate (in primis Bernard Dort) che il volume entusiasma e stupisce.

Si ricostruisce, infatti, una rete fittissima di riferimenti, che da una parte toccano e rispecchiano il vertice dell’iceberg di una cultura istituzionale in rapido mutamento e attraversata da spinte centrifughe che stanno modellando il presente e il futuro della liberal-democrazia post-coloniale transalpina; dall’altra allargano lo sguardo a tal punto da diventare centrifughi (basti pensare alle derive cineclubbarie e cultuali, peraltro adorabili, raccontate da Jacques Thorens nel celebre volume Il Brady, 2017).

È una vicenda frastagliata, dove – oltre alla storia editoriale – è lecito seguire anche la storia delle idee, la storia della ricezione dei film e la storia degli autori. In questo scenario, giustamente De Baecque offre molto spazio a «Positif», relegata da molti appassionati superficiali al ruolo di anti-Cahiers paludato e trotzkista, mentre anch’essa era attraversata da ogni genere di approccio. E in ogni caso, senza «Positif» un altro cinema americano (da Huston a Tashlin, da Aldrich a Losey) avrebbe rischiato di fare la stessa fine del fattore H (Hitchcock/Hawks) prima dei «Cahiers».

E, se si pensa che manchi uno sguardo sull’elefante nella stanza (ovvero il maschilismo escludente impietoso di tutta questa romantica avventura critica), De Baecque risponde. C’è un capitolo impagabile dedicato all’erotomania dei critici francesi. Il fatto è semplice: il trasporto metafisico per l’immagine schermica, che deriva dal formalismo della «mise en scène» e della sua esaltazione, si traduce in una sensualità diffusa verso i corpi delle attrici – essendo buona parte della cinefilia popolata da critici maschi eterosessuali. Dunque, le liste redatte da Truffaut e altri dedicate alle movenze, ai dettagli curvilinei, alle pieghe carnali delle dive hollywoodiane ed europee – oggi apparentemente irricevibili – appaiono all’epoca come un ulteriore capitolo della strategia discorsiva di una vera e propria rivoluzione estetica e teorica.

In conclusione, anche se De Baecque lo suggerisce solo in parte (più interessato a mantenere equidistanza e a costruire pian piano il puzzle culturale), La cinefilia ci ricorda anche quanto il mondo degli studi accademici sul cinema debba a questa pratica così originale e inventiva. Il paradosso è che, più la cinefilia appare a distanza di anni esagerata, mistica, partigiana, visionaria, più in verità alzava l’asticella del sapere: richiedeva conoscenza appropriata, precisione filmografica, competenza storiografica, disciplina spettatoriale, in disprezzo di ogni dilettantismo pour parler (che dura lezione dev’essere leggere questo volume per certi sedicenti cinefili da social media; ma utile a una rieducazione mai troppo tardiva). Inoltre si possono aggiungere: apertura alle teorie dell’autore, attenzione alla teoria della recitazione e della performance, analisi del film, metamorfosi della nozione di stile, e molto altro ancora, tra cui la filosofia del cinema in tutte le sue forme (compreso Deleuze, notoriamente debitore della cinefilia canonica dei «Cahiers» per la stesura di L’immagine-movimento e L’immagine-tempo). Vittime, invece, della filosofia dello ‘sguardo’ sono stati per lungo tempo la sceneggiatura, la produzione, l’audience. Ma il tempo ha poi riequilibrato l’orizzonte.

Riferimenti bibliografici
A. de Baecque, Assalto al cinema. La storia dei Cahiers du Cinéma, Il Saggiatore, Milano 1993.
J. Thorens, Il Brady, L’Orma, Roma 2017.

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Goldoni
3 Luglio 2025

L’umanità, il testo, il processo. Il Mulino di Amleto letto da Ambrosio e Novelli

Carlo Lei, «Krapp's Last Post»

Partiamo dalla fine, o quasi: risaliamo la corrente di Raccontare il Mulino di Amleto edito da Cue Press a fine 2024. Oltre alle autrici Ilena Ambrosio e Laura Novelli, è numeroso e qualificato il gruppo di specialisti riuniti attorno al lavoro della compagnia fondata da Barbara Mazzi e Marco Lorenzi. C’è l’intervento del ‘nostro’ Mario Bianchi, che racconta in una prospettiva autobiografica il proprio percorso di spettatore a fianco di quello della compagnia, per il quale rimanda anche a un’intervista a Lorenzi, ancora presente su queste pagine. C’è il resoconto degli anni da ufficio stampa di Raffaella Ilari e l’attenta disamina di Renzo Francabandera, che esplora dal punto di vista della multimedialità il linguaggio del Mulino. C’è il saggio di Laura Bevione intorno all’approccio che la compagnia, di lavoro in lavoro, ha mantenuto con la letteratura drammatica, «controcorrente in un’epoca segnata dal postdrammatico». Il lavoro di Mauro Sesia esplora poi il Marco Lorenzi didatta, che non si esaurisce nella pratica sempre attiva del training con gli attori degli spettacoli ma si specializza nell’attività come direttore artistico del master internazionale per attori e attrici LoStudio, in cui l’artista incarna perfettamente il ruolo di «regista maieuta».

Procedendo ancora a ritroso nel libro, ma rimanendo nella seconda parte, quella dei materiali e degli interventi, prima di una serie di ricordi di collaboratori storici della compagnia, è presente una zona che configura una «costellazione lemmatica», un nucleo di parole attorno a cui Lorenzi e Mazzi si interrogano, sollecitati dalle curatrici. Ora riflettono su «ricerca» («vocazione alla ricerca» è quella che riconosce in sé Lorenzi, condotta contro la «castrazione preventiva», data dall’artista, «dall’assuefazione ai limiti morali, economici e strutturali, che conduce l’artista a non porsi neanche più il problema del nuovo, del rischio, del superamento dei confini»); su «compagnia» («in una vera compagnia si può arrivare a momenti di anarchia, la vera anarchia, quella che utopisticamente sarebbe bellissimo esistesse nel mondo», dice Mazzi); su «incontro», «progettualità» e «umanesimo».

L’approccio e la tensione umanistici del Mulino di Amleto si evincono non solo dal racconto che ne fa Enrico Pastore nel suo racconto di Cantiere Ibsen, il progetto – interrotto dal Covid – in cui proprio alle ristrettezze e alle assuefazioni si è cercato di porre una barriera, di costruire un’alternativa, ma sono evidenti anche nella prima parte del libro.

Qui, nel cuore del volume, si esplora il rapporto della compagnia con il testo e la letteratura drammatica, a partire dalla scelta dell’opera da mettere in scena: quanto diverse sono le «piattaforme» de Gl’innamorati di Goldoni rispetto a Mahagonny, all’Affabulazione pasoliniana, all’estratto dal film Festen, a Čechov, Hugo. Si passa poi a esaminare il lavoro sul testo, l’attore nel contesto del Mulino, il dispositivo scenico, e infine il pubblico, in una quasi ininterrotta catena di coblas capfinidas, ove il titolo di un capitolo riprende l’ultima parola del precedente. E insomma, oltre un linguaggio pronto a trascolorare a contatto con testi e contesti diversi, tutto trova un senso e un ordine nel caro vecchio nucleo caldo del metodo (o il non-metodo), nelle sue radici. Radici che affondano, innanzitutto, nell’ultimo Stanislavskij, quello per cui «la vita fisica conduce alla vita spirituale», e non viceversa, e che apre dunque, in prospettiva, alla pratica del training e, risalendone le origini, dell’etjud, che Vasil’ev rinominava, sulla scorta di Marija Knebel, «metodo dell’analisi attiva», cioè condotta «per mezzo dell’azione». E poi in Peter Brook, quello che forse rimane il principale nume tutelare di Lorenzi, dalla cui idea di uno spazio vuoto «come strumento» si procede in un avvicinamento graduale alla «modalità ‘ecosistemica’ di pensare l’ambiente scenico». E nella definizione di Katie Mitchell di «idee rilevanti» del testo, attraverso le quali costruire il concept: come ci ricordano Novelli e Ambrosio con le parole della studiosa inglese, «qualcosa che il regista impone al testo» e con cui «lo interpreta scenicamente».
Analisi attiva, spazio come strumento, idee rilevanti: tutti concetti attivamente coinvolti, come si vede, a frantumare la separazione tra testo e scena, anzi a inserirli nella dialettica che è, in fondo, la regia nel suo senso più profondo e più nobilmente artigianale, in cui la teoria è sempre tesa alla prassi, anzi alle prassi.

Ed è questo ciò che consente, come ricorda Alessandro Toppi (in conclusione del volume, con un ultimo intervento che illumina tutto il percorso di una luce larga, che sfora sul contesto) di «affrontare i testi classici come fossero contemporanei e i testi contemporanei come fossero classici».
È un intervento, quello di Toppi, che lega l’idea di un percorso lungo, come quello pensato da Mazzi e Lorenzi, ad esempio, col Cantiere Ibsen, ma frequentato in occasione di ogni nuova produzione, alla realtà di una politica e di un’amministrazione che, negli ultimi anni, si è interrogata sulla misurabilità dell’intervento economico pubblico sull’arte in termini di effetti, appunto, tangibili, meccanicisticamente ricadenti nella realtà.

È quanto accade in questi giorni con la pubblicazione delle graduatorie per il FNSV, da più parti lette come una decisa sterzata verso «visioni attraenti, prodotte in eccesso e subito rimpiazzabili», per citare il volume che stiamo leggendo.
Invano suonerebbero oggi le parole di Ferdinando Taviani riportate da Toppi quasi in conclusione del volume, così aderenti all’ostinato lavoro del Mulino e al rifiuto della castrazione preventiva di cui si diceva, ma così disperatamente fuori fuoco, eppure un monito alla presenza, almeno su carta, del pensiero lungo degli antichi maestri: «Il sussidio economico non serve per finanziare la diffusione del risultato raggiunto, ma appunto per permettere un processo che miri a un risultato».

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Brecht
30 Giugno 2025

Non solo per avere l’idea d’un debutto. Con i monumentali ed eterogenei Modellbücher, spettacoli senza più segreti

Andrea Bisicchia, «lo Spettacoliere»

Credo che la ricerca, condotta da Sara Torrenzieri, su cosa siano quelli che, in Italia, impropriamente, vengono chiamati «Quaderni di Regia» e che, in Germania, si chiamano Modellbücher, sia molto importante per capire quanto lavoro stia dietro una messinscena, non solo nella sua fase realizzativa, ma anche in quella che possa documentarla a-posteriori.


I Modellbücher cui fa riferimento Sara Torrenzieri nel libro pubblicato da Cue Press Prassi teatrali brechtiane. Modellbücher Editi e Inediti del Berliner Ensemble, sono dei libri modello che contengono indicazioni precise e dettagliate su ciò che precede il disegno registico di un testo da portare in scena e su ciò che lo seguirà.
Non si tratta semplicemente del copione, bensì di uno strumento che diventa una guida per il regista al quale fornisce elementi di varia natura, considerati importanti, che possono essere le didascalie di lavoro, diverse da quelle dell’autore, le immagini fotografiche, i filmati, i vari dettagli scenografici, quelli dei costumi, dei movimenti da fissare, della illuminazione e della musica, elementi che si arricchiranno di continue varianti, dovute proprio alla «prassi teatrale».


In Italia si nota un rapporto intellettuale diverso da come lo intendesse Brecht, nel senso che esistono altre forme a cui attingere come: epistolari, interviste fatte poco prima di un debutto che spiegano l’idea dello spettacolo e che, in alcuni casi, diventano libri, come quelli di Strehler e di Ronconi, ma non sono i «libri modello» ideati da Brecht, dai quali emergono molteplici fonti che rimandano ai tanti documenti o alle tante indicazioni che venivano fatte durante le prove, a contatto degli attori.


Ciò che va segnalato, nel lavoro dell’autrice, è la conoscenza della ricerca archivistica che le ha consentito di capire e di scoprire metodi non usuali che avevano a che fare con la gestualità, con le immagini, ritagliate dai giornali, di fatti di cronaca, di guerre, con continue annotazioni, con assemblaggi di fotogtafie, attraverso le quali si andava in cerca di dettagli espressivi, utili per la costruzione di certi personaggi.


Veniamo, infatti, a sapere che, per Arturo UI, Brecht aveva raccolto immagini, non solo del Fürer e dei suoi generali più fidati, ma persino di Mussolini. Insomma, per Sara Torrenzieri, che è dottore di ricerca in Arti Visive, Performance, Mediali, i Modellbücher vanno configurati in due modi: come un vasto complesso monumentale ed eterogeneo, con materiali editi e inediti, ma anche come oggetto che sta a base delle riflessioni brechtiane.
Alcuni di questi, come Antigone, Galileo, La Madre, Madre coraggio sono diventati modelli vincolanti per i giovani registi tedeschi che avrebbero dovuto portarli in scena.


Nel suo lavoro di ricerca, anche la Torrenzieri ha avuto dei Modellbücher, come il saggio su Brecht regista di Meldolesi, oltre che: Immagini, malgrado tutto e Quand les images prennent position di Didi Huberman, il quale considerava la fotografia non solo uno strumento di documentazione, bensì di rielaborazione.


Brecht, come Pirandello, prende coscienza del teatro di regia dopo anni dedicati alla scrittura. In entrambi, la coscienza registica è frutto di lenti accostamenti a quello che diventerà il linguaggio della scena. Pirandello comincia a fare i suoi esperimenti con la direzione del Teatro d’Arte, Brecht col Berliner Ensemble. In questo ruolo, Pirandello era un autodidatta, Brecht conosceva il lavoro teorico e registico di Piscator e di Mejerchol’d, tanto che anche lui diventò il teorico del famoso «Teatro epico» che cercò di accordare con le sue esperienze di tipo registico. Se Pirandello affidò il pensiero creativo allo spirito vitale, quello teorizzato da Bergson, Brecht lo adottò a due tipi, quello statico della scrittura e quello dinamico della messinscena.
Il volume è molto ricco, contiene un’ampia iconografia, una ricca bibliografia e le indicazioni dei Modellbücher editi.

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