Logbook

Approfondimenti, interviste, recensioni e cultura: il meglio dell’editoria e delle arti da leggere, guardare e ascoltare.

Eugenio barba odin teatret
17 Novembre 2025

I famosi anni Settanta, ricordando Eugenio Barba, l’Odin Teatret e, perché no? lo studioso e divulgatore Sisto Dalla Palma

Andrea Bisicchia, «lo Spettacoliere»

Ho rivisto Eugenio Barba, all’Arena del Sole di Bologna, in occasione del suo spettacolo Le nuvole di Amleto. Abbiamo ricordato gli anni milanesi al Crt, quando, su invito di Sisto Dalla Palma, fece conoscere alcuni suoi spettacoli al giovane pubblico e quando, insieme, teorizzarono il Terzo Teatro e il Teatro dei Mutamenti.
Erano gli anni durante i quali lo spettatore aveva abbandonato i teatri del Centro Città, tanto che Compagnie come la Proclemer-Albertazzi e lo stesso Eduardo, avevano deciso di saltare una piazza, un tempo ritenuta importante.
Insomma erano i famosi anni Settanta, quelli che avevano sconvolto le scene internazionali, gli anni in cui Eugenio Barba concepiva il teatro come un laboratorio permanente, ma che, negli anni successivi, alternò con altre esperienze, come quelle del Teatro di Strada o del Teatro del Baratto.


C’è da dire che Barba non si limitava a portare in giro i suoi spettacoli perché faceva seguire, nel contempo, degli incontri, delle lezioni sull’arte dell’Attore e sul «Sapere scenico» che, a suo avviso, consisteva, non solo nell’indagare ciò che accade sul palcoscenico, ma anche su ciò che accade nella mente di chi lo fa, trattandosi di un sapere che permette di dialogare con i vivi e con i morti, col reale e col trascendente.


Nel decennio 1974-84, l’Odin Teatret decise di spostarsi nel Salento, per fare conoscere la sua idea di «drammaturgia aperta», con cui coinvolgere una comunità che sapeva ben poco di teatro e che, felicemente, si adeguò all’insegnamento del Maestro, che ha appena compiuto ottantanove anni.
Arianna Frattali, ricercatrice e studiosa di arti performative, nel volume, pubblicato da Cue Press, La drammaturgia aperta dell’Odin Teatret (1974-1984), ha inteso ripercorrere il lavoro svolto da Barba nella sua patria di origine, dividendo, la sua ricerca, in quattro capitoli, nei quali analizza la storia dell’Odin prima del suo arrivo in Salento, quindi si sofferma sugli anni salentini, durante i quali Barba propone due suoi spettacoli : Il libro delle Danze, Johann Sebastian Bach, ed esercita il «baratto». Successivamente, la Frattali ha analizzato gli anni che sono seguiti all’esperienza nel Salento, per arrivare alle difficoltà vissute, anche economicamente, durante gli anni Ottanta, ritornando dal «Baratto» al Teatro.


Il libro esplicita anche il cammino che portò l’Odin Teatret ad abbandonare l’edificio teatrale per andare in cerca di spazi inusuali dove poter fare teatro, comprese le piazze, le strade, gli edifici abbandonati, scoprendo la voluttà di fare teatro in contesti non prestabiliti, perché non conta più il culto della dimensione estetica,  ma quello della dimensione antropologica, teorizzata nel «Terzo Teatro», fatto da gruppi che si muovevano fuori dalle istituzioni e che avevano formato una loro costellazione.
Barba accentuò la sua vocazione alla teorizzazione che portò alla pubblicazione di libri abbastanza noti: La canoa di carta, Le mie vite nel Terzo Teatro, L’Arte dell’Attore ecc., frutto anche dei suoi impegni nelle varie università del mondo, del suo girovagare in canoe di carta, appunto, che gli permettevano di definire il suo nomadismo che, però, andava arricchendo con l’esperienza del baratto che, a sua volta, gli permetteva di introdurre, nella sua Compagnia di base, degli innesti con altre generazioni di artisti.

Come, del resto, è avvenuto durante il periodo salentino, in particolare a Carpignano, dove i suoi spettacoli fortemente caratterizzati da parate, clownerie, sfilate, subivano l’interscambiabilità con gli artisti del paese che offrivano i loro prodotti, alimentando l’incontro tra culture diverse. Ciò accadeva anche durante le esperienze euro-asiatiche del gruppo. Barba, insomma, si rendeva conto di essere in debito con le altre culture, come quando attraversò quei paesi che Ernesto De Martino aveva definito «la terra del rimorso».
Ancora una maniera per sperimentare come l’arte del teatro sia uno strumento per realizzare dei mutamenti.

A place of safety ph Luca Del Pia DSC3666 scaled
2 Novembre 2025

Dal Teatro Documento al Teatro Documentario: la scena come costruzione del reale

Andrea Bisicchia, «Libertà Sicilia»

Il volume Teatro documentario, uno sguardo sociologico, di Paulina Sabugal, ricercatrice presso il Dams di Bologna, edito da Cue Press, ci induce ad alcune riflessioni, in particolare, a quella sulla differenza tra «Teatro Documento» e «Teatro Documentario», oltre che sulle nuove modalità di rappresentazione che riguardano questi due ‘generi’.


Allora, cerchiamo di capire perché il «Teatro Documento» visse un periodo di splendore negli anni Sessanta, mentre il «Teatro Documentario» sta vivendo un suo particolare momento solo nel terzo millennio, grazie soprattutto al lavoro di Milo Rau e ad alcune Compagnie internazionali, come quella del gruppo messicano Lagartijas Tiradas al Sol, guidato da Lazaro Gabino Rodriguez, presente al Festival Life, organizzato a Milano da Zona K, che l’autrice ha lungamente intervistato, intervista integrata nel volume di cui ci stiamo occupando.
Al «Teatro Documento» appartiene un numero elevato di spettacoli, allestiti tra il 1960 e il 1980, non può dirsi altrettanto per il «Teatro Documentario», che vanta alcuni titoli importanti di cui riferiremo. Il loro fine è quello di portare in scena testi costruiti su materiali originali di documentazione, ovvero: epistolari, notizie di cronaca, servizi giornalistici, fotografie, video, ai quali vanno aggiunti testimonianze dirette di partecipanti agli eventi che, a loro volta, diventano essi stessi interpreti nel «Teatro Documentario».


Per quanto riguarda il «Teatro Documento», alcuni allestimenti del Piccolo Teatro e del Teatro Stabile di Genova, sono impressi nella nostra memoria, mi riferisco a L’Istruttoria di Peter Weiss che, proprio in quella occasione, scrisse:

Teatro Documento si astiene da qualunque invenzione, si appropria di materiale autentico e lo ripropone attraverso il palcoscenico, immutato contenutisticamente, ma elaborato nella forma.

Ricordo un Palazzetto dello Sport strapieno, un allestimento, con la regia di Virginio Puecher, di cui rimanemmo colpiti, non solo per la novità della messinscena che utilizzava uno schermo gigante, immagini e video originali riguardanti la tragedia dell’Olocausto, che, per noi giovani spettatori, si trasformò in un vero e proprio processo alla Storia.


Altri spettacoli, come Il caso J. R. Oppenheimer, sulla bomba atomica, o Il fattaccio di giugno, sull’assassinio Matteotti, fecero parte del «Teatro Documento».
Non fu da meno lo Stabile di Genova al quale dobbiamo alcuni capolavori da ascrivere al «Teatro Documento», come Cinque giorni al porto, sul primo sciopero generale che coinvolse i portuali di Genova, un grande allestimento, con la regia di Squarzina, che fece onore a questo genere di teatro.


C’è da dire che i testi, pur costruiti su documenti veri, avevano la struttura del dramma, trattandosi di testi che venivano subito pubblicati da case editrici come Einaudi o direttamente dal teatro produttore.
Mi limito a questi esempi per dimostrare come «Il Teatro Documento» avesse degli innesti diversi che provenivano dal «Teatro Politico», dall’«Agit Prop», innesti che ritroveremo nel «Teatro di Narrazione» quando utilizza materiale cronachistico, immagini reali, come quelli che certificarono la catastrofe del Vajont, diventati materiale princeps nel famoso spettacolo di Paolini.


Allora, l’interesse sociologico non fu determinante, mentre per «Il Teatro Documentario» lo è, tanto che la ricerca di Paulina Sabugal insegue dei modelli di studio che fanno capo a due grandi sociologi: Erving Goffman, autore di La vita quotidiana come rappresentazione, e a Richard Sennett, autore di La società del palcoscenico, performance e rappresentazione in politica, nell’arte, nella vita.
Entrambi fanno da guida alla ricerca sul «Teatro Documentario» di Pauline Sabugal che utilizza gli strumenti della sociologia per meglio capire le dinamiche che stanno dietro le performance che appartengono a questo genere, il quale si differenzia dal precedente, perché i testi nascono dal contatto diretto con i luoghi e i protagonisti degli eventi raccontati e che, a loro volta, diventano testimoni, oltre che attori involontari della piece.

I modelli sono alcuni testi di Milo Rau come Oreste a Mosul e Antigone in Amazzonia, visti anche in Italia, dove sul «Teatro Documentario» opera la Compagnia Kepler 452, il cui spettacolo A place of safety può essere iscritto a questo genere.
Altro elemento importante, riscontrato dall’autrice, è il modo con cui il «Teatro Documentario» ha decostruito la narrazione, da intendere non più come riproduzione di un evento, ma come costruzione dell’evento stesso, attraverso la teatralizzazione di una esperienza personale, che diventa essa stessa documento.
Il volume contiene una Prefazione di Roberta Paltrinieri e una attenta iconografia.

L istruttoria peter weiss teatro documento
27 Ottobre 2025

E infine: dopo gli anni Sessanta, il Teatro Documento si è evoluto in Teatro Documentario. I due generi a confronto

Andrea Bisicchia, «lo Spettacoliere»

Il volume Teatro documentario, uno sguardo sociologico, di Paulina Sabugal, ricercatrice presso il DAMS di Bologna, edito da Cue Press, ci induce ad alcune riflessioni, in particolare, a quella sulla differenza tra «Teatro Documento» e «Teatro Documentario», oltre che sulle nuove modalità di rappresentazione che riguardano questi due ‘generi’.


Allora, cerchiamo di capire perché il «Teatro Documento» visse un periodo di splendore negli anni Sessanta, mentre il «Teatro Documentario» sta vivendo un suo particolare momento solo nel terzo millennio, grazie soprattutto al lavoro di Milo Rau e ad alcune Compagnie internazionali, come quella del gruppo messicano Lagartijas Tiradas al Sol, guidato da Lazaro Gabino Rodriguez, presente al Festival Life, organizzato a Milano da Zona K, che l’autrice ha lungamente intervistato, intervista integrata nel volume di cui ci stiamo occupando.
Al «Teatro Documento» appartiene un numero elevato di spettacoli, allestiti tra il 1960 e il 1980, non può dirsi altrettanto per il «Teatro Documentario», che vanta alcuni titoli importanti di cui riferiremo. Il loro fine è quello di portare in scena testi costruiti su materiali originali di documentazione, ovvero: epistolari, notizie di cronaca, servizi giornalistici, fotografie, video, ai quali vanno aggiunti testimonianze dirette di partecipanti agli eventi che, a loro volta, diventano essi stessi interpreti nel «Teatro Documentario».


Per quanto riguarda il «Teatro Documento», alcuni allestimenti del Piccolo Teatro e del Teatro Stabile di Genova, sono impressi nella nostra memoria, mi riferisco a L’Istruttoria di Peter Weiss che, proprio in quella occasione, scrisse:

Teatro Documento si astiene da qualunque invenzione, si appropria di materiale autentico e lo ripropone attraverso il palcoscenico, immutato contenutisticamente, ma elaborato nella forma.

Ricordo un Palazzetto dello Sport strapieno, un allestimento, con la regia di Virginio Puecher, di cui rimanemmo colpiti, non solo per la novità della messinscena che utilizzava uno schermo gigante, immagini e video originali riguardanti la tragedia dell’Olocausto, che, per noi giovani spettatori, si trasformò in un vero e proprio processo alla Storia.


Altri spettacoli, come Il caso J. R. Oppenheimer, sulla bomba atomica, o Il fattaccio di giugno, sull’assassinio Matteotti, fecero parte del «Teatro Documento».
Non fu da meno lo Stabile di Genova al quale dobbiamo alcuni capolavori da ascrivere al «Teatro Documento», come Cinque giorni al porto, sul primo sciopero generale che coinvolse i portuali di Genova, un grande allestimento, con la regia di Squarzina, che fece onore a questo genere di teatro.


C’è da dire che i testi, pur costruiti su documenti veri, avevano la struttura del dramma, trattandosi di testi che venivano subito pubblicati da case editrici come Einaudi o direttamente dal teatro produttore.
Mi limito a questi esempi per dimostrare come «Il Teatro Documento» avesse degli innesti diversi che provenivano dal «Teatro Politico», dall’«Agit Prop», innesti che ritroveremo nel «Teatro di Narrazione» quando utilizza materiale cronachistico, immagini reali, come quelli che certificarono la catastrofe del Vajont, diventati materiale princeps nel famoso spettacolo di Paolini.


Allora, l’interesse sociologico non fu determinante, mentre per «Il Teatro Documentario» lo è, tanto che la ricerca di Paulina Sabugal insegue dei modelli di studio che fanno capo a due grandi sociologi: Erving Goffman, autore di La vita quotidiana come rappresentazione, e a Richard Sennett, autore di La società del palcoscenico, performance e rappresentazione in politica, nell’arte, nella vita.
Entrambi fanno da guida alla ricerca sul «Teatro Documentario» di Pauline Sabugal che utilizza gli strumenti della sociologia per meglio capire le dinamiche che stanno dietro le performance che appartengono a questo genere, il quale si differenzia dal precedente, perché i testi nascono dal contatto diretto con i luoghi e i protagonisti degli eventi raccontati e che, a loro volta, diventano testimoni, oltre che attori involontari della piece.

I modelli sono alcuni testi di Milo Rau come Oreste a Mosul e Antigone in Amazzonia, visti anche in Italia, dove sul «Teatro Documentario» opera la Compagnia Kepler 452, il cui spettacolo A place of safety può essere iscritto a questo genere.
Altro elemento importante, riscontrato dall’autrice, è il modo con cui il «Teatro Documentario» ha decostruito la narrazione, da intendere non più come riproduzione di un evento, ma come costruzione dell’evento stesso, attraverso la teatralizzazione di una esperienza personale, che diventa essa stessa documento.
Il volume contiene una Prefazione di Roberta Paltrinieri e una attenta iconografia.

Un viaggio nel cinema del novecento incontro con oreste de fornari
24 Ottobre 2025

Un viaggio nel grande cinema del Novecento

Giuseppe Costigliola, «Il Mondo Nuovo»

Oreste De Fornari lo ricordiamo quale arguto conduttore di gustosi programmi Rai, in affiatata coppia con Gloria De Antoni. Erano i tempi ormai remoti in cui l’emittente pubblica sapeva realizzare format originali, unendo spettacolo e cultura. Oltre che autore televisivo, De Fornari è un critico di vaglia della settima arte, con all’attivo pregevoli studi (tra gli altri, su Sergio Leone e sulla cinematografia americana), e di recente la casa editrice Cue Press, che da anni dà alle stampe delle perle sul variegato mondo delle arti performative, ne ha pubblicato un volume interessante, Diario del verosimile. Un viaggio nel cinema del Novecento (p. 288, € 32,99).

Di ‘viaggio’ davvero si tratta, un affascinante percorso composto da frammenti critici, quasi delle note appuntate per proprio uso dopo la visione di grandi film, basate su suggestioni, spunti, arabeschi: l’autore ripercorre un secolo di cinema «attingendo ai vecchi diari e interpolando qualche articolo pubblicato nel corso degli anni», una silloge che plana con moto lieve ma incisivo su tanti capolavori; considerazioni buttate giù non rispettando una rigida cronologia, ma pervase da accenti intimi e riflessivi che suggestionano il lettore – per quanto qua e là baleni il tono saccente caratteristico dei critici cinematografici –, ben utili per chi voglia alfabetizzarsi sulla storia del cinema senza imbarcarsi nello studio di noiosi manuali.

Il volume è introdotto da Nuccio Lodato, che tra l’altro ricorda «l’aurea Genova cinéphile a scavalco tra gli ultimi anni Sessanta e i primi anni Settanta» in cui De Fornari si formò grazie all’attività di cineclub come il Centrale d’Essay e il Filmclub Filmstory, in cui illuminati personaggi quali Sandro Ambrogio e Aldo Viganò programmavano capolavori.

Seguono diciotto densi capitoli, dove, a partire dal microcosmo «Genova 1968», in cui si focalizza il concetto di «verosimile» sul quale si fonda il «diario», si affronta il grande cinema novecentesco: dai pionieri (Lumière, Méliès, Griffith) agli anni Venti (Chaplin, Keaton, Langton e Lloyd, Laurel & Hardy, raggruppati nel genere «comico»; la filmografia sovietica e i suoi maestri (Ejzenstein e compagni), dall’Espressionismo tedesco (Murnau, Wiene, Lang) a «Due maestri del muto» (von Stronheim, Dreyer), a Renoir. Quindi è la volta dei cineasti italiani, con le «tre corone del neorealismo» (Rossellini, De Sica, Visconti), «gli altri neorealisti» (lunga la lista), «Due maestri» come Fellini e Antonioni.

Quindi si analizzano i «maestri europei» (Bergman e Buñuel). Corposo l’elenco degli autori della commedia all’italiana, dai «classici» a Virzì e Moretti, con una sezione dedicata ai «nuovi maestri» (Pasolini, Petri, Rosi ed altri). Intriganti le analisi dei «falsamente minori» (Vancini, Pontecorvo, Maselli, Zurlini e Avati), dopo di che si passa – finalmente – al cinema di genere (Leone, Bava, Argento, poliziesco all’italiana e persino il film a luci rosse). Non potevano mancare, in questo ampio excursus, la Nouvelle Vague e le «altre ondate» (in cui compare Kubrick), la «Hollywood classica» (ecco Hitchcock, Lubitsch e, tra i molti, Disney), la Hollywood «moderna e postmoderna» (da Allen a Tarantino) e «piccoli maestri postmoderni» (Cuarón Almodóvar, Sorrentino). Chiudono il viaggio delle «Conclusioni esitanti», con «Il verosimile in pillole», una «Postilla sui teorici», l’indicazione delle fonti e l’utile filmografia.

Scavalcando rigide categorizzazioni ideologiche, storiche e geografiche, sollecitando il lettore a riflettere sulla funzione del cinema nel rappresentare la realtà – e le sue illusioni –, De Fornari esplora quindi il concetto di verosimiglianza nel linguaggio cinematografico, soffermandosi sui diversi modi in cui registi di ogni tempo e latitudine hanno rappresentato sullo schermo l’idea di «vero» o di «credibile», rintracciando così una tassonomia del verosimile filmico.

Ecco sfilare davanti ai nostri occhi incantati il verosimile «di chi sa vedere l’assurdo del mondo attraverso la psicologia infantile del clown» (i film comici degli anni Venti del secolo passato); il verosimile magico e disadorno (Bergman, in cui la realtà si sovrappone a una dimensione simbolica e spirituale); l’assurdo e «gesuitico» (Buñuel, destabilizzatore del senso razionale); il malizioso (Lubitsch); l’allegorico (il cinema sovietico); il bellico (Jancsó, che affronta la rappresentazione realistica in contesti bellici e politici), e così via, tra rivalutazioni e svalutazioni personalissime, sino all’interpretazione «a montagne russe» di un autore come Tarantino.

Tale rapporto dialettico tra realtà e finzione nel cinema, quest’ultimo visto come strumento di mediazione tra il mondo reale e la percezione soggettiva attraverso la narrazione filmica, è forse l’elemento di maggiore interesse di questo libro, il cui ineludibile approdo è la complessità dell’interpretazione (del mondo, prima ancora che del film analizzato) e l’inattingibilità della «verità», astrazione sempre relativa, costruita con il fare artistico. La grande forza di questo tipo di espressioni risiederebbe insomma «nell’allontanarsi dalla riproduzione della realtà, anche solo per proporne una visione più ampia, originale e spiazzante».

Ma da queste pagine il cinema emerge anche come memoria culturale e sociale, quasi una fonte storica primaria per la sua capacità di registrare, interpretare e trasformare gli eventi e la loro percezione. Esso è appunto, come da titolo, un «diario del verosimile», una delle forme più complesse attraverso cui l’essere umano vede e rappresenta il reale. Da questo angolo critico, in definitiva, la verosimiglianza – e il cinema quale forma di linguaggio estetico – si intride di implicazioni etiche, culturali e antropologiche che evidenziano la complessità della rappresentazione filmica. Buona lettura, e buona visione.

NervalTeatro
21 Settembre 2025

Il teatro come cura e inclusione: il percorso di Nerval Teatro con Beckett

Andrea Bisicchia, «Libertà Sicilia»

Maurizio Lupinelli, direttore di Nerval Teatro, sostiene che

Il teatro è di tutti, essendo uno strumento che può dare delle risposte per potersi confrontare con i propri limiti e donarsi alla comunità.

Da parecchi anni, Nerval Teatro porta avanti dei laboratori permanenti, quello di Rosignano Marittimo e quello di Ravenna, dal titolo Il teatro è differenza.
In verità, si tratta di progetti ‘gemelli’, indirizzati a persone con disabilità che si caratterizzano per un lavoro continuativo e per un disegno ben preciso che riguarda il concetto di inclusione, spesso utilizzato a vanvera.
Nel caso di Nerval Teatro, e del Teatro La Ribalta, di cui ci siamo occupati sulle pagine di questo giornale, il concetto di inclusione non è indirizzato a un pubblico di spettatori, bensì a persone con disabilità fisica o psichica, motivo per cui è diventato oggetto di laboratori permanenti, dedicati all’accessibilità in palcoscenico di persone che in teatro, possano curare la propria disabilità.


Da circa un decennio, l’autore che ha fatto da guida ai laboratori di Nerval Teatro è stato Beckett, diventato un terreno fertile per potere sperimentare forme di comunicazione necessarie per creare delle relazioni tra individui, adatte a una crescita personale. Si è trattato di una operazione ardita che ha conseguito dei risultati stupefacenti, anche perché il teatro di Beckett ben si adatta ad operazioni del genere, poiché permette una saldatura tra drammaturgia, formazione artistica, presenza scenica e cura della persona.


La domanda di partenza è stata:

In che modo l’immaginario beckettiano può diventare l’immaginario del diversamente abile?


A questa domanda hanno cercato di dare una risposta degli accademici come Gerardo Guccini, Laura Caretti, Fabrizio Fiaschini, nel volume pubblicato da Cue Press: Beckettiana. Laboratori di Nerval Teatro. 2015-2023, che contiene anche interventi del critico Marco Menini e di operatori teatrali, attori scenografi e dello stesso Lupinelli.
Gerardo Guccini, nella sua indagine, parte dal 1999, anno in cui avviene il primo incontro con Beckett e col suo capolavoro, Aspettando Godot, cercando di individuare il perché Lupinelli abbia scelto Beckett e in che modo si sia appropriato di certe tematiche che è riuscito ad adattare ai corpi dei suoi attori, diversamente abili, lavorando sulle parole, sui gesti, alla ricerca di una nuova composizione scenica, a base della quale ha posto il concetto di percezione che ritiene più importante di comprensione e più idoneo a sconfiggere il «silenzio della marginalità».


Per Laura Caretti i temi beckettiani utilizzati da Lupinelli sul palcoscenico risuonano di nuove variazioni, grazie a forme diverse di comparazione che egli sviluppa all’interno del concetto di marginalità sociale, evidente nella natura degradata, rappresentata dai famosi bidoni di Finale di partita.
Per Fabrizio Fiaschini, il viaggio all’interno dell’opera beckettiana si trasforma in un viaggio di libertà interpretativa, da contrapporre a quello di un «professionismo miope», grazie all’uso della kenosis, ovvero dello svuotamento della parola a vantaggio di un’arte messa al servizio della diversità, della cura, dove non conta l’esibizione, ma il risultato del progetto.
Marco Menini cerca di capire e farci capire come sia avvenuta la «Costruzione di un habitat», a partire dall’esperienza del 2007 che vide Nerval Teatro collaborare con Fondazione Armunia e col Festival Inequilibrio, sempre aperti alla sperimentazione e all’accessibilità.
Menini ricorda l’importanza dello spettacolo Marat, visto anche a Milano, perché fu scelto dal Teatro La Cucina, ovvero dall’Associazione Olinda, per inaugurare il Festival proprio nel 2007.
Nel volume sono raccolti testi drammatici, studi, testimonianze, oltre che un folto apparato iconografico.

Daniele timpano
17 Settembre 2025

Poemi Focomelici

Alessandra Calanchi, «Girodivite»

Queste poesie qui raccolte, datate 1980-2024, ripercorrono la vita di un poeta anomalo, anticonvenzionale, autocanzonatorio, che infatti poeta non è, bensì autore, attore e regista teatrale. Molti spettacoli, molti premi, un documentario, e infine lo straordinario progetto Aldo Morto 54, di cui è stato ideatore, autore e interprete, restando in live-streaming per 54 giorni, autorecludendosi in una cella ricostruita su un palcoscenico, con una replica al giorno. Ma cosa c’è di strano? «se Pasolini o Mario Luzi hanno scritto anche teatro», dice, «potrò ben io scrivere poesia».

Coraggioso, disinibito, irriverente, rivoluzionario, Timpano intitola «focomelici» i suoi «miserrimi versi» (parole sue) in quanto irregolari, incompiuti, fatti di ritmi e di una metrica sghemba, «tracce sbriciolate» di una vita che il lettore può solo raccogliere come le briciole di Hansel e Gretel, per trovare la strada nel bosco di quell’arrogante civiltà post-moderna, di quell’orrore liberista che ci ha nutriti di menzogne.

Io sono focomelica. Sono nata negli anni Sessanta, vittima della talidomide che ha colpito per fortuna solo un braccio, e ho saputo di esserlo solo in tarda età, perché non se ne poteva parlare. Eppure, focomelia è un termine che sarebbe piaciuto a una bambina curiosa come me, non mi sarei sentita offesa a sentirmi simile a una foca, un animale che adoravo.

E oggi sono orgogliosa che qualcuno – per giunta un Poeta! – abbia utilizzato questa metafora per descrivere la sua opera, fatta di nuvole e silenzi, di dichiarazioni d’amore come questa:

«Esser per te una biblioteca,
collezionare con amore un po’ i tuoi pezzi un po’ i ricordi» (p. 73)

e di versi crudeli e verissimi come questi:

«non andavano d’accordo.
Non riuscivano a lasciarsi
Non riuscivano a ammazzarsi» (p. 125).

Mi manca il radio nel braccio sinistro, un osso di cui ho imparato fin da piccola a fare a meno; allo stesso modo, in questi poemi manca forse un elemento nascosto che li renderebbe omogenei, che gli darebbe forse la fearful symmetry di William Blake, ma siamo sicuri che li vorremmo veramente così perfetti, prevedibili, convenzionali?

Io ho sentito empatia e sorellanza per questi versi. Ne ho amato il pathos, l’ironia, le ripetizioni, i neologismi («crocerossinami, io ti prego»), le licenze grafiche («Aiuto Aiutoooooooooooooooo…»), le onomatopee, le domande esistenziali («Ma uno zombi, se pensa, ci pensa alla morte?»).

Che dire. Sono conquistata, e pronta a rileggerlo più e più volte. Mi sento quasi parte di questo libro, sono una pagina nascosta fra le altre, che vuole solo dire grazie.

Bec
15 Settembre 2025

Disabilità fisica o psichica in palcoscenico. Per fornire cura e sollievo ai diversamente abili. Con risultati stupefacenti

Andrea Bisicchia, «lo Spettacoliere»

Maurizio Lupinelli, direttore di Nerval Teatro, sostiene che

«Il teatro è di tutti, essendo uno strumento che può dare delle risposte per potersi confrontare con i propri limiti e donarsi alla comunità».

Da parecchi anni, Nerval Teatro porta avanti dei laboratori permanenti, quello di Rosignano Marittimo e quello di Ravenna, dal titolo Il teatro è differenza.
In verità, si tratta di progetti ‘gemelli’, indirizzati a persone con disabilità che si caratterizzano per un lavoro continuativo e per un disegno ben preciso che riguarda il concetto di inclusione, spesso utilizzato a vanvera.
Nel caso di Nerval Teatro, e del Teatro La Ribalta, di cui ci siamo occupati sulle pagine di questo giornale, il concetto di inclusione non è indirizzato a un pubblico di spettatori, bensì a persone con disabilità fisica o psichica, motivo per cui è diventato oggetto di laboratori permanenti, dedicati all’accessibilità in palcoscenico di persone che in teatro, possano curare la propria disabilità.


Da circa un decennio, l’autore che ha fatto da guida ai laboratori di Nerval Teatro è stato Beckett, diventato un terreno fertile per potere sperimentare forme di comunicazione necessarie per creare delle relazioni tra individui, adatte a una crescita personale. Si è trattato di una operazione ardita che ha conseguito dei risultati stupefacenti, anche perché il teatro di Beckett ben si adatta ad operazioni del genere, poiché permette una saldatura tra drammaturgia, formazione artistica, presenza scenica e cura della persona.


La domanda di partenza è stata:

In che modo l’immaginario beckettiano può diventare l’immaginario del diversamente abile?


A questa domanda hanno cercato di dare una risposta degli accademici come Gerardo Guccini, Laura Caretti, Fabrizio Fiaschini, nel volume pubblicato da Cue Press: Beckettiana. Laboratori di Nerval Teatro. 2015-2023, che contiene anche interventi del critico Marco Menini e di operatori teatrali, attori scenografi e dello stesso Lupinelli.
Gerardo Guccini, nella sua indagine, parte dal 1999, anno in cui avviene il primo incontro con Beckett e col suo capolavoro, Aspettando Godot, cercando di individuare il perché Lupinelli abbia scelto Beckett e in che modo si sia appropriato di certe tematiche che è riuscito ad adattare ai corpi dei suoi attori, diversamente abili, lavorando sulle parole, sui gesti, alla ricerca di una nuova composizione scenica, a base della quale ha posto il concetto di percezione che ritiene più importante di comprensione e più idoneo a sconfiggere il «silenzio della marginalità».


Per Laura Caretti i temi beckettiani utilizzati da Lupinelli sul palcoscenico risuonano di nuove variazioni, grazie a forme diverse di comparazione che egli sviluppa all’interno del concetto di marginalità sociale, evidente nella natura degradata, rappresentata dai famosi bidoni di Finale di partita.
Per Fabrizio Fiaschini, il viaggio all’interno dell’opera beckettiana si trasforma in un viaggio di libertà interpretativa, da contrapporre a quello di un «professionismo miope», grazie all’uso della kenosis, ovvero dello svuotamento della parola a vantaggio di un’arte messa al servizio della diversità, della cura, dove non conta l’esibizione, ma il risultato del progetto.
Marco Menini cerca di capire e farci capire come sia avvenuta la «Costruzione di un habitat», a partire dall’esperienza del 2007 che vide Nerval Teatro collaborare con Fondazione Armunia e col Festival Inequilibrio, sempre aperti alla sperimentazione e all’accessibilità.
Menini ricorda l’importanza dello spettacolo Marat, visto anche a Milano, perché fu scelto dal Teatro La Cucina, ovvero dall’Associazione Olinda, per inaugurare il Festival proprio nel 2007.
Nel volume sono raccolti testi drammatici, studi, testimonianze, oltre che un folto apparato iconografico.

I cinecomics senza la Marvel: un’insolita visione

Abbiamo intervistato Alessandro Mastandrea, autore di un interessante saggio sui cinecomics, caratterizzato da precise scelte e punti di vista, che approfondiremo con lo stesso autore. Il

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Arte della diversità (2013-2023). Omaggio a Massi...

Andrea Bisicchia, «Libertà Sicilia»

Massimo Bertoldi, ideatore e curatore del volume pubblicato da Cue Press: Teatro La Ribalta. Kunst der Vielfalt (arte della diversità) 2013-2023, ci ha lasciati prima di vedere stampato il suo lavoro. È stato per anni collaboratore di Alto Adige, sulle orme di Umberto Gandini, ed ha collaborato col Teatro Stabile di Bolzano, in particolare per […]
28 Agosto 2025

Un manifesto per l’umanesimo a teatro

Katia Ippaso, «Il Venerdì di Repubblica»

La parola umanesimo è in perenne disequilibrio, sempre sul punto di cadere. Gli artisti non la frequentano volentieri. Temendo forse di passare per pericolosi antropocentrici, alcuni la evitano come la peste. Al contrario, Marco Lorenzi e Barbara Mazzi, fondatori del Mulino di Amleto, la espongono come vessillo del loro manifesto poetico: nel «paesaggio ingiusto e […]
25 Agosto 2025

Teatro delle Diversità. Quando la differenza è u...

Andrea Bisicchia, «lo Spettacoliere»

Massimo Bertoldi, ideatore e curatore del volume pubblicato da Cue Press: Teatro La Ribalta. Kunst der Vielfalt (arte della diversità) 2013-2023, ci ha lasciati prima di vedere stampato il suo lavoro. È stato per anni collaboratore di Alto Adige, sulle orme di Umberto Gandini, ed ha collaborato col Teatro Stabile di Bolzano, in particolare per […]
8 Agosto 2025

Poemi Focomelici: il verbo si è fatto carne, poi...

Roberto Stagliano, «Theatron 2.0»

Natale 1980 non è un’origine, ma una frattura. Non un parto, ma un inciampo genetico. Così si apre Poemi Focomelici. Selezione ragionata 1980–2024, l’ultimo lavoro di Daniele Timpano, attore e autore tra i più radicali e disturbanti della scena teatrale contemporanea. Pubblicato nel 2025 da Cue Press e curato da Dario Tomasello, il volume raccoglie […]
7 Agosto 2025

Esposito: teatro per voci assolute

Marco Ciriello, «Il Mattino»

Avere una voce è difficilissimo, essere memorabile e non scadere nei memorabilia è ancora più complicato soprattutto scrivendo, per questo Igor Esposito, drammaturgo e poeta, può sentirsi affrancato dalla massa. La prova è la lateralità del suo teatro che discende dal classico per farsi postmoderno, che approfitta della Storia per diventare ri-Storia per voci assolute […]
15 Luglio 2025

L’arte di leggere il presente: Goffredo Fofi, la...

Negli ultimi anni della sua vita Goffredo Fofi aveva scelto Cue Press come uno dei suoi editori di riferimento. Lo dimostrano le numerose opere pubblicate e i contributi che ci ha lasciato. Fofi è stato la figura che, forse più di altre, ha incarnato un possibile modello della professione del critico. Impegnato in prima persona […]
15 Luglio 2025

La politique des cinéphiles

Roy Menarini, «Fata Morgana Web»

La prima affermazione implicita del volume La cinefilia. Invenzione di uno sguardo, storia di una cultura 1944-68 (finalmente tradotto in Italia da CuePress, dopo l’uscita originaria del 2004, con la consulenza e la prefazione di Emiliano Morreale) è che la cinefilia è un fatto francese. Questa affermazione, intorno alla quale per tanti anni ci si […]
3 Luglio 2025

L’umanità, il testo, il processo. Il Mulino di...

Carlo Lei, «Krapp's Last Post»

Partiamo dalla fine, o quasi: risaliamo la corrente di Raccontare il Mulino di Amleto edito da Cue Press a fine 2024. Oltre alle autrici Ilena Ambrosio e Laura Novelli, è numeroso e qualificato il gruppo di specialisti riuniti attorno al lavoro della compagnia fondata da Barbara Mazzi e Marco Lorenzi. C’è l’intervento del ‘nostro’ Mario […]
30 Giugno 2025

Non solo per avere l’idea d’un debutto. Con i...

Andrea Bisicchia, «lo Spettacoliere»

Credo che la ricerca, condotta da Sara Torrenzieri, su cosa siano quelli che, in Italia, impropriamente, vengono chiamati «Quaderni di Regia» e che, in Germania, si chiamano Modellbücher, sia molto importante per capire quanto lavoro stia dietro una messinscena, non solo nella sua fase realizzativa, ma anche in quella che possa documentarla a-posteriori. I Modellbücher […]
27 Giugno 2025

Woody Allen su Woody Allen: quella bellissima chia...

Adele Porzia, «ClassiCult.it»

Ogni volta che penso a Woody Allen mi sembra di essere più felice. E ultimamente sono particolarmente felice perché sto leggendo tantissimo su di lui. Non solo ho riletto l’autobiografiaA proposito di niente, pubblicata in italiano da La nave di Teseo nel 2020, ma anche diversi saggi, tra cui quello di Roberto Escobar,Il mondo di […]
24 Giugno 2025

Raccontare Il Mulino di Amleto: dalla scena al lib...

Letizia Bernazza, «LiminaTeatri»

Pubblicato a dicembre 2024 dalla casa editrice Cue Press, il volume Raccontare Il Mulino di Amleto. Per un teatro in ascolto scritto da Ilena Ambrosio e Laura Novelli è un’opera complessa e rigorosa.Complessa perché le autrici riescono a tracciare l’intero percorso artistico della compagnia, fondata ufficialmente nel 2009 da Marco Lorenzi, Barbara Mazzi e Maddalena Monti nel […]
20 Giugno 2025

Un’isola fra mito e futuro. Il testo di Lina Pro...

Marta Occhipinti, «la Repubblica»

Tempo e silenzio sono trascorsi in quattordici anni. E in mezzo un testo teatrale rimasto nel cassetto, che fermò il suo orologio nell’estate del 2011. «Gentile e preziosa, amica, è mio desiderio riaffermare la peculiare identità siciliana, la sua molteplicità di spirito e di cultura, la stratificazione storica e poetica delle civiltà universali, la memoria […]
22 Maggio 2025

Aspettando Godot, dai Quaderni di regia e testi ri...

Adele Porzia, «ClussiCult.it»

Nel 1953 venne per la prima volta portato in scena Aspettando Godot, un’opera cui Samuel Beckett si era dedicato tra il 1948 e il 1949 e che avrebbe garantito la fama del suo ideatore e sancito la sua appartenenza al Teatro dell’assurdo. Inizialmente, non è stato lo stesso scrittore ad occuparsi della messa in scena […]
13 Maggio 2025

L’ombra del ciliegio. Il cinema di Mizoguchi Ken...

Lorenzo Peroni, «ArtsLife»

Con Ozu Yasujiro, Naruse Mikio e Kurosawa Akira, Mizoguchi Kenji è considerato uno dei più importanti autori del cinema giapponese classico, un regista che, con la sua filmografia, ha accompagnato – dagli anni Venti agli anni Cinquanta, passando dal muto al sonoro, dal bianco e nero al colore – il Paese verso la modernità. Sono i giovani […]
26 Aprile 2025

«Il palco è magia, rito e catastrofe»

Rafael Spregelburd, «il Fatto Quotidiano»

Pubblichiamo uno stralcio di Sul mio teatro (Cue Press), raccolta di scritti di uno dei più influenti drammaturghi viventi: Rafael Spregelburd. Delle diverse materie di cui è fatto il teatro, il tempo è senza dubbio una delle più ostinatamente misteriose. Addirittura mi piacerebbe azzardare che il teatro sia un esperimento pseudoscientifico sulla natura del tempo. […]
22 Aprile 2025

Condannato alla fama: la vita di Samuel Beckett, s...

Adele Porzia, «ClussiCult.it»

Qualche giorno fa, ho terminato di leggere un libro denso come quello di James Knowlson, edito da CuePress, col titolo Condannato alla fama: una vita di Samuel Beckett. Un saggio lungo seicento pagine e di una certa complessità, in grado di far entrare il lettore nella vita di questo geniale drammaturgo, traduttore, poeta, romanziere e finanche cineasta, […]
27 Marzo 2025

I primi dieci anni del Teatro la Ribalta in un lib...

Floriana Gavazzi, «RaiNews»

Un libro fresco di stampa raccoglie i primi dieci anni di storia del Teatro la Ribalta – Arte della diversità, che ha fatto di Bolzano un centro di eccellenza per la ricerca teatrale con persone in situazione di disagio psichico. Ne abbiamo parlato con il fondatore e regista Antonio Viganò. Il primo spettacolo manifesto è […]