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Approfondimenti, interviste, recensioni e cultura: il meglio dell’editoria e delle arti da leggere, guardare e ascoltare.

Super
11 Marzo 2024

I supereroi al cinema

Alessandro Mastandrea, «fantascienza.com»

Dopo decenni in cui erano poco più che macchiette, dalla fine degli anni Settanta, lentamente ma costantemente, i supereroi si sono ricavati spazi e attenzione sempre maggiori nel mondo del cinema. Prima il Superman di Donner, poi il Batman di Burton, poi via via Iron Man, 300 e Watchmen di Zack Snyder, il Batman di Christopher Nolan, fino al Marvel Cinematic Universe, raccogliendo a volte il plauso della critica ma spesso l’apprezzamento del pubblico. Di questo fenomeno si occupa Alessandro Mastandrea nel saggio I supereroi dal fumetto al cinema.

Il libro

Il mondo dei fumetti ha da sempre affascinato le grandi case di produzione, tanto che si può parlare dell’esistenza di un vero e proprio genere cinematografico a sé stante, il cosiddetto «cinecomic»: dal mito di Superman ai graphic novel di Frank Miller, il volume indaga in tutte le sue sfaccettature (da quelle più metafisiche e filosofiche fino a quelle sociologiche e di costume) la figura del supereroe e il suo impatto nel passaggio dal fumetto al grande schermo. In particolare approfondisce le scelte compiute da maestri del cinema come Richard Donner, Tim Burton e Christopher Nolan, i cui adattamenti hanno rivoluzionato non soltanto la storia dei cinecomic, ma anche la ricezione del supereroe nell’immaginario collettivo.

Prefazione di Giulio Sangiorgio.

L’autore

Alessandro Mastandrea, nato a Termoli nel 1976, è laureato in Storia Scienze e Tecnica della Musica e dello Spettacolo presso l’università Tor Vergata di Roma. Da sempre appassionato di cinema e fumetto, dal 2010 al 2015 collabora con i siti online «Paneacqua.eu» «Paneacquaculture.net», per i quali scrive articoli di critica televisiva ed effettua fulminee incursioni nel campo della critica cinematografica.

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11 Marzo 2024

Bando Industrie Culturali e Creative

Promosso da Fondo Europeo di Sviluppo e dalla regione Emilia Romagna

Il Bando Icc – Industrie Culturali e Creative della Regione Emilia Romagna, sostenuto in larga misura dal Fondo Europeo di Sviluppo Regionale e integrato da risorse regionali (Por Fesr 2021-27), promuove la crescita e l’innovazione nel settore culturale e creativo favorendo l’adozione di nuove tecnologie e la valorizzazione del patrimonio artistico e storico.

Attraverso contributi specifici, il programma incentiva le imprese a sviluppare progetti innovativi e a potenziare la propria competitività sui mercati, creando opportunità di collaborazione e impatto sul territorio.

Cue Press, casa editrice specializzata in testi teatrali e saggistica sullo spettacolo, ha ottenuto il finanziamento grazie a un progetto capace di integrare sapientemente la tradizione teatrale con soluzioni editoriali digitali.

Beckett samuel
1 Marzo 2024

Ecco i primi titoli della Cue Press

Federico Platania, «SamuelBeckett.it»

Dopo essere stati annunciati, ecco i nuovi titoli pubblicati dalla casa editrice Cue Press che porta per la prima volta in Italia alcuni importanti saggi critici dedicati a Samuel Beckett, insieme alla ri-edizione dell’unica biografia autorizzata dello scrittore, Condannato alla fama di James Knowlson, pubblicata per la prima volta nel nostro paese da Einaudi, ma ormai fuori catalogo da alcuni anni.

Cominciamo proprio da qui, dunque. Se non bastasse l’esplicita benedizione di Beckett, se non bastasse la capillare ricostruzione della vita dello scrittore, se non bastassero le ore e ore di conversazioni che l’autore, James Knowlson, ha intrattenuto con il grande drammaturgo quando questi era giunto ormai alla fine della sua vita, se non bastasse tutto questo a far capire l’importanza di Condannato alla fama: la vita di Samuel Beckett (Cue Press, 2024 – traduzione e cura di Gabriele Frasca), ci pensa appunto il traduttore e curatore a spiegarcelo in postfazione descrivendo quello che lui chiama il «metodo Knowlson»: «Procedere da un primo apparato scheletrico, rimpolpato via via di muscoli e nervi, fino a quello tegumentario che dovrebbe restituirci, in uno, l’autore nell’uomo, l’uomo nel sociale e il sociale nella storia». E prosegue: «L’autore si avvale di una decisione da parte di Samuel Beckett che potrebbe persino stupire, quella cioè di autorizzare il lavoro in questione. È questo il terzo pilastro, o sistema nervoso, che rende se non unica, quanto meno rara la biografia che avete appena letto».

Per quanto riguarda il saggio di Ruby Cohn, Beckett: un canone (Cue Press, 2024 – traduzione e cura di Enzo Mansueto) si tratta di una lacuna nelle pubblicazioni italiane che viene finalmente colmata. La ricercatrice statunitense, già spettatrice della prima assoluta di Aspettando Godot a Parigi, e negli anni successivi amica, confidente (a lei si deve, ad esempio, la pubblicazione dei Disiecta) e studiosa dell’opera di Beckett, è di fatto la fondatrice degli studi beckettiani in lingua anglosassone. Ebbene di questa figura centrale nell’evoluzione della critica beckettiana non era finora disponibile in italiano neanche uno dei diversi studi da lei firmati. Ora possiamo finalmente leggere quello che è forse il testo di Ruby Cohn più compiuto, una panoramica disinvolta dell’intera opera di Beckett dove l’aneddotica personale non travalica mai la precisa analisi dei testi.

Chiudiamo con Capire Samuel Beckett di Alan Astro (Cue Press, 2024 – traduzione e cura di Tommaso Gennaro). Astro – che insegna Lingue e Letterature moderne alla Trinity University di San Antonio, in Texas – scrisse questo saggio nei primi anni Novanta, poco dopo la morte di Beckett. La sua carrellata sui singoli pezzi che compongono l’opera dell’autore trova nell’agilità il suo punto di forza. Al punto che il saggio di Astro (a differenza di quello di Cohn, che andrebbe letto per approfondire aspetti delle singole opere dopo averle lette) può rientrare nella sempre utile categoria delle «introduzioni alla lettura di». Sulla scrivania ideale del lettore beckettiano (ma perché non immaginarla «reale», invece?) mi piace pensare a questi tre titoli affiancati al decisivo Meridiano uscito pochi mesi fa. Una sorta di premium kit con cui trascorrere ore di meravigliosa immersione nella lettura, in compagnia di uno dei più grandi autori del Novecento e dei suoi appassionati esegeti.

Di tutti questi titoli parlerò in occasione del mio intervento beckettiano alla prossima edizione del San Patrizio Livorno Festival, sabato 16 marzo 2024.

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18 Febbraio 2024

Il problema delle origini, tra miti greci e miti orientali

Andrea Bisicchia, «Libertà Sicilia»

Il primo libro che lessi di Antonio Attisani fu Teatro come differenza, edito da Feltrinelli nel 1968, contemporaneo del mio Teatro a Milano 1968-78. Il Pier Lombardo e altri spazi alternativi, edito da Mursia. Entrambi cercavamo un teatro che si differenziasse da quello istituzionale, diventato, malgrado tutto, un teatro che ammiccava ad operazioni di tipo commerciale, avendo esaurito la grande stagione creativa degli anni Sessanta-Settanta. A ridosso di quei due libri, c’era stata la rivoluzione sessantottesca e il successo, anche in Italia, delle teorie di Artaud e del suo teatro e corpo glorioso, secondo la definizione di Artioli, ma c’erano stati anche gli spettacoli del Living, Grotowski, Barba, da intendere, non come forme rappresentative, ma come forme della coscienza, o meglio ancora, come religio priva, però, di ogni consolazione metafisica. Attisani, in quel particolare momento, era interessato al teatro di tipo sociale, oltre che politico e a una diversa concezione dell’attore, in particolar modo, di quello popolare, incarnato da Dario Fo, e dell’attore santo a cui era pervenuto Grotowski. lo andavo in cerca dell’uso diverso degli spazi scenici che popolavano le periferie milanesi, dove si muovevano i nuovi gruppi italiani che, ciascuno a suo modo, cercava di differenziarsi dal teatro ufficiale.

A dire il vero, in quegli anni, c’era stata una grande richiesta di teatro da parte di una nuova generazione, tanto che Attisani la invitava a fare delle domande al teatro e a cosa bisognava chiedergli, esortandoli, nel frattempo, a conoscere un altro teatro che andasse: Oltre la scena occidentale, titolo di un suo libro molto importante, dove indicava cosa potesse essere ancora recuperato di quel teatro, per metterlo a confronto con quanto accadeva sulle scene orientali, tanto che i suoi corsi all’università di Venezia, alla fine del secondo millennio, erano incentrati, proprio, su questo rapporto, oltre che sul teatro performativo che vantava, in Francesco D’Assisi, il primo performer, antesignano di Carmelo Bene, ovvero degli attori-autori, da considerare attori pensanti, più che recitanti, ben diversi dall’attore impegnato politicamente, come Dario Fo, oppure spiritualmente, come l’attore santo di Grotowski. Nel volume: L’invenzione del teatro. Fenomenologia e attori della ricerca, edito da Cue Press, Attisani ha portato avanti il suo lavoro, sia in chiave teorica che pratica, approfondendo la sua metodologia e il suo modo di rapportarsi con le origini, in rapporto con la modernità. Il volume è diviso in sette capitoli, benché, il referente, sia sempre il teatro delle origini, quello della semplicità e della purezza, affidate al rito, non solo occidentale, ma anche orientale. Nel frattempo, Attisani si era documentato sul Teatro tibetano e indiano, in particolare, sul loro uso del corpo e dei tempi scenici. In questa sua ricerca delle Origini, non poteva mancare il rapporto antitetico tra l’attore e lo sciamano, tra la tragedia attica, con i suoi cori e le sue danze, e le danze nel teatro tibetano, utilizzando una bibliografia ad hoc, in particolare, L’Ur-drama di E. T. Kirby, gli studi del danese Egill Rostrupp e quelli di Ferruccio Marotti, continuati da Bavarese. In tutti i citati, c’era l’urgenza di liberare il teatro dallo spettacolo e di ridurlo alla sua vera essenza, magari a scapito della sua componente narrativa che era rivolta a livelli di realtà ben diversi da quelli percepiti durante la vita quotidiana. Per costoro, un teatro asservito o ridotto a racconto, è un teatro degradato, essendo, il lavoro del teatro, di tipo concettuale, capace di coinvolgere il corpo-mente e il corpo-vita.

La scoperta di Tanguy e del teatro di La Fonderie di Le Mans, permette, ad Attisani, di confrontarsi con un altro Maestro che teorizzava il Teatro della soglia, da intendere come momento ‘inafferrabile’, essendo, la soglia un vero e propio enigma e che, come tale, è più importante di qualsiasi risposta, essendo «il momento in cui si condensano il più gran numero di forze, di tensioni». Credo che, a livello scenico, sia stato Maeterlinck a realizzare il teatro della soglia. Molti sono i materiali che Attisani propone, grazie ai quali, è possibile creare nuove soglie di percezione e di partecipazione.

Carrozzeria orfeo
15 Febbraio 2024

Carrozzeria Orfeo, quindici anni di successi ben costruiti

Andrea Malosio, «Hystrio», XXXVII-2

Quindici anni, un tranche de vie significativo per un’impresa, sufficiente a fare una storia. Per Carrozzeria Orfeo, compagnia itinerante, nata dall’incontro casuale nelle sale prova d’accademia, questi quindici anni sono stati il principio, la crescita, il consolidarsi di un progetto artistico e imprenditoriale ben raccontato in questo volume edito da Cue Press e scritto dal giovane studioso milanese Andrea Malosio. Con un focus puntato sulla scrittura, il volume ricompone in modo dettagliato e documentato il percorso della compagnia, ricostruisce le biografie dei fondatori e delle persone che ne hanno incrociato il lavoro, ne di- segna la poetica cercandone anche la collocazione all’interno della scena contemporanea. I testi, dunque, come focus.

Diversamente da quanto spesso accade, ciò che ha segnato dal nascere il progetto di Carrozzeria Orfeo è stata la scrittura personale e originale dei propri spettacoli, affidata da subito alla mano decisa di Gabriele Di Luca. Malosio ripercorre, giustamente privilegiando questo punto di vista, i primi testi (Nuvole barocche, 2007; Gioco di mano, 2008; Sul confine, 2009; Idoli, 2011; Robe dell’altro mondo, 2012) per concentrarsi poi sulla trilogia del successo – Thanks for vaselina, 2013; Animali da bar, 2015; e Cous Cous Clan, 2017 – e sui successivi spettacoli (soprattutto Miracoli metropolitani, 2020) ai quali l’autore dedica un’analisi profonda, dalla genesi alla struttura drammaturgica, dal linguaggio ai caratteri dei personaggi e alla loro identità sociale. Emerge la cifra distintiva del lavoro della compagnia, che unisce «il basso con l’alto, il lirico con il triviale», con l’intento di ‘agganciare’ il pubblico, divertendolo e passandogli qualche elemento di riflessione sulla società contemporanea, che si tratti della tossicità delle relazioni familiari o della strisciante violenza del sistema post-capitalista dei consumi. Ma l’autore non si ferma solo alla dimensione artistica della compagnia. Nell’interessante capitolo Giù dal palco: dalla comunicazione ai progetti culturali e formativi, affronta l’aspetto tutt’altro che secondario della struttura societaria e amministrativa della compagnia, parte integrante dell’azione, strumentale all’attività artistica ma strategica nell’economia generale della sua vita.

Stranger things bis
13 Febbraio 2024

Per una sociologia di Stranger Things

Ludovico Cantisani, «ODG Magazine»

La casa editrice Cue Press di Bologna ha dato di recente alle stampe il volume collettivo I segreti di Stranger Things, raccolta eterogenea di saggi a cura di Kevin Wetmore jr., professore di teatro e cinema in Marymount. Sin dal sottotitolo del libro – Nostalgia degli anni Ottanta, cinismo e innocenza – si intuiscono alcune delle principali direttive che prendono le variegate analisi della serie televisiva condotte da un team internazionale di accademici che in Stranger Things ha individuato uno dei prodotti culturali più rappresentativi del nostro tempo.

Stranger Things è effettivamente una delle serie che, nell’ultima decade, hanno avuto maggiore influenza sull’immaginario collettivo. Rappresenta a un grado particolarmente cristallino quella tendenza delle narrazioni contemporanee a ripercorrere – in termini di remake più o meno dichiarati – a precedenti storytelling e franchise che hanno goduto di successo nei decenni passati, in una sorta di omogeneizzazione generazionale del pubblico che porta tanto i più anziani ad identificarsi nelle nuove storie quanto i più giovani a incuriosirsi alle vecchie.

Tra gli elementi sorprendenti della costruzione narrativa di Stranger Things sin dalla prima stagione era stato rilevato che i fratelli Duffer, ideatori, showrunner e principali registi della serie Netflix, avevano plasmato un calibratissimo pot-pourri di classici della fantascienza e dell’horror occidentale, con una particolare predilezione per i film degli anni Ottanta con cui loro stessi erano cresciuti: titoli piuttosto eterogenei tra loro, al di là del genere fanta-horror di partenza, come E.T., La cosa, Alien, Indiana Jones, It, Jurassic Park, Incontri ravvicinati del terzo tipo, si trovavano ad essere omaggiati uno dopo l’altro da citazioni ed easter egg posti all’interno della serie, all’interno di linee narrative apparentemente in grado di ‘digerire’ e rielaborare in un continuum spontaneo e autonomo un numero esorbitante di situazioni già viste in altri film, serie, videogiochi e fumetti dei decenni passati.

I segreti di Stranger Things praticamente in tutti i saggi parte da una valutazione positiva della serie: non è un’opera di critica cinematografica o audiovisiva, bensì di critica dell’immaginario e, per quanto molto legata a un’impostazione accademica di scrittura, molti dei saggi raccolti nel volume aprono interconnessioni notevoli tra diverse discipline, illuminando di riflesso lo stesso significato di Stranger Things verso una ricchezza e una stratificazione che a una prima visione potrebbero sfuggire. Stranger Things resta un prodotto di massa astutamente costruito attorno a un omaggio quasi ossessivo dei cult con cui almeno due o tre generazioni sono cresciute, ma, «analogamente alle pietre miliari culturali del decennio che omaggia tanto scrupolosamente, Stranger Things è intrisa di sottotesti più cupi che spesso passano inosservati, e affronta le ansie culturali prevalenti sia allora che oggi in maniera più diretta di quanto le venga riconosciuto», afferma la regista arthouse e docente accademica Rose Butler all’inizio del suo saggio.

Svariati degli interventi raccolti ne I segreti di Stranger Things sono monograficamente dedicati ad esplorare le connessioni e le citazioni tra la serie dei fratelli Duffer e altre opere di intrattenimento uscite negli ultimi tre decenni del Novecento: il testo posto in apertura alla raccolta, La rinascita dei figli di King, riflette sulla pesante eredità kinghiana che si porta appresso la serie, tra Carrie, It e Fenomeni paranormali incontrollabili, giusto per citare i tre omaggi più smaccati; altri capitoli indagano nel dettaglio i riferimenti al cinema di Steven Spielberg, o al cinema di John Carpenter, non solo per l’evidente richiamo a La cosa, ma anche per una comune tendenza, da parte di Carpenter e i fratelli Duffer, a ibridare western e fantascienza a livello di situazioni e personaggi; più sorprendente il saggio, scritto a quattro mani da due studiosi latino-americani, che punta a dimostrare convergenze – e almeno un easter egg esplicito – tra Stranger Things e tre serie teen – fantasy andate in onda sulla televisione colombiana alla fine degli anni Ottanta.

Per quanto Stranger Things debba molto del suo successo proprio alla ricchezza delle sue citazioni e a un’astuta modalità di rielaborare linee narrative a cui il pubblico è già famigliare, i saggi raccolti nel volume di Wetmore non mancano di evidenziare momenti di originalità e di meta-consapevolezza da parte della serie, con i fratelli Duffer e i loro collaboratori creativi impegnati talvolta in una vera e propria decostruzione dei codici di genere. Rilevante in questo senso è la riflessione sulla morte di Barb, personaggio secondario della prima stagione che al momento della sua uccisione sullo schermo da parte del Demogorgone aveva suscitato reazioni contrastanti da parte degli spettatori.

«La morte di Barb è uno dei modi drastici in cui Stranger Things sovverte le convenzioni degli slasher ed è un indicatore precoce di quanto la serie desideri ribaltare le nostre aspettative:… Barb, che si dissocia dai giochi alcolici e siede sola mentre gli altri si ritirano nelle stanze al secondo piano, inizialmente sembra ricoprire il ruolo della final girl. Casta e sensibile, resta ai margini. Il fatto che venga catturata dal Demogorgone – soprattutto mentre gli altri stanno facendo sesso – mira brutalmente il conservatorismo perpetuato dal ciclo degli slasher degli anni Ottanta». Così scrive sempre la Butler nel suo intervento.

I segreti di Stranger Things affronta attentamente anche le questioni economiche, sociali e politiche che la ri-ambientazione della serie negli anni Ottanta, durante la presidenza Reagan, porta con sé. «Il personaggio di Matthew Modine, il dottor Martin Brenner, è essenzialmente il dottor Frankenstein con ideali reaganiani; arranca con i suoi esperimenti per conto del Dipartimento dell’Energia, in nome della bandiera americana», afferma Melissa Kaufler nel suo saggio sulla rappresentazione del corpo femminile nella serie. Particolarmente interessante la disamina del personaggio di Joyce Byers, interpretato da Winona Ryder, da parte di Lisa Morton, che evidenziando come «attraverso la retrocessione sociale del personaggio di Ryder, siamo costretti a rivedere il nostro giudizio sugli anni ottanta: decantati dai media come un periodo di prosperità generale, ci appaiono ora come un’era di grandi divari finanziari e di classe e di economia fallimentare».

In questa rappresentazione realistica delle condizioni economiche medie negli anni Ottanta soprattutto delle donne, Stranger Things mostrerebbe una maggiore oggettività rispetto a un’opera super-cult di Spielberg, E.T., che pure è costantemente omaggiata dalla serie dei fratelli Duffer. E.T. è una sorta di fiaba fantascientifica continuamente costellata di momenti che mettono alla prova il principio di realtà:

«Ma la vera invenzione di E.T. è la sua rappresentazione della classe media. La mamma di Elliot, Mary, si è recentemente separata dal marito; quando Elliott accenna al fatto che suo padre sia in Messico con Sally, Mary si deprime. Lei è ora la madre lavoratrice di tre bambini, che cerca di bilanciare il lavoro con i doveri genitoriali. Eppure, la loro casa sembra essere di almeno duecentottanta metri quadri: una casa nuova in un nuovo complesso residenziale».

Più di un saggio della raccolta di Wetmore riflette sulla possibilità che il Demogorgone e tutto l’immaginario del Sottosopra alludano anche all’epidemia di AIDS scoppiata proprio nel cuore degli anni Ottanta. Del resto, i sottotesti della serie riguardanti l’omosessualità, e in particolare l’identità sessuale del protagonista Will Byers, erano parsi evidenti sin dalla prima stagione, creando grande dibattito e speculazione tra fan e detrattori fino ad arrivare al coming out sui social dell’interprete del personaggio, Noah Schnapp.

«Vedere Will come personaggio queer conferisce ancora più credibilità all’idea che la serie si esprima direttamente sull’Aids e sulle battaglie degli uomini gay negli anni Ottanta. Questa analogia diviene particolarmente pertinente nella seconda stagione, quando il Mostro Ombra prende il possesso del corpo di Will». Così scrive Emily Roach nel saggio della raccolta intitolato Aids, omofobia e il mostruoso sottosopra. «Il mostro è definito in maniera ambigua, un mutaforma descritto spesso attraverso il linguaggio proprio della malattia e dell’infenzione. Il mostro è un virus e il corpo di Will è il suo ospite».

Particolarmente interessante sul tema del gender e dell’orientamento è anche il saggio di Elsa Carruthers Rivisitando la femminilità mostruosa e i genitori mostri in Stranger Things, in cui vari personaggi e varie componenti visivo-iconiche della serie, a cominciare dal personaggio di Undici interpretato da Millie Bobby Brown, vengono ricondotti a un archetipo di femminilità primordiale, medianica, a cavallo tra i due mondi, a cui più volte lo stesso Stephen King aveva attinto.

Come per la celebre regola 34 del web – «se qualcosa esiste, allora c’è la sua versione porno» – è inevitabile che ogni fenomeno di costume che coinvolge e aggiorna l’immaginario collettivo si trascini dietro di sé un dibattito che va molto al di là dell’apprezzamento o della squalifica del singolo prodotto culturale e audiovisivo, e spesso sfocia in un contesto accademico. Storicamente è stata proprio l’Italia, nella figura di Umberto Eco, assieme alla Francia con Roland Barthes, a dare un contributo significativo alla rilettura dell’immaginario popolare attraverso metodologie e strumenti ‘colti’, anche se questa tendenza ha attecchito, a livello universitario e giornalistico, soprattutto negli Stati Uniti. La stessa Stranger Things non è nuova a iniziative di questo genere, e un paio d’anni fa era uscita, a cura di Jeffrey A. Ewing e Andrew M. Winters, un’analoga disamina della serie intitolata La filosofia di Stranger Things, più attenta alle componenti storiche e religiose insite nel sottotesto dell’universo narrativo dei fratelli Duffer anziché alle implicazioni economiche e sociologiche.

A differenza però di analoghe operazioni che volevano a tutti i costi trovare messaggi filosofici in opere di consumo o insegnare la fisica attraverso film che di scientifico non avevano nulla, entrambi i volumi e in modo particolare I segreti di Stranger Things colpiscono per la fondatezza delle loro affermazioni e la solidità delle nuove prospettive che aprono su uno dei prodotti più popolari dell’immaginario contemporaneo. Leggere ‘contropelo’ un’opera seriale vista da milioni di spettatori in tutto il mondo innesca in queste pagine un cortocircuito che illumina, di fatto, mezzo secolo di storia e immaginario occidentale: la serie ‘spiega’ gli anni Ottanta, gli anni Ottanta spiegano la serie, ma anche e soprattutto la fascinazione nostalgica per gli anni Ottanta di cui Stranger Things è sintomo e propagatrice spiega il nostro oggi, le nostre ambiguità e le nostre rimozioni – e al centro di ogni cosa resta lo sguardo freddo ma tutt’altro che morto di un demiurgo-Demogorgone.

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Beckett 6
10 Febbraio 2024

Samuel Beckett, un vademecum per affrontarlo

Michele Casella, «la Repubblica»
Entrare nelle opere di Samuel Beckett, autore ‘assurdo’ per antonomasia, precursore di una visione artistica omnicomprensiva, deve essere stato facile per Enzo Mansueto. Perché il lavoro di sottrazione continua che caratterizza il ‘non’ stile dell’autore irlandese si sovrappone al calibratissimo senso ritmico nell’uso della parola. Questa familiarità col ritmo Enzo Mansueto di sicuro la possiede, non solo nella sua pluriennale carriera di poeta, critico letterario, docente di lettere, ma anche per il suo passato sonoro in ambito punk. Un pezzo di quell’attitudine è entrato anche nella cura e traduzione di Beckett: un canone, tomo appena pubblicato dalla Cue Press e per il quale lo studioso barese ha anche redatto la prefazione. Il volume, scritto dalla decana degli studi beckettiani Ruby Cohn, è originariamente uscito nel 2001 e rappresenta un poderoso attraversamento di tutta l’opera, edita e inedita, di questo autore tanto complesso quanto illuminante. A rafforzare la profondità dell’indagine letteraria della Cohn non vi è solo il potente apparato critico, ma anche la profonda conoscenza di ogni dettaglio della sua opera, dovuta alla decennale amicizia fra la studiosa statunitense e il premio Nobel per la letteratura. Il primo obiettivo del libro, infatti, non è quello di inquadrare Beckett in una lettura univoca, bensì di fornire dei precisi input di analisi che permettano al lettore di affrontare in maniera accurata il corpus delle sue opere. D’altra parte anche il rapporto fra Mansueto e l’autore Aspettando Godot è decisamente lungo e risale ai suoi vent’anni, quando l’affinità di poetica si è intrecciata con altre figure come Joyce, Wittgenstein e Carmelo Bene. Spiega Mansueto: «Lavorare così intensamente, e per un lungo periodo, sul bel saggio della Cohn mi ha consentito di rinverdire questa antica e duratura passione rivedendo alcune posizioni, colmando immancabili lacune, ma soprattutto rileggendo le sue opere a fronte di un’attenzione ravvivata dal mio lavoro attuale, critico e creativo». L’uscita di Beckett: un canone si inserisce in una più ampia operazione di rilancio dello studio dell’opera di Samuel Beckett in Italia e avviene in coincidenza con la pubblicazione nei Meridiani Mondadori del volume Romanzi, teatro e televisione, la prima edizione commentata delle opere beckettiane (a eccezione delle poesie), integralmente curata da Gabriele Frasca. Questo ‘ritorno’ di Beckett pare oggi quantomai necessario, non solo perché colma una lacuna su un autore così determinante, ma anche perché contribuisce al superamento del concetto di libro stampato, della ‘letteratura’, dei generi. Lo spiega bene Mansueto, che incalza: «Credo che autori come Beckett oggi rappresentino una fonte di anticorpi salutari contro la standardizzazione dei prodotti da libreria e in generale delle varie declinazioni narrative, comprese quelle audiovisive del cinema e delle serie tv, viralmente contagiate dagli invadenti algoritmi e cliché delle piattaforme digitali». La rilettura di Beckett consente infatti di comprendere quanto la sua opera sia stata in anticipo sulla multimedialità di oggi, in primis grazie a una vibrante instabilità – linguistica, di medium, di genere testuale – che è cifra fondante del suo lavoro. «Beckett è stato determinante in tutto questo» osserva ancora Mansueto: «Non solo perché i videodrammi, le opere per la tv e i meravigliosi radiodrammi tracciano una strada, ma perché la multimedialità elettronica segna da subito la sua scrittura narrativa, come già quella del suo maestro, James Joyce: non avremmo l’Ulisse senza la rivoluzione dei media elettronici, dal telefono alla radio, e la scorporazione tecnologica della voce, che hanno condotto a nuove forme di oralità di ritorno».
Mansueto enzo
6 Febbraio 2024

Ruby Cohn — Beckett: un canone. Intervista a Enzo Mansueto

Sergio Rotino, «Satisfiction»

Erano decenni che in Italia non si vedeva una simile attenzione verso l’opera di uno dei più grandi geni letterari che abbia prodotto il Novecento. Si vede che finalmente era tempo di dare a Cesare quanto gli spettava, quindi a Samuel Beckett quel che è di Samuel Beckett. E se il Meridiano mondadoriano, Romanzi, teatro e televisione — tradotto e curato da un beckettiano da sempre qual è Gabriele Frasca — ha aperto a una nuova stagione per quanto riguarda l’opera del genio irlandese, il titanico lavoro della imolese Cue Press ne spinge e sostiene la volata.

A questo si deve aggiungere l’essenza più ‘pop’ di Prima danza, poi pensa, biopic approdato nelle sale italiane da pochissimi giorni a firma James Marsh, con un Gabriel Byrne che interpreta un Beckett da adulto. In tale fermento si colloca il volume di Ruby Cohn, Beckett: un canone, pubblicato anch’esso da Cue Press (pp. 384, euro 39,99) per la cura di Enzo Mansueto. Saggio essenziale per meglio comprendere il lavoro di questo premio Nobel, curato con massima attenzione e cognizione di causa da Mansueto, il quale firma anche la traduzione e l’introduzione al lavoro della studiosa americana, amica intima di Beckett e decana dello studio delle sue opere.

Mansueto, che condivide con Frasca l’essere poeta, studioso, critico letterario e musicale e grande appassionato dell’opera beckettiana, ha lavorato con attenzione maniacale per rendere ogni possibile intenzione del testo originario. La Cohn, ricordiamolo, è la più assidua frequentatrice della scrittura di Beckett. Ne rimase abbacinata nel lontano 1953, quando frequentava l’università a Parigi, da dottoranda. In quell’anno, come lei stessa riferisce in apertura di libro, poté assistere alla prima di Aspettando Godot, evento sufficiente per convincerla a dedicare tutta la vita allo studio di quanto avrebbe prodotto Samuel Beckett fino alla fine della sua vita.

Abbiamo incontrato Enzo Mansueto per parlare del suo lavoro di curatela, ma non solo. Abbiamo parlato anche dell’importanza dei saggi della Cohn, di canone letterario e di questo meritato ritorno di attenzione, per quanto riguarda l’Italia, al lavoro di uno scrittore che più di altri ha segnato la letteratura, dal Novecento a oggi.

Come è nata l’idea di dare alle stampe il saggio della Cohn?

È nata dall’incontro produttivo tra Gabriele Frasca e il direttore di Cue Press, Mattia Visani, che aveva già avviato la coraggiosa impresa della pubblicazione in Italia dei quaderni di regia e dei testi teatrali riveduti di Samuel Beckett, a cura dell’ottimo Luca Scarlini. Libri di un interesse e di una bellezza, anche tipografica, sconvolgente. Sono testi considerati ormai fondamentali nel mondo intero, per lo studio e la messa in scena di Beckett. Per il contesto italiano, viziato da una discontinua ricezione dell’autore, potevano invece apparire una follia editoriale. L’editore, però, considerato il riscontro positivo dell’operazione, pare averci visto giusto. Come anche in altri casi.

Tipo?

Per esempio, con la pubblicazione, in tempi non sospetti, dell’opera drammaturgica e saggistica di Jon Fosse, Premio Nobel per la Letteratura 2023, che peraltro molti avvicinano alle poetiche beckettiane.

Gabriele Frasca, lo ricordiamo, è il traduttore e curatore del Meridiano Mondadori, appena uscito, dedicato a Beckett…

Non soltanto. Frasca, raffinato poeta, narratore, saggista, ha una consuetudine beckettiana che data ai primi anni Ottanta e i suoi studi hanno aperto spiragli innovativi nell’interpretazione dell’opera dell’autore irlandese. Per esempio, nell’ascolto delle risonanze testuali dei media elettrici, nel tracciamento delle oscillazioni multilinguistiche di un testo instabile, tra oralità e scrittura. Oppure nella costruzione del concetto di ‘arcigenere’, usato per definire gli esiti concettuali di quello che comunemente chiameremmo lo ‘sfondamento’ beckettiano dei generi letterari.
Il Meridiano da lui tradotto e curato, Romanzi, teatro e televisione, con le sue nuove traduzioni e i ricchi commenti, rappresenta davvero uno spartiacque nella vicenda della ricezione di Samuel Beckett in Italia.

Che da noi non sembra aver avuto grandi fortune.

Possiamo dire che Beckett, nei passati decenni, ha conosciuto sorti alterne in Italia, venate non di rado di superficialità, fraintendimenti o travisamenti.

Per quale motivo?

Uno scrittore ‘senza stile’ come Beckett ha fatto fatica a imporsi in una repubblica letteraria che su stile e arcadia linguistica ha edificato i propri bellimbusti, anche nel Novecento. Soprattutto, la penetrazione di Beckett – che è, di suo, autore tardivo, impostosi mondialmente a partire dagli anni Cinquanta, dopo il successo del Godot, e divenuto editorialmente appetibile solo col Nobel del 1969 – si è attuata in Italia in maniera pasticciata, in anni di neoavanguardie e di tetragoni ideologismi, che mal comprendevano questo irlandese erudito, post-joyceano, equilingue, incline a una autoriduttiva spoliazione del linguaggio e dello stile, all’apparenza secluso in un nichilismo apolitico e amorale. Il massimo che si è riuscito a fare è stato incasellarlo in etichette di comodo, oramai trite – il ‘teatro dell’assurdo’ o, al meglio, l’esistenzialismo o l’estenuato modernismo, cercando improbabili cuginanze o filiazioni. Sintomi di una critica pigra e miope, impantanata nei generi, nelle letterature nazionali, nei compartimenti stagni della pagina tipografata e del testo ben fatto.

Però non possiamo dire che l’Italia sia stata completamente immobile…

Certo che no: restano meritevoli e in qualche modo pionieristiche le traduzioni o le esegesi di Carlo Fruttero o di Aldo Tagliaferri, e non sono mancati altri interessanti contributi critici, così come non possiamo trascurare le svariate pubblicazioni dei testi beckettiani accolte nei decenni passati nei cataloghi Einaudi o SugarCo, come anche di altri editori. È però un fatto che gran parte di quei testi, anche quelli non secondari, risultano da tempo indisponibili in catalogo, espunti, cassati. Inoltre, su molti di essi proliferava già la muffa di traduzioni dubbie o, quantomeno, non aggiornate alla luce dell’enorme lavoro, critico e filologico che sull’opera di Beckett andava svolgendosi all’estero, in paesi dove semmai si registra il problema opposto, cioè una proliferazione sfrenata e fantasiosa di studi beckettiani. Tra gli ultimi, per dire, ci sono quelli su Beckett e il buddismo o su Beckett e David Bowie.

E qui si torna sul lavoro portato avanti da Frasca, che è, dicevi, uno spartiacque.

Il Meridiano tira effettivamente una riga su questa storia italiana di cui dicevo prima e favorisce, si spera, un rilancio d’interesse, non solo accademico, oltre che offrire una rinnovata e massiccia disponibilità di testi sul mercato. Peccato solo che i responsabili della collana mondadoriana non abbiano voluto assecondare il progetto originario del curatore di accogliere in un doppio volume l’opera completa di Beckett. Tuttavia, sullo sfondo dello scenario alquanto desolante che affrescavo, che tra i testi proposti ne manchino alcuni del canone beckettiano – le poesie, le prose brevi, i radiodrammi e qualche opera ‘minore’, peraltro reperibili in libreria – non è cosa gravissima ed è comunque scelta motivata in modo persuasivo nell’introduzione del curatore. Quello che abbiamo tra le mani è davvero un punto fermo, un’operazione editoriale unica al mondo.

Arriviamo a Beckett: un canone, il volume di cui firmi curatela, traduzione e introduzione per Cue Press. Scritto da Ruby Cohn, una delle massime conoscitrici del lavoro e della vita di questo grande scrittore, appare come una pietra miliare degli studi attorno alle opere beckettiane.

La Cohn è considerata da tutti e da sempre la decana degli studi beckettiani. Dottoranda americana alla Sorbona, appena trentenne ebbe la fortuna di assistere alla prima di En attendant Godot al Théatre de Babylone, opera di un misconosciuto pupillo di James Joyce, altro irlandese a Parigi.

Era il gennaio del 1953 e fu un vero colpo di fulmine. Da quel momento, Ruby, già dedita allo studio del teatro contemporaneo, decise di piegare non soltanto i suoi studi accademici, ma la sua vita stessa a Beckett. Tanto da diventarne nel giro di pochi anni, e sino alla fine, intima amica, confidente e consigliera, cosa che, considerata la proverbiale riservatezza di Beckett (che in verità, al di là del mito dell’incomunicabilità alienata, era persona assai amichevole e generosa nei rapporti), è assai significativa.

Il canone venne pubblicato in America nel 2001, dieci anni prima che la morte cogliesse la studiosa dopo lunga malattia – era stata colpita dal morbo di Parkinson, che l’aveva costretta a un inesorabile declino nel silenzio. Quell’impegnativo testo finale costituisce il coronamento di una vita di studi e di una passione inestinguibile. È in sostanza un attraversamento cronologico di tutta l’opera di Beckett, edita e inedita sulla falsariga della biografia, degli accertamenti filologici e di spunti confidenziali, condotto con uno stile colloquiale, condito di spirito, che davvero ci immette, come invitati dalla porta dello scrittoio, nella grande opera di Beckett. Insomma, scorrere queste pagine è un po’ come andare a braccetto con lui, dagli acerbi esordi negli anni Trenta sino ai testi terminali del 1989, tra alterne e coinvolgenti vicende, nei rivolgimenti del Novecento. In questo percorso, la Cohn traccia con gusto sicuro ed esperto un personale canone, invitandoci a fare altrettanto.

Usando un approccio direi molto personale…

Il suo è un approccio orgogliosamente umanistico, sostenuto da uno stile tutt’altro che formale o accademico e, soprattutto, con l’intenzione di restituirci l’immediatezza dei testi di Beckett al di là della nomea di inavvicinabilità, oscurità, difficoltà che l’opinione diffusa gli ha appiccicato addosso.

Non si può dire però che i testi di Beckett siano facili…

Certo che non lo sono. Come ogni sfida ai sensi, all’intelletto, al nostro posizionamento nel mondo deve essere. È questo, mi pare, il compito principale dell’arte.

Fermiamoci un attimo su questo punto, vuoi?

Intendo dire che il luogo comune della difficoltà dei testi di Beckett, come di altri autori considerati ostici e respingenti, deriva da un equivoco di fondo: non è l’oggetto testuale, la scrittura, l’opera drammaturgica o multimediale di Beckett a non essere in sé ‘semplice’, nel senso di disponibile alla ricezione. È piuttosto l’approccio del lettore, del consumatore, addomesticato alquanto da una produzione seriale, ammiccante, accomodante, a essere sempre più ‘semplicistico’, modellato su pigri cliché ripetitivi, che sempre meno dal testo esigono, in termini di coraggio poetico e di interazione faticosa e produttiva, la sola che ci cambia lo sguardo sul mondo. Vorrei essere massimalista, e affermare che oggi più che mai si vada divaricando una forbice tra ciò che va ingessandosi come letteratura (come intrattenimento, nel giochino rappresentativo e consolatorio della fiction, anche intelligente e avvincente, non dico di no… serve anche quello) e l’arte del discorso: radicale, essenziale, necessaria e che non ci consola delle nostre quotidiane repliche nel teatrino dell’Io. Insomma, se ogni tanto, aprendo un libro, si va in cerca di un marchingegno verbale che riposizioni le sinapsi come un cubo di Rubik, beh, con Beckett si ha pane per i nostri denti!

Perché cos’altro, allora, la lettura, la visione, l’ascolto delle opere di Beckett sarebbero necessari?

La questione è troppo complessa e articolata perché riesca qui a sintetizzarla. Ma alcuni punti voglio ugualmente sottolinearli. Innanzitutto, parliamo di qualcosa che ha a che fare con lo strato profondo, con la materia oscura della verbalità e dunque, in qualche modo, con l’innominabilità del nostro stesso stare o venire al mondo. Al di là di ogni equivoca mistica dell’inesprimibile, tutto il lavoro di Beckett – penso alla sua parola afasica, alla lallazione sottesa al suo balbettio, allo ‘sparolamento’ delle sue lasse verbali, alla regressione mimica della sua drammaturgia – sembra proteso all’emersione di una natura gestuale, formulaica, visuale, pre-verbale del discorso, cioè di quel codice culturale di cui come genere umano siamo in-formati. Tic, ripetizioni, giochi di parole, spiazzamento di soggetti, slittamento di voci narranti, di focalizzazioni, produzioni in lingue parallele di testi, che sembrano alludere a un imprendibile archetipo, tutto rimanda a un al di qua o al di là o al lato, forse, a un’ombra o un’eco della parola che, ripeto, non ha nulla di metafisico. Ha familiarità, semmai, e con una nota perturbante, con l’anteriorità inorganica – non cronologica, ma genetico-culturale, antropologica – del nostro esserci. In termini filosofici, direi che siamo nei pressi del silenzio wittgensteiniano, del secondo Wittgenstein e dei suoi giochi linguistici.

Quei rifiuti, quei corpi contorti e smembrati, quei paesaggi disumanizzati, quelle smorfie, quella putrescenza, quelle mutilazioni, quelle torture corporali sparse nei testi beckettiani, essi stessi spesso lacerti disanimati, non sono delle angosciate fantasie espressioniste, ma apparecchiatura dell’osceno, fuoriuscita dal teatro della rappresentazione, dalla pupazzata del teatro di prosa e della fiction narrativa e, ripeto, dello spettacolino quotidiano dell’Io, come forse nell’ultimo Carmelo Bene. Un teatrino che oggi il metaverso promuove e amplifica su un palco virtuale con agghiaccianti dimensioni globali e che, come il claustrofobico panopticon dello Spopolatore, addormenta ogni nostra resistenza. Ecco, per dirla in maniera tranciante, la lettura di Beckett è un atto sovversivo di resistenza allo sterminato condominio dell’Io e alle replicanti narrazioni stereotipate, che attaccano e colonizzano la nostra anima — qualunque cosa essa sia — come parassiti mass-mediali.

È per questo che nell’introduzione lo definisci un canone «pronto a farsi altro nelle mani del lettore, ogni volta»? Ed è questo a dare importanza al lungo lavoro della Cohn e a innalzare alle massime vette della letteratura l’opera di Beckett?

Esatto. Il libro della Cohn è certamente molto istruttivo e si propone come sussidio, anche divulgativo; un accompagnamento completo e affidabile alle opere di Beckett. Ma sin dall’articolo indeterminativo del titolo esso non pretende di imporre una lettura monologica, una interpretazione sistematica dell’opera omnia. Anzi, l’autrice dichiara più volte esplicitamente di rifuggire da una lettura critica olistica e unidirezionale, affidandosi invece alla descrizione puntuale, al commento, al dubbio, al suggerimento.

Soprattutto invitando il lettore a comporre da sé un proprio canone, inteso come provvisoria assegnazione di valore ai singoli testi dell’opera omnia, anche in relazione a mutati contesti artistico-culturali. Quegli straordinari congegni semiotici che sono le opere di Beckett si prestano magnificamente a questa operazione: inossidabili, sorprendenti a ogni rilettura, proprio perché geneticamente instabili, mai davvero compiuti, o forse mai del tutto nati. Come, traumaticamente, ciascuno di noi.

Parli anche, per quanto riguarda la Cohn, di un canone che non è «nell’accezione classica». Ti riferisci all’impianto saggistico, molto americano, molto divulgativo, di cui si diceva o proprio alla forza metamorfica dell’opera beckettiana?

No, mi riferisco banalmente all’accezione convenzionale, didattica, di canone, inteso come repertorio, elenco di opere e autori sicuramente rappresentativi di una letteratura nazionale, di un periodo, di un movimento ecc. Qualcosa che avrebbe a che fare con la normatività e anche con l’identità. In questo libro non c’è nulla di tutto ciò. Mi pare invece che il titolo della Cohn sottenda l’intenzione di tracciare rapporti di forza, gerarchie valoriali all’interno e, comparativamente, con l’esterno dell’opera completa, edita e inedita, di Beckett: un vaglio, una valutazione gerarchica, un setacciamento ragionato. Se vogliamo, l’indicazione dei punti alti, notevoli, grazie ai quali l’opera di questo grande autore si pone a noi come imprescindibile e, perché no, bella.

A parte l’idea di canone, la Cohn mi pare possa colpire il lettore italiano anche per il suo prediligere la comparazione all’interpretazione…

Comparazione, descrizione, florilegio, che sono pur sempre movenze discrete dell’interpretazione. Per essere incoraggiante, anche nei confronti del lettore curioso ma non esperto, direi che in questo corposo volume non trovano spazio sovrateorizzazioni ardite o impegnative astrazioni ermeneutiche, pur essendo, come dicevo, l’approccio dell’autrice tutt’altro che banalizzante o semplificatorio. La Cohn, lo dico ancora, ci accompagna sui luoghi secondo lei più significativi dei testi beckettiani e, dopo averceli presentati, ci lascia interagire con essi, rinviandoci anche a una messe ben documentata e citata di studi critici essenziali nonché, cosa più importante, alla lettura diretta dei magnifici testi beckettiani.

D’altro canto, la Cohn dà la sensazione di essere particolarmente gelosa della precisione del suo operato sui testi dell’autore.

C’è una nota di civetteria che incipria qua e là il testo, le cui ragioni sono sostenute però essenzialmente dall’autorevolezza dell’autrice, suffragata da un’amicizia vera con Beckett. Quando si tratta di sconfessare il giudizio critico o filologico di qualche collega, soprattutto donna, col quale è in disaccordo, la Cohn non la manda a dire e chiama spesso a testimoniare le indicazioni confidenziali privatamente fornitele dall’autore stesso.

Al netto di tutto questo, a tuo avviso cosa rimane sostanzialmente fuori fuoco, se così possiamo dire, in questo libro, rispetto al complesso dell’opera di Beckett?

Beh, qui interviene quel meccanismo di distanziamento e contrapposizione di gusto che la Cohn stessa esige dal lettore, invitato a farsi il suo proprio Beckett. Per quanto mi riguarda, anche da poeta, il dichiarato e argomentato ridimensionamento del lavoro in versi di Beckett mi ha lasciato sin dalla prima lettura perplesso. Per il suo spirito liquidatorio nei confronti di una produzione che invece rende esplicito quello che, nella mia lettura di questo grande autore, è un punto fondamentale.

Ovvero?

Ovvero che Beckett è sempre e da sempre ‘poeta’. Qualcuno cioè che, al di là di scelte di genere, medium, formato, lingua, mai definite o compiutamente definitive, ha comunque a che fare con l’arte del linguaggio e la costruzione di possibilità immaginative nella parola, come pianamente ci ricorda uno degli incipit che più amo, quello di Company: «A voice comes to one in the dark. Imagine». Che Frasca traduce: «Giunge una voce a qualcuno nel buio. S’immagini». Vere e proprie istruzioni a una disposizione poetica, dei sensi e dell’intelletto.

Da quanto ho letto, la Cohn si piccava di essere un elemento presente in alcune fasi creative di Beckett. Questa interferenza, questo essere parte del soggetto di studio, ha in qualche modo condizionato, interferito con il suo giudizio critico?

L’interferenza è dichiarata in partenza, e non è una pecca, ma un valore aggiunto. La Cohn ha accompagnato Beckett in diverse occasioni un po’ ovunque, e ne ha potuto osservare il lavoro registico o spiare il momento germinale di alcune idee e alcuni lavori. In alcuni casi, lei stessa, con suggerimenti ben accolti, ha ‘partecipato’ alla creazione. A lei si deve la raccolta dei piccoli saggi e lavori giornalistici di Beckett, con un inedito schizzo teatrale, Disiecta, tradotto da Tagliaferri in Italia nel 1991. Sempre a lei si deve inoltre la richiesta estrema nel 1989, a un Beckett prossimo alla morte, di volgere in inglese l’inclassificabile testo terminale Qual è la parola (Comment Dire/What Is the Word), nell’ultima attuazione del suo distintivo equilinguismo e sparolamento.

Se permetti, con l’ultima domanda, tornerei indietro di alcuni passi. A sostenere questa annunciata svolta beckettiana in Italia cui hai accennato, Cue Press ha intensificare la presenza di questo autore nel suo catalogo? Sono usciti altri titoli per questo marchio editoriale oltre a quello della Cohn da te curato?

Infatti, è così. Nel catalogo di questa casa editrice ha trovato posto la riproposizione della biografia di James Knowlson, Condannato alla fama: vita di Beckett, a cura dello stesso Gabriele Frasca. Un testo che aveva già curato nel 2001 con Giancarlo Alfano per Einaudi, la quale, a conferma delle disavventure editoriali di cui dicevo, ha pensato bene di privarsene… La considero, e non solo io, una delle biografie letterarie più belle degli ultimi tempi, nonché il testo riconosciuto universalmente come l’approccio primario all’opera e all’esistenza di un colosso come Samuel Beckett! Un vero capolavoro di dedizione e precisione, avendo nell’altra mano le nuove traduzioni e i puntuali commenti ai testi prodotti da Frasca.

Vi aggiungerei, con il suo carattere più introduttivo, per la sua forma più agile ma tutt’altro che banalizzante, il testo di Alan Astro, Capire Samuel Beckett, curato da Tommaso Gennaro, del quale trovate online affascinanti contributi sui rapporti tra Beckett e le arti visive. Ecco, inviterei ad affiancare la lettura di questi libri, per meglio apprezzare il lavoro della Cohn. Oltre che, ovviamente, quello di Samuel Beckett.

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Immagine di fine volume gigi e bob al palazzo dei congressi di taormina per il v premio europa per il teatro assegnato a wilson 3 6 gennaio 1997
3 Febbraio 2024

Intervista di Mario Mattia Giorgetti a Gigi Giacobbe, autore del libro Bob Wilson in Italia

Mario Mattia Giorgetti, «Sipario»
Gigi Giacobbe da oltre undici anni collabora alla rivista «Sipario», e puntualmente ad ogni stagione segue spettacoli in Sicilia e in varie città d’Italia compresi i Festival che vengono proposti.
Quando scopri il regista Bob Wilson e quale è stato il primo spettacolo che hai visto?

Bob Wilson non è solo un regista ma un artista totale per il quale ogni spettacolo diventa un’opera d’arte unica e da incorniciare. Io l’ho scoperto la prima volta non in Teatro ma durante la Biennale di Venezia del 1993 quando nei Granai delle Zitelle si rese protagonista d’una installazione denominata Memory Loss, nella quale appariva la figura di un uomo col cranio rasato, cinto da un elmo di pelle, infossato fino alle spalle dentro un cretto fangoso. Lessi dopo che l’opera s’ispirava ad una lettera che Heiner Müller scrisse a Wilson nel 1987, dove descriveva una tortura mongola per trasformare i prigionieri in schiavi, strumenti senza memoria, appunto interrandoli nella steppa ed esposti al sole che essiccava l’elmo di pelle di cammello restringendosi sempre di più attorno alla testa, sicché i capelli erano obbligati a crescere all’interno del cuoio capelluto e così dopo cinque giorni, se il prigioniero sopravviveva, perdeva la memoria diventando un lavoratore che non causava problemi. L’anno seguente, nel giugno del 1994, ebbi modo di conoscere personalmente Bob Wilson proprio nella mia città, Messina, grazie a Gioacchino Lanza Tomasi, a quel tempo direttore artistico del settore musicale, che aveva inserito nel programma di quella stagione Alice ispirato all’opera di Lewis Carrol con le musiche di Tom Waits e Wilson a dipingere lo spettacolo con le sue magiche luci. Ricordo che, affascinato oltremodo dai colori delle varie scene, riuscii nell’intervallo a intervistare Wilson e pubblicare l’articolo alcuni giorni dopo sul «Giornale di Sicilia», col quale collaboravo da alcuni anni e che è stato inserito nel libro a lui dedicato.

Quali sono gli altri spettacoli che hai seguito di Bob Wilson?

In quell’intervista accennata prima, Wilson mi diceva che stava preparando per il Festival di Gibellina, direttore artistico era Franco Quadri, uno spettacolo sulla figura di Thomas Stern Eliot e sul suo poema La terra desolata, sintetizzato con l’acronimo del suo nome e cognome, appunto T.S.E., andato poi in scena in prima mondiale nel settembre dello stesso anno (1994) nel Baglio delle Case Di Stefano di Gibellina Nuova, che gli spettatori potevano seguire in piedi tra cumuli di sabbia e da varie angolazioni, come riferisco in una delle mie recensioni inserite nel libro in oggetto. Da Alice e T.S.E. in avanti e sino al 2022 ho cercato di non perdere gli spettacoli di Wilson in qualunque Teatro italiano venissero rappresentati. In tutto se ne possono contare ventisei e si possono leggere di seguito nel libro.

Ci puoi spiegare il fascino, sia estetico, sia dei contenuti, sia drammaturgico, che hai provato per questo regista, al quale hai dedicato un libro?

Come ho scritto in varie occasioni, ogni spettacolo di Wilson è un evento, un unicum che t’infonde allegria e un senso di benessere. Hai la sensazione di compiere un viaggio nel mondo dei sogni dove ogni cosa si può compiere, devi solo lasciarti andare, rilassarti e avverti che gli occhi ti sorridono e le orecchie vanno in giuggiole. Niente è casuale. Tutto è programmato, studiato nei minimi particolari. Le quinte e il fondo scena assumono tutti i colori d’una tavolozza. L’azzurro eccelle sugli altri, ma non mancano le varie tonalità dei rosa e dei viola. Le scene poi sono rigorose, dritte, geometrizzate, raramente flessuose, mentre gli attori hanno un trucco pesante, espressionista direi, altre volte sembrano sculture della pop art, in accordo con i costumi, sempre perfetti, fantasiosi e rigorosi. Quanto poi ai loro movimenti seguono rigorosamente le direttive di Wilson in accordo con una recitazione astratta, senza enfasi, efficace tuttavia, preferendo lavorare in particolare con gli attori tedeschi del Berliner Ensemble che per Wilson sono i migliori in senso assoluto, avendo tuttavia con Isabelle Huppert un feeling particolare d’intesa e di stima. Del resto è lui stesso a dire che il suo Teatro è in gran parte formale, non interpretativo. È successo pure, alcune volte, che Wilson abbia vestito lui stesso i ruoli di alcuni personaggi, non trovandoli, a mio avviso, soddisfacenti nel panorama teatrale internazionale. Ed eccolo al Goldoni di Venezia calarsi da solo nei panni di Amleto, di Krapp nell’ultimo nastro di Beckett o tingersi tutto di bianco in Lecture on nothing di John Cage, quest’ultimi due messi in scena al Teatro Caio Melisso di Spoleto.

Secondo te il ruolo dell’attore, per Bob Wilson, è messo in risalto, cioè è protagonista, oppure viene ridotto a puro elemento figurativo?

Come dicevo prima il ruolo dell’attore per Wilson è prettamente formale, non deve essere spontaneo e la sua spontaneità deve risaltare dal fatto che esegue dei movimenti precisi, quelli indicati da Wilson. Forse questo metodo può essere frustrante per un attore con un carattere particolare e una personalità ben precisa. Ma è così, altrimenti non lavori con Wilson, per il quale, credo, che l’attore sia come un colore di un tubetto spremuto dalle sue dita, che verrà poi sparso sulla tela secondo i suoi desideri e come piace meglio a lui. Il Teatro per Wilson è il lavoro di un artista cui associa movimenti, parole, luci, suoni, immagini e dove possono incontrarsi tutte le forme d’arte, comprese la musica, la danza e la recitazione.

Trovi che Wilson sia al servizio della parola teatrale o di un linguaggio carico di effetti scenici?

Per i suoi spettacoli credo che Wilson parta sempre da un testo scritto, dove le parole raccontano una storia, come è successo per L’opera da tre soldi di Brecht, per l’Odissea di Omero e per gli altri suoi lavori, verso i quali lui interviene personalmente con l’aiuto di suoi collaboratori fidati che confezionano tutto il plot. Certamente poi lo spettacolo assume i connotati di cui ho accennato prima, dove l’illuminotecnica gioca un ruolo importantissimo, come quando d’un protagonista viene messo in risalto solo il volto illuminato di verde, di viola o di rosso o altre parti del suo corpo e le musiche, invero sempre originali e accattivanti (spesso quelle di Philip Glass, Hans Peter Kuhn, Tom Waits, Kurt Weill, Lou Reed, John Cage o dei CocoRosie di Jungle book, l’ultimo spettacolo visto alla Pergola di Firenze) danno un senso compiuto ai suoi spettacoli.

Hai dedicato un libro a lui, americano, e non a uno dei grandi registi italiani: Strehler, Ronconi e altro. Perché?

Ho pensato alla domanda che mi poni, ma come tu sai io abito a Messina e raggiungere Roma o Milano, Avignone, Parigi etc.. è sempre una fatica non soltanto fisica, soprattutto per gli spostamenti in treno o in aereo. Certo mi sarebbe piaciuto fare un libro su Strehler o Ronconi che ho conosciuto meglio e in varie occasioni e mi piacerebbe adesso fare un libro su Carlo Cecchi, col quale ci sentiamo per telefono, ma lui abita nella periferia romana e dovrei trasferirmi io da quelle sue parti visto che conosco il suo aspetto oblomoviano. Non lo so. Vedremo.

Dedicarsi ad un libro, lo si fa per dare una conoscenza verso i lettori, oppure per soddisfare il proprio ego di critico?

Credo che sia per entrambe le cose, sulle quali predomina, parlo per me, la mia curiosità innata. Conoscere l’altro è un modo per conoscere sé stessi, lo diceva pure Socrate mi pare, ma nel caso specifico è un modo per avere una conferma di ciò che pensi dell’altro, sia sulla scena che nella vita di tutti i giorni. Insomma la mia curiosità predomina sulla vanità verso i lettori. Nel caso di Bob Wilson, ad esempio, anche se ci siamo incontrati tante volte, mi è mancata la parte umana del suo carattere, sapere molto di più di ciò che viene narrato nelle sue scolorite biografie, questo anche per colpa mia visto che, a differenza del francese, conosco male l’inglese e non riesco a fare una normale conversazione.

Dopo la pubblicazione, quali sono gli eventi che hai messo in atto per diffonderlo, promuoverlo?

Una volta pubblicato il libro ho cercato di farlo conoscere nella mia città, Messina, presentandolo in un locale all’aperto che si chiama ’A Cucchiara, giusto accanto al centrale Duomo attraverso i commenti del critico Franco Cicero e di Dario Tomasello, docente di letteratura e Teatro nell’Università cittadina, leggendo l’attore Gianfranco Quero qualche pezzo del libro. È seguita poi la presentazione all’interno del Festival Primavera dei Teatri di Castrovillari e certamente ci saranno altri luoghi dove presentare il libro.

Chi ha la distribuzione del libro e che tiratura ha fatto l’editore?

Prima di rispondere alla tua domanda, debbo dire che ero in apprensione circa la pubblicazione di questo libro, anche perché, tranne un testo di Franco Quadri, non è che esistessero libri su Bob Wilson. Ma ciò che m’incoraggiava era di sapere che nessuno lo aveva concepito nel modo che ho fatto io: quello cioè di riportare le recensioni dei suoi spettacoli in tutte quelle città italiane dove lui aveva lasciato il segno e io l’avevo seguito come un segugio. Sul modo poi come impostare il libro mi ero sentito con la mia amica Rita Cirio, noto critico teatrale de l’Espresso, e lei, incoraggiandomi, mi diceva che mi avrebbe inviato un articolo su Wilson riguardo ad una sua mostra di sedie a Parigi, (Wilson come è noto è un collezionista di tale oggetto), assieme ad una curiosa intervista fatta da Umberto Eco. Ho trovato poi tra le carte un articolo di Achille Bonito Oliva, che poi ho inserito nel libro e sono stato incoraggiato pure da una bella prefazione di Dario Tomasello e da una post-fazione, altrettanto bella, di Roberto Andò. Quando poi mi sono sentito per telefono con Mattia Visani, direttore della CuePress, che trovava oltremodo interessante pubblicare il libro, ho lanciato un grido di gioia. E così la CuePress ha distribuito il libro in tutta l’Italia, non conosco la tiratura che è stata fatta, ma credo che tutte le librerie, anche se non esposto in vetrina, come ha fatto Bonazinga di Messina, possono soddisfare ogni richiesta dei lettori.

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L’attore e il volto

«Hystrio», XXXV-4

Il volume raccoglie una selezione di saggi del critico europeo Leif Zern, mescolando ricordi autobiografici, recensioni a spettacoli teatrali, piccoli ritratti del mondo del cinema, analisi teoriche sull’arte attoriale. Da Ingmar Bergman a Lars Norén, fino ad autentici pilastri della tradizione scenica come Louis Jouvet, lo sguardo di Zern si sofferma sulla recitazione, l’immedesimazione dell’attore, […]
1 Novembre 2022

Gassman. Oltre il palcoscenico

Pierfrancesco Giannangeli, «Hystrio», XXXV-4

Un Gassman a tuttotondo. Vittorio, attore poliedrico capace di cavalcare i mezzi che la sua epoca gli offre, esce vincitore grazie al ritratto che ne fa Arianna Frattali, nel senso che il suo essere attore totale – dalla voce straordinaria e dalla fisicità imponente – gli consente di dominare la comunicazione dei suoi anni. E […]
1 Novembre 2022

Nel laboratorio creativo di Koltès

Diego Vincenti, «Hystrio», XXXV-4

«Non desidero che una cosa: essere capace di correre dei rischi», scrive Koltès nel marzo del 1968. Prima della rivoluzione. A neanche vent’anni. E proprio l’età acerba è al cuore della conversazione a distanza con la madre, per tutta la vita confidente privilegiata. È in quei giorni che il drammaturgo decide di dedicarsi al teatro. […]
20 Ottobre 2022

Dedicato a chi crede che scrivere un monologo sia...

Marina Cappa, «Tortuga Magazine»

Qualche giorno fa, mentre stava sbarcando dall’aereo a Firenze, una telefonata gli ha annunciato che aveva vinto ventimila euro. I soldi contano, anche per gli scrittori. Ma ben di più pesa stavolta il valore artistico di questo Premio nazionale della letteratura drammatica 2022. Il ministero della Cultura spagnola lo ha assegnato a Josep Maria Miró, […]
19 Ottobre 2022

I dieci anni di Cue Press al fianco di teatro e ci...

Nicola Arrigoni, «Hystrio»

Scommettere sull’editoria teatrale è un vero e proprio azzardo. A dieci anni di distanza dalla nascita della casa editrice Cue Press, la scommessa sembra essere vinta, ma con tutte le cautele che impongono il presente e soprattutto il futuro. «A pensarci bene non avrei mai immaginato di festeggiare il decennale di Cue Press, che per […]
17 Ottobre 2022

Milo Rau, Realismo globale

Maria Dolores Pesce, «dramma.it»

Che il Teatro sia o possa essere non solo aristotelica mimesi/rappresentazione ma soprattutto uno strumento per cambiare il mondo è oggetto di una riflessione antica che nella modernità si è fatta spesso più consapevole. Come l’alchimista sanguinetiano, il facitore di teatro combina in maniera singolare gli elementi della rappresentazione per produrre una materia estetica nuova […]
10 Ottobre 2022

Graces Anatomy. Dai corpi al testo

Emilio Nigro, «Persinsala»

A Lamezia Terme, Calabria tirrenica e centrale. Tra le province di Cosenza e Catanzaro, a un respiro dalla Costa degli Dei, probabilmente una delle più incantevoli d’Europa. Nella terra di ‘ndrangheta, evitando piagnistei dal sapore della commercializzazione dei dolori a fini di persuasione (pratica diffusa in regione), un presidio culturale, sociale, etico, punto di riferimento […]
9 Ottobre 2022

Compito del teatro, fin dalla sua nascita è stato...

Andrea Bisicchia, «Libertà Sicilia»

Secondo Claudio Bernardi, il Teatro Sociale non era altro che la «nuova frontiera della scena internazionale», da intendere come una summa del potere relazionale. In verità, si può affermare che compito del teatro, fin dalla sua nascita, è stato quello di utilizzare il palcoscenico per mettersi in relazione con l’Altro, evidenziando la sua funzione sociale […]
3 Ottobre 2022

Dalla Grecia arcaica alla Grecia di Pericle, il du...

Andrea Bisicchia, «Libertà Sicilia»

Esistono dei periodi e delle culture che sono contrassegnate dalla «scrittura» orale e altri che vedono l’affermazione della scrittura letteraria; entrambe utilizzano la parola con finalità narrative o teatrali. Possono essere, in generale, caratterizzate da periodi più o meno brevi, come accadde nella Grecia antica, prima dell’avvento di Pericle, quando la recitazione orale si contrassegnava […]