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Approfondimenti, interviste, recensioni e cultura: il meglio dell’editoria e delle arti da leggere, guardare e ascoltare.

Anton cechov
15 Gennaio 2025

Pubblicato da Cue Press Tutto il teatro di Anton Pavlovič Čechov

Valeria Ottolenghi, «Sipario»

Intanto grazie! Grazie per questo bel volumone con tutto il teatro di Čechov: il ringraziamento innanzi tutto a Mattia Visani, direttore della casa editrice Cue Press, e a Fausto Malcovati e Roberta Arcelloni che l’hanno curato con tanta competenza. Quante volte capita di andare a cercare questo o quel titolo di Čechov tra i nostri libri? Passando subito lo sguardo lungo gli Einaudi, collezione teatro. Personalmente ho anche altre edizioni – come per Molière e Shakespeare – ma certo mancava questa possibilità di passare da un testo all’altro con tanta agilità. E se ho il Platonov, ed. 1959, mi manca Spirito del bosco, qui ritradotto dopo molto tempo. E si legge nella nota introduttiva che così scriveva Čechov di questo testo «Odio questa commedia e cerco di dimenticarmene», ma si spiega poi come Zio Vanja, di sei, sette anni più tardi, sia figlio di quest’opera tanto detestata dall’autore.

La curiosità è grande. Vero! Già nelle prime pagine si colgono straordinarie affinità. «Il professore… vecchia mummia, stoccafisso erudito. Gotta, reumatismi, emicrania… E’ più geloso di Otello», si lamenta sempre, malgrado le sue molte fortune, una carriera universitaria con appoggi altolocati, parlando d’arte senza capirci nulla, vendendo ‘aria fritta’, e ha successo, famoso ovunque. Ed è anche un Don Giovanni, adorato dalla prima mogie, sorella di chi sta parlando, ne ha ora una seconda, bella e intelligente. «Mia madre, sua suocera, lo adora ancora e lui ancora le incute un sacro timore». Sì: qui già molto di Vanja. Ma forse l’autore aveva allontanato da sé Spirito del bosco con la memoria del suo fallimento in scena, poche repliche in un teatro privato, rifiutando quindi Čechov di pubblicarlo.

E’ Gorki a compiere una straordinaria sintesi, in qualche modo commovente, dello sguardo di Čechov, della sua scrittura: «Davanti a questa folla annoiata e grigia di esseri abulici, un uomo è passato, grande, intelligente, attento a tutto; ha osservato gli stanchi abitanti della sua patria… e ha detto loro con la sua bella voce sincera: ‘voi vivete male, signori!’». Ma c’è molto di più: i personaggi, i temi affrontati, le infinite questioni esposte spesso in forme nascoste, appena accennate tra le battute, risuonano meravigliosamente in ogni tempo. Si è recensito da poco Il giardino dei ciliegi per la regia di Leonardo Lidi (e con la traduzione dell’amato Malcovati: è sempre una gioia incontrarlo ai festival, ai convegni, e sempre s’impara): slitta il tempo, mutano alcuni caratteri (il fratello diviene sorella, la governante un attore – e sono solo degli esempi), ma l’opera conserva la sua energia, sospesa tra umorismo e malinconia. Lopachin canta Ritornerai di Bruno Lauzi, e tutti sembrano dei sopravvissuti a un tempo ormai finito, di cui non conviene avvertire la nostalgia. 

Ma se si cerca nella memoria (e su YouTube) si trovano interpretazioni simboliste, a cabaret, riconoscendo subito Strehler, le battute lente, il biancore aristocratico. Jean Vilar riconosce il percorso di rifinitura, di ricerca dell’essenzialità in Čechov e, facendo riferimento a Platonov, che nell’introduzione a questo bel volume Cue si ricorda come non fosse ripubblicato da tempo, scrive di «brogliaccio, capolavoro… Tutto è bello, ma, sembra, irrecitabile… bisogna ammettere che il giovane scrittore ha saputo imporsi fin d’allora un cammino severo per raggiungere la chiarezza, l’ordine drammaturgico del Gabbiano o del Giardino dei ciliegi», sottolineando come Čechov segni una svolta definitiva per il teatro: «All’alba di questo XX secolo non è soltanto Dio che è morto, non è soltanto nella vita e nella morale che tutto è possibile. E’ morta anche, e per sempre, la concezione aristotelica del teatro. Si può fare tutto. Tutto è permesso. Tutto è possibile», ricordando la data di morte del grande autore russo, 1904. Già: l’alba del XX secolo. 

Anche Ettore Lo Gatto, nell’introduzione al già citato Platonov, evidenziava come lo studio dei tagli da parte di Čechov a quel lavoro giovanile «mirasse già a quella precisa caratterizzazione dei suoi eroi dal duplice punto di vista, psicologico e ambientale». Una meraviglia poter passare da un’opera all’altra in questa volume Cue, il primo della collana I Grandi se non si sbaglia. Anche Vittorio Strada evidenzia questo percorso di accurato rigore che è nello stesso tempo innovazione: «Rispetto alle prime prove drammatiche la tetralogia non è semplicemente una fase più matura: essa ha il senso di un passaggio dalla naturalità all’astrazione… così in Čechov dal dramma tradizionale si arriva, in tutta la tetralogia, ma soprattutto nelle Tre sorelle e nel Giardino dei ciliegi a quell’opera astratta come una sinfonia di Čajkovskij’ di cui parlava Mejerchol’d».  

E non si può dire di Čechov senza nominare il Teatro d’Arte, Stanislavskij: sono noti i dissensi tra autore e regista. E’ Angelo Maria Ripellino, in Il trucco e l’anima. I maestri della regia nel teatro russo del Novecento a ricordare come Čechov considerasse in particolare Il giardino un’allegra commedia, «quasi un vaudeville», e invece il regista «un pesante dramma di vita russa». Tuttavia Stanislavskij sembra riconoscere a Čechov, ripensato a distanza, il suo autore e amico ormai deceduto, quell’aspetto del carattere rintracciabile anche nelle opere: «Dove c’era lui, anche malato, regnava spessissimo la parola scherzosa, lo spirito, la risata ed anche la farsa. E capita così anche nelle sue opere».

«Andiamo a teatro per trovare la vita, ma se non c’è differenza tra la vita fuori dal teatro e quella al suo interno, allora il teatro non ha più senso. Non c’è nessuna ragione di farlo. Ma se accettiamo il fatto che la vita nel teatro è più visibile, più vivida che all’esterno, allora riusciamo a capire come sia contemporaneamente la stessa cosa e qualcosa di diverso…». Perfetta la definizione di teatro in Peter Brook, di cui si ricorda con emozione di aver visto, nel suo teatro a Parigi, il Théâtre des Bouffes du Nord, Ta main dans la mienne, tratto dalle lettere che per sei anni Anton Čechov e sua moglie, l’attrice russa del Teatro d’Arte Olga Knipper, si scambiarono, spesso distanti per la malattia di lui, la passione del teatro di lei, protagonisti Natasha Parry, moglie di Peter Brook, e Michel Piccoli.

Spiega ancora Peter Brook in La porta aperta: «La vita nel teatro è più leggibile ed intensa perché è più concentrata. Nella vita parliamo per mezzo di un disordinato chiacchiericcio fatto di ripetizioni… La compressione consiste nel rimuovere tutto quello che non è strettamente necessario e nell’intensificare ciò che rimane, come mettendo un aggettivo forte al posto di uno più blando pur conservando l’impressione della spontaneità». Quale l’esempio perfetto? Čechov naturalmente!: «Con Čechov, il testo dà l’impressione di essere stato registrato su nastro, di prendere le sue frasi dalla vita di ogni giorno. Ma non c’è frase di Čechov che non sia stata cesellata, levigata, modificata con grande arte e maestria, così da dare l’impressione che l’attore stia parlando ‘come nella vita di ogni giorno’… bisogna essere consapevoli che ciascuna parola, anche se ha l’aria di essere innocente, non lo è…».

Pensiero verificabile: per molti testi drammaturgici, per Čechov in particolare. Tutto è necessario, ogni parte si relaziona con le altre, in una struttura ‘leggera’ e potente. Meyerhold in La rivoluzione teatrale critica l’eccesso di ricerca naturalistica stanislavskijana: «si potrebbero citare un’infinità di esempi delle assurdità cui è giunto il teatro naturalista seguendo il principio della riproduzione esatta della verità» e riprende frammenti di dialoghi tra Čechov (turbato all’idea che per il Gabbiano si sarebbero uditi «il gracidio delle rane, il frinire delle cicale, l’abbaiare dei cani») e alcuni attori del Teatro d’Arte. Di fronte alla difesa del realismo, Čechov risponde con parole che paiono rendere eco quelle di Peter Brook: «La scena è arte, riflette la quintessenza della vita e non vi si deve introdurre nulla di superfluo».

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De filippo eduardo
1 Gennaio 2025

Le strade non percorse

Raffaella Di Tizio, «L’Indice», XLI-1

Torna sul mercato editoriale un libro importante sul teatro italiano del Novecento, che è anche una lezione di metodo sul modo di costruirne la storia. La nuova edizione di Fra Totò e Gadda. Sei invenzioni sprecate dal teatro italiano (la prima, Bulzoni, 1987) ha il volto dell’autore in copertina, come ad avvisare che si entrerà, leggendo, nel vivo del pensiero di Claudio Meldolesi (1942-2009), riconosciuto innovatore della nostra storiografia teatrale. Qui lo si può seguire mentre indaga aspetti trascurati dalle narrazioni canoniche, fermandosi a esplorare le incoerenze interne ad alcune storie note, come quelle di Giorgio Strehler ed Eduardo De Filippo, aprendo squarci che gettano una luce nuova su tutto il paesaggio circostante. Al centro del volume alcune esperienze ‘scoraggiate dal teatro italiano’ fra gli anni trenta e cinquanta, cioè in quella fase in cui si andò consolidando, tra fascismo e dopoguerra, un sistema chiuso di valori condivisi, derivato dai condizionamenti delle dinamiche produttive (la nuova prassi delle sovvenzioni), dal pensiero medio sul teatro, da abitudini di critici e spettatori.

Meldolesi prosegue qui un discorso iniziato con Fondamenti del teatro italiano. La generazione dei registi (Bulzoni, 1984), dove osservava il pluralismo degli inizi della regia italiana, prima che prendesse spazio l’idea che voleva i registi come mediatori tra testo e pubblico, come allestitori, dimenticando la ricchezza inventiva e drammaturgica della regia europea l’efficacia della tradizione degli attori.

In Fra Totò e Gadda costruisce il suo racconto attraverso saggi a sé, ognuno dedicato a una voce centrale – ma non sempre riconosciuta allora come tale, come nel caso di Totò – della storia teatrale nazionale. Protagonisti, oltre a Totò e Gadda, De Filippo e Strehler, sono Mario Apollonio (storico della letteratura determinante per i suoi studi sul teatro) e Luigi Pirandello. Nomi in gran parte noti. Cosa hanno a che fare con lo spreco?

Totò ci pare familiare per i suoi film, ma al cinema, racconta Meldolesi, era passato tardi, con poca convinzione. Vi trovò spazio per coltivare la sua indipendenza: «Nessun film poté tuttavia restituire l’espressione sovversiva delle sue corse, delle sue furie nello spazio del teatro». Era il maggiore attore teatrale del suo tempo, ma non se ne accorse una critica che non dava peso a varietà e rivista, i generi in cui aveva costruito la sua efficacia espressiva.

De Filippo, scrive, è stato accolto nel pantheon culturale italiano negando consistenza al centro della sua ricerca, la volontà di rigenerare «su base attorica e dialettale» il teatro nazionale. Fu una perdita, come lo fu sottovalutare la maggiore invenzione di Apollonio: la scoperta e valorizzazione della cultura degli attori – invisibile a molti suoi contemporanei, che al teatro guardavano con paternalismo da colonizzatori. E spreco fu dimenticare l’importanza delle ricerche giovanili d’avanguardia di Strehler, rinnegate per l’idea che voleva allora la sperimentazione non in linea con le esigenze del presente.

Il libro procede per affondi imprevisti, come quello sulla natura profonda dei testi di Pirandello, messa a fuoco analizzando significative messinscene e ricordando la permeabilità che i suoi drammi ebbero anche per l’autore, fattosi regista, di fronte al concreto lavoro degli attori. Si scopre poi che l’esperienza del teatro fu per Gadda romanziere particolare laboratorio di scrittura, e che se non divenne compiuto autore per la scena fu forse solo per ‘disattenzione’ dei registi.

Contano per Meldolesi anche le strade non percorse. In queste pagine invita a guardare come rivelazioni ad aspetti che sembrarono stranezze, segni della presenza di «una ricchezza passata che non ha smesso […] di trasmettere le sue energie». Sotto ogni «invenzione sprecata» stanno semi di possibilità teatrali inespresse. Così che il libro sembra guardare al passato, mentre parla ancora di nuovi futuri teatri possibili.

Foto 2 mosaic depicting theatrical masks of tragedy and comedy thermae decianae
30 Dicembre 2024

Capire il teatro? Missione possibile

Nicola Arrigoni, «Sipario»

Si crede che un’azione di diffusione e ri-considerazione dei linguaggi scenici parta anche e soprattutto dagli strumenti che si possono avere per leggere lo spettacolo dal vivo. Ecco allora che l’azione di una casa editrice può diventare protagonista di una necessità: non tanto e non solo fare il punto sugli studi delle arti performative, ma cercare di trovare i riferimenti per leggere ciò che accade sulla scena, per offrire tali strumenti agli spettatori/lettori. In questo impegno sembra essere proiettata la casa editrice Cue Press, diretta da Mattia Visani, che propone una serie di titoli che fanno riferimento alla semantica dei linguaggi performativi, ne forniscono il glossario e le modalità di fruizione. Si parla da sempre dell’educazione alla visione e si crede che questo possa essere un modo per dare opportunità di leggere e avere modalità di accesso alla scena e alle sue lingue. Tanto più in un periodo come quello attuale che vive una sorta di disegno di restaurazione e di ritorno alla tradizione contrapposto a una natura performativa sempre più stringente delle esperienze indipendenti. Questa bipolarità schizofrenica, oppure consolidata dalle divisioni che da sempre esistono nel teatro, impone una sorta di bussola di orientamento, impone una sorta di alfabetizzazione per recuperare ciò che si è scordato e per inquadrare, almeno tentarci, ciò che ci pare insolito, nuovo e spesso poco comprensibile. È in questa ottica che ci piace leggere alcune uscite editoriali di Cue Press che con convinzione e determinazione ha colto l’eredità della gloriosa casa editrice Ubulibri, diretta da Franco Quadri. In questa pur parziale proposta di volumi, si vuole offrire una panoramica atta a cercare di mettere punti fissi, a fornire gli ingredienti per orientarsi nelle arti della scena.

Vocabolari per capire il teatro

«Il teatro è un’arte fragile, effimera, particolarmente esposta all’influenza del momento. Nessuno potrebbe rendersene conto, senza essere pronto a ridiscutere ogni volta i propri fondamenti teorici e, dunque, a correggere costantemente la teoria critica deputata a divenire fenomeno di teatro», scrive Patrice Pavis nella prefazione al suo Dizionario del teatro, a cura di Paola Ranzini e Paolo Bosisio, pubblicato da Cue Press (pagine 522, euro 55,99). Si parte dalle parole accessoriattrezzeria per chiudersi col lemma voce fuori campo. In mezzo c’è il mondo c’è il significato di comico, come quello di messinscena, l’inafferrabile mutazione del termine drammaturgia come il non meno imprevedibile mutar dell’attore e del performer. «L’opera si fonda, oltre che sulla vasta e sempre aggiornata cultura scientifica e filosofica dell’autore, sulla sua straordinaria esperienza di spettatore, necessaria, quanto la prima, per garantire un accostamento nutrito di concretezza a un settore dell’arte che più di altri, probabilmente, risente della materialità del suo agire e del suo configurarsi», scrivono Ranzini e Bosisio. Nella lettura delle varie voci – tutte o quasi corredate di una bibliografia di approfondimento – è possibile tenere conto di una lettura tematica, indicata ad inizio di volume dalla suddivisione delle parole analizzate per temi: Attore e personaggio, Drammaturgia, Generi e forme, Messinscena, Principi strutturali e questioni estetiche, Ricezione e Testo e discorso. Già da queste voci che raggruppano altri lemmi si intuisce come l’approccio di Patrice Pavis sia essenzialmente di carattere semiotico e spostato sulla comunicazione che intercorre fra palco e platea, un aspetto quello della costruzione e della ricezione del testo teatrale e performativo che emerge e che non può liquidare il testo di Patrice Pavis semplicemente come un vademecum alla visione, ma piuttosto come un’immersione nella struttura comunicativa ed estetica dell’atto teatrale. 

Il Lessico del dramma moderno e contemporaneo di Jean Pierre Sarrazac, a cura di Davide Carnevali (Cue Press, pagine 186, euro 34.99), parte dalla A di Azione per chiudersi con la V di Voce, offrendo al lettore una cinquantina di voci che permettono di costruire una sorta di guida al mutamento e alla trasformazione del dramma moderno e contemporaneo, partendo dagli ultimi decenni del XIX secolo fino ad arrivare ai giorni nostri. Il volume è l’esito del lavoro del Groupe de Recherche sur la poétique du drame modern et contemporain, coordinato da Sarrazac e per questo frutto di una polifonia di sguardi e di intenti che rendono ogni voce a sé stante, per quanto componente un quadro ben preciso: andare alla scoperta della necessità di destrutturazione del dramma, iniziato nella seconda metà dell’Ottocento e arrivato fino alle forme di post-drammatico dei giorni nostri. Sullo sfondo c’è «l’idea di una crisi senza fine nei due sensi del termine. Di una crisi permanente e di una crisi senza soluzione, senza orizzonte prestabilito. Di una crisi che si esprime interamente attraverso vie di fuga imprevedibili», si legge nella prefazione a cura di Marco Consilini. A questo fanno riferimento i diversi lemmi, a questo contesto guardano le voci di un lessico che va in cerca della rottura delle tradizionali forme di rappresentazione. Ciò che offre questo Lessico del dramma moderno e contemporaneo è uno spaccato sul mutare delle forme drammaturgiche nella consapevolezza che la storia dell’arte non è determinata da idee ma dal loro realizzarsi in forme. 

Nel segno della semantica teatrale si pone anche il volume Lingua orale e parola scenica, a cura di Vera Cantoni e Nicolò Casella (Cue Press, pagine 196, euro 29,99) in cui viene analizzato il rapporto fra parola e vocalità, aprendo uno scorcio di analisi sul legame che esiste fra scrittura e voce, fra parola e il suo farsi nell’azione dell’attore. «La parola teatrale si presenta per sua natura come parlata, sebbene in molti casi la sua origine sia letteraria: il suo medium è costantemente orale, ma la sua concezione variabile. Questo scarto, insieme all’ulteriore passaggio che vede i testi drammatici spesso conservati in forma scritta, costituisce la premessa fondamentale della complessa rete di potenzialità espressive per gli artisti», si legge nell’Introduzione del volume che raccoglie una serie di interventi che spaziano da Cechov e l’oralità di Fausto Malcovati alla riflessione sulla lingua scenica nelle Baccanti di Euripide a cura di Maria Appaia, oppure dalle Lingue nuove di Federico Tiezzi, indagate da Carla Russol, al dialetto di Marco Paolini, su cui si è concentrato Juan Pérez Andrés, solo per citare alcuni dei contributi. Ma perché inserire questo volume nella sezione dei dizionari? Perché si crede che i diversi interventi e casi di studio possano rappresentare altrettanti voci di un ideale dizionario sull’oralità nel teatro, sulla possibilità di offrire indicazioni di merito rispetto alle trasformazioni della lingua dalla pagina scritta alla scena o viceversa. 

Perché il teatro? 

Fornite le parole e i loro racconti è ora di chiedersi in cosa il teatro ci tocchi, perché ancora ci coinvolga? E quando questo non accade per quale motivo sentiamo ciò che succede sulla scena a noi estraneo? La proposta è, in questa sede, duplice: da un lato la guida all’analisi dello spettacolo, dall’altro la possibilità di affidarsi alla guida di maestri della scena che introducano lo spettatore nel loro mondo scenico. Il tutto è pensato come uno stimolo per la costruzione di uno spettatore consapevole o, perlomeno, attrezzato sui contenuti e sulle forme dello spettacolo dal vivo. A questo obiettivo punta Patrice Pavis col volume L’analisi degli spettacoli. Teatro, mimo, danza, teatro-danza e cinema, a cura di Dario Buzzolan e Roberta Cortese (Cue Press, pagine 356, euro 37,99) in cui l’autore metta a punto una vera e propria guida alla fruizione degli spettacoli dal vivo, partendo dai presupposti di analisi per approdare all’analisi dei componenti della scena: attore, voce, musica, ritmo, ma anche spazio, tempo e azione e poi scene, costumi, trucco e luci per approdare infine a testo in scena. C’è poi un’ampia sezione – dal taglio nettamente semiotico – dedicato alle condizioni della ricezione per arrivare al punto di vista dello spettatore. Con rigore scientifico e straordinario dono della sintesi Patrice Pavis mette il lettore davanti a una marea di informazioni, decostruisce l’atto teatrale, lo scompone, lo analizza, ne documenta i diversi punti di vista analitici per offrire un panorama di studi e di idee davvero ampio e che si concentra in pagine dense di significato, impegnative ma estremamente fruibili nella loro scansione argomentativa. E se in un certo qual modo il titolo stesso del volume di Pavis pone il lettore nei panni di un chirurgo delle forme e della creatività scenica, gli altri due volumi che si segnalano per una alfabetizzazione alta dello spettatore fanno riferimento a un’analisi dall’interno, hanno un afflato esperienziale che ha la meglio su tutto e soprattutto sull’astrazione pura, di cui forse pecca un poco il volume di Pavis.

È allora un racconto caldo e polifonico quello che Corrado D’Elia e Sergio Maifredi costruiscono in Strade maestre (Cue Press, pagine 226, euro 24,99) che propone una serie di conversazioni e incontri con i maestri della scena Eugenio Barba, Lev Dodin, Stefan Kaegi, Antonio Latella, Ariane Mnouchkine, Thomas Ostermeier, Milo Rau, Peter Stein, Krysztof Warlikowski. I due autori accompagnano in un viaggio reale ed emotivamente narrato a incontrare i maestri della scena contemporanea. Da quegli incontri fuoriescono non solo i ritratti degli artisti, ma anche l’analisi della loro ricerca, il loro pensiero sul teatro e le sue estetiche. Ed è questo il bello del volume Strade mastre, gli artisti si raccontano a ruota libera, dicono del loro rapporto col teatro, dei loro successi come degli insuccessi, offrono al lettore uno spaccato della creatività scenica e del pensiero sulla scena che profuma di autenticità e del calore che caratterizza ogni incontro basato sulla disponibilità al racconto. Dopo le analisi affidate alla semiologia, il volume Strade maestre immette nella carne e nel cuore del teatro, vissuti dai maestri della scena contemporanea. Ed allora la chiusura di questa carrellata per spettatori che leggono non può essere la domanda Why theatre? che si pongono Milo Rau, Kaatje De Geest e Carmen Hornbostel nel volume curato da Andrea Porcheddu (Cue Press, pagine 164, euro 22,99), interrogativo a cui alcuni dei maestri della scena contemporanea cercano di dare risposta. Jerome Bel, Anne Teresa de Keersmaeker, Gisèl Vienne, Amir Reza Koohestani, Angelica Liddell, Toshiki Okada, Alain Platel sono alcuni degli artisti che si confrontano con l’interrogativo: Perché il teatro? Può essere consolante che la stessa domanda con cui si è aperta questa guida possibile e parziale ai linguaggi performativi appartenga non solo a noi spettatori, ma sia in primis di chi si misura direttamente con i linguaggi della scena. Verità definitive non ci sono, ricette magiche che il mondo definisca, neppure. Ciò che rimane è la nostra curiosità, la voglia di mettersi in dialogo, magari con qualche strumento d’analisi e consapevolezza in più, fornito da buone letture. Questo lo scopo del viaggio fra le pagine che cercano di ingabbiare quel corpo volatile e mutevole che è il teatro e le sue multiformi espressioni di creatività.

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Barba e maifredi
29 Dicembre 2024

Altro che epoca senza maestri: in teatro esistono ancora (e ce n’è un gran bisogno)

Marco De Marinis, «il Fatto Quotidiano»

È diventata ormai un luogo comune, quasi sempre soffuso di passatismo nostalgico, la lagnanza sul fatto di vivere in un’epoca ‘senza maestri’. Ma è davvero così? Molto dipende da cosa si intende per maestri e da dove andiamo a cercarli. Che si viva, da tempo, in un’età post-ideologica, orfana delle grandi narrazioni novecentesche, è un dato di fatto. Come pure la crisi della figura (l’intellettuale, il maître à penser) che era stata sicuramente una protagonista, nel bene e nel male, delle vicende storiche e culturali del secolo scorso.

Se poi guardiamo al piccolo mondo del teatro, la sensazione di orfananza, di perdita di riferimenti inoppugnabili, appare diffusa e non da oggi. Quasi trent’anni fa, mi trovai a parlare di un teatro, quello di fine secolo, ‘dopo i maestri’. Intendendo con questo non che i maestri non ci fossero più, o non ci fossero stati, ma che la nuova generazione teatrale, quella che aveva debuttato negli anni Novanta, tendeva a farne a meno, a presentarsi orfana appunto, per meglio sottolineare una discontinuità rispetto ai modelli e alle tendenze che avevano dominato la scena dal dopoguerra in avanti, insomma la necessità di un azzeramento e di una ripartenza alleggeriti dal fardello della tradizione, fosse pure quella del nuovo, dalla neo-avanguardia al Terzo Teatro.

Dunque, una condizione più scelta che subìta, più soggettiva che oggettiva. Perché intanto i maestri, o comunque vogliamo chiamare le figure più prestigiose della scena contemporanea, continuavano a esistere e ad operare: da Carmelo Bene a Luca Ronconi, da Dario Fo a Leo de Berardinis, da Jerzy Grotowski a Eugenio Barba, da Peter Brook ad Ariane Mnouchkine.

Nel 2023 è uscito un libro ‘inattuale’, di cui sono autori un attore regista, Corrado D’Elia, e un regista direttore, Sergio Maifredi, i quali sulla questione vanno decisamente controcorrente, partendo dalla convinzione che i maestri esistono eccome e ce n’è ancora un gran bisogno (Strade maestre. I Maestri del teatro contemporaneo, Cue Press). Tant’è che decidono di viaggiare in tutta Europa per incontrarli. Fra l’altro, ciò accade proprio nel momento meno propizio per girare il mondo, il periodo della pandemia da Covid 19, fra 2021 e 2022.

D’Elia e Maifredi si mettono in viaggio avendo stilato la loro lista e, nonostante le gravi difficoltà del momento, riusciranno ad incontrarli tutti tranne uno, il russo Lev Dodin, che non il Covid ma lo scoppio della guerra in Ucraina renderà impossibile raggiungere. In ordine di apparizione nel libro abbiamo: Peter Stein, Eugenio Barba, Stefan Kaegi (Rimini Protokoll), Thomas Ostermeier, Ariane Mnouchkine, Milo Rau, Antonio Latella, Krzysztof Warlikowski.

Alle interviste, ampie e ricche di spunti, si aggiungono brevi annotazioni introduttive e conclusive, molto legate alla città in cui si svolge l’incontro e alle sue suggestioni. Le conversazioni non seguono sempre lo stesso schema, adattandosi alla personalità di ciascuno degli intervistati. Ma hanno ovviamente dei motivi ricorrenti, come l’intreccio fra arte e vita, il lavoro con gli attori e il rapporto con gli spettatori.

Naturalmente il vero leitmotiv è costituito dal tema dei maestri, riproposto con forza ad ogni incontro. Tuttavia le risposte che i due ottengono non sono forse quelle che si aspettavano. Sono in pochi a condividere in pieno l’idea che la perdita o piuttosto il non riconoscimento dei maestri sia un danno serio per il teatro di oggi (Stein e in parte Mnouchkine). Prevale invece un certo distacco e una evidente evasività (Latella: «ho avuto degli shock, non propriamente dei Maestri»), che in qualche caso diventa aperto disinteresse (Warlikowski) o vero e proprio dissenso (Ostermeier: «Bisogna prendere le distanze da questo concetto di Maestro»). Colpisce, come al solito, la lucidità disincantata di Eugenio Barba, che, da vero maestro, prima elegge a propri maestri i suoi attori e poi aggiunge: «Per quanto riguarda gli eredi: non esistono in teatro, sono soltanto un’illusione. Pensate al povero Stanislavskij o a Brecht. La sola eredità che puoi lasciare è una coerenza di vita […]. Non ho voglia di eredi».

Alla fine, il libro-viaggio trova il suo vero senso: «Ecco, quindi, che il nostro viaggio verso i Maestri ci si rivela ora per quello che davvero è stato: ancora una volta un viaggio di iniziazione, di realizzazione e di risveglio. […] Il viaggio, il chiedere e l’incontrare ci hanno rivelato noi stessi».

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Dostoevskij
12 Dicembre 2024

La vita di Dostoevskij

Giuseppe Costigliola, «Eurocomunicazione»

«L’incontro con uno scrittore è sempre una verifica del proprio sistema di vita»: apre così Fausto Malcovati la premessa al suo Un’idea di Dostoevskij (Cue Press, pp. 128), spigliata e conchiusa guida introduttiva alla biografia e alle opere del grande romanziere russo. Concetto fondamentale, valido non soltanto per chi, come lui, è apprezzato docente di lingua e letteratura russa, traduttore e critico teatrale, ma per tutti coloro che si approcciano all’arte narrativa con spirito critico, cuore e mente aperti, con la consapevolezza che una lettura può anche mutare il corso della propria vita.

Pericolo (o desiderio) ben concreto nel caso di Dostoevskij, considerati gli immortali capolavori che ci ha donato, che pongono quesiti fondamentali sul significato dell’esistenza, sulla umanità della nostra specie.

Un invito alla lettura

In uno stile piano e coinvolgente, con un linguaggio accessibile che evita tecnicismi eccessivi, il lucido uso di fonti primarie, in particolare le lettere, Malcovati conduce il lettore – neofita o avvertito che sia – in un percorso affascinante attraverso la vita e le opere dello scrittore russo, offrendoci una chiave per comprendere la complessità del corpus letterario di Dostoevskij. Si sofferma sui punti salienti della biografia, dall’adolescente ‘serio e pensoso’ alle drammatiche esperienze della detenzione e dei lavori forzati in Siberia, la viscerale passione per la politica, i complicati rapporti con l’editore Stellovskij, gli amori e i lutti familiari. L’esistenza tormentata è abilmente intrecciata all’analisi dei romanzi: emerge da queste pagine il legame indissolubile tra vita e letteratura, forse il ‘segreto’ della grande forza di autenticità dell’immortale arte dostoevskijana.

L’autore non si concentra sulla pura analisi testuale: questo è un invito alla lettura, uno stimolo a immergersi direttamente nei romanzi, a riflettere sulla complessità della natura umana e sulle ineludibili domande esistenziali. Maggiore attenzione è dedicata alle opere maggiori – Delitto e castigoL’idiotaI fratelli Karamazov – con spunti di riflessione sulla psicologia dei personaggi e sulle universali tematiche ivi affrontate. Ecco quindi scorrere sulle pagine i grandi temi dostoevskijani: il bene e il male, la fede e l’ateismo, la sofferenza e la redenzione, la libertà e il determinismo, l’amore e l’odio, la rivoluzione e l’organizzazione della società.

Scoprire la gioia

Non manca l’ultimo atto dell’attività letteraria di Dostoevskij: il discorso su Puškin, pronunciato in occasione dell’inaugurazione del monumento eretto per il leggendario personaggio, nel 1860; Dostoevskij vedeva in lui il grande interprete dell’anima russa, il paladino di una missione grandiosa: rappresentare l’universalità dell’anima russa, capace di realizzare il messaggio evangelico. Il volume si chiude con una sezione dedicata al dibattito critico, una cronologia della vita e delle opere e un’utile bibliografia di riferimento. Questo libro giunge in un momento delicato, segnato dal tragico conflitto in atto tra Russia e Ucraina. Il messaggio di pace e di concordia che si leva poderoso dalle pagine del grande scrittore russo, che seppe indagare con indomito coraggio i luoghi più bui dell’animo umano, assume dunque maggior forza, ci indica una nuova via. E, come ci indica l’autore, leggendo Dostoevskij potremmo imparare a scoprire la gioia, rarità quasi estinta nel Mondo odierno.

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Fellini set amarcord
5 Dicembre 2024

Cosa vuol dire fare il regista? Ce lo dice Fellini in un libro

Davide Dal Sasso, «Artribune»

Di tutta quella meravigliosa impresa che solitamente chiamiamo ‘fare arte’, ne sappiamo davvero poco. Va così perché dalle opere difficilmente possiamo risalire con agilità a quello che hanno fatto le artiste e gli artisti per crearle. Avere una idea dei processi e delle attività che determinano la realizzazione di dipinti o sculture, di pièce di teatro e danza o dei frutti della musica, non è facile. Le cose sono ancora più complicate quando abbiamo a che fare con il cinema, arte nella quale oltre alle immagini in movimento dobbiamo considerare anche regie e sceneggiature, abilità attoriali e strutture narrative, usi della macchina da presa e montaggio, costumi scene suoni e musiche. Dunque, come si procede? 

Il libro Il mestiere del regista con le parole di Federico Fellini 

Reagendo alla rassegnazione, la strada percorribile è tracciata dalle riflessioni delle artiste e degli artisti sui momenti di escogitazione e sviluppo del loro lavoro. Se possibile, dunque, la via è parlarne direttamente con loro. Sono infatti proprio le parole di Federico Fellini (Rimini, 1920 – Roma, 1993), in risposta alle domande ben poste da Cirio, a dare forma alle tre conversazioni che compongono il libro. La prima è dedicata alla figura dell’attore, la seconda a quelle dei produttori e del regista, la terza al mestiere di quest’ultimo. A contraddistinguerle sono sicuramente la schiettezza e la puntualità di uno dei più grandi registi del Novecento che con freschezza intona ricordi e fantasie muovendosi nel tempo tra esperienze teatrali e cinematografiche. Completa il libro l’intervista di Ottavio Cirio Zanetti a Nicola Piovani dedicata al lavoro con Fellini e al suo rapporto con la musica. 

Inquietudini e fosforescenze. Il cinema di Federico Fellini 

Il libro pubblicato da Cue Press ha il merito di offrire a lettrici e lettori quell’invito speciale ad avvicinarsi a Fellini senza girare troppo intorno ai temi che vengono brillantemente evocati da Cirio che guida con metodo le conversazioni. C’è sempre qualcosa di sorprendente nelle imprese di attrici e attori. Fellini descrive questa condizione ricordando come già da bambino avvertisse la forza della recitazione quasi fosse un fenomeno che potesse essere «contagioso» (p. 11), una esperienza basata su un misto di irrequietezza e sorpresa. Sentimenti non così elementari come potrebbero sembrare, specie se si pensa al modello di attore prediletto da Fellini, che non era né quello incarnato dai divi del cinema internazionale né quello dei cowboy. Piuttosto che l’eroe vittorioso il regista de La dolce vita apprezzava l’eroe positivo, «un eroe buffo, sfortunato a cui capitano le cose più catastrofiche» (p. 12). Ecco anche da dove traeva origine quel suo beffardo interesse per i pagliacci del circo, nonché – ampliando la prospettiva – direttamente per quest’ultimo più volte raffigurato nei suoi film.  

La recitazione secondo Federico Fellini 

Ora, se da una parte la questione della recitazione era influenzata da una inquietudine, descritta da Fellini che si rimette nei panni del (giovanissimo) osservatore quale era stato più volte; dall’altra, la medesima questione risentiva inevitabilmente di fascinazioni rese possibili da doti umane e più che umane proprie di attrici e attori. Recitare significa mostrarsi, affrontare il buio della sala o la vicinanza della macchina da presa, esporsi ai giudizi. Fellini, che ha spesso lavorato guidato dall’ingegno del disegnatore nella costruzione delle scene e dalla sua sensibilità rispetto alle vicende attoriali, era interessato a quella linea sottile tra realtà e finzione senza tuttavia perdere di vista anche la compresenza del ‘fattore umano’. Le attrici e gli attori, osservava, si portano addosso una sorta di aura, «una sorta di fosforescenza, che poi riesce a mantenersi anche nella vita, non solo sul palcoscenico» (p.15) e neppure solo sullo schermo. 

Fellini: attore, sceneggiatore e infine regista 

A questo punto si dirà che non sia del tutto chiaro che cosa c’entrino queste acute osservazioni con l’esercizio della professione di Fellini. Quello del regista è un mestiere che ha origine ben prima dell’uso della macchina da presa e della direzione di attrici e attori. Si radica e si sviluppa nelle pagine piene zeppe di note e appunti, in abbozzi di volti e scene, nei canovacci preliminari di qualche storia: soprattutto, nella fine osservazione delle attività umane. Fellini ne dava già prova con le sue esperienze da sceneggiatore e con le poche apparizioni come attore, rispetto alle quali si esprime nel libro con numerose osservazioni senza tralasciare di menzionare la sua naturale timidezza. 

Il Fellini regista. Le sfide al mestiere 

Come noto, spesso inaspettatamente, la ritrosia si rivela essere un’ottima risorsa proprio per affinare l’osservazione. Già, ma per fare cosa? Per esempio, per riuscire a ‘coltivare la propria immaginazione’ stando anche lontano dai riflettori. Il mestiere del regista trae origine anche da tali possibilità. Fellini, infatti, chiarisce a un certo punto: «nei miei film alcuni sono degli attori veri, dei professionisti, altri soltanto delle facce che mi seducono, che ho scelto perché rispondevano a quello che avevo immaginato» (p. 18). Nel libro aneddoti e riflessioni a proposito di attrici e attori sono numerose: da Anita Ekberg a Franco Fabrizi, da Totò e Donald Sutherland a Marcello Mastroianni e Anna Magnani. Ma a tornare sempre in primo piano sono due temi in particolare: le scelte del regista e la sfida tutta rivolta direttamente a quel suo mestiere. Infatti, se da una parte Fellini precisa il suo interesse a lavorare con attrici e attori in modo da «raccontarli al meglio, anche a loro insaputa qualche volta, o nonostante loro» (p. 32); dall’altra, egli ammette anche che «un attore può suggerirti continuamente delle soluzioni, magari anche in contraddizione con quello che avevi immaginato» (p. 37). Il mestiere, dunque, prende forma mentre lo si svolge.  

Il ruolo dello spettatore secondo Federico Fellini 

Lasciando affiorare nelle sue risposte reminiscenze ed esperienze lavorative, quello che Fellini traccia è innanzitutto il profilo dello spettatore, non subito quello dell’autore. «Pensavo, come pensa ancora molta gente, che facessero tutto gli attori, che fossero gli attori a fare il cinema» (p. 55). Lo stesso vale per quelle forme di spettacolo che sono il teatro e il circo: «tutto quello che vedevi era fatto da loro, dagli acrobati, dai clown, dai prestigiatori, dai giocolieri» (ibidem). Rispetto ai diversi ruoli professionali, imprescindibili affinché il cinema come arte possa esistere, Fellini si esprime pertanto attraverso quelle sue due prospettive mantenendo quale primo riferimento proprio lo spettacolo.  

Federico Fellini e la figura del produttore cinematografico 

La produzione del cinema richiede di tenerle in considerazione entrambe, ma il cuore delle sue riflessioni è esattamente lo spettacolo, o più precisamente la sua possibile riuscita in relazione a come può essere organizzato. Quello con i produttori è un rapporto basato sul conseguimento di armonie tra gusti diversi, sui limiti e le possibilità della effettiva organizzazione del lavoro, su proposte e controproposte. Dopo molte considerazioni, Fellini formula una sintesi della sua idea di quei momenti, non scevra di mitologia come sottolinea anche Cirio: il produttore è colui «che prepara anche la configurazione e il carattere del film, non soltanto l’aspetto economico-finanziario ma l’identità del film» (p. 78). Una questione organizzativa imprescindibile, Fellini ne era fermamente convinto. 

Il cinema: arte o tecnica?

Di nuovo, così come appare chiaro nell’ultima conversazione raccolta nel libro, attraverso il discorso sull’organizzazione la questione di fondo torna a essere quella del mestiere del regista: dell’autore che per fare quelle sue opere, basate sulla combinazione di scrittura recitazione e riproduzione audiovisiva, non può trascurare il piano organizzativo che ne rende possibile la creazione. Ma l’aspetto interessante che emerge in questo terzo scambio è che il movente di quel mestiere è evidentemente artistico. Con sincerità, infatti, Fellini ammette che il lato tecnico del lavoro con la macchina da presa per lui «resta un mistero. È come il motore dell’automobile. So guidare, sono stato un guidatore precoce, ma non riesco a capire cosa succede lì dentro» (p. 83). 

Il ruolo degli imprevisti nel cinema di Federico Fellini 

Che il movente non sia tecnico ma artistico, per l’autore di Giulietta degli spiriti e di Fellini Satyricon significa anche avere bene in chiaro una questione essenzialmente umana che influenza costantemente anche i processi creativi: il ruolo degli imprevisti. Quando Cirio gli chiede quante volte un evento improvviso lo abbia costretto a cambiare i suoi piani, Fellini risponde: «mi sembra pericoloso, almeno per me, tentare di sezionare il film in tante ipotetiche forme» semmai, prosegue, quello che «è diventato indispensabile è un modo di preparare il film che non soffra di questa separazione» (p. 85). Se, infatti, per un verso, egli segnala che quella separazione causerebbe la perdita di un senso unitario dell’opera, dall’altro ammette che vi siano comunque punti di vista diversi che possono interferire con la sua creazione «ma solo perché la cosa che stai facendo è vitale, non perché è stata anatomizzata in questo modo» (ibidem).  

La regia è una questione di sensibilità artistica

L’artisticità si fa poi tutt’uno con la sensibilità del regista Fellini che non smette mai di essere anche spettatore e fine osservatore. Così, quando Cirio gli chiede quale sia un momento irrinunciabile del suo lavoro, Fellini risponde: «è una specie – sono quasi impacciato a tradurlo sul piano verbale – di contatto che mi sembra di avvertire quasi con una sorta di solletico e di sentimento gioioso» (p. 85). È il momento in cui si palesa «la prima lontanissima e improbabile, ineffabile, sensazione di aver visto il film. Un sentimento che riguarda questa cosa che già esiste, perfettissima in tutti i suoi dettagli ma che in quel momento ti appare nella sua totalità e comincia a trasmettere la sua amicizia con te» (pp. 85-86). 
D’altra parte, qualsiasi dubbio sulla presenza del movente artistico è fugato dal fatto che, come ricorda Fellini, parallelamente a quella sua «vaga speranza» di diventare un giornalista egli coltivava anche altre ambizioni: «mi sarebbe piaciuto anche fare il direttore di un circo ma anche il pittore, insomma qualcosa che aveva più o meno vagamente a che fare con l’arte» (p. 82). 

La nuova edizione de Il mestiere del regista

Quello pubblicato da Cue Press nella sua nuova edizione è un libro sicuramente prezioso che, grazie al fruttuoso scambio dialogico mantenuto da Cirio di pagina in pagina, invita a riflettere non solo sulla poetica di uno dei più grandi registi del Novecento ma anche sul suo modo di intendere quella pratica artistica che ha svolto per una vita mettendosi in più panni senza mai smettere di interrogarla. L’intervista conclusiva con il compositore Piovani aggiunge ulteriore valore al volume. 

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Craig
1 Dicembre 2024

Combattè ogni forma di naturalismo, battendosi per sublimare la recitazione, aprendosi al Simbolismo

Andrea Bisicchia, «Libertà Sicilia»

Ci siamo più volte occupati, sulle pagine di questo giornale, di Gordon Craig, oggi aggiungiamo un nuovo tassello, in occasione della pubblicazione di: L’arte del teatro. Il mio teatro, a cura di Ferruccio Marotti, autore anche di una Premessa e di un Itinerario che ne ricostruisce la vita professionale, essendo stato egli, il primo a farlo conoscere in Italia, con la sua monografia edita da Cappelli. Il volume raccoglie una serie di saggi, tra i quali: La Supermarionetta, di cui abbiamo già riferito, oltre che interventi sul teatro naturalista, sulla sua poetica, sul suo rapporto con l’attore, prima di arrivare alla formula che lo ha reso famoso, quella, appunto, della Supermarionetta, ovvero dell’attore che si libera da qualsiasi rapporto con la realtà, per poterla sublimare, grazie a una recitazione che lo affranchi da ogni forma di artificio e di esuberanza e che lo accosti a quella degli attori del teatro orientale, più attenti alla ritualità che alla immedesimazione. Ci troviamo nel primo decennio del Novecento, quando nasce il teatro di regia che si impegnava a liberare l’attore da certi vizi, acquisiti nel tempo e da certi «appoggi», per epurarlo, renderlo nuovo e pronto a esperienze diverse.

Forse i tempi non erano molto favorevoli, anche perché, per provvedere a un nuovo teatro, bisognava preparare un nuovo pubblico, fino a trasformarlo, proprio come si cercava di trasformare l’attore che Craig non considerava un artista, a meno che non sarebbe stato capace di raggiungere quella recitazione creativa, lontana dal pericolo naturalista e dal peccato, ancora più grave, della vanità. C’è da dire che Craig esplorava il teatro inglese, di fine Ottocento e inizio Novecento, quello della madre, Ellen Terry e di Irving, mentre, come danzatrice-attrice, come modello, aveva scelto Isadora Duncan. Se avesse guardato bene agli attori italiani, si sarebbe trovato dinanzi a un panorama molto più vasto e a mostri di bravura, come Salvini, Rossi, Zacconi, Ruggeri, Ristori, Duse, con la quale collaborò, in occasione della messinscena di Rosmerlshom di Ibsen, ma con cui litigò perché, in tournée, avevano tagliato una parte della sua scenografia. Non c’è dubbio che Craig volesse rivoluzionare il concetto di messinscena, non ricorrendo, però, alla regia, il cui interesse, a suo avviso, tendeva all’estetismo, bensì a un scenografia astratta, simbolista, che l’apparentava alle teorie di Appia.
Diceva che l’arte del teatro non si riforma con la regia, perché c’era bisogno di qualcosa di nuovo che affermasse l’autonomia di linguaggio scenico, dato che, la regia, permetteva soltanto il passaggio da un teatro inautentico a un teatro da intendere come esperienza totale.
Craig avvertiva, attorno al teatro, una degenerazione fisica e mentale, dovuta, in particolare, alla figura dell’attore che amava l’esibizionismo, quello che, per fare il geloso, per esempio, roteava gli occhi, andava in tutte le furie, stravolgeva l’espressione del volto, anziché dominarla, niente di tutto questo, perché la gelosia è un fatto mentale ed è, con la mente e non col corpo, che va recitata, attraverso un lavoro di preparazione, durante il quale, si doveva andare in cerca, non di emozioni disordinate, ma controllate, perché l’emozione ha il potere di creare e di distruggere. In scena, insomma, bisognava portare l’essenza dello spirito e non l’abilità da quattro soldi. Il vero artista è colui che riesce ad essere invisibile. Craig non sopportava le idee morte o le copie. Diceva: il teatro è come una montagna, nessuno è riuscito a scalarne le vette, per poterne dare notizie certe, il nuovo teatro deve essere il pane per nutrirti. Inoltre, era convinto che, i materiali adoperati per la scena, non servissero per travestire i pensieri, ma dovevano essere adatti per esprimerli. I veri artisti non sono i riformatori, ma i creatori.

Craig
25 Novembre 2024

Gordon Craig, e la sua Supermarionetta. La formula di una recitazione libera dalla realtà. Come un rituale orientale

Andrea Bisicchia, «lo Spettacoliere»

Ci siamo più volte occupati, sulle pagine di questo giornale, di Gordon Craig, oggi aggiungiamo un nuovo tassello, in occasione della pubblicazione di L’arte del teatro. Il mio teatro, a cura di Ferruccio Marotti, autore anche di una Premessa e di un Itinerario che ne ricostruisce la vita professionale, essendo stato egli il primo a farlo conoscere in Italia, con la sua monografia edita da Cappelli.

Il volume raccoglie una serie di saggi, tra i quali: La Supermarionetta, di cui abbiamo già riferito, oltre che interventi sul teatro naturalista, sulla sua poetica, sul suo rapporto con l’attore, prima di arrivare alla formula che lo ha reso famoso, quella, appunto, della Supermarionetta, ovvero dell’attore che si libera da qualsiasi rapporto con la realtà, per poterla sublimare, grazie a una recitazione che lo affranchi da ogni forma di artificio e di esuberanza e che lo accosti a quella degli attori del teatro orientale, più attenti alla ritualità che alla immedesimazione.

Ci troviamo nel primo decennio del Novecento, quando nasce il teatro di regia che si impegnava a liberare l’attore da certi vizi, acquisiti nel tempo, e da certi ‘appoggi’, per epurarlo, renderlo nuovo e pronto a esperienze diverse. Forse i tempi non erano molto favorevoli, anche perché, per provvedere a un nuovo teatro, bisognava preparare un nuovo pubblico, fino a trasformarlo, proprio come si cercava di trasformare l’attore che Craig non considerava un artista, a meno che non fosse stato capace di raggiungere quella recitazione creativa, lontana dal pericolo naturalista e dal peccato, ancora più grave, della vanità.

C’è da dire che Craig esplorava il teatro inglese, di fine Ottocento e inizio Novecento, quello della madre, Ellen Terry, e di Irving, mentre, come danzatrice-attrice, come modello, aveva scelto Isadora Duncan. Se avesse guardato bene agli attori italiani, si sarebbe trovato dinanzi a un panorama molto più vasto e a mostri di bravura, come Salvini, Rossi, Zacconi, Ruggeri, Ristori, Duse, con la quale collaborò, in occasione della messinscena di Rosmersholm di Ibsen, ma con cui litigò perché, in tournée, avevano tagliato una parte della sua scenografia.

Non c’è dubbio che Craig volesse rivoluzionare il concetto di messinscena, non ricorrendo però alla regia, il cui interesse, a suo avviso, tendeva all’estetismo, bensì a una scenografia astratta, simbolista, che l’apparentava alle teorie di Appia. Diceva che l’arte del teatro non si riforma con la regia, perché c’era bisogno di qualcosa di nuovo che affermasse l’autonomia del linguaggio scenico, dato che la regia permetteva soltanto il passaggio da un teatro inautentico a un teatro da intendere come esperienza totale. Craig avvertiva attorno al teatro una degenerazione fisica e mentale, dovuta in particolare alla figura dell’attore che amava l’esibizionismo, quello che per fare il geloso, per esempio, roteava gli occhi, andava in tutte le furie, stravolgeva l’espressione del volto, anziché dominarla, niente di tutto questo, perché la gelosia è un fatto mentale ed è, con la mente e non col corpo, che va recitata attraverso un lavoro di preparazione, durante il quale si doveva andare in cerca non di emozioni disordinate, ma controllate, perché l’emozione ha il potere di creare e di distruggere.

In scena, insomma, bisognava portare l’essenza dello spirito e non l’abilità da quattro soldi. Il vero artista è colui che riesce ad essere invisibile. Craig non sopportava le idee morte o le copie. Diceva: «il teatro è come una montagna, nessuno è riuscito a scalarne le vette, per poterne dare notizie certe il nuovo teatro deve essere il pane per nutrirti».

Inoltre, era convinto che, i materiali adoperati per la scena, non servissero per travestire i pensieri, ma dovevano essere adatti per esprimerli. I veri artisti non sono i riformatori, ma i creatori.

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Un'idea di Dostoevskij
7 Novembre 2024

Molto più che Un’idea di Dostoevskij, un saggio di Fausto Malcovati

Adele Porzia, «ClassiCult.it»

Ricordo il mio primissimo libro di letteratura russa. Ero al liceo e, in un negozio dell’usato, avevo trovato un’edizione sfatta, senza copertina, con le pagine macchiate di caffè. Era un libro talmente malmesso che il proprietario me lo regalò. E, così, con Il maestro e Margheritadi Michail Afanas’evič Bulgakov me ne tornai a casa. Lo lessi qualche giorno dopo e non capì molto della storia, né tanto meno il suo senso profondo. Poi ci ho riprovato un annetto dopo, ma comunque senza grandi differenze.

Eppure, c’era una frase che continuava a saltarmi all’occhio dopo ogni lettura. Quella celeberrima affermazione di Korov’ev,che sostiene ad un certo punto del libro, con fare risentito, che Dostoevskij è immortale. E io, quel nome lì, l’avevo già sentito. Eccome se l’avevo sentito. E di lì a pochi mesi avrei letto Le notti bianche e, poi,Il giocatore, che è ancora adesso il mio romanzo preferito in assoluto.

Poi è toccato, piano piano, a tutti gli altri, ma spesso mi sono sentita come la priva volta che ho letto il capolavoro di Bulgakov: come se non fosse quello il momento giusto, come se non fossi abbastanza matura e attenta per comprendere il senso profondo di quello che stavo leggendo. Quando, infatti, è toccato a Delitto e Castigo non mi era rimasto niente. Poi, a distanza di anni, quando sono tornata sui miei passi, ho ripreso il libro, avvertendo una spinta segreta e irresistibile verso quel tomo di quasi seicento parole, mi si è formata dentro una voragine. Così con Memorie del sottosuolo. Così con L’idiota. Mi si è aperta una ferita che mi costringe a leggere e rileggere. E sono certa che ad ogni lettura e rilettura verrà fuori qualcosa di diverso, di nuovo, di inaspettato.

Eppure, non posso negare che, non avendo studiato russo (cosa che in questi ultimi mesi mi sta pesando particolarmente), mi perdo molto. A chi mancasse qualche nozione sulla lingua e sulla cultura russa, consiglierei di alternare alla lettura di Tolstoj e Dostoevskij, di Gogol e di Turgenev, con qualche bel manuale e saggio, procedura fondamentale per capire meglio l’universo nel quale ci si addentra. Perché ogni letteratura è un universo a sé e merita delle indicazioni preliminari, delle avvertenze. In tal senso può essere una bussola, una cartina, per ambientarsi meglio il saggio, edito da Cuepress, Un’idea di Dostoevskij, che racconta la vita e le opere di questo straordinario scrittore.

Ad averlo scritto è Fausto Malcovati, docente di Lingua e Letteratura Russa presso l’Università di Milano. Oltre ad essere un esperto di cultura russa, il professore ha vinto il premio Ubu per il valore della sua ricerca, ha tradotto tutto il teatro di Cechov, pubblicato scritti sui principali maestri di regia, come Stanislavskij, Mejerchol’d e Vachtangov e si è occupato di simbolismo russo, in particolare nelle opere di Vjaceslav Ivanov e di Valerij Briusov. Ha scritto, inoltre, diversi saggi e monografie dedicate a Gogol’, Tolstoj e Dostoevskij.

Attraverso questo saggio, Malcovati vuole offrire un’agile guida, un valido prontuario ai lettori, siano essi profani o attenti conoscitori dello scrittore. Non mancano le citazioni agli scritti, alle lettere, ad altri saggi, e la vita di Dostoevskij è passata attentamente al setaccio, dall’infanzia sino alla morte. Il professore non dimentica, inoltre, di riassumere la trama delle opere e i temi che vengono trattati.

Si può dire che il grande pregio di questo volume è quello che concentra in pochissime pagine (poco più di centoventi) un numero incredibile di informazioni sullo scrittore. Ne viene inserito ogni singolo aspetto della vita e del pensiero, tanto che posso affermare che sia uno dei libri più completi e precisi scritti sulla vita di Dostoevskij.

Fausto Malcovati elenca finanche le letture che questo grande scrittore russo ha fatto in giovinezza, la sua passione per Schiller (che torna in tante opere, soprattutto in Delitto e Castigo, quando lo stesso Raskolvikov viene considerto uno ‘Schiller’, un idealista, e così anche in Umiliati e offesi), il suo amore per il teatro, cui si recava spesso.

Malcovati ci permette di scoprire come Dostoevskij ha iniziato il suo viaggio nella scrittura proprio con tre opere teatrali – Maria Stuarda, Boris Godunov e L’ebreo Jankel – dalla forte influenza schilleriana e puškiana, che però sono andate perdute. Le informazioni su quello che era Dostoevskij – prima di Povera gente o prima dei grandi capolavori come Delitto e CastigoL’idiota, I demoni e I fratelli Karamazov – ci aiutano a capire come sia nato e come si sia evoluto il suo talento nella scrittura. Non è un caso, insomma, che una casa editrice che pubblica soprattutto di teatro, come la Cuepress, abbia ospitato un saggio così ben fatto. La ragione si trova proprio nella grande importanza che il teatro ha avuto nella vita e nell’opera di Dostoevskij.

Lo stesso Vladimir Nabokov, in Lezioni di letteratura russa, sostiene che più che un romanziere Dostoevskij fosse uno scrittore di teatro e non ha tutti i torti. Lo stesso Delitto e Castigo sembra un dramma che si consuma a teatro, con gli attori che si esprimono in lunghi monologhi. Nabokov non intendeva elogiare Dostoevkij (anzi, tutto il contrario, perché non lo apprezzava molto come romanziere) ma, seppur nel desiderio di muovergli una critica, ha detto una grande verità. Forse ha anche svelato il segreto di questo scrittore che, come un grande drammaturgo, riusciva a vedere nitidamente i personaggi e a dare loro un linguaggio unico.

Che dire? Che altro si può dire? Da lettrice della letteratura russa, da neofita e profana, da appassionata dei libri e della vita di Dostoevskij, non posso che consigliare questo libro agli addetti ai lavori come ai profani. Sarà un modo per entrare intimamente e profondamente nella vita e nell’opera di Fedor Dostoevskij. Un viaggio che non può che risultare straordinario. E, visto che ‘un’idea di Dostoevskij’ me la sono fatta, ora vado a (ri)leggere L’idiota con ancora più godimento. Chissà che non scopra altro su questo profondo romanziere e, come accade con la grande letteratura, qualcosa in più su di me.

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2 Dicembre 2023

«Il coro è il segreto del teatro». Intervista a...

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1 Dicembre 2023

Jon Fosse: sussurri e grida di un Nobel

Katia Ippaso, « Il Venerdì di Repubblica»

«Il teatro è il momento in cui un angelo attraversa la scena». È un’immagine rivelatoria del modo di sentire di Jon Fosse, premio Nobel per la Letteratura 2023. Un piccolo segreto, contenuto in uno scrigno che, sotto il titolo di Saggi gnostici (testo del 1999), raccoglie altri segreti, chiavi d’accesso al mondo interiore dello scrittore […]
29 Novembre 2023

A Cagliari per parlare di teatro e editoria

Andrea Porcheddu, «Gli Stati Generali»

Teatro e editoria: un bel binomio. Storicamente scena e libri hanno sempre colloquiato. A volte discusso, altre bisticciato, ma è più o meno da Gutenberg che si parlano. Rapporto conflittuale, ma necessario, insomma. E che cambia di stagione in stagione. Così ha fatto bene la storica del teatro Roberta Ferraresi, assieme al giornalista e critico […]
28 Novembre 2023

Ritratto dell’artista senza tempo

Federico Platania, «SamuelBeckett.it»

Dopo quindici anni torno a intervistare Gabriele Frasca – scrittore, traduttore e docente di letteratura, ma soprattutto infaticabile promotore beckettiano.Il Meridiano dedicato a Beckett, da lui tradotto e curato, rappresenta se non il punto d’arrivo quanto meno una pietra miliare sulla strada – sulla quale Frasca sta procedendo da anni – del rilancio di questo […]
26 Novembre 2023

E pensare che odiavo il teatro

Jon Fosse, «Robinson — la Repubblica»

Io sono un drammaturgo, ma, a dire il vero, non ho mai voluto esserlo. Anzi, non amavo il teatro e, in diverse occasioni, per esempio in interviste, affermavo di fatto di detestare il teatro, quantomeno quello norvegese. Ciò forse perché i direttori dei teatri norvegesi mi chiedevano di scrivere per la scena, cosa che per […]
25 Novembre 2023

Quando un angelo attraversa la scena

Nicola Arrigoni, «Sipario»

«Io sono un drammaturgo, ma, a dire il vero, non ho mai voluto esserlo. Anzi non amavo il teatro e, in diverse occasioni, per esempio in interviste, affermavo di fatto di detestare il teatro». Così scrive Jon Fosse nel saggio Su di me drammaturgo, raccolto in Saggi gnostici, a cura di Franco Perelli, pubblicato da […]
20 Novembre 2023

Premio Nazionale della Critica

Premio prestigioso, che arriva dopo due finali, nel 2014 e 2015

Il Premio Anct è un riconoscimento conferito dall’Associazione Nazionale dei Critici di Teatro, che ogni anno celebra personalità e realtà artistiche particolarmente rilevanti nel panorama teatrale italiano. Si tratta di un premio di grande prestigio, assegnato in virtù del contributo culturale e innovativo apportato dagli artisti o dalle istituzioni coinvolte. Nell’edizione del 20 novembre 2023, […]
15 Novembre 2023

Non si può mettere un punto alla scrittura del Pr...

Enrico Montanari, «Il Libraio.it»

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12 Novembre 2023

Ikisaki intervista: Giacomo Calorio

Lorenzo di Giuseppe, «Associazione Ikisaki»

Giacomo Calorio, dottore di ricerca in Digital Humanities (Università di Genova), è attualmente ricercatore presso il Dipartimento di Scienze Umane per la Formazione R. Massa dell’Università di Milano-Bicocca, CdS in Comunicazione Interculturale. I suoi interessi di ricerca vertono prevalentemente intorno al cinema giapponese. Sull’argomento ha pubblicato, oltre ad articoli, saggi e recensioni, le monografie Horror […]
4 Novembre 2023

Strade maestre. I cardini della drammaturgia europ...

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1 Novembre 2023

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30 Ottobre 2023

Mario Monicelli: il grande regista torna a parlare

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29 Ottobre 2023

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Jon Fosse è un monumento della drammaturgia, uno dei più rappresentati in tutto il mondo, eppure in Italia è tutt’ora poco conosciuto. Lo scrittore di prosa, drammaturgo e poeta norvegese diventa così il cuore di un incontro in programma domani alle 18 alla libreria Laterza di Bari, in compagnia di Franco Perrelli, docente universitario ora […]
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Mi sono, più volte, chiesto perché il teatro del Terzo Millennio non sia stato oggetto di analisi storiografica e ho anche indicato vari motivi, che vanno dalle superproduzioni al proliferare di compagnie indipendenti, magari con un solo attore che, utilizzando la formula del Teatro dell’Oralità, riesce a fare delle brevi stagioni, muovendosi ai margini del […]
23 Ottobre 2023

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Andrea Bisicchia, «lo Spettacoliere»

Mi sono più volte chiesto perché il teatro del Terzo Millennio non sia stato oggetto di analisi storiografica ed ho anche indicato vari motivi, che vanno dalle super-produzioni al proliferare di compagnie indipendenti, magari con un solo attore che, utilizzando la formula del Teatro dell’Oralità, riesce a fare delle brevi stagioni, muovendosi ai margini del […]
19 Ottobre 2023

La massa come ornamento [II parte]

Gabriele Perretta «segnonline»

Per la prima volta pubblicato integralmente in Italia, in una coloratissima e decoratissima edizione, la Cue Press di Imola ci fa leggere: Siegfried Kracauer, La massa come ornamento, pref. di E. Morreale e tr. it. di M.G.A. Pappalardo, C. Groff, F. Maione, S. Parisi, 2023; testo dedicato ad Adorno e uscito per la prima volta […]
12 Ottobre 2023

È l’imolese Cue Press la casa editrice del...

Lorenzo Benassi Roversi, «il Nuovo Diario Messaggero»

Dalla scorsa settimana, Jon Fosse è entrato nel discorso pubblico del nostro Paese e, a giudicare da quanto si parla di lui e delle sue opere, sembra sia entrato anche nel novero degli autori che fanno parte dell’immaginario collettivo della grande letteratura contemporanea. Non che si trattasse di un Carneade qualunque, ma da quando gli […]
12 Ottobre 2023

Strade maestre: D’Elia e Maifredi tra i gran...

Vincenzo Sardelli, «Krapp's Last Post»

Le vie del teatro come la via della seta. La ricerca dell’arte e la riflessione sull’arte, sulle tracce dei maestri che hanno fatto grande il teatro contemporaneo. È una piacevole scoperta Strade maestre di Corrado d’Elia e Sergio Maifredi. Fresco di stampa, il libro (Cue Press, Imola 2023, pp. 224, € 24,99) è un itinerario […]
10 Ottobre 2023

La danza e l’agit-prop. I teatri non-teatrali ne...

Barbara Berardi, «Theatron 2.0»

I primi decenni del Novecento hanno visto nascere il desiderio, da parte dei cosiddetti padri fondatori del teatro e della danza, di attuare una vera e propria «ri-teatralizzazione» attraverso rivoluzioni stilistiche e sperimentazioni nel campo dell’arte scenica. Nel libro intitolato La danza e l’agitprop: I teatri non-teatrali nella cultura tedesca del primo Novecento, pubblicato da […]
8 Ottobre 2023

Post Teatro

Anna Bandettini, «la Repubblica»

Letture di resistenza «Non ricordo quasi niente della mia infanzia. La mia memoria comincia con la morte di mio padre. Prima di quell’agonia che ho vissuto come un rito di passaggio e una nuova consapevolezza della condizione umana, ho rari ricordi, tutti di guerra». Sono parole del regista Eugenio Barba, grande «maestro» e rivoluzionario del […]
7 Ottobre 2023

Jon Fosse, il Nobel alla Letteratura e la piccola...

Simona Cantelmi, «Corriere di Bologna»

La notizia del Nobel per la Letteratura allo scrittore norvegese Jon Fosse ha sconvolto la routine di una piccola ma prestigiosa casa editrice di Imola. La Cue Press, che pubblica testi di teatro e cinema, è la casa editrice italiana che ha pubblicato alcuni testi teatrali di Fosse e in queste ultime ore è stata […]