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Approfondimenti, interviste, recensioni e cultura: il meglio dell’editoria e delle arti da leggere, guardare e ascoltare.

Arlecchino ritaglio
17 Giugno 2024

Arlecchino. Vita e avventure di Tristano Martinelli attore

Siro Ferrone, «Drammaturgia»

«Prima dell’apparire di Arlecchino, nelle piazze e sui palcoscenici improvvisati dei teatri effimeri c’erano stati… gli zanni. Personaggi rappresentativi di un’umanità animalesca, nascosti da maschere bestiali e grifagne, talvolta incorniciate da ispide barbe, vestivano panni di tela grezza, a imitazione degli abiti da lavoro dei facchini, degli operai del porto, o dei campi: erano questi uomini ‘inferiori’ che gli attori buffoneschi volevano irridere, a beneficio degli spettatori cittadini e veneziani in particolare…».

Così dà avvio al suo Arlecchino. Vita e avventure di Tristano Martinelli attore Siro Ferrone […]: a voler significare subito, e senza equivoci, che il suo non è un libro sull’eternamente aperta e da sempre irrisolta questione dell’origine antropologica (o folclorica) di questa ultra evocata maschera. Ricordate il Dante di Malebolge, caro a Sanguineti: «Tra‘ti avante, Alichino, e Calcabrina – cominciò elli a dire, ‘e tu, Cagnazzo: – e Barbariccia guidi la decina…’. Siamo in Inferno, c. XXI, vv. 118-120. No, Ferrone vuole studiare soltanto, e per la prima volta a fondo, il primo attore italiano che decise di portare in scena quella specifica maschera e di farne – per tutta la carriera – il suo, esclusivo e gelosamente protetto, personaggio. Siamo agli albori della Commedia dell’Arte, cioè di quel fenomeno collettivo disordinato, pittoresco, eppure prodigiosamente creativo, che impose l’Italia all’attenzione dei popoli di tutta Europa, dalla Scandinavia all’Inghilterra, dalla Russia all’Olanda, dalla Germania alla Spagna e alla Francia tra la fine del Cinquecento a tutto il Settecento, non senza qualche spasimo di dolore del nostro Goldoni, che si batté a lungo per propiziarne il definitivo tramonto.

Dalla recensione di Guido Davico Bonino (Copyright «La Stampa» 2006)

Se l’anonimato è il massimo segno del successo (anonimi sono gli autori della Bibbia, dell’Iliade e del Mahabharata), il creatore di Arlecchino potrebbe essere considerato uno dei più grandi. La storia della sua maschera, lunga qualche secolo, è stata scritta come una vita cominciata sulla scena e mai finita. Come raccontare le diverse trasformazioni del re Edipo, del nobile Don Giovanni e del principe Amleto lungo secoli di rappresentazioni, dimenticandosi che in principio ci furono uomini di teatro (attori-scrittori) che li inventarono.

Oggi, a differenza degli altri personaggi, Arlecchino non può esibire un testo che certifichi la sua nascita. Eppure egli nacque. A inventarlo – non dal nulla, poiché dal nulla niente si crea – fu un attore del sedicesimo secolo, Tristano Martinelli, nato a Marcaria nei pressi di Mantova il 7 aprile 1557 e a Mantova morto, in contrada del Mastino, «di febbre e cataro in due giorni» il primo marzo 1630.

Prima del suo apparire, nelle piazze e sui palcoscenici improvvisati dei teatri effimeri, c’erano stati – ma continueranno a esistere anche dopo l’invenzione di Arlecchino – gli «zanni». Personaggi rappresentativi di un’umanità animalesca, nascosti da maschere bestiali e grifagne, talvolta incorniciate da ispide barbe, vestivano panni di tela grezza, larghi pantaloni e camicioni, sovente luridi e disordinati, legati ai fianchi da corde sfilacciate, a imitazione degli abiti da lavoro dei facchini, degli operai del porto o dei campi: erano questi uomini ‘inferiori’ che gli attori buffoneschi volevano irridere, a beneficio del divertimento degli spettatori cittadini e veneziani in particolare.

L’adozione della lingua bergamasca serviva a denotarli rispetto agli altri personaggi di ceto più elevato (come il Magnifico, rappresentativo degli altrettanto ridicoli padroni veneziani, o gli «innamorati» che si esprimevano in fiorentino letterario), creando l’antagonismo linguistico e sociale che fu all’origine del successo di quel genere di spettacolo che fu chiamato «Commedia dell’Arte»: il povero contro il ricco, il montanaro contro il cittadino, l’impaccio della carne contro il fumo delle parole. Essi incarnavano bene – e continueranno a farlo nei secoli seguenti – la natura istintiva di personaggi chiamati a colpire l’immaginazione e l’emozione di spettatori popolani e colti, con azioni balorde e con fonemi gutturali e inauditi.

A Tristano Martinelli, come ad altri attori del suo tempo e del nord d’Italia, il destino aveva probabilmente assegnato quel ruolo, diventato convenzionalmente assai pregiato nella routine dei professionisti dello spettacolo di metà Cinquecento. Molti però essendo i concorrenti alla medesima funzione, divenne necessario, per distinguersi dagli altri zanni, inventare e assumere nuovi tratti denotativi accanto ai vecchi ricevuti dalla tradizione medievale. E questo cominciando dalla lingua. L’attore e scrittore Bartolomeo Rossi (1584) a proposito di Arlecchino e di altri zanni notò che questi avevano infranto il dogma del canone bergamasco: «Bergamino, se ben non osserva la vera parola Bergamascha, non importa, perché la sua parte è come quella di Pedrolino, di Buratino, d’Arlechino, et altri che imitano simili personaggi ridiculosi, che ogni uno di questi parlano a suo modo, senza osservanza di lingua, differenti da M. Simone, Zanne dei Signori Gelosi, e M. Battista da Rimino, Zanne de’ Signori Confidenti che questi osservano il vero dicoro de la Bergamascha lingua».

Con questa prima invenzione (e infrazione del codice ricevuto dalla tradizione), Tristano avviò la costruzione del nuovo personaggio teatrale, a cui è dedicato il nostro lavoro: qui non ci interessano infatti né l’antichissima querelle sulle ‘origini’ delle maschere né ogni altro dibattito relativo alle teorie evoluzionistiche degli archetipi folclorici.

Alla prima trasgressione ne seguirono molte altre che ben presto distinsero l’attore mantovano come primus inter pares fra gli zanni del suo tempo, trasformando uno dei tanti epiteti propri di quel ruolo in nome d’arte assoluto. Prima di allora quel nome era stato per molto tempo un borborigmo, un balbettamento che circolava, sottoposto a diverse metamorfosi, soprattutto nelle favole e nei riti pagani della Francia e dell’Europa del nord (con qualche eco anche nella tradizione italiana), spesso attribuito a una figura eminente se non addirittura regale del folclore locale; dopo di lui, quel nome rimase, senza perdere il mitico alone suggerito dalla letteratura popolare, a designare un preciso personaggio delle scene teatrali che convisse con gli zanni superstiti, accompagnando, durante la vita e anche dopo la morte, i molti attori che lo scelsero, uno dopo l’altro, a imitazione dell’inventore e primo titolare.

Dopo Martinelli vennero i più celebri Dominique Biancolelli (1636-88), Evaristo Gherardi (1663-1700), e poi tanti altri fino ai più recenti Marcello Moretti (1910-61) e Ferruccio Soleri. Col tempo Arlecchino vide modificati i suoi caratteri, come un testo classico che – di secolo in secolo – gli interpreti vanno adattando ai costumi e ai linguaggi loro contemporanei. Da mantovano si era fatto francese e poi di nuovo bergamasco, poi ancora francese, russo e naturalmente veneziano, surrealista, biomeccanico e postmoderno. Come Amleto e Don Giovanni, ha cambiato interpreti rimanendo sempre lo stesso, e come altri grandi personaggi della storia del teatro europeo, quanto più è stato ‘fortunato’ nei secoli tanto più ha cancellato nella memoria dei posteri chi per primo lo aveva portato sulle scene.

Ma il naufragare dell’antico attore che lo inventò nell’anonimato glorioso del mito è conseguenza di una perdita più grave. La sua opera geniale consistette soprattutto di azioni, gesti e parole create sulla scena e mai trasferite nella pagina scritta, mai stampate e tramandate. E quindi, nonostante il nome sia sopravvissuto nei secoli, il suo patrimonio artistico è andato smarrito con il dissolversi del corpo. La ricostruzione e il racconto della sua biografia rappresentano perciò gli unici strumenti che possiamo utilizzare per arrivare a identificare la natura della sua creazione.

I documenti che permettono di ricostruire la storia di Tristano Martinelli sono pochi. Alcuni sono dovuti alla mano di notai, cancellieri, principi o comici che ebbero con lui rapporti di lavoro e di interesse; altri, quelli autografi oppure dettati da lui, sono principalmente lettere, in prevalenza appartenenti agli ultimi anni della vita, quando scrivere diventò per l’attore un surrogato del fare. Ci siamo serviti delle rare parole scritte in tarda età per capire le cose fatte da Arlecchino in età giovanile. Non sempre è un buon metodo, ma è l’unico possibile nel nostro caso.

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Copertina officina cous cous klan prima foto di federica di benedetto
17 Giugno 2024

Le trasformazioni sociali, ed altre gerarchie di valori. E così si modificarono nel tempo i nomi delle Compagnie teatrali

Andrea Bisicchia, «lo Spettacoliere»

Un tempo, le Compagnie teatrali venivano chiamate ‘Ditte’, alludendo a una impresa commerciale, intitolata a un nome di prestigio. Si era abituati a vedere, nei manifesti, risaltati i nomi di noti attori, come Morelli-Stoppa, Maltagliati-Benassi, Proclemer-Albertazzi, Valli-De Lullo- FalK, Moriconi-Mauri, insomma si faceva presto a capire cosa andavi a vedere e con chi. I Teatri Stabili contrapposero, ai nomi degli attori, quelli dei registi, si andava pertanto a vedere uno spettacolo di Strehler, di Squarzina, di Trionfo, di De Bosio, di Castri.
Dopo il ’68, nacquero altri assemblamenti, come Il Gruppo della Rocca che però faceva riferimento al nome del suo regista, Roberto Guicciardini, la Cooperativa Teatro Franco Parenti, che, al nome dell’attore capocomico, aggiungeva quello della regista, Andrée Ruth Shammah. Faccio solo degli esempi, per indicare come, col passare del tempo e delle trasformazioni sociali, mutassero anche i nomi delle Compagnie. Quando si arriva agli anni Novanta, il riconoscimento comincia a traballare, anche se oggi ci siamo abituati. I nomi, al momento della loro nascita erano: I Motus, Fanny & Alexander, Masque Teatro, Accademia degli Artefatti, Kinkaleri, Scena Verticale, Societas Raffaello Sanzio. Con l’imporsi del Teatro Performativo, anche i nomi diventano sempre più imbarazzanti: Computer Theatre, Net Drama, Cyborg & Cyber etc.
Le cose si complicano un po’ per quanto riguarda il riconoscimento immediato. Si arriva cosi, negli ultimi decenni del terzo millennio, a una ondata di nomi nuovi, si va da: Teatro Sotterraneo, ai Sacchi di Sabbia a Carrozzeria Orfeo che, in poco tempo, hanno raggiunto una certa notorietà. A Carrozzeria Orfeo ha dedicato un libro Andrea Malosio, edito da Cue Press che del Gruppo fondato nel 2008 da Gabriele Di Luca, Massimiliano Setti, Luisa Supino, aveva pubblicato ben quattro testi: Thanks for Vaselina, Animali da Bar, Cus Cous Klan, Miracoli Metropolitani. Dalla ‘Ditta’ siamo passati alla ‘Carrozzeria’, come dire che anche il teatro è un lavoro che ha bisogno dei suoi clienti che non sono più i soliti abbonati, ma le nuove generazioni di giovani che hanno cominciato ad affacciarsi al Teatro.
Anche Andrea Malosio (1996) è un giovane studioso, forse per questo ha scelto di lavorare su dei giovani come lui, affrettandosi subito a dare una spiegazione del nome scelto: Carrozzeria, da intendere come spazio in cui vengono creati i copioni e Orfeo come rimando al poeta della poesia. Arte e lavoro, insomma, si spiega, così, anche il titolo del libro L’officina di Carrozzeria Orfeo. L’autore ripercorre il loro cammino artistico, dalla nascita della loro idea di teatro, se non addirittura di una poetica, con le difficoltà iniziali, ai successi di oggi in tutti i teatri d’Italia, a Milano la loro sede ideale è quella dell’Elfo-Puccini, nella sala grande, quasi sempre esaurita. Merito di chi? Intanto di Gabriele Di Luca , della sua scrittura, della scelta degli argomenti, sempre attinenti alla contemporaneità, quindi a Massimilian Setti che condivide con lui le regie e a Luisa Supino che si occupa, con competenza, della Direzione Amministrativa, dopo essersi diplomata alla Paolo Grassi.
Notevole il contributo dei collaboratori e di attrici come Beatrice Schiros, la più anziana del gruppo (1967), che partecipa attivamente a una recitazione dinamica che consiste nell’entrare, a gamba tesa, dentro l’attualità, col ricorso a una comicità, i cui punti di riferimento sono, a mio avviso, Aristofane e Dario Fo, mentre trovo in collegamento anche il teatro di Vincenzo Salemme per l’abbondanza dei temi trattati. Di Luca costruisce i suoi testi cercando una comicità immediata che adatta alla speditezza della recitazione che evita attentamente ogni rapporto col realismo, essendo la sua realtà carica di parossismi che le danno un connotato di verosimiglianza, proprio perché riesce ad estremizzarla fino al punto di essere sboccata, soprattutto quando affronta problemi di sesso che riesce a trasformare in un meccanismo comico, proprio come Aristofane, essendo una comicità di situazione e non di carattere, che ricorda, persino, i Canti Fallici. Credo che Gabriele Di Luca sia l’autore comico più importante di questo momento, insieme a Salemme, avendo la capacità di far ridere delle proprie e altrui disgrazie, utilizzando tutte le forme del comico, dalla farsa alla parodia.
Andrea Malosio ripercorre non solo l’analisi delle commedie, ma anche quella delle loro messinscene offrendo al lettore ampie antologie dei temi che tratta, soffermandosi sia sulla parola che sul linguaggio scenico, oltre che sui molteplici argomenti che vanno dal consumismo spietato al capitalismo, dalle smanie sessuali alle smanie del potere e del denaro.

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Copertina caldo ok
15 Giugno 2024

Chi ha paura dei premi Nobel? Tre piccoli gioielli di Jon Fosse

Alessandra Calanchi, «Girodivite»

Ho trovato questi tre piccoli gioielli contestualmente – mea culpa – alla scoperta di una piccola e formidabile casa editrice di nicchia (CUE Press). I tre volumetti in questione riguardano Jon Fosse, norvegese, premio Nobel per la Letteratura 2023, passato quasi inosservato ai più, anche se considerato dai critici il nuovo Ibsen o il nuovo Beckett. Qualcosa di simile era successa con la poeta e saggista Louise Glück (Nobel 2020), inizialmente pubblicata in Italia da una piccola casa editrice indipendente (Dante&Descartes) che aveva la sede in una libreria di Napoli, prima di approdare al Saggiatore.

D’accordo, la poesia e la saggistica sono generi difficili. E anche il teatro lo è… ma Fosse è anche romanziere e in Italia è La Nave di Teseo a permetterci di leggere storie suggestive come Mattino e sera (2000) e Bagliore (2024) per nominarne solo un paio. Definito dal New York Times ‘uno dei più grandi scrittori al mondo’, Fosse ci incanta con i suoi lunghi monologhi esistenziali e coi suoi dialoghi senza punteggiatura, con la sua vertiginosa capacità di sintesi e con le sue suadenti ripetizioni ritmiche, figlie del rock da lui molto amato. E quanto è presente la sua predilezione (linguistica e affettiva) per il nynorsk, la lingua in cui scrive e di cui difende ‘il diritto di esistere’, pur non contestando la presenza del bokmål. Mi rattrista non leggere le sue opere in originale, ma ringrazio i traduttori e le traduttrici per il grande lavoro che hanno fatto e che fanno. È importante uscire, di tanto in tanto, dai binari tracciati dalle lingue tradizionalmente studiate a scuola, sempre quelle, da anni…

I tre volumetti qui in oggetto (usciti rispettivamente nel 2018, 2023 e 2024) formano un trittico speciale, tracciando un percorso nella vita e nella professione dell’autore attraverso i tratti della sua scrittura drammaturgica. Il primo (Saggi gnostici), ci porta nella ‘religione della scrittura’, declinando la transizione dalla chitarra alla macchina da scrivere come una ricerca stilistica che approderà al binomio tra politica ed estetica attraverso la consapevolezza che tutto è narrazione, che il testo ‘s’arrotola nella voce’. Si ritiene minimalista, ammette di dubitare ‘ogni giorno’ pur considerandosi credente, cita Dante e Harold Bloom, ma sotto sotto emerge (magari a sua insaputa?) un certo stile carveriano, che non definirei minimalista ma frutto di una distillazione radicale e incessante, quasi una cesellatura.

Il secondo volumetto (Teatro) contiene tre pièces: ‘E non ci separeremo mai’, ‘Qualcuno verrà’, ‘Il nome’. Qui la scrittura rivela la predominanza del paesaggio sonoro, come la curatrice osserva giustamente nel titolo della sua Introduzione, Il silenzio e l’ascolto. Appunti sul teatro di Jon Fosse. E l’autore difatti esprime così la sua poetica: “scrivere per me è ascoltare […] Ascolto e ascolto. È nell’ascolto che nasce il conflitto che è il dramma”. I dialoghi dei personaggi vanno letti in questa prospettiva, ogni silenzio ha un suo spazio, ogni atto d’ascolto va compreso al millimetro. Un ‘lui’ e una ‘lei’, una ‘sorella’ e un ‘padre’, una ‘ragazza’ e un ‘ragazzo’ sono personaggi essenziali, familiari ma al contempo universali, che se da un lato ci ricordano l’Uno nessuno e centomila di Pirandello, dall’altro si svuotano incessantemente di ogni superfluo e diventano le forme disincarnate di Beckett, Jonesco, Artaud – pura vibrazione, ritmo, riverbero.

Il terzo volume (Caldo) presenta il dramma omonimo, recitato da tre personaggi le cui domande-risposte si rincorrono e si intrecciano come in un fraseggio musicale, creando una sospensione che giustamente il curatore ricollega a un’altra cifra di Fosse, l’attesa, nella sua Introduzione intitolata appunto Jon Fosse e il dramma dell’attesa. E fa nomi illustri – Pinter, Beckett, Artaud – a cui io aggiungerei anche il Camus de Lo straniero e il Buzzati de Il deserto dei Tartari. Con una goccia di Carver in chiave onirica. Emergono qui, come si legge in quarta di copertina, i temi più cari a Fosse: ‘il rapporto tra la vita e la morte, il tempo, la memoria e il desiderio’. Ma anche l’impossibilità di un’autentica comunicazione, la difficoltà di ricomporre ciò che è stato spezzato e che si ripresenta ossessivamente nel ricordo, la fragilità della consistenza – un’altra illusione: perché il mare, il pontile, la casa non è detto che siano reali. Come i personaggi. Come noi.

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Beckett samuel home
12 Maggio 2024

Il dolce stil no

Federico Platania, «SamuelBeckett.it»

È indicata come ‘avvertenza’ nel volume, quasi un voler mettere le mani avanti, l’informazione che le pagine che abbiamo tra le mani non sono nate da un progetto autonomo bensì prendono vita in forma di ‘resto’, di ‘avanzo’ del poderoso Meridiano dedicato a Beckett uscito solo pochi mesi fa. Sto parlando del volume Il dolce stil no di Gabriele Frasca, che di quel Meridiano è il sublime curatore, pubblicato ovviamente da Cue Press.

Racconta l’autore nell’avvertenza, appunto, che al momento della stesura degli apparati critici del Meridiano si è reso conto che, scheda dopo scheda, esorbitava l’ingombro previsto, ma era impossibile arrestare quello che era ormai diventato una sorta di automatismo critico.

Ecco dunque raccolto nelle pagine de Il dolce stil no (il titolo è un gioco di parole sulla denominazione della nota corrente poetica medievale del Dolce stil novo tratto da una poesia di Beckett del 1932, Home Olga, dedicata al gergo iniziatico del gruppo di amici e intellettuali che si era raccolto intorno a James Joyce durante la stesura del Finnegans Wake) tutto ciò che nel Meridiano non è fisicamente potuto entrare.

Il volume prende le mosse da Assunzione, il primo racconto in assoluto pubblicato da Beckett, e arriva fino a Qual è la parola, l’ultima poesia di Beckett, scritta sul letto di morte, toccando anche le opere che dal Meridiano, di nuovo per motivi editoriali, non avevano trovato posto (ci auguriamo sempre l’annuncio di un volume due, ricordando comunque che la dolorosa opera di esclusione dei testi è stata condotta da Frasca con un criterio condivisibile).

Sempre illuminanti le incursioni critiche di Frasca nell’opera di Beckett, scortate da un’invidiabile messe di dati e riferimenti bibliografici ed epistolari, ma al tempo stesso libere nell’interpretazione e nella riscrittura di alcuni punti fermi esegetici (ad esempio, il ridimensionamento dell’importanza della famosa ‘illuminazione del 1945’).

Le pagine che ho trovato più riuscite (forse per la mia debolezza nei confronti di quell’opera) sono quelle dedicate a Finale di partita. Ma davvero non c’è capitolo di questo volume che non illumini per l’ennesima volta, se è questo il caso, o per la prima (e quanta fortuna hanno questi lettori beckettiani ancora ‘vergini’), ogni tappa della ricerca artistica di Samuel Beckett.

Altro che libro “compagnone” (come lo definisce scherzosamente Frasca nell’avvertenza iniziale). Il dolce stil no non è un accompagnamento, è un deragliamento, uno sconfinamento, un perdersi dietro l’opera di chi sta consolidando decennio dopo decennio la fama di voce più importante del Novecento.

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3 Maggio 2024

Jon Fosse a Ravenna, il premio Nobel per la Letteratura riceve l’Alloro di Dante

Piero Di Domenico, «Corriere di Bologna»

Premi Nobel per la Letteratura in visita in Emilia-Romagna. Una prassi che negli ultimi anni sta trovando una certa continuità, dalla francese Annie Ernaux, nel 2022 ospite a Bologna del festival «Archivio Aperto» di Home Movies, al tanzaniano Abdulrazak Gurnah, l’anno scorso al «Festival delle Culture» di Ravenna. La città romagnola quest’anno concede anche il bis con il norvegese Jon Fosse che stasera (venerdì 3 maggio) alle 21, nella Basilica di San Francesco con ingresso libero, riceverà uno speciale premio, «L’Alloro di Dante». Ideato dal poeta Paolo Gambi, direttore artistico dello stesso e presidente di «Rinascimento poetico», network di poesia che lo organizza insieme al Centro Dantesco di Ravenna e a Giunti Scuola.

I testi teatrali con la casa editrice Cue Press di Imola

Un’idea partita mesi fa che non è collegata, come precisano gli organizzatori visto che si era creata un po’ di confusione, al parallelo «ScrittuRa Festival» diretto da Matteo Cavezzali in corso a Ravenna fino al 28 maggio. I legami del sessantacinquenne Fosse con la Romagna non sono peraltro nuovi perché, se è vero che gran parte dei suoi libri in Italia sono pubblicati da La nave di Teseo — che ai primi di giugno manderà in libreria Un bagliore è altrettanto vero che alcuni suoi testi teatrali sono usciti con la piccola casa editrice Cue Press di Imola fondata da Mattia Visani.

Prima visita in Italia

È la prima visita in Italia di Fosse dopo aver ricevuto il Nobel, alla presenza del sottosegretario di Stato alla Cultura Gianmarco Mazzi e di Monsignor Paul Tighe, Segretario del Dicastero vaticano per la cultura e l’educazione. «Siamo molto felici — dichiara Gambi — perché sia personalmente che a nome di Rinascimento poetico, credo di poter dire che lo sentiamo particolarmente vicino nella sua profondità, nel suo approccio mistico e nella sua capacità di usare la parola per abbracciare tutte le arti, c’è molto dello spirito di Dante in lui». A seguire Fosse dedicherà uno spazio al firmacopie, perché nella basilica sarà presente un banco libri.

La sua scrittura minimalista

La scrittura del maggior autore norvegese dopo Ibsen, accostato spesso per la sua produzione teatrale a Beckett, anarchico e ateo convertito nel 2012 al cattolicesimo dopo aver smesso completamente di bere, è semplice ma al contempo estremamente ricca. Testi scarni, li ha definiti Giuliano D’Amico, docente di Letterature nordiche all’Università di Oslo, che però «nascondono un mondo esistenziale, spirituale, letterario. La scrittura minimalista di Fosse punta tutto sulla sottrazione, è fatta di spazi vuoti e di parole singole e assolute. Quello che fa Fosse è togliere fino ad arrivare al nocciolo, un esercizio che invita noi spettatori o lettori a riempire questi vuoti con del significato. È un tema onnipresente per lui quello di non riuscire a comunicare, ma anche l’incapacità dell’uomo di comprendere il trascendente, il divino. Negli ultimi anni le pause, i silenzi sono stati in parte colmati da riflessioni esistenziali e metafisiche».

Tra Oslo e la Bassa Austria

Opere in cui c’è spesso assenza di punteggiatura, con la scrittura che va avanti e indietro nel tempo senza far capire dove si ferma e dove ricomincia la narrazione. Anche nei suoi drammi, rappresentati in Italia da interpreti come Valerio Binasco — ora in tournée proprio con La ragazza sul divano — affascinato dalla malinconia dei suoi testi, e Marco Sgrosso, ci sono lunghissime pause, conversazioni spoglie, espressioni ripetute, anche ossessivamente. Uno scrittore globale, che parla a tutti utilizzando un numero ridotto all’osso di parole e utilizza pochissimi personaggi, privati del nome e di qualsiasi elemento di riconoscibilità. Da sempre appassionato dell’Inferno dantesco, letto in diverse traduzioni, Fosse scrive in nynorsk, una forma di norvegese usata da circa il 15% della popolazione, soprattutto intorno a Bergen. Dove è cresciuto e dove l’autore di Settologia vive, dividendosi anche tra Oslo e la Bassa Austria, convinto che «ciò che si scrive dev’essere più grande della vita».

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Jonfosse
20 Aprile 2024

Il teatro è il momento in cui un angelo attraversa la scena

Simone Sormani, «Proscenio», IX-4

Non era di certo tra gli autori più conosciuti in Italia, Jon Fosse. Almeno fino al 5 ottobre scorso, quando è stato proclamato vincitore del Nobel per la Letteratura 2023. Quel giorno le richieste di suoi volumi alla Cue Press sono schizzate da circa uno o due all’anno a duemila cinquecento in un’ora. Lo ha detto alla giornalista Katia Ippaso – su Il Venerdì di Repubblica – Mattia Visani, direttore della piccola casa editrice che di Fosse ha in catalogo Caldo, Saggi gnostici e Teatro. In passato le sue opere sono state proposte anche da Fandango, Editoria & Spettacolo e Titivillus, e ora da La nave di Teseo e da Einaudi ma, pur essendo la sua produzione letteraria sterminata, solo da poco è entrato nei circuiti dei grandi colossi dell’editoria nazionale. Tutto ciò accresce ancora di più il mistero che aleggia intorno a questo autore norvegese nato nel 1959 ad Haugesund, nel Sudovest della Terra dei Fiordi, e che oggi vive ad Oslo in una residenza onoraria concessagli dalla Corona. Insieme al carattere schivo, che lo porta a stare lontano dai riflettori; all’aspetto vagamente esistenzialista – capelli lunghi, barba, veste spesso di scuro- ; alla scelta di comporre in nynorsk, una variante minoritaria del norvegese; al misticismo che lo pervade e a cui dice di essere approdato attraverso la scrittura – passando da una gioventù rockettara e pacatamente atea al protestantesimo e poi al cattolicesimo.

Del resto, ha raccolto le proprie riflessioni teoriche e filosofiche in un volume intitolato Saggi gnostici, dove afferma che ‘il teatro è il momento in cui un angelo attraversa la scena’. E se pensiamo all’angelo quale ‘messaggero’ tra l’umano e il divino, capiamo subito come la sua scrittura più che sul pensiero si fondi sull’ascolto di messaggi interiori, di quel groviglio di sentimenti e stati d’animo che, altrimenti, sarebbero destinati a rimanere nell’«indicibile». Una ricerca di una dimensione intimistica che sta tra due grandi stagioni: quella di ieri, il Novecento, dove tutto era politica e ideologia e l’ansia di indagare il rapporto tra individuo, società e i grandi movimenti e mutamenti di massa schiacciava prepotentemente le ragioni dell’Io; e quella di oggi e di domani, dove si palesa il pericolo del dominio di una tecnologia che si propone di pensare e agire al posto dell’uomo pur non avendo nulla di umano, alcuna capacità di sentire ed empatizzare. Senza voler tralasciare la narrativa – tra cui in traduzione italiana Melancholia (prima edizione Fandango 2009), romanzo che nel 1995 lo impose all’attenzione del mondo letterario, Mattino e sera e la poderosa opera in sette volumi Settologia (pubblicati da La nave di Teseo tra il 2019 e il 2023) – è proprio nei testi teatrali di Fosse che si avverte fortemente la centralità di un rapporto senziente con gli altri, tra gli altri e con il mondo, di ponti emotivi ed esperienziali, tradotti in una drammaturgia fortemente innovativa. A partire da spazi atemporali, indefiniti, dove le azioni non sempre hanno linearità cronologica e possono accadere contemporaneamente cose solo apparentemente sconnesse tra loro, ma in realtà legate da nodi inestricabili, e i personaggi guardarsi attraverso ricordi, pensieri, premonizioni. Dialoghi brevi, minimali, ricchi di ripetizioni, rappresentano il segno distintivo di una narrazione il cui senso diventa, talvolta, sfuggente e ambiguo. Sono le pause, in realtà, i non detti, i gesti e gli sguardi – tutti descritti attentamente nelle didascalie – a prevalere sulla parola. È lì, nei silenzi comunicativi, che si coglie il flusso di emozioni, che le battute acquistano tutta la loro pienezza di senso e le trame consistenza nel raccontare inquietudini e drammi del quotidiano, conflitti generazionali e precarietà dei rapporti familiari e di coppia.

Fosse così «scardina le tradizionali forme e strutture drammaturgiche, frantuma le abilità attoriche e le certezze intellettuali dei registi, ci fa nuovamente posare i piedi sulle irregolarità della terra. Nel suo teatro, in poche parole, cade l’illusione di potersi cullare e adagiare nella placida società del benessere», scrive la traduttrice Vanda Monaco Westersthal nella prefazione alla raccolta Teatro che contiene E non ci separeremo mai, Qualcuno verrà e Il nome. Proprio Qualcuno verrà, con la regia di Sandro Mabellini, è stata la prima opera di Fosse ad essere rappresentata in Italia nel lontano 2001 alle Scuderie del Palazzo Farnese di Caprarola, in occasione del Festival Quartieri dell’Arte organizzato da Gian Maria Cervo. Numerose le messe in scena di Valerio Binasco – ancora Qualcuno verrà e poi E la notte canta, Un giorno d’estate, Sonno e Sogno d’autunno e l’ultima La ragazza sul divano (debutto nazionale al Carignano di Torino dal 5 al 24 marzo, produzione Teatro Stabile di Torino e Teatro Biondo di Palermo, nel cast Pamela Villoresi e Isabella Ferrari). Hanno contribuito a diffonderne la conoscenza sui nostri palcoscenici anche Valter Malosti con Inverno nel 2003; Alessandro Machia – che da anni conduce studi e seminari di approfondimento sulla sua drammaturgia – con Caldo nel 2017; Thea Dellavalle, Alessandro Greco e Vincenzo Manna con il Trittico Fosse (presentato al Teatro India di Roma nel 2015). Ma il premio Nobel norvegese resta, nonostante tutto, per una parte del pubblico italiano ancora un ‘oggetto misterioso’, e ciò renderà ancora più interessante e affascinante continuare, nei prossimi anni, il viaggio alla sua scoperta.

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19 Aprile 2024

La violenza del potere. Eterna. Come le vicende umane, sempre le stesse. E il teatro? Ne è lo specchio, nel tempo

Andrea Bisicchia, «lo Spettacoliere»

L’idea del libro Perché il Teatro? è di Milo Rau, il regista svizzero, molto impegnato socialmente, con spettacoli ambientati in Amazzonia o a Monsul, in Kurdistan, utilizzando personaggi del mito, alquanto famosi, come Oreste e Antigone, facendoli diventare, attraverso le loro storie tragiche, emblemi dei giovani d’oggi che vivono, drammaticamente, gli stessi problemi, come a voler dire che cambia il contesto storico, ma le vicende umane sono sempre le stesse.

Ciò che interessa a Rau è la realtà sociale e politica che egli trasforma in rappresentazione, utilizzando palcoscenici improvvisati come veri e propri tribunali dove, ad essere giudicata, è la violenza del potere. Questo libro è stato pensato nel 2022, quando il teatro di tutto il mondo si fermò a causa del Covid, lasciando tanti lavoratori dello spettacolo sul lastrico, evidenziando, nel frattempo, quell’assenza di garanzie mai a loro accordate dai vari Ministri, di sinistra o di destra.

Perché il Teatro? è diventato un libro, pubblicato da Cue Press, che ha coinvolto, nell’idea di Rau, cento professionisti della scena internazionale, ma che, Andrea Porcheddu, curatore del volume, ha ridotto a metà. Per farci capire, il lettore troverà interventi di William Kentridge, Angelica Liddell, Katie Mitchel, Ariane Mnouchkine, Thomas Ostermaier, Tiago Rodriguez, Botho Strauss, Sasha Waltz, solo per citare i più noti, mentre, per quanto riguarda gli italiani, la domanda è stata rivolta a Renzo Martinelli e Ermanna Montanari.

Le risposte erano libere, ma se accostate le une alle altre, a parte alcune autoreferenzialità, potrebbero dare l’dea di un breve trattato sulle varie esperienze artistiche, sulle utopie, sulla unicità e indispensabilità del teatro. Tutti gli intervistati hanno in comune la consapevolezza che il teatro debba essere la testimonianza di ciò che accade, non solo agli individui, ma nel mondo, dove avvengono delle cose orribili, che, proprio per la loro drammaticità, vengono portate in scena, per dare visibilità all’invisibile, a ciò che il potere si affanna a nascondere e per rendere dicibile, l’indicibile.

Certo, non è soltanto questo l’argomento trattato, anche perché, il teatro, è fatto di volti, di persone, di inquietudini, di sudore, di odori, ma per fortuna anche di applausi, grazie alla sua capacità di immergersi all’interno delle società più disperate, al di là di ogni confine. Per simili motivi, la ricerca dell’elemento formale e, quindi, estetico, è stata capovolta, essendo il compito dell’estetica non più o soltanto la ricerca del bello, quanto del necessario che, per realizzarlo, occorre respingere ogni confine, non solo geografico, ma anche formale, per aprire nuovi spazi, che sono spazi del pensiero, di responsabilità, di relazioni, e anche di esperimenti.

Dalla lettura dei molteplici interventi, si ricava persino la volontà di chi fa teatro di tuffarsi nel dolore del mondo, per poterlo raccontare, utilizzando i suoi mezzi, le sue capacità di costruire e decostruire, dando visione a ciò che accade, a dimostrazione che solo sul palcoscenico possa essere evidenziato tutto questo, proprio perché il teatro è sempre stato parte vitale della nostra quotidianità, del nostri malesseri, delle ingiustizie, delle menzogne, oltre che essere fonte di sopravvivenza e di energia permanente, la sola che aiuta la creatività e l’invenzione e che gli permette di dare una identità alle società che hanno il diritto di sapere e di conoscere anche l’invisibile a cui il teatro si sforza di dare un volto, perché sta sempre dalla parte della vita, anche quando la morte bussa alla porta, come bene ci ha raccontato Maeterlinck, nel senso che stai seduto in poltrona e lei rimane lì ad attendere sulla soglia, senza oltrepassarla.

Forse, il teatro ha anche il potere di farci rimanere in vita.

Andrea Porcheddu, nella sua introduzione, ci ricorda che il teatro è assemblamento che non sopporta contagi, che ha il privilegio di dare la parola a confuse emozioni, a inattese e inarrestabili sensazioni, insomma, a quella che qualcuno chiama «poesia». A Giacomo Bisordi è stato dato il compito di spiegare il «Latifondo dell’Arte», dato che, attraverso il teatro, si può lottare contro ogni forma di strano latifondismo che colpisce, a volte, lo spettacolo.

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15 Aprile 2024

Why Theatre?/Perché il teatro?

Massimo Bertoldi, «Centro di cultura dell’Alto Adige — Il Cristallo»

È da quando esiste il teatro che si sollevano domande intorno al suo motivo di essere e al suo relazionarsi al mondo. Le risposte, ovviamente tante e diverse, derivano dal tempo storico e dal contesto socioculturale, cha alimentano anche sogni, utopie, progetti su quello che lo stesso teatro potrebbe diventare e trasformarsi in una prospettiva lungimirante.

Affiancato da Kaatja De Geest e Carmen Hornbostel si muove in questa direzione Milo Rau – illuminato regista svizzero ideatore di spettacoli ambientati in Amazzonia, Kurdistan e a Mosul e incentrati su personaggi mitici letti in chiave moderna – raccogliendo nel 2022, quando anche lo spettacolo era fermo per il Covid, risposte di centoventi artisti internazionali alla domanda: «Why Theatre?/Perché il teatro», poi diventata titolo dell’interessante volume edito da Cue Press curato da Andrea Porcheddu che ne seleziona circa la metà.

Si tratta di un coro di voci variegate nel codice narrativo ma concordi sia nella funzione del teatro quale specchio del nostro tempo e testimone delle tragedie storiche planetarie, che nella necessità di superare i confini geopolitici e dilatare il linguaggio performativo, connesso alla sua funzione comunicativa, nell’orizzonte di nuovi spazi di pensiero e di relazione comunitaria. Di fronte alle guerre, ai populismi, all’emergenza ambientale e alle violenze quotidiane, «il teatro – sottolinea Porcheddu – non può sconfiggere questa realtà, e forse tanto meno la poesia: eppure possono suggerire altri modi di pensare, altre parole. Più caute, più gentili, più umane».

Così nel bel volume di Cue Press – impreziosito dalla postfazione di Giacomo Bisordi – si susseguono i contributi di importanti protagonisti della scena contemporanea, da Nora Chipaumire («I poveri – Ecco cos’è il teatro, e perché il teatro non potrà mai scomparire, perché avremo sempre i poveri se avremo l’Africa») a Stefan Kaegi («Perché tutti sanno cos’è il teatro/Perché nessuno lo sa. /Perché tutto ciò che accade può diventare teatro»); da Angélica Liddell («Non smetteremo di lottare per la bellezza. La ricerca della bellezza è la tortura dell’anima») a Luc Perceval («il teatro rappresenta il tocco umano dell’oscurità»). Lo stesso Rau scrive: «Una vittoria dell’umanità mi interessa più a teatro che altrove: perché è soggetta alle regole della realtà, come nessun’altra».

Non manca il contributo italiano offerto da Ermanna Montanari e Marco Martinelli di Teatro delle Albe («Il teatro nasce rivelando il fondamento violento della società, il sacrificio di tutte le Ifigenie della storia […], è un’arte di rivelazione, di smascheramento attraverso il mascheramento») e di Daniele Nicolò e Enrico Casagrande di Motus («Il teatro è qualcosa di stupefacente. […] ha la capacità atletica di reinventarsi, è una fenice che risorge dalle proprie ceneri»).

Tra crisi e catastrofi provocate dall’uomo, il teatro radica la sua esistenza e si rigenera sempre nel linguaggio drammaturgico e nelle forme estetiche assolvendo il ruolo di cantastorie e di contenitore delle contraddizioni della nostra vita, raccontata anche in una prospettiva diversa, di cambiamento: è questo il messaggio fondamentale del volume Why Theatre?/Perché il teatro.  

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Prosa lina
7 Aprile 2024

La parola, come viaggio nella deriva. Dialogo con Lina Prosa

Tiziana Bonsignore, «Teatro e Critica»

Raggiungiamo Lina Prosa al telefono poco dopo il suo ritorno dall’America Latina: «Un’esperienza straordinaria, magari si potesse più spesso». Prima autrice italiana a entrare nel repertorio della Comédie Française, con la sua Trilogia del Naufragio sulle migrazioni nel Mediterraneo, ha scritto testi legati al recupero contemporaneo di moduli e temi della drammaturgia classica. Assieme ad Anna Barbera è fondatrice del Centro Amazzone, a Palermo, dove si svolgono attività laboratoriali rivolte alle donne vittime di tumore al seno. A partire dall’uscita della sua ultima raccolta, abbiamo fatto il punto su come il presente, «tempo alla deriva», possa entrare nel teatro, risignificandolo.

Cominciamo dalla tua nuova pubblicazione, e dai testi che la costituiscono.

Ci sono nove testi all’interno del libro, che io ho suddiviso in due parti complementari: ‘testi‘ e ‘sottotesti‘. I primi sono legati alla città, i secondi alla campagna. I testi hanno un rapporto con il paesaggio più maturo e strutturato. Sono anche più conosciuti: ad esempio La carcassa è stato allo Stabile di Catania, mentre Ingrid e Lothar è stato rappresentato al Teatro Due di Parma. I sottotesti invece conservano ancora un’immaturità, una sincerità, un senso di malinconia, che sono quelli dell’autore nel rapporto con la parola. Si presentano come un sottotesto dell’anima. Ci sono dei segreti, in questi lavori, legati più alla mia vita che al teatro. Uno rimanda alla morte di mia madre, per dire. Un altro sottotesto riguarda il mio rapporto con l’Africa, la mia esperienza in quel continente fino alla pandemia – per la quale sono dovuta tornare perché si chiudevano le frontiere. Ho vissuto profondamente questa separazione, questo desiderio di essere in un mondo a cui guardavo da lontano. Tutto ciò rientrava e rientra ancora nel progetto che porto avanti: lavorare sulla distanza e sull’avvicinamento, questione che nella drammaturgia classica è presente ad esempio nella vicenda di Elettra e Oreste. La scrittura mi consente di attraversare territori e spazi che la realtà, quella in cui viviamo ogni giorno, non mi consente di attraversare. È come se le parole avessero le gambe e mi portassero a vedere le giostre, a salire su un cavallo: tutto può indurti a guardare con stupore al mondo. La scrittura vive, vive insieme a me. Domani, un altro giorno, sarà un altro giorno della scrittura. È un aggiornamento dell’anima, quello che compio. Io davvero scrivo in maniera innocente. Ho messo insieme questi lavori perché volevo che avessero una vita in comune.

Mi sembra che questi tuoi lavori vogliano anzitutto colmare il senso di una mancanza, per mezzo della parola e del teatro.

Qui dobbiamo fare un passo indietro. Non solo quando scrivo, ma anche quando mi avvicino alla scena, lavoro moltissimo sul livello del laboratorio, dimensione che mi si confà di più. Il mio alter-ego è sempre l’attore, non è mai il regista. Quindi, per tornare al tuo discorso sul senso della mancanza, per me la scrittura è desiderio del corpo dell’attore, di una fisicità al di fuori di me. È la ricerca di un avvicinamento, un desiderio verso la storia – non la storia legata al mio testo, alla mia parola, ma la storia intesa come quella parte di me al di là di me. È tensione verso qualcosa che non esiste, che ancora non è là. E allora io intraprendo un viaggio per raggiungerlo. La parola, nel momento in cui si confronta con una diversa accezione dell’esistenza, cerca un appoggio fisico: per me quell’appoggio fisico è l’interprete. Non intendo tanto l’attore in scena, quanto la testimonianza palpabile di qualcosa che io, noi tutti viviamo come assenza. Sai, credo che in fondo il mistero della vita sia legato all’assenza. Ogni volta che facciamo teatro, ogni volta che scriviamo, noi cerchiamo di decostruirla, di compensarla, questa assenza. Per questo la scrittura deve creare una nuova visione del mondo, più che una realtà effettiva: un avamposto reale, fisico, dentro il mistero della nostra condizione.

In che modo la parola può addentrarsi, secondo quanto dici, nella realtà?

Ti faccio l’esempio del mio lavoro su Medea, non compreso nell’ultima raccolta: stavo iniziando questo progetto di ricerca in Francia, con un gruppo di attrici. Proprio il giorno in cui cominciamo, scoppia la guerra in Ucraina. E lì che fai? Il presente non può colpirti come un colpo di vento, che attraversandoti ti asciuga. Allora è chiaro che quella guerra è entrata subito nel testo, modificandolo, accogliendo il mio vissuto, la mia indignazione. Tutto diviene linguaggio poetico, ma prima c’è l’impatto con qualcosa che cambia completamente la tua visione e ti costringe ad attrezzarti di nuovo, a lottare. Per me un testo è sempre un’esperienza di rivolta. Certo la rivolta spesso è un’esperienza solitaria – mentre la rivoluzione è sempre collettiva – ma rimane comunque un atto di partecipazione al cambiamento. Quando scrivo metto in discussione anche la forma teatrale, il senso e la funzione del teatro, perché mettere in crisi il teatro significa mettere in crisi anche la società, la realtà. Per me il teatro non è solo pratica teatrale (qui è la lezione della drammaturgia greca che mi accompagna). Il teatro è il coraggio di poter guardare, così com’è nell’origine della parola – da theaomai, vedere. Guardare nel buio, nel conflitto che ci segue ovunque, è un atto in grado di cambiare la parola nel suo viaggio verso l’interpretazione. La scrittura, il teatro, non possono dare soluzioni, ma possono far aprire gli occhi, guardando fisso nel nodo conflittuale dell’esistenza. E quando dico esistenza, parlo anche della dimensione politica, della forma politica dell’esistenza. Dobbiamo essere fastidiosi: il teatro non può essere connivente. Per me, la scrittura deve essere un meccanismo di allerta sulla deriva in atto.

Penso alla Trilogia del Naufragio, dove presente e senso mitico si confondono in una nuova visione della realtà.

La Trilogia del naufragio è una grande macchina di allerta. Parliamo di persone distrutte da un viaggio disumano: è il grande tema su cui dovremmo tenere gli occhi aperti, perché lì si gioca la nostra facoltà di sentirci umani. Su questo si riversa non solo la mia sensibilità di autrice, ma anche di siciliana. Io come faccio a sentirmi umana quando so che delle persone si bruciano la pelle sui barconi, muoiono di inedia e la loro sepoltura consiste nell’essere buttati a mare dai propri cari? È lì che manca il rispetto dell’umanità, ed lì che dobbiamo lottare. Io posso farlo con le mie armi naturali, le parole. Ma ci sono associazioni, persone che fanno un grande lavoro. Che stanno in allerta, appunto. La migrazione è l’ultima occasione per recuperare la nostra umanità. Noi abbiamo perduto il valore mitico del viaggio: ci spostiamo per vacanza, turismo, lavoro. Così abbiamo smarrito l’ultima possibilità di scommettere su una vita diversa. Di andare oltre il confine, il limite. Noi non siamo più in grado di compiere un percorso rivoluzionario. Soltanto i migranti oggi ci danno l’esempio del viaggio come valore assoluto verso un cambiamento. Tutto ciò riporta al mito, ad Ulisse: c’è chi arriva a Itaca, c’è chi non arriverà mai. Per questo la parola deve muoversi, consentendoci di mettere in gioco facoltà che altrimenti sono negate: quelle dell’esplorazione di un altro territorio, non solo della realtà, ma anche dell’anima, della mente. Il teatro non va soltanto fatto, ma anche pensato, sentito, attraversato, viaggiato appunto. Non siamo fatti per essere residenziali, siamo fatti per essere nomadi. Abbiamo questa necessità di muoverci, di andare oltre.

In che modo queste tue concezioni si trasformano in prassi, al Centro Amazzone?

Il Centro Amazzone è un po’ il cuore di quello che ho detto. Il principio è quello di guardare a un’esperienza traumatica, se vuoi di frontiera (quella del tumore al seno) da un altro punto di vista. Al centro adottiamo un approccio multidisciplinare che unisce mito, scienza e teatro. Dal momento in cui il nostro lavoro si concentra sulla questione del corpo, il teatro ha nelle nostre attività un ruolo centrale. Noi spesso viviamo per categorie: ma in realtà per me tra il fare teatro e prendersi cura di qualcosa non c’è differenza. Non a caso a partire dalla pandemia, momento di rottura straordinario, si è parlato molto di «teatro come cura». La cura non è solo una terapia medica, ma anche il sentimento integrale della tua persona. Anche, soprattutto nella condizione di crisi.

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7 Ottobre 2023

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6 Ottobre 2023

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6 Ottobre 2023

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Nella solitudine dei campi di cotone in cui vaga il teatro contemporaneo, driiin: l’Accademia di Svezia chiamò. A rispondere è Jon Fosse, norvegese, classe 1959, drammaturgo sopraffino prima ancora che venerato romanziere, fresco di Nobel per la Letteratura per aver «dato voce all’indicibile». Da Pinter a Jelinek, almeno a Stoccolma si ricordano di quell’arte chiamata […]
6 Ottobre 2023

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6 Ottobre 2023

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6 Ottobre 2023

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Jon Fosse è Premio Nobel per la Letteratura 2023: Per le sue opere teatrali e di prosa innovative che danno voce all’indicibile. La motivazione del premio richiama inequivocabilmente i testi scritti per il teatro, che ne rappresentano il fulcro. All’epoca dell’assegnazione, Cue è l’unica casa editrice italiana a detenere i diritti di pubblicazione delle opere […]
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Jon Fosse ha vinto il Premio Nobel per la Letteratura 2023, che gli è stato assegnato dall’Accademia Svedese per «la drammaturgia e la prosa innovative che danno voce all’indicibile». Fosse è uno scrittore norvegese autore di romanzi, drammi teatrali, saggi, poesie e libri per ragazzi. Ha sessantaquattro anni, è anche un traduttore ed è molto […]
5 Ottobre 2023

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5 Ottobre 2023

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5 Ottobre 2023

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1 Ottobre 2023

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1 Ottobre 2023

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Volevo essere Dostoevskij

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23 Luglio 2023

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