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Approfondimenti, interviste, recensioni e cultura: il meglio dell’editoria e delle arti da leggere, guardare e ascoltare.

Foto 2 mosaic depicting theatrical masks of tragedy and comedy thermae decianae
30 Dicembre 2024

Capire il teatro? Missione possibile

Nicola Arrigoni, «Sipario»

Si crede che un’azione di diffusione e ri-considerazione dei linguaggi scenici parta anche e soprattutto dagli strumenti che si possono avere per leggere lo spettacolo dal vivo. Ecco allora che l’azione di una casa editrice può diventare protagonista di una necessità: non tanto e non solo fare il punto sugli studi delle arti performative, ma cercare di trovare i riferimenti per leggere ciò che accade sulla scena, per offrire tali strumenti agli spettatori/lettori. In questo impegno sembra essere proiettata la casa editrice Cue Press, diretta da Mattia Visani, che propone una serie di titoli che fanno riferimento alla semantica dei linguaggi performativi, ne forniscono il glossario e le modalità di fruizione. Si parla da sempre dell’educazione alla visione e si crede che questo possa essere un modo per dare opportunità di leggere e avere modalità di accesso alla scena e alle sue lingue. Tanto più in un periodo come quello attuale che vive una sorta di disegno di restaurazione e di ritorno alla tradizione contrapposto a una natura performativa sempre più stringente delle esperienze indipendenti. Questa bipolarità schizofrenica, oppure consolidata dalle divisioni che da sempre esistono nel teatro, impone una sorta di bussola di orientamento, impone una sorta di alfabetizzazione per recuperare ciò che si è scordato e per inquadrare, almeno tentarci, ciò che ci pare insolito, nuovo e spesso poco comprensibile. È in questa ottica che ci piace leggere alcune uscite editoriali di Cue Press che con convinzione e determinazione ha colto l’eredità della gloriosa casa editrice Ubulibri, diretta da Franco Quadri. In questa pur parziale proposta di volumi, si vuole offrire una panoramica atta a cercare di mettere punti fissi, a fornire gli ingredienti per orientarsi nelle arti della scena.

Vocabolari per capire il teatro

«Il teatro è un’arte fragile, effimera, particolarmente esposta all’influenza del momento. Nessuno potrebbe rendersene conto, senza essere pronto a ridiscutere ogni volta i propri fondamenti teorici e, dunque, a correggere costantemente la teoria critica deputata a divenire fenomeno di teatro», scrive Patrice Pavis nella prefazione al suo Dizionario del teatro, a cura di Paola Ranzini e Paolo Bosisio, pubblicato da Cue Press (pagine 522, euro 55,99). Si parte dalle parole accessoriattrezzeria per chiudersi col lemma voce fuori campo. In mezzo c’è il mondo c’è il significato di comico, come quello di messinscena, l’inafferrabile mutazione del termine drammaturgia come il non meno imprevedibile mutar dell’attore e del performer. «L’opera si fonda, oltre che sulla vasta e sempre aggiornata cultura scientifica e filosofica dell’autore, sulla sua straordinaria esperienza di spettatore, necessaria, quanto la prima, per garantire un accostamento nutrito di concretezza a un settore dell’arte che più di altri, probabilmente, risente della materialità del suo agire e del suo configurarsi», scrivono Ranzini e Bosisio. Nella lettura delle varie voci – tutte o quasi corredate di una bibliografia di approfondimento – è possibile tenere conto di una lettura tematica, indicata ad inizio di volume dalla suddivisione delle parole analizzate per temi: Attore e personaggio, Drammaturgia, Generi e forme, Messinscena, Principi strutturali e questioni estetiche, Ricezione e Testo e discorso. Già da queste voci che raggruppano altri lemmi si intuisce come l’approccio di Patrice Pavis sia essenzialmente di carattere semiotico e spostato sulla comunicazione che intercorre fra palco e platea, un aspetto quello della costruzione e della ricezione del testo teatrale e performativo che emerge e che non può liquidare il testo di Patrice Pavis semplicemente come un vademecum alla visione, ma piuttosto come un’immersione nella struttura comunicativa ed estetica dell’atto teatrale. 

Il Lessico del dramma moderno e contemporaneo di Jean Pierre Sarrazac, a cura di Davide Carnevali (Cue Press, pagine 186, euro 34.99), parte dalla A di Azione per chiudersi con la V di Voce, offrendo al lettore una cinquantina di voci che permettono di costruire una sorta di guida al mutamento e alla trasformazione del dramma moderno e contemporaneo, partendo dagli ultimi decenni del XIX secolo fino ad arrivare ai giorni nostri. Il volume è l’esito del lavoro del Groupe de Recherche sur la poétique du drame modern et contemporain, coordinato da Sarrazac e per questo frutto di una polifonia di sguardi e di intenti che rendono ogni voce a sé stante, per quanto componente un quadro ben preciso: andare alla scoperta della necessità di destrutturazione del dramma, iniziato nella seconda metà dell’Ottocento e arrivato fino alle forme di post-drammatico dei giorni nostri. Sullo sfondo c’è «l’idea di una crisi senza fine nei due sensi del termine. Di una crisi permanente e di una crisi senza soluzione, senza orizzonte prestabilito. Di una crisi che si esprime interamente attraverso vie di fuga imprevedibili», si legge nella prefazione a cura di Marco Consilini. A questo fanno riferimento i diversi lemmi, a questo contesto guardano le voci di un lessico che va in cerca della rottura delle tradizionali forme di rappresentazione. Ciò che offre questo Lessico del dramma moderno e contemporaneo è uno spaccato sul mutare delle forme drammaturgiche nella consapevolezza che la storia dell’arte non è determinata da idee ma dal loro realizzarsi in forme. 

Nel segno della semantica teatrale si pone anche il volume Lingua orale e parola scenica, a cura di Vera Cantoni e Nicolò Casella (Cue Press, pagine 196, euro 29,99) in cui viene analizzato il rapporto fra parola e vocalità, aprendo uno scorcio di analisi sul legame che esiste fra scrittura e voce, fra parola e il suo farsi nell’azione dell’attore. «La parola teatrale si presenta per sua natura come parlata, sebbene in molti casi la sua origine sia letteraria: il suo medium è costantemente orale, ma la sua concezione variabile. Questo scarto, insieme all’ulteriore passaggio che vede i testi drammatici spesso conservati in forma scritta, costituisce la premessa fondamentale della complessa rete di potenzialità espressive per gli artisti», si legge nell’Introduzione del volume che raccoglie una serie di interventi che spaziano da Cechov e l’oralità di Fausto Malcovati alla riflessione sulla lingua scenica nelle Baccanti di Euripide a cura di Maria Appaia, oppure dalle Lingue nuove di Federico Tiezzi, indagate da Carla Russol, al dialetto di Marco Paolini, su cui si è concentrato Juan Pérez Andrés, solo per citare alcuni dei contributi. Ma perché inserire questo volume nella sezione dei dizionari? Perché si crede che i diversi interventi e casi di studio possano rappresentare altrettanti voci di un ideale dizionario sull’oralità nel teatro, sulla possibilità di offrire indicazioni di merito rispetto alle trasformazioni della lingua dalla pagina scritta alla scena o viceversa. 

Perché il teatro? 

Fornite le parole e i loro racconti è ora di chiedersi in cosa il teatro ci tocchi, perché ancora ci coinvolga? E quando questo non accade per quale motivo sentiamo ciò che succede sulla scena a noi estraneo? La proposta è, in questa sede, duplice: da un lato la guida all’analisi dello spettacolo, dall’altro la possibilità di affidarsi alla guida di maestri della scena che introducano lo spettatore nel loro mondo scenico. Il tutto è pensato come uno stimolo per la costruzione di uno spettatore consapevole o, perlomeno, attrezzato sui contenuti e sulle forme dello spettacolo dal vivo. A questo obiettivo punta Patrice Pavis col volume L’analisi degli spettacoli. Teatro, mimo, danza, teatro-danza e cinema, a cura di Dario Buzzolan e Roberta Cortese (Cue Press, pagine 356, euro 37,99) in cui l’autore metta a punto una vera e propria guida alla fruizione degli spettacoli dal vivo, partendo dai presupposti di analisi per approdare all’analisi dei componenti della scena: attore, voce, musica, ritmo, ma anche spazio, tempo e azione e poi scene, costumi, trucco e luci per approdare infine a testo in scena. C’è poi un’ampia sezione – dal taglio nettamente semiotico – dedicato alle condizioni della ricezione per arrivare al punto di vista dello spettatore. Con rigore scientifico e straordinario dono della sintesi Patrice Pavis mette il lettore davanti a una marea di informazioni, decostruisce l’atto teatrale, lo scompone, lo analizza, ne documenta i diversi punti di vista analitici per offrire un panorama di studi e di idee davvero ampio e che si concentra in pagine dense di significato, impegnative ma estremamente fruibili nella loro scansione argomentativa. E se in un certo qual modo il titolo stesso del volume di Pavis pone il lettore nei panni di un chirurgo delle forme e della creatività scenica, gli altri due volumi che si segnalano per una alfabetizzazione alta dello spettatore fanno riferimento a un’analisi dall’interno, hanno un afflato esperienziale che ha la meglio su tutto e soprattutto sull’astrazione pura, di cui forse pecca un poco il volume di Pavis.

È allora un racconto caldo e polifonico quello che Corrado D’Elia e Sergio Maifredi costruiscono in Strade maestre (Cue Press, pagine 226, euro 24,99) che propone una serie di conversazioni e incontri con i maestri della scena Eugenio Barba, Lev Dodin, Stefan Kaegi, Antonio Latella, Ariane Mnouchkine, Thomas Ostermeier, Milo Rau, Peter Stein, Krysztof Warlikowski. I due autori accompagnano in un viaggio reale ed emotivamente narrato a incontrare i maestri della scena contemporanea. Da quegli incontri fuoriescono non solo i ritratti degli artisti, ma anche l’analisi della loro ricerca, il loro pensiero sul teatro e le sue estetiche. Ed è questo il bello del volume Strade mastre, gli artisti si raccontano a ruota libera, dicono del loro rapporto col teatro, dei loro successi come degli insuccessi, offrono al lettore uno spaccato della creatività scenica e del pensiero sulla scena che profuma di autenticità e del calore che caratterizza ogni incontro basato sulla disponibilità al racconto. Dopo le analisi affidate alla semiologia, il volume Strade maestre immette nella carne e nel cuore del teatro, vissuti dai maestri della scena contemporanea. Ed allora la chiusura di questa carrellata per spettatori che leggono non può essere la domanda Why theatre? che si pongono Milo Rau, Kaatje De Geest e Carmen Hornbostel nel volume curato da Andrea Porcheddu (Cue Press, pagine 164, euro 22,99), interrogativo a cui alcuni dei maestri della scena contemporanea cercano di dare risposta. Jerome Bel, Anne Teresa de Keersmaeker, Gisèl Vienne, Amir Reza Koohestani, Angelica Liddell, Toshiki Okada, Alain Platel sono alcuni degli artisti che si confrontano con l’interrogativo: Perché il teatro? Può essere consolante che la stessa domanda con cui si è aperta questa guida possibile e parziale ai linguaggi performativi appartenga non solo a noi spettatori, ma sia in primis di chi si misura direttamente con i linguaggi della scena. Verità definitive non ci sono, ricette magiche che il mondo definisca, neppure. Ciò che rimane è la nostra curiosità, la voglia di mettersi in dialogo, magari con qualche strumento d’analisi e consapevolezza in più, fornito da buone letture. Questo lo scopo del viaggio fra le pagine che cercano di ingabbiare quel corpo volatile e mutevole che è il teatro e le sue multiformi espressioni di creatività.

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Barba e maifredi
29 Dicembre 2024

Altro che epoca senza maestri: in teatro esistono ancora (e ce n’è un gran bisogno)

Marco De Marinis, «il Fatto Quotidiano»

È diventata ormai un luogo comune, quasi sempre soffuso di passatismo nostalgico, la lagnanza sul fatto di vivere in un’epoca ‘senza maestri’. Ma è davvero così? Molto dipende da cosa si intende per maestri e da dove andiamo a cercarli. Che si viva, da tempo, in un’età post-ideologica, orfana delle grandi narrazioni novecentesche, è un dato di fatto. Come pure la crisi della figura (l’intellettuale, il maître à penser) che era stata sicuramente una protagonista, nel bene e nel male, delle vicende storiche e culturali del secolo scorso.

Se poi guardiamo al piccolo mondo del teatro, la sensazione di orfananza, di perdita di riferimenti inoppugnabili, appare diffusa e non da oggi. Quasi trent’anni fa, mi trovai a parlare di un teatro, quello di fine secolo, ‘dopo i maestri’. Intendendo con questo non che i maestri non ci fossero più, o non ci fossero stati, ma che la nuova generazione teatrale, quella che aveva debuttato negli anni Novanta, tendeva a farne a meno, a presentarsi orfana appunto, per meglio sottolineare una discontinuità rispetto ai modelli e alle tendenze che avevano dominato la scena dal dopoguerra in avanti, insomma la necessità di un azzeramento e di una ripartenza alleggeriti dal fardello della tradizione, fosse pure quella del nuovo, dalla neo-avanguardia al Terzo Teatro.

Dunque, una condizione più scelta che subìta, più soggettiva che oggettiva. Perché intanto i maestri, o comunque vogliamo chiamare le figure più prestigiose della scena contemporanea, continuavano a esistere e ad operare: da Carmelo Bene a Luca Ronconi, da Dario Fo a Leo de Berardinis, da Jerzy Grotowski a Eugenio Barba, da Peter Brook ad Ariane Mnouchkine.

Nel 2023 è uscito un libro ‘inattuale’, di cui sono autori un attore regista, Corrado D’Elia, e un regista direttore, Sergio Maifredi, i quali sulla questione vanno decisamente controcorrente, partendo dalla convinzione che i maestri esistono eccome e ce n’è ancora un gran bisogno (Strade maestre. I Maestri del teatro contemporaneo, Cue Press). Tant’è che decidono di viaggiare in tutta Europa per incontrarli. Fra l’altro, ciò accade proprio nel momento meno propizio per girare il mondo, il periodo della pandemia da Covid 19, fra 2021 e 2022.

D’Elia e Maifredi si mettono in viaggio avendo stilato la loro lista e, nonostante le gravi difficoltà del momento, riusciranno ad incontrarli tutti tranne uno, il russo Lev Dodin, che non il Covid ma lo scoppio della guerra in Ucraina renderà impossibile raggiungere. In ordine di apparizione nel libro abbiamo: Peter Stein, Eugenio Barba, Stefan Kaegi (Rimini Protokoll), Thomas Ostermeier, Ariane Mnouchkine, Milo Rau, Antonio Latella, Krzysztof Warlikowski.

Alle interviste, ampie e ricche di spunti, si aggiungono brevi annotazioni introduttive e conclusive, molto legate alla città in cui si svolge l’incontro e alle sue suggestioni. Le conversazioni non seguono sempre lo stesso schema, adattandosi alla personalità di ciascuno degli intervistati. Ma hanno ovviamente dei motivi ricorrenti, come l’intreccio fra arte e vita, il lavoro con gli attori e il rapporto con gli spettatori.

Naturalmente il vero leitmotiv è costituito dal tema dei maestri, riproposto con forza ad ogni incontro. Tuttavia le risposte che i due ottengono non sono forse quelle che si aspettavano. Sono in pochi a condividere in pieno l’idea che la perdita o piuttosto il non riconoscimento dei maestri sia un danno serio per il teatro di oggi (Stein e in parte Mnouchkine). Prevale invece un certo distacco e una evidente evasività (Latella: «ho avuto degli shock, non propriamente dei Maestri»), che in qualche caso diventa aperto disinteresse (Warlikowski) o vero e proprio dissenso (Ostermeier: «Bisogna prendere le distanze da questo concetto di Maestro»). Colpisce, come al solito, la lucidità disincantata di Eugenio Barba, che, da vero maestro, prima elegge a propri maestri i suoi attori e poi aggiunge: «Per quanto riguarda gli eredi: non esistono in teatro, sono soltanto un’illusione. Pensate al povero Stanislavskij o a Brecht. La sola eredità che puoi lasciare è una coerenza di vita […]. Non ho voglia di eredi».

Alla fine, il libro-viaggio trova il suo vero senso: «Ecco, quindi, che il nostro viaggio verso i Maestri ci si rivela ora per quello che davvero è stato: ancora una volta un viaggio di iniziazione, di realizzazione e di risveglio. […] Il viaggio, il chiedere e l’incontrare ci hanno rivelato noi stessi».

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Dostoevskij
12 Dicembre 2024

La vita di Dostoevskij

Giuseppe Costigliola, «Eurocomunicazione»

«L’incontro con uno scrittore è sempre una verifica del proprio sistema di vita»: apre così Fausto Malcovati la premessa al suo Un’idea di Dostoevskij (Cue Press, pp. 128), spigliata e conchiusa guida introduttiva alla biografia e alle opere del grande romanziere russo. Concetto fondamentale, valido non soltanto per chi, come lui, è apprezzato docente di lingua e letteratura russa, traduttore e critico teatrale, ma per tutti coloro che si approcciano all’arte narrativa con spirito critico, cuore e mente aperti, con la consapevolezza che una lettura può anche mutare il corso della propria vita.

Pericolo (o desiderio) ben concreto nel caso di Dostoevskij, considerati gli immortali capolavori che ci ha donato, che pongono quesiti fondamentali sul significato dell’esistenza, sulla umanità della nostra specie.

Un invito alla lettura

In uno stile piano e coinvolgente, con un linguaggio accessibile che evita tecnicismi eccessivi, il lucido uso di fonti primarie, in particolare le lettere, Malcovati conduce il lettore – neofita o avvertito che sia – in un percorso affascinante attraverso la vita e le opere dello scrittore russo, offrendoci una chiave per comprendere la complessità del corpus letterario di Dostoevskij. Si sofferma sui punti salienti della biografia, dall’adolescente ‘serio e pensoso’ alle drammatiche esperienze della detenzione e dei lavori forzati in Siberia, la viscerale passione per la politica, i complicati rapporti con l’editore Stellovskij, gli amori e i lutti familiari. L’esistenza tormentata è abilmente intrecciata all’analisi dei romanzi: emerge da queste pagine il legame indissolubile tra vita e letteratura, forse il ‘segreto’ della grande forza di autenticità dell’immortale arte dostoevskijana.

L’autore non si concentra sulla pura analisi testuale: questo è un invito alla lettura, uno stimolo a immergersi direttamente nei romanzi, a riflettere sulla complessità della natura umana e sulle ineludibili domande esistenziali. Maggiore attenzione è dedicata alle opere maggiori – Delitto e castigoL’idiotaI fratelli Karamazov – con spunti di riflessione sulla psicologia dei personaggi e sulle universali tematiche ivi affrontate. Ecco quindi scorrere sulle pagine i grandi temi dostoevskijani: il bene e il male, la fede e l’ateismo, la sofferenza e la redenzione, la libertà e il determinismo, l’amore e l’odio, la rivoluzione e l’organizzazione della società.

Scoprire la gioia

Non manca l’ultimo atto dell’attività letteraria di Dostoevskij: il discorso su Puškin, pronunciato in occasione dell’inaugurazione del monumento eretto per il leggendario personaggio, nel 1860; Dostoevskij vedeva in lui il grande interprete dell’anima russa, il paladino di una missione grandiosa: rappresentare l’universalità dell’anima russa, capace di realizzare il messaggio evangelico. Il volume si chiude con una sezione dedicata al dibattito critico, una cronologia della vita e delle opere e un’utile bibliografia di riferimento. Questo libro giunge in un momento delicato, segnato dal tragico conflitto in atto tra Russia e Ucraina. Il messaggio di pace e di concordia che si leva poderoso dalle pagine del grande scrittore russo, che seppe indagare con indomito coraggio i luoghi più bui dell’animo umano, assume dunque maggior forza, ci indica una nuova via. E, come ci indica l’autore, leggendo Dostoevskij potremmo imparare a scoprire la gioia, rarità quasi estinta nel Mondo odierno.

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Fellini set amarcord
5 Dicembre 2024

Cosa vuol dire fare il regista? Ce lo dice Fellini in un libro

Davide Dal Sasso, «Artribune»

Di tutta quella meravigliosa impresa che solitamente chiamiamo ‘fare arte’, ne sappiamo davvero poco. Va così perché dalle opere difficilmente possiamo risalire con agilità a quello che hanno fatto le artiste e gli artisti per crearle. Avere una idea dei processi e delle attività che determinano la realizzazione di dipinti o sculture, di pièce di teatro e danza o dei frutti della musica, non è facile. Le cose sono ancora più complicate quando abbiamo a che fare con il cinema, arte nella quale oltre alle immagini in movimento dobbiamo considerare anche regie e sceneggiature, abilità attoriali e strutture narrative, usi della macchina da presa e montaggio, costumi scene suoni e musiche. Dunque, come si procede? 

Il libro Il mestiere del regista con le parole di Federico Fellini 

Reagendo alla rassegnazione, la strada percorribile è tracciata dalle riflessioni delle artiste e degli artisti sui momenti di escogitazione e sviluppo del loro lavoro. Se possibile, dunque, la via è parlarne direttamente con loro. Sono infatti proprio le parole di Federico Fellini (Rimini, 1920 – Roma, 1993), in risposta alle domande ben poste da Cirio, a dare forma alle tre conversazioni che compongono il libro. La prima è dedicata alla figura dell’attore, la seconda a quelle dei produttori e del regista, la terza al mestiere di quest’ultimo. A contraddistinguerle sono sicuramente la schiettezza e la puntualità di uno dei più grandi registi del Novecento che con freschezza intona ricordi e fantasie muovendosi nel tempo tra esperienze teatrali e cinematografiche. Completa il libro l’intervista di Ottavio Cirio Zanetti a Nicola Piovani dedicata al lavoro con Fellini e al suo rapporto con la musica. 

Inquietudini e fosforescenze. Il cinema di Federico Fellini 

Il libro pubblicato da Cue Press ha il merito di offrire a lettrici e lettori quell’invito speciale ad avvicinarsi a Fellini senza girare troppo intorno ai temi che vengono brillantemente evocati da Cirio che guida con metodo le conversazioni. C’è sempre qualcosa di sorprendente nelle imprese di attrici e attori. Fellini descrive questa condizione ricordando come già da bambino avvertisse la forza della recitazione quasi fosse un fenomeno che potesse essere «contagioso» (p. 11), una esperienza basata su un misto di irrequietezza e sorpresa. Sentimenti non così elementari come potrebbero sembrare, specie se si pensa al modello di attore prediletto da Fellini, che non era né quello incarnato dai divi del cinema internazionale né quello dei cowboy. Piuttosto che l’eroe vittorioso il regista de La dolce vita apprezzava l’eroe positivo, «un eroe buffo, sfortunato a cui capitano le cose più catastrofiche» (p. 12). Ecco anche da dove traeva origine quel suo beffardo interesse per i pagliacci del circo, nonché – ampliando la prospettiva – direttamente per quest’ultimo più volte raffigurato nei suoi film.  

La recitazione secondo Federico Fellini 

Ora, se da una parte la questione della recitazione era influenzata da una inquietudine, descritta da Fellini che si rimette nei panni del (giovanissimo) osservatore quale era stato più volte; dall’altra, la medesima questione risentiva inevitabilmente di fascinazioni rese possibili da doti umane e più che umane proprie di attrici e attori. Recitare significa mostrarsi, affrontare il buio della sala o la vicinanza della macchina da presa, esporsi ai giudizi. Fellini, che ha spesso lavorato guidato dall’ingegno del disegnatore nella costruzione delle scene e dalla sua sensibilità rispetto alle vicende attoriali, era interessato a quella linea sottile tra realtà e finzione senza tuttavia perdere di vista anche la compresenza del ‘fattore umano’. Le attrici e gli attori, osservava, si portano addosso una sorta di aura, «una sorta di fosforescenza, che poi riesce a mantenersi anche nella vita, non solo sul palcoscenico» (p.15) e neppure solo sullo schermo. 

Fellini: attore, sceneggiatore e infine regista 

A questo punto si dirà che non sia del tutto chiaro che cosa c’entrino queste acute osservazioni con l’esercizio della professione di Fellini. Quello del regista è un mestiere che ha origine ben prima dell’uso della macchina da presa e della direzione di attrici e attori. Si radica e si sviluppa nelle pagine piene zeppe di note e appunti, in abbozzi di volti e scene, nei canovacci preliminari di qualche storia: soprattutto, nella fine osservazione delle attività umane. Fellini ne dava già prova con le sue esperienze da sceneggiatore e con le poche apparizioni come attore, rispetto alle quali si esprime nel libro con numerose osservazioni senza tralasciare di menzionare la sua naturale timidezza. 

Il Fellini regista. Le sfide al mestiere 

Come noto, spesso inaspettatamente, la ritrosia si rivela essere un’ottima risorsa proprio per affinare l’osservazione. Già, ma per fare cosa? Per esempio, per riuscire a ‘coltivare la propria immaginazione’ stando anche lontano dai riflettori. Il mestiere del regista trae origine anche da tali possibilità. Fellini, infatti, chiarisce a un certo punto: «nei miei film alcuni sono degli attori veri, dei professionisti, altri soltanto delle facce che mi seducono, che ho scelto perché rispondevano a quello che avevo immaginato» (p. 18). Nel libro aneddoti e riflessioni a proposito di attrici e attori sono numerose: da Anita Ekberg a Franco Fabrizi, da Totò e Donald Sutherland a Marcello Mastroianni e Anna Magnani. Ma a tornare sempre in primo piano sono due temi in particolare: le scelte del regista e la sfida tutta rivolta direttamente a quel suo mestiere. Infatti, se da una parte Fellini precisa il suo interesse a lavorare con attrici e attori in modo da «raccontarli al meglio, anche a loro insaputa qualche volta, o nonostante loro» (p. 32); dall’altra, egli ammette anche che «un attore può suggerirti continuamente delle soluzioni, magari anche in contraddizione con quello che avevi immaginato» (p. 37). Il mestiere, dunque, prende forma mentre lo si svolge.  

Il ruolo dello spettatore secondo Federico Fellini 

Lasciando affiorare nelle sue risposte reminiscenze ed esperienze lavorative, quello che Fellini traccia è innanzitutto il profilo dello spettatore, non subito quello dell’autore. «Pensavo, come pensa ancora molta gente, che facessero tutto gli attori, che fossero gli attori a fare il cinema» (p. 55). Lo stesso vale per quelle forme di spettacolo che sono il teatro e il circo: «tutto quello che vedevi era fatto da loro, dagli acrobati, dai clown, dai prestigiatori, dai giocolieri» (ibidem). Rispetto ai diversi ruoli professionali, imprescindibili affinché il cinema come arte possa esistere, Fellini si esprime pertanto attraverso quelle sue due prospettive mantenendo quale primo riferimento proprio lo spettacolo.  

Federico Fellini e la figura del produttore cinematografico 

La produzione del cinema richiede di tenerle in considerazione entrambe, ma il cuore delle sue riflessioni è esattamente lo spettacolo, o più precisamente la sua possibile riuscita in relazione a come può essere organizzato. Quello con i produttori è un rapporto basato sul conseguimento di armonie tra gusti diversi, sui limiti e le possibilità della effettiva organizzazione del lavoro, su proposte e controproposte. Dopo molte considerazioni, Fellini formula una sintesi della sua idea di quei momenti, non scevra di mitologia come sottolinea anche Cirio: il produttore è colui «che prepara anche la configurazione e il carattere del film, non soltanto l’aspetto economico-finanziario ma l’identità del film» (p. 78). Una questione organizzativa imprescindibile, Fellini ne era fermamente convinto. 

Il cinema: arte o tecnica?

Di nuovo, così come appare chiaro nell’ultima conversazione raccolta nel libro, attraverso il discorso sull’organizzazione la questione di fondo torna a essere quella del mestiere del regista: dell’autore che per fare quelle sue opere, basate sulla combinazione di scrittura recitazione e riproduzione audiovisiva, non può trascurare il piano organizzativo che ne rende possibile la creazione. Ma l’aspetto interessante che emerge in questo terzo scambio è che il movente di quel mestiere è evidentemente artistico. Con sincerità, infatti, Fellini ammette che il lato tecnico del lavoro con la macchina da presa per lui «resta un mistero. È come il motore dell’automobile. So guidare, sono stato un guidatore precoce, ma non riesco a capire cosa succede lì dentro» (p. 83). 

Il ruolo degli imprevisti nel cinema di Federico Fellini 

Che il movente non sia tecnico ma artistico, per l’autore di Giulietta degli spiriti e di Fellini Satyricon significa anche avere bene in chiaro una questione essenzialmente umana che influenza costantemente anche i processi creativi: il ruolo degli imprevisti. Quando Cirio gli chiede quante volte un evento improvviso lo abbia costretto a cambiare i suoi piani, Fellini risponde: «mi sembra pericoloso, almeno per me, tentare di sezionare il film in tante ipotetiche forme» semmai, prosegue, quello che «è diventato indispensabile è un modo di preparare il film che non soffra di questa separazione» (p. 85). Se, infatti, per un verso, egli segnala che quella separazione causerebbe la perdita di un senso unitario dell’opera, dall’altro ammette che vi siano comunque punti di vista diversi che possono interferire con la sua creazione «ma solo perché la cosa che stai facendo è vitale, non perché è stata anatomizzata in questo modo» (ibidem).  

La regia è una questione di sensibilità artistica

L’artisticità si fa poi tutt’uno con la sensibilità del regista Fellini che non smette mai di essere anche spettatore e fine osservatore. Così, quando Cirio gli chiede quale sia un momento irrinunciabile del suo lavoro, Fellini risponde: «è una specie – sono quasi impacciato a tradurlo sul piano verbale – di contatto che mi sembra di avvertire quasi con una sorta di solletico e di sentimento gioioso» (p. 85). È il momento in cui si palesa «la prima lontanissima e improbabile, ineffabile, sensazione di aver visto il film. Un sentimento che riguarda questa cosa che già esiste, perfettissima in tutti i suoi dettagli ma che in quel momento ti appare nella sua totalità e comincia a trasmettere la sua amicizia con te» (pp. 85-86). 
D’altra parte, qualsiasi dubbio sulla presenza del movente artistico è fugato dal fatto che, come ricorda Fellini, parallelamente a quella sua «vaga speranza» di diventare un giornalista egli coltivava anche altre ambizioni: «mi sarebbe piaciuto anche fare il direttore di un circo ma anche il pittore, insomma qualcosa che aveva più o meno vagamente a che fare con l’arte» (p. 82). 

La nuova edizione de Il mestiere del regista

Quello pubblicato da Cue Press nella sua nuova edizione è un libro sicuramente prezioso che, grazie al fruttuoso scambio dialogico mantenuto da Cirio di pagina in pagina, invita a riflettere non solo sulla poetica di uno dei più grandi registi del Novecento ma anche sul suo modo di intendere quella pratica artistica che ha svolto per una vita mettendosi in più panni senza mai smettere di interrogarla. L’intervista conclusiva con il compositore Piovani aggiunge ulteriore valore al volume. 

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Craig
1 Dicembre 2024

Combattè ogni forma di naturalismo, battendosi per sublimare la recitazione, aprendosi al Simbolismo

Andrea Bisicchia, «Libertà Sicilia»

Ci siamo più volte occupati, sulle pagine di questo giornale, di Gordon Craig, oggi aggiungiamo un nuovo tassello, in occasione della pubblicazione di: L’arte del teatro. Il mio teatro, a cura di Ferruccio Marotti, autore anche di una Premessa e di un Itinerario che ne ricostruisce la vita professionale, essendo stato egli, il primo a farlo conoscere in Italia, con la sua monografia edita da Cappelli. Il volume raccoglie una serie di saggi, tra i quali: La Supermarionetta, di cui abbiamo già riferito, oltre che interventi sul teatro naturalista, sulla sua poetica, sul suo rapporto con l’attore, prima di arrivare alla formula che lo ha reso famoso, quella, appunto, della Supermarionetta, ovvero dell’attore che si libera da qualsiasi rapporto con la realtà, per poterla sublimare, grazie a una recitazione che lo affranchi da ogni forma di artificio e di esuberanza e che lo accosti a quella degli attori del teatro orientale, più attenti alla ritualità che alla immedesimazione. Ci troviamo nel primo decennio del Novecento, quando nasce il teatro di regia che si impegnava a liberare l’attore da certi vizi, acquisiti nel tempo e da certi «appoggi», per epurarlo, renderlo nuovo e pronto a esperienze diverse.

Forse i tempi non erano molto favorevoli, anche perché, per provvedere a un nuovo teatro, bisognava preparare un nuovo pubblico, fino a trasformarlo, proprio come si cercava di trasformare l’attore che Craig non considerava un artista, a meno che non sarebbe stato capace di raggiungere quella recitazione creativa, lontana dal pericolo naturalista e dal peccato, ancora più grave, della vanità. C’è da dire che Craig esplorava il teatro inglese, di fine Ottocento e inizio Novecento, quello della madre, Ellen Terry e di Irving, mentre, come danzatrice-attrice, come modello, aveva scelto Isadora Duncan. Se avesse guardato bene agli attori italiani, si sarebbe trovato dinanzi a un panorama molto più vasto e a mostri di bravura, come Salvini, Rossi, Zacconi, Ruggeri, Ristori, Duse, con la quale collaborò, in occasione della messinscena di Rosmerlshom di Ibsen, ma con cui litigò perché, in tournée, avevano tagliato una parte della sua scenografia. Non c’è dubbio che Craig volesse rivoluzionare il concetto di messinscena, non ricorrendo, però, alla regia, il cui interesse, a suo avviso, tendeva all’estetismo, bensì a un scenografia astratta, simbolista, che l’apparentava alle teorie di Appia.
Diceva che l’arte del teatro non si riforma con la regia, perché c’era bisogno di qualcosa di nuovo che affermasse l’autonomia di linguaggio scenico, dato che, la regia, permetteva soltanto il passaggio da un teatro inautentico a un teatro da intendere come esperienza totale.
Craig avvertiva, attorno al teatro, una degenerazione fisica e mentale, dovuta, in particolare, alla figura dell’attore che amava l’esibizionismo, quello che, per fare il geloso, per esempio, roteava gli occhi, andava in tutte le furie, stravolgeva l’espressione del volto, anziché dominarla, niente di tutto questo, perché la gelosia è un fatto mentale ed è, con la mente e non col corpo, che va recitata, attraverso un lavoro di preparazione, durante il quale, si doveva andare in cerca, non di emozioni disordinate, ma controllate, perché l’emozione ha il potere di creare e di distruggere. In scena, insomma, bisognava portare l’essenza dello spirito e non l’abilità da quattro soldi. Il vero artista è colui che riesce ad essere invisibile. Craig non sopportava le idee morte o le copie. Diceva: il teatro è come una montagna, nessuno è riuscito a scalarne le vette, per poterne dare notizie certe, il nuovo teatro deve essere il pane per nutrirti. Inoltre, era convinto che, i materiali adoperati per la scena, non servissero per travestire i pensieri, ma dovevano essere adatti per esprimerli. I veri artisti non sono i riformatori, ma i creatori.

Craig
25 Novembre 2024

Gordon Craig, e la sua Supermarionetta. La formula di una recitazione libera dalla realtà. Come un rituale orientale

Andrea Bisicchia, «lo Spettacoliere»

Ci siamo più volte occupati, sulle pagine di questo giornale, di Gordon Craig, oggi aggiungiamo un nuovo tassello, in occasione della pubblicazione di L’arte del teatro. Il mio teatro, a cura di Ferruccio Marotti, autore anche di una Premessa e di un Itinerario che ne ricostruisce la vita professionale, essendo stato egli il primo a farlo conoscere in Italia, con la sua monografia edita da Cappelli.

Il volume raccoglie una serie di saggi, tra i quali: La Supermarionetta, di cui abbiamo già riferito, oltre che interventi sul teatro naturalista, sulla sua poetica, sul suo rapporto con l’attore, prima di arrivare alla formula che lo ha reso famoso, quella, appunto, della Supermarionetta, ovvero dell’attore che si libera da qualsiasi rapporto con la realtà, per poterla sublimare, grazie a una recitazione che lo affranchi da ogni forma di artificio e di esuberanza e che lo accosti a quella degli attori del teatro orientale, più attenti alla ritualità che alla immedesimazione.

Ci troviamo nel primo decennio del Novecento, quando nasce il teatro di regia che si impegnava a liberare l’attore da certi vizi, acquisiti nel tempo, e da certi ‘appoggi’, per epurarlo, renderlo nuovo e pronto a esperienze diverse. Forse i tempi non erano molto favorevoli, anche perché, per provvedere a un nuovo teatro, bisognava preparare un nuovo pubblico, fino a trasformarlo, proprio come si cercava di trasformare l’attore che Craig non considerava un artista, a meno che non fosse stato capace di raggiungere quella recitazione creativa, lontana dal pericolo naturalista e dal peccato, ancora più grave, della vanità.

C’è da dire che Craig esplorava il teatro inglese, di fine Ottocento e inizio Novecento, quello della madre, Ellen Terry, e di Irving, mentre, come danzatrice-attrice, come modello, aveva scelto Isadora Duncan. Se avesse guardato bene agli attori italiani, si sarebbe trovato dinanzi a un panorama molto più vasto e a mostri di bravura, come Salvini, Rossi, Zacconi, Ruggeri, Ristori, Duse, con la quale collaborò, in occasione della messinscena di Rosmersholm di Ibsen, ma con cui litigò perché, in tournée, avevano tagliato una parte della sua scenografia.

Non c’è dubbio che Craig volesse rivoluzionare il concetto di messinscena, non ricorrendo però alla regia, il cui interesse, a suo avviso, tendeva all’estetismo, bensì a una scenografia astratta, simbolista, che l’apparentava alle teorie di Appia. Diceva che l’arte del teatro non si riforma con la regia, perché c’era bisogno di qualcosa di nuovo che affermasse l’autonomia del linguaggio scenico, dato che la regia permetteva soltanto il passaggio da un teatro inautentico a un teatro da intendere come esperienza totale. Craig avvertiva attorno al teatro una degenerazione fisica e mentale, dovuta in particolare alla figura dell’attore che amava l’esibizionismo, quello che per fare il geloso, per esempio, roteava gli occhi, andava in tutte le furie, stravolgeva l’espressione del volto, anziché dominarla, niente di tutto questo, perché la gelosia è un fatto mentale ed è, con la mente e non col corpo, che va recitata attraverso un lavoro di preparazione, durante il quale si doveva andare in cerca non di emozioni disordinate, ma controllate, perché l’emozione ha il potere di creare e di distruggere.

In scena, insomma, bisognava portare l’essenza dello spirito e non l’abilità da quattro soldi. Il vero artista è colui che riesce ad essere invisibile. Craig non sopportava le idee morte o le copie. Diceva: «il teatro è come una montagna, nessuno è riuscito a scalarne le vette, per poterne dare notizie certe il nuovo teatro deve essere il pane per nutrirti».

Inoltre, era convinto che, i materiali adoperati per la scena, non servissero per travestire i pensieri, ma dovevano essere adatti per esprimerli. I veri artisti non sono i riformatori, ma i creatori.

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Un'idea di dostoevskij
7 Novembre 2024

Molto più che Un’idea di Dostoevskij, un saggio di Fausto Malcovati

Adele Porzia, «ClassiCult.it»

Ricordo il mio primissimo libro di letteratura russa. Ero al liceo e, in un negozio dell’usato, avevo trovato un’edizione sfatta, senza copertina, con le pagine macchiate di caffè. Era un libro talmente malmesso che il proprietario me lo regalò. E, così, con Il maestro e Margheritadi Michail Afanas’evič Bulgakov me ne tornai a casa. Lo lessi qualche giorno dopo e non capì molto della storia, né tanto meno il suo senso profondo. Poi ci ho riprovato un annetto dopo, ma comunque senza grandi differenze.

Eppure, c’era una frase che continuava a saltarmi all’occhio dopo ogni lettura. Quella celeberrima affermazione di Korov’ev,che sostiene ad un certo punto del libro, con fare risentito, che Dostoevskij è immortale. E io, quel nome lì, l’avevo già sentito. Eccome se l’avevo sentito. E di lì a pochi mesi avrei letto Le notti bianche e, poi,Il giocatore, che è ancora adesso il mio romanzo preferito in assoluto.

Poi è toccato, piano piano, a tutti gli altri, ma spesso mi sono sentita come la priva volta che ho letto il capolavoro di Bulgakov: come se non fosse quello il momento giusto, come se non fossi abbastanza matura e attenta per comprendere il senso profondo di quello che stavo leggendo. Quando, infatti, è toccato a Delitto e Castigo non mi era rimasto niente. Poi, a distanza di anni, quando sono tornata sui miei passi, ho ripreso il libro, avvertendo una spinta segreta e irresistibile verso quel tomo di quasi seicento parole, mi si è formata dentro una voragine. Così con Memorie del sottosuolo. Così con L’idiota. Mi si è aperta una ferita che mi costringe a leggere e rileggere. E sono certa che ad ogni lettura e rilettura verrà fuori qualcosa di diverso, di nuovo, di inaspettato.

Eppure, non posso negare che, non avendo studiato russo (cosa che in questi ultimi mesi mi sta pesando particolarmente), mi perdo molto. A chi mancasse qualche nozione sulla lingua e sulla cultura russa, consiglierei di alternare alla lettura di Tolstoj e Dostoevskij, di Gogol e di Turgenev, con qualche bel manuale e saggio, procedura fondamentale per capire meglio l’universo nel quale ci si addentra. Perché ogni letteratura è un universo a sé e merita delle indicazioni preliminari, delle avvertenze. In tal senso può essere una bussola, una cartina, per ambientarsi meglio il saggio, edito da Cuepress, Un’idea di Dostoevskij, che racconta la vita e le opere di questo straordinario scrittore.

Ad averlo scritto è Fausto Malcovati, docente di Lingua e Letteratura Russa presso l’Università di Milano. Oltre ad essere un esperto di cultura russa, il professore ha vinto il premio Ubu per il valore della sua ricerca, ha tradotto tutto il teatro di Cechov, pubblicato scritti sui principali maestri di regia, come Stanislavskij, Mejerchol’d e Vachtangov e si è occupato di simbolismo russo, in particolare nelle opere di Vjaceslav Ivanov e di Valerij Briusov. Ha scritto, inoltre, diversi saggi e monografie dedicate a Gogol’, Tolstoj e Dostoevskij.

Attraverso questo saggio, Malcovati vuole offrire un’agile guida, un valido prontuario ai lettori, siano essi profani o attenti conoscitori dello scrittore. Non mancano le citazioni agli scritti, alle lettere, ad altri saggi, e la vita di Dostoevskij è passata attentamente al setaccio, dall’infanzia sino alla morte. Il professore non dimentica, inoltre, di riassumere la trama delle opere e i temi che vengono trattati.

Si può dire che il grande pregio di questo volume è quello che concentra in pochissime pagine (poco più di centoventi) un numero incredibile di informazioni sullo scrittore. Ne viene inserito ogni singolo aspetto della vita e del pensiero, tanto che posso affermare che sia uno dei libri più completi e precisi scritti sulla vita di Dostoevskij.

Fausto Malcovati elenca finanche le letture che questo grande scrittore russo ha fatto in giovinezza, la sua passione per Schiller (che torna in tante opere, soprattutto in Delitto e Castigo, quando lo stesso Raskolvikov viene considerto uno ‘Schiller’, un idealista, e così anche in Umiliati e offesi), il suo amore per il teatro, cui si recava spesso.

Malcovati ci permette di scoprire come Dostoevskij ha iniziato il suo viaggio nella scrittura proprio con tre opere teatrali – Maria Stuarda, Boris Godunov e L’ebreo Jankel – dalla forte influenza schilleriana e puškiana, che però sono andate perdute. Le informazioni su quello che era Dostoevskij – prima di Povera gente o prima dei grandi capolavori come Delitto e CastigoL’idiota, I demoni e I fratelli Karamazov – ci aiutano a capire come sia nato e come si sia evoluto il suo talento nella scrittura. Non è un caso, insomma, che una casa editrice che pubblica soprattutto di teatro, come la Cuepress, abbia ospitato un saggio così ben fatto. La ragione si trova proprio nella grande importanza che il teatro ha avuto nella vita e nell’opera di Dostoevskij.

Lo stesso Vladimir Nabokov, in Lezioni di letteratura russa, sostiene che più che un romanziere Dostoevskij fosse uno scrittore di teatro e non ha tutti i torti. Lo stesso Delitto e Castigo sembra un dramma che si consuma a teatro, con gli attori che si esprimono in lunghi monologhi. Nabokov non intendeva elogiare Dostoevkij (anzi, tutto il contrario, perché non lo apprezzava molto come romanziere) ma, seppur nel desiderio di muovergli una critica, ha detto una grande verità. Forse ha anche svelato il segreto di questo scrittore che, come un grande drammaturgo, riusciva a vedere nitidamente i personaggi e a dare loro un linguaggio unico.

Che dire? Che altro si può dire? Da lettrice della letteratura russa, da neofita e profana, da appassionata dei libri e della vita di Dostoevskij, non posso che consigliare questo libro agli addetti ai lavori come ai profani. Sarà un modo per entrare intimamente e profondamente nella vita e nell’opera di Fedor Dostoevskij. Un viaggio che non può che risultare straordinario. E, visto che ‘un’idea di Dostoevskij’ me la sono fatta, ora vado a (ri)leggere L’idiota con ancora più godimento. Chissà che non scopra altro su questo profondo romanziere e, come accade con la grande letteratura, qualcosa in più su di me.

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68 mostra internazionale del cinema di venezia
4 Novembre 2024

Sei protagonisti un po’ anomali. Nel tracciato della cultura registica di Eduardo e Strehler. Con Pirandello da raccordo

Andrea Bisicchia, «lo Spettacoliere»

Claudio Meldolesi (1942-2009) raccolse questi saggi nel 1987, quattro anni dopo la pubblicazione del volume che sarebbe diventato un classico, Fondamenti di teatro italiano. La generazione di registi, nel quale sono da ricercare le premesse di quel discorso che a suo avviso riguardava «il ritardo qualitativo» del nostro teatro, compreso «l’aggiornamento registico» che definiva un po’ anomalo, perché, negli anni Quaranta-Cinquanta, prima e dopo il conflitto mondiale, non esprimeva una sua particolarità nel campo della regia, della quale Meldolesi ha preferito analizzare la sua nascita, sia durante il periodo della formazione che in quello della maturità.

Per parecchi di noi Fondamenti di teatro italiano è stata una guida storica, oltre che metodologica, sia per la conoscenza pratica (Meldolesi aveva un diploma di attore), sia per il particolare uso di strumenti analitici, gli stessi che troviamo nel libro pubblicato da Cue Press, Fra Totò e Gadda. Sei invenzioni sprecate del teatro italiano, preceduto da una premessa di Laura Mariani che ben conosceva l’autore.

Come si può intuire, lo studio di Meldolesi riguarda sei protagonisti un po’ anomali del teatro italiano, si va da Totò, di cui analizza soltanto il suo lungo impegno di attore di teatro, prima dei successi cinematografici, al primo Eduardo, ovvero dell’attore che scrive del suo giovanile mondo poetico, dal Caffé Teatro all’Avanspettacolo, alla Rivista, prima delle grandi commedie dei Giorni dispari e della nuova tecnica rappresentativa, libera dagli influssi farseschi e dagli influssi pirandelliani, di cui aveva assimilato la scrittura, ma non certo la creatività.

Ritengo fondamentale il saggio su Mario Apollonio, essendo stato anche mio maestro, di cui analizza il doppio ruolo di teorico e di critico, quello esercitato sulle pagine della rivista «Drammaturgia» che, non aveva accettato del tutto l’avvento della regia, non ancora definita ‘critica’, perché esercitata tra gli anni Quaranta-Cinquanta, benché Apollonio avesse intravisto il passaggio dell’’attore versus regia’, riferendosi, in particolare, a Giorgio Strehler che, pur rispettando, in un primo momento, la cultura dell’attore, solo successivamente imporrà la cultura del regista.

Meldolesi riconosce lo sguardo dottrinario di Apollonio, la sua idea di teatro comunitario, inteso come coro, come assemblea, idea ripresa dai suoi allievi e portata avanti in maniera pratica, con la nascita del CRT, inoltre gli riconosce la certezza che nella regia si dovesse vedere una parte concreta di teatro. Un simile passaggio Meldolesi lo nota nel giovane Strehler, in quel suo primo approccio alla regia che sapeva di ‘avanguardia’, soprattutto nei dieci spettacoli che realizzò prima della nascita del Piccolo Teatro, quando, pur accettando il manierismo degli attori che dirigeva, si sforzò di indirizzarli verso una forma di compromesso con le esigenze della cultura registica, ovvero di quel senso critico che bisognava dare all’interpretazione, senso che maturò, secondo Meldolesi, già nella prima delle quattro edizioni dei Giganti della montagna che, messe insieme, designano un tracciato evolutivo della regia critica.

Proprio a Pirandello è dedicato il saggio successivo, essendo lo scrittore che segna un raccordo tra Eduardo e Strehler, ritenuto anche inventore di pratiche sceniche che avevano a che fare con la regia, non per nulla, Meldolesi analizza alcune messinscene che appartengono alla storia, come Questa sera si recita a soggetto del Living e I giganti della montagna di Strehler. L’ultimo capitolo è dedicato a Gadda, quello del suo lavoro alla RAI, durante il quale ebbe modo di conoscere attori e registi e quindi la pratica scenica che egli trasformò in una specie di laboratorio personale che segnò un confine tra narrazione e rappresentazione, confine che scoprì Luca Ronconi quando decise di portare in scena Quel pasticciaccio brutto di via Merulana. Gadda aveva scritto per il teatro un solo testo, Il guerriero, l’amazzone, lo spirito della poesia nel verso immortale del Foscolo, per un programma radiofonico nel 1958, di cui ricordo la prima messinscena, al Teatro Filodrammatici di Milano, con Paolo Bonacelli, nel 1966, regia Sandro Rossi.

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Boll
27 Ottobre 2024

Un sorso di terra agli affamati

Alessandra Iadicicco, «Corriere della Sera»

Alzando lo sguardo non si vede che acqua, a perdita d’occhio. È il mare, ma la sua immensa distesa azzurra non suscita quiete, desiderio, ristoro, voglia di partire o di tuffarsi e nuotare. Ha divorato la terra, è un emblema di morte. Ci sono i pesci dentro, certo, ma è vietato mangiarli, perfino nominarli, come è vietato buttarsi in acqua, e d’altra parte a chi mai verrebbe in mente di farlo? L’immersione corrisponde a una punizione, dosata in crescendo col calare giù giù il castigato, che è rinchiuso in una gabbia, anche fino alla gola. È un battesimo al contrario, il ‘cattivo battesimo’ somministrato da quelli che comandano ai poveri Cresti, un nome che richiama evidentemente per assonanza certi ben noti ‘poveri cristi’, ma, si vedrà, anche qualcosa d’altro, qualcosa che inevitabilmente sfugge e che anche volendo non si può eliminare.

Nel paesaggio post-apocalittico o post-diluviano, immaginato per una scena teatrale da Heinrich Böll (1917-1985), la società dei sopravvissuti, aggrappati a un isolotto artificiale e disperatamente bramosi di Un sorso di terra, il titolo del dramma, è rigidamente gerarchizzata. I Cresti stanno sul gradino più basso, rivestono un abito grigiastro-incolore e via via, risalendo questa schematica quanto rudimentale scala sociale, i vari personaggi indossano vesti, ovvero delle specie di tute, blu, o verdi, o rosse, o bianche, fino al colore dorato. La loro attività principale consiste nel ripescare dai fondali reperti del passato, del mondo che fu, per lo più vecchie lattine sommerse, scatolame vario e, vera pesca miracolosa, perfino arrugginiti frigoriferi ricoperti di alghe, scrigni di viveri insomma.

Il privilegio di cui, salendo di grado, si può godere, è misurato in base alla quantità di cibo cui si ha diritto, e si badi che le quantità sono minime, che le differenze tra le porzioni di nutrimento concesse sono dell’ordine di pochi grammi. Il motore che aziona e scatena moti dell’animo, che risveglia i sentimenti, i vizi e le virtù – cioè avidità, ambizione, compassione, spirito di sacrificio, vitalità dei sensi, spirito di contraddizione – è la fame.

Lo scenario è fantascientifico, distopia di un mondo a venire che fa ripiombare l’umanità in una situazione primitiva-elementare. Lo scrittore tedesco, premio Nobel 1972, lo immaginò nel 1962, un anno dopo la costruzione del Muro di Berlino, in piena guerra fredda, ma con ben viva la memoria del secondo conflitto mondiale che lo vide combattente e ‘libero prigioniero’ – nel senso che quella prigionia fu per lui il principio della libertà – degli americani, e che lasciò un segno indelebile nella sua intera opera, ascritta alla Trümmerliteratur, alla letteratura di quelle macerie presenti ovunque nella Germania devastata anche quando rimosse: in forma di edifici distrutti – nella Colonia di Böll, per esempio, in cui restò in piedi solo il campanile del Duomo – , di cumuli di detriti, di quella polvere di cemento che anche anni dopo si infilava in ogni cosa: «Nella zuppa, nei letti, nei vestiti, nei denti, nelle ferite…». Si fosse potuta mangiare quella polvere…

La fame è indimenticabile per chi l’ha provata ed è un motivo presente e ricorrente nei testi di Böll, si pensi solo a Das Brot der frühen Jahre (Il pane dei verdi anni), romanzo del 1955 in cui al giovane protagonista, nell’immediato dopoguerra, una pagnotta appena sfornata sembrava un animale vivo.

Qui, in questo testo teatrale – che è un caso quasi unico nell’opera di Böll, il quale scrisse solo un secondo dramma, Lebbra, portato in scena nel 1970 – invece è proprio la terra a prendere vita e a simboleggiare la vita: «Era pane e fiori la terra, era alberi e letto per chi sapeva volere e godere, era quiete per i morti… ma l’acqua la inghiottì».

Il testo non è evidentemente una novità editoriale. Uscì in Italia poco dopo la prima edizione tedesca, nel 1964, da Einaudi, ristampato varie volte da allora come volume numero 49 della Collezione di Teatro, nella traduzione di Hansi Cominotti e con prefazione di Claudio Magris. La nuova, eccellente versione, tradotta e curata da Milena Massalongo, pubblicata da Cue Press sessant’anni dopo la prima edizione italiana, merita per molte ragioni un prolungato sguardo di attenzione. È un testo critico dotato di svariati e accuratissimi apparati. Oltre al copione con le note di scena dell’autore – e lo sforzo immaginativo richiesto a chi è eccezionalmente lettore e non spettatore per figurarsi lo spettacolo è estremamente stimolante –, sono numerosissime, dotte e acute le notazioni della curatrice, volte non solo a far risuonare nelle orecchie di chi legge la stratificazione della lingua ironica inventata da Böll, ma a situare il testo nella scrittura continua dell’intera opera del Nobel. La vera perla di questo libretto, stampato in agile formato rivista, è però la lunga, ricchissima introduzione di Massalongo, perfetta per mettere a fuoco non già l’’attualità’ di questa fantasia teatrale di Böll – anacronistica per un testo concepito oltre sessant’anni fa in un contesto storico ormai più volte radicalmente cambiato – bensì la sua profonda, innegabile contemporaneità. Un sorso di terra ci riguarda. Parla di noi, gli immaginari sommersi nella platea del teatro, cui, nella multiforme e metamorfica smania di controllo, di potere, di dominio, di possesso che dilaga, manca la terra sotto i piedi. La perdita di realtà, di quella realtà che si vorrebbe inquadrata dentro il progetto politico totalitario, di qualsiasi colore esso sia – e siamo letterariamente nel solco delle utopie negative à la George Orwell o à la Aldous Huxley, 1984 e Il mondo nuovo – non è alla fine così diversa dalla perdita di realtà che il raddoppio virtuale del mondo – leggi: «posto, dunque esisto» – oggi comporta. La salvezza sta nel residuo, nello scarto, nel resto – o (C)resto – : in quello spazio di vita incalcolabile, non progettabile, non governabile, imprevedibile e imprevisto che nutre l’ultimo fondo di umanità resistente di «un sorso di terra».

24 Gennaio 2024

Juan Mayorga, Ellissi. Saggi 1990-2022, a cura di...

Veronica Orazi, «Artifara»

Il volume raccoglie conferenze, articoli, riflessioni e recensioni del drammaturgo Juan Mayorga, figura di assoluto rilievo nel panorama spagnolo attuale, come sottolinea in apertura del volume Enrico Di Pastena, nella sua introduzione Un drammaturgo filosofo per uno spettatore critico (pp. 10-19). Il titolo scelto dall’autore rimanda ai due elementi chiave della sua formazione e dei […]
22 Gennaio 2024

Beckett, il genio che spaventa

Sandra Petrignani, «Il Foglio»

Samuel Beckett morì il 22 dicembre 1989 a ottantaquattro anni non ancora compiuti (era nato nell’aprile del 1906) e fu sepolto al cimitero di Montparnasse, il quartiere parigino dove viveva, accanto alla moglie Suzanne Deschevaux-Dumesnil, morta cinque mesi prima. La sua tomba fu per settimane ricoperta di fiori e biglietti improvvisati in tante lingue diverse […]
19 Gennaio 2024

«Il cinema, questione di vita o di morte: spezzai...

Bernardo Bertolucci, «Il Fatto Quotidiano»

Anticipiamo stralci di Scene madri, il memoir di Bernardo Bertolucci con Enzo Ungari, in libreria con Cue Press. «Vorrei poter parlare di cinema senza paura di raccontare aneddoti, usando molto la prima persona, senza vergogna e con molto affetto per qualche non sense a cui sono affezionato. So che la cosa può risultare oltraggiosa, perché […]
15 Gennaio 2024

Con Jon Fosse, dentro quel buio luminoso

Roberto Canziani, «Hystrio», XXXVII-1

Ne hanno parlato così tanto i giornali, che era poi logico veder schizzare Jon Fosse, Premio Nobel 2023 per la letteratura, nei posti alti delle classifiche nelle librerie. Alti se confrontati con lo spazio residuo che il teatro occupa oggi nell’editoria italiana. Ha fatto quindi bene Cue Press a rimettere velocemente in circolazione tre lavori […]
15 Gennaio 2024

Premio della Critica 2023, un parterre d’eccelle...

Alice Strazzi, «Hystrio», XXXVII-1

Il 20 novembre il Teatro Gobetti di Torino ha accolto gli undici premiati dell’edizione 2023 dell’Associazione Nazionale dei Critici di Teatro: Natale in casa Cupiello, spettacolo per attore cum figuris, di Vincenzo Ambrosino e Luca Saccoia, con la regia di Lello Serao; Arturo Cirillo, Laura Curino, Fabrizio Ferracane, Manuela Mandracchia, Tindaro Granata (nuovamente vincitore del […]
15 Gennaio 2024

Sulle strade d’Europa in cerca dei Maestri

Ilaria Angelone, «Hystrio», XXXVII-1

Più libri convivono in Strade maestre, road book scritto in tempi di pandemia, quando la disperazione era sempre dietro l’angolo e si sentiva il bisogno di ancorarsi. Nove personalità del teatro europeo, nove ‘Maestri’ riconosciuti come tali dai due autori, sono i protagonisti di altrettanti incontri avvenuti da Berlino a Parigi, da Losanna a Palermo. […]
15 Gennaio 2024

Teatro, un concetto plurale: riflessioni post-pand...

Diego Vincenti, «Hystrio», XXXVII-1

Arriva forse con un pizzico di ritardo questa versione italiana di Why Theatre?, progetto nato in tempi di pandemia all’interno di NTGent. Un’idea di Milo Rau che già nei primissimi mesi di lockdown, volle interrogare se stesso e i suoi colleghi sulla matrice originaria, le ragioni profonde, l’urgenza esponenziale del fare teatro. Una domanda rimasta […]
15 Gennaio 2024

Grotowski e il suo «teatro povero», definito anc...

Andrea Bisicchia, «lo Spettacoliere»

Tra il 1965 e il 1975, il teatro internazionale ha vissuto e ha fatto vivere uno dei momenti più straordinari e irripetibili. Parecchi di noi ricordano ancora, avendoci fatto provare delle emozioni, fino alla commozione, Il Principe Costante di Grotowski, I giganti della montagna di Strehler, Orlando furioso di Ronconi, La Trilogia Testoriana di Andrée […]
10 Gennaio 2024

Theodoros Terzopoulos: Scena, mondo infinito

Valeria Ottolenghi, «Gazzetta di Parma»

Theodoros Terzopoulos: era stato Michalis Traitsis, regista di valore che lavora tra Venezia e Ferrara, a raccontare, durante un incontro di studiosi diversi anni fa, di questo maestro/artista greco riconosciuto tra i più grandi d’Europa. Come spesso accade in tali situazioni si avverte un senso di disagio per quelle lacune che sembrano non permettere un’adeguata […]
22 Dicembre 2023

Una rosa per Sam

Antonio Borriello, «SamuelBeckett.it»

Una rosa per ricordare il mio amatissimo Samuel Beckett, morto il 22 dicembre del 1989 a Parigi, premio Nobel per la Letteratura nel 1969. Autore di opere ritenute ormai dei classici come Aspettando Godot e Finale di partita, mutò l’ordinario in straordinario, il Nulla e l’Attesa in Speranza. Oggi più che mai il grande dubliner […]
3 Dicembre 2023

Parla il silenzio – Il suo teatro delle vite...

Laura Zangarini, «Corriere della Sera»

Il Nobel, assegnato a Jon Fosse per le sue «opere teatrali innovative e per la prosa che danno voce all’indicibile», corona una carriera straordinariamente produttiva e pluripremiata: 40 opere teatrali, romanzi, racconti, libri per bambini, poesie e saggi. Lo stile minimalista di Fosse è spesso paragonato a quello di Samuel Beckett (1906-1989), verso il quale […]
3 Dicembre 2023

Jon Fosse: l’uomo che prega

Mauro Covacich, «Corriere della Sera»

In quasi tutti i libri di Jon Fosse c’è un uomo che prega. Quasi sempre quest’uomo fa il pittore, o meglio, è un pittore che crede in Dio, un credente la cui fede però attiene a qualcosa di più di una religione, direi piuttosto a un sentimento panico nei confronti dell’esistente. Questo artista, tutt’altro che […]
2 Dicembre 2023

«Il coro è il segreto del teatro». Intervista a...

Matteo Brighenti, «Pane Acqua Culture»

Scena e società, adolescenti e classici, nel segno del divenire uno in molti, attraverso il coro. «Ci sta a cuore il teatro solo quando è insieme lo specchio dell’io, la psiche individuale profonda, e del noi, ovvero il mondo». Un mistero e insieme una pratica che Marco Martinelli ha racchiuso ora in un libro intitolato […]
1 Dicembre 2023

Jon Fosse: sussurri e grida di un Nobel

Katia Ippaso, « Il Venerdì di Repubblica»

«Il teatro è il momento in cui un angelo attraversa la scena». È un’immagine rivelatoria del modo di sentire di Jon Fosse, premio Nobel per la Letteratura 2023. Un piccolo segreto, contenuto in uno scrigno che, sotto il titolo di Saggi gnostici (testo del 1999), raccoglie altri segreti, chiavi d’accesso al mondo interiore dello scrittore […]
28 Novembre 2023

Ritratto dell’artista senza tempo

Federico Platania, «SamuelBeckett.it»

Dopo quindici anni torno a intervistare Gabriele Frasca – scrittore, traduttore e docente di letteratura, ma soprattutto infaticabile promotore beckettiano.Il Meridiano dedicato a Beckett, da lui tradotto e curato, rappresenta se non il punto d’arrivo quanto meno una pietra miliare sulla strada – sulla quale Frasca sta procedendo da anni – del rilancio di questo […]
26 Novembre 2023

E pensare che odiavo il teatro

Jon Fosse, «Robinson — la Repubblica»

Io sono un drammaturgo, ma, a dire il vero, non ho mai voluto esserlo. Anzi, non amavo il teatro e, in diverse occasioni, per esempio in interviste, affermavo di fatto di detestare il teatro, quantomeno quello norvegese. Ciò forse perché i direttori dei teatri norvegesi mi chiedevano di scrivere per la scena, cosa che per […]
25 Novembre 2023

Quando un angelo attraversa la scena

Nicola Arrigoni, «Sipario»

«Io sono un drammaturgo, ma, a dire il vero, non ho mai voluto esserlo. Anzi non amavo il teatro e, in diverse occasioni, per esempio in interviste, affermavo di fatto di detestare il teatro». Così scrive Jon Fosse nel saggio Su di me drammaturgo, raccolto in Saggi gnostici, a cura di Franco Perelli, pubblicato da […]
20 Novembre 2023

Premio Nazionale della Critica

Premio prestigioso, che arriva dopo due finali, nel 2014 e 2015

Il Premio Anct è un riconoscimento conferito dall’Associazione Nazionale dei Critici di Teatro, che ogni anno celebra personalità e realtà artistiche particolarmente rilevanti nel panorama teatrale italiano. Si tratta di un premio di grande prestigio, assegnato in virtù del contributo culturale e innovativo apportato dagli artisti o dalle istituzioni coinvolte. Nell’edizione del 20 novembre 2023, […]
19 Novembre 2023

La leggenda del West. Attualità del western

Roberto De Gaetano, «Fata Morgana Web»

I generi sono quelle forme capaci di raccontare la vita activa delle persone per quanto di generale ogni singola vita contiene. E tale racconto si sviluppa in un’architettura narrativa che chiamiamo intreccio. Aristotele lo chiama mythos e ci dice che è tale solo in quanto «imitazione dell’azione». I generi sono le forme determinate attraverso le […]
15 Novembre 2023

Non si può mettere un punto alla scrittura del Pr...

Enrico Montanari, «Il Libraio.it»

Lo scorso 5 ottobre è stato assegnato il Premio Nobel per la Letteratura del 2023 allo scrittore e drammaturgo norvegese Jon Fosse «per le sue opere innovative e la sua prosa che danno voce all’indicibile». Un riconoscimento che ha risvegliato l’interesse per le opere di narrativa dell’autore (nato a Haugesund il 29 settembre 1959), oltre […]
12 Novembre 2023

Ikisaki intervista: Giacomo Calorio

Lorenzo di Giuseppe, «Associazione Ikisaki»

Giacomo Calorio, dottore di ricerca in Digital Humanities (Università di Genova), è attualmente ricercatore presso il Dipartimento di Scienze Umane per la Formazione R. Massa dell’Università di Milano-Bicocca, CdS in Comunicazione Interculturale. I suoi interessi di ricerca vertono prevalentemente intorno al cinema giapponese. Sull’argomento ha pubblicato, oltre ad articoli, saggi e recensioni, le monografie Horror […]